mercoledì 31 dicembre 2014
Auguri
sabato 27 dicembre 2014
Il ruolo dei comunicatori (Papa Francesco)
Aula Paolo VI Lunedì, 15 dicembre 2014
Cari fratelli e sorelle, Vi do il benvenuto e vi ringrazio per la vostra calorosa accoglienza. Ringrazio il Presidente della Fondazione “Comunicazione e cultura” e il Direttore per i saluti che mi hanno rivolto. E saluto anche Lucio, che è all'ospedale. Voi lavorate per la Televisione della Chiesa italiana e proprio per questo siete chiamati a vivere con maggiore responsabilità il vostro servizio. A questo riguardo, vorrei condividere con voi tre pensieri che mi stanno particolarmente a cuore intorno al ruolo del comunicatore.
1. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale: cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell’economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici – è il “tatticismo” – il nostro parlare sarà artefatto, e poco comunicativo, insipido, un parlare “da laboratorio”. E questo non comunica niente. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ogni parola ha dentro di sé una scintilla di fuoco, di vita. Risvegliare quella scintilla, perché venga fuori. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore.
II. La comunicazione evita sia di “riempire” che di “chiudere”. Si “riempie” quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si “chiude” quando, invece di percorrere la via lunga della comprensione, si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale, è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. Aprire e non chiudere: ecco il secondo compito del comunicatore, che sarà tanto più fecondo quanto più si lascerà condurre dall'azione dello Spirito Santo, il solo capace di costruire unità e armonia.
III. Parlare alla persona tutta intera: ecco il terzo compito del comunicatore. Evitando quelli che, come ho già detto, sono i peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Questi tre sono i peccati dei media. La disinformazione, in particolare, spinge a dire la metà delle cose, e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di “colpire”: l’alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone intere: alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l’immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso. Di questi tre peccati – la disinformazione, la calunnia e la
diffamazione – la calunnia sembra sia il più grave, ma nella comunicazione il più grave è la disinformazione, perché ti porta a sbagliare, all'errore; ti porta a credere soltanto una parte della verità. Risvegliare le parole, aprire e non chiudere, parlare a tutta la persona rende concreta quella cultura dell’incontro, oggi così necessaria in un contesto sempre più plurale. Con gli scontri non andiamo da nessuna parte. Fare una cultura dell’incontro. E questo è un bel lavoro per voi. Ciò richiede di essere disposti non soltanto a dare, ma anche a ricevere dagli altri.
So che siete in una fase di ripensamento e riorganizzazione della vostra professionalità al servizio della Chiesa. Ringrazio tanto per il vostro lavoro, ringrazio voi per avere accettato questo lavoro. Vi incoraggio per questo e vi auguro buoni frutti. So anche che avete uno rapporto stabile con il Centro Televisivo Vaticano – per me è molto importante, questo – che vi permette di raccontare all’Italia il magistero e l’attività del Papa. Vi ringrazio per quello che fate con competenza e amore
al Vangelo. E vi ringrazio per lo sforzo di onestà, onestà professionale e onestà morale, che voi
volete fare nel vostro lavoro. E’ una strada di onestà, quella che volete fare.
Vi affido alla protezione della Madonna e di san Gabriele Arcangelo, il grande comunicatore: è stato il comunicatore più importante: ha comunicato la grande notizia! E, mentre vi chiedo di continuare a pregare per me, che ne ho bisogno, vi auguro un santo e felice Natale. E adesso
preghiamo la Madonna perché ci benedica. Ave o Maria, …
martedì 11 novembre 2014
Letture d'autunno
Erasmo da Rotterdam " Sulla pace", Lorenzo Barbera Editore, Siena 2005.
"Vengano resi i massimi onori a chi ha contribuito a tener lontano la guerra, a chi ha ristabilito la concordia con la sua intelligenza o il suo discernimento, e, per concludere, a chi si è prodigato senza risparmio non per allestire la massima potenza di schiere armate e di macchine belliche, ma per non doverne abbisognare".
Erasmo, Il lamento della pace
Letture d'autunno
Annick de Souzenelle "La lettera, strada di vita" Il simbolismo delle lettere ebraiche, Servitium editrice, Gorle BG 2003.
È un vero tesoro questa ricerca sul valore simbolico delle lettere dell'alfabeto ebraico, chiave essenziale per una penetrazione spirituale delle Scritture alla luce della fede cristiana. Fonte di numerose ispirazioni... anche pittoriche!
Letture d'autunno
Paolo D'Angelo "Ars est celare artem" da Aristotele a Duchamp, Quodlibet Lavis (TN) 2014.
Per tutti coloro che producono arte, discorsi, libri, film. Lezione di estetica magistrale...dall'antichità ai nostri giorni.
mercoledì 15 ottobre 2014
Teresa d'Avila, Ritorno all'essenziale
venerdì 26 settembre 2014
Un racconto inedito, "La candelora"
La piccola pieve di campagna era avvolta da una fitta coltre di nebbia. Non era stato agevole raggiungerla, ma erano entrambi convinti che ne sarebbe valsa la pena. Era la festa della Presentazione al Tempio del Signore, detta anche Candelora, o Festa della luce.
Si benedivano lumini e candele che poi si portavano a casa e si potevano accendere nei momenti di particolare necessità. Una sorta di riserva di luce per i periodi bui.
Amavano pregare in quell'angolo di pace di silenzio e, poiché la festa capitava di sabato, era possibile godersela un poco di più. Appena entrati la suora diede loro una candela ciascuno, dopo che ebbero gettato l’offerta nel cestino, le candele vennero accese e si andò processionalmente verso i banchi per prendere posto a sedere.
I canti del coro erano un po’ stentati, ma la bella austera semplicità dell’antica chiesetta rendeva tutto bello e raccolto grazie anche alla presenza della comunità religiosa che lì viveva.
Nella stessa giornata si festeggiava anche la vita consacrata, da qualche decennio, per volontà di Giovanni Paolo II: il significato era chiaro, chi viveva più strettamente la sequela di Cristo doveva essere come Lui, luce del mondo.
La sacra tradizione voleva in quella memoria liturgica ricordare come Maria e Giuseppe, dopo quaranta giorni dalla nascita del loro primogenito, secondo la Legge mosaica, salirono al tempio per la purificazione rituale di Maria.
Era costume che, una partoriente, avendo perso sangue, doveva purificarsi, e poi bisognava riscattare il primogenito. Per il piccolo Gesù l’offerta era minima, quella dei meno abbienti, una coppia di tortore o di giovani colombi. In quel momento avvenne un altro riconoscimento pubblico del Salvatore, dopo quello degli angeli e dei pastori, da parte di due anziane figure: il giusto Simeone, a cui era stato preannunziato che avrebbe visto il Messia prima del termine della sua vita, e la profetessa Anna che non si allontanava mai dal tempio e serviva Dio con digiuni e preghiere.
Simeone prese in braccio il bambino, lo benedisse e pronunciò il famoso “Nunc Dimittis” in cui il piccolo viene definito luce per illuminare le genti e gloria del popolo d’Israele; ma l’anziano svela anche quale sarà la sua missione, un segno di contraddizione che svelerà i pensieri di molti cuori e causerà, a seconda dei casi, rovina o salvezza.
La stessa Madre parteciperà del destino del Figlio, una spada trafiggerà la sua anima. Certo, andando in profondità questo era più un mistero doloroso che gaudioso, ma era da tempo immemorabile per i fedeli una liturgia della luce, in cui ricordare Cristo luce del mondo che ci dona vita nuova nel battesimo e illumina la nostra strada verso il cielo.
Dopo i riti penitenziali, una donna si alzò a leggere la prima lettura, tratta dall’ultimo libro della Bibbia, quello del profeta Malachia. Si preannuncia un messaggero, per alcuni Elia, per altri il Battista, a spianare la via al Signore degli eserciti. Costui purificherà i figli di Levi da tutte le loro colpe e solo allora la loro offerta tornerà gradita come nei giorni antichi.
Lui si alzò per la seconda lettura, la lettera agli Ebrei. Appena salito all’ambone si schiarì la voce e si apprestò ad iniziare la lettura della lettera paolina, ma con grande stupore si accorse che le lettere del lezionario erano in una lingua sconosciuta, qualcosa che somigliava all’arabo! Era impossibile leggere quei caratteri, si stropicciò gli occhi e si pulì velocemente gli occhiali speranzoso che, riguardando il lezionario, potesse iniziare la lettura. L’assemblea e il celebrante lo guardavano incuriositi da questo suo indugio. Nulla da fare. Le lettere erano ancora incomprensibili.
Incominciò a sudare per quanto quel santo luogo fosse immerso in una coltre nevosa. Doveva segnalare il problema. Solo allora guardò con un certo sgomento il sacerdote che seduto davanti al tabernacolo lo guardava già di traverso. I loro sguardi si incontrarono e lui allargò le braccia dicendo ad alta voce che c’era il lezionario sbagliato.
Intanto l’assemblea mormorava, non capendo come mai quella seconda lettura non venisse ancora proclamata. Il parroco era un uomo paziente e, con un sorriso sulla bocca, si avvicinò a quel lezionario per controllare cosa fosse successo. Dopo alcuni minuti era lui a stropicciarsi gli occhi. Come era finito quel lezionario in quella lingua sconosciuta nella sua chiesa? Chiese al sacrista di portargliene un altro mentre l’assemblea era a quel punto divenuta tutta un mormorio. Il sacerdote tornò al suo scranno, il secondo lezionario venne aperto e lui si apprestò per la seconda volta e leggere la seconda scrittura, mentre in cuor suo si rasserenava. Era stato un momento terribile, nella sua mente erano risuonate le forti parole di Apocalisse 5,2-3: “Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli ? Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di guardarlo”.
Solo allora si accorse con una fitta alla tempia che anche questo testo, per altro arricchito con preziose miniature, era anch’esso incomprensibile ai suoi occhi. Di nuovo si volse indietro e di nuovo allargando le braccia guardò desolato il prete. Questa volta il prete si stizzì. Divenne rosso in viso e cercando di contenersi si rialzò nuovamente dallo scranno dirigendosi verso l’ambone. Poi i fedeli lo videro sbiancare e quasi barcollare nella sua casula bianca fregiata di oro. Neanche lui riusciva a leggere quel lezionario.
Il prete si riprese subito e con prontezza pensando ad uno scherzo inopportuno. Si rivolse alla stupefatta assemblea che non capiva ancora cosa stesse accadendo chiedendo se qualcuno avesse con sé un messalino. Prontamente alcune religiose e alcune signore salirono sull’altare e posarono sull’altare i loro messalini personali. Il parroco ne aprì uno a caso e cercò il segno della memoria liturgica del giorno, mentre alcune gocce di sudore colavano dalle sue tempie. Niente da fare, il primo che aprì era pieno degli stessi geroglifici. Il secondo che sfogliò con mani sempre più nervose era ugualmente incomprensibile. Lo si vide barcollare e sbiancare di nuovo, mentre cercava qualcosa da dire alla stupefatta assemblea. Lui a quel punto scese a sedere al suo posto, la questione oramai non lo riguardava più. Vennero chiamate a leggere le proprietarie dei messalini, una alla volta e le si vide tutte impallidire cercando di decifrare un testo che fino a poco tempo fa era più che leggibile. Nessuna vi riuscì. Il sacerdote allora invitò all’altare una vedova che tutti stimavano molto santa e pia e di cui si diceva che le fosse addirittura apparsa la Madonna. Era povera e non possedeva un messalino suo, così le aprirono davanti il lezionario delle solennità, il prete intanto pregava interiormente il santo martire a cui quella pieve era dedicata affinché quell’incubo avesse fine. Niente da fare. La povera vedova scoppiò in un pianto dirompente, battendosi disperata il magrissimo petto, mentre nella mente di tutti risuonavano le ultime parole che avevano sentito pronunciare nella prima ed ultima lettura di quella strana Messa: “Costoro non mi temono, dice il Signore degli eserciti” (Ml 3,5).
Fu a quel punto che lui aprì gli occhi, madito di sudore, la gola secca come i torrenti in estate. Si alzò di scatto e si precipitò nel salotto dove, in un angolo, era sempre aperta, nel suo leggìo di ciliegio, una Bibbia.
Buttò gli occhi con disperazione sul testo che era aperto alla pagina di una delle letture del giorno, era la stessa ultima lettura dal libro di Malachia che aveva ascoltato in sogno. “Io sono il Signore, non cambio; voi, figli di Giacobbe, non siete ancora al termine” (Ml 3,6). M.L.A.
martedì 16 settembre 2014
L'essenza dell'amore
L'essenza dell'amore consiste nel fatto che chi ama è sempre vicino e lontano dalla persona amata. È sempre vicino perché ama. La distanza fisica e spaziale, da questo punto di vista non rappresentano un ostacolo. Chi ama si sente sempre lontano e, per questo, è sempre alla ricerca della persona amata.
(P. Slavko Barbaric', OFM " Digiunate con il cuore")
lunedì 15 settembre 2014
La pace è un frutto dello Spirito
Il desiderio più profondo del cuore dell'uomo è proprio la pace. Tutto quello che facciamo, di buono o cattivo, mira alla ricerca della pace. Quando l'uomo ama, cerca e vive la pace, quando odia o vuole vendetta, egli cerca la pace; quando è sobrio e lotta contro la dipendenza, cerca la pace; anche quando si ubriaca cerca la pace; quando bestemmia e dice cose cattive, cerca la pace; quando lotta per la propria vita e per la vita di coloro che ama, crea la pace e, quando alza la mano su se stesso e commette il suicidio oppure quando uccide l'altro, cerca la pace. Pertanto tutte le decisioni umane sono in realtà scelte di pace. È chiaro che, quando si agisce bene, si cerca e di realizza la pace personale e quella degli altri; mentre, quando si commette il male, si cerca soltanto la pace per se stessi senza tener conto del l'inquietudine degli altri.
Tratto da "Digiunate con il cuore" di P. Slavko Barbaric' OFM
sabato 13 settembre 2014
Felicità ed educazione III parte
Il testo che segue è la terza parte di un mio scritto preparato per l'esame di pedagogia generale, lo pubblico qui in anteprima volendo nel mio piccolo contribuire all'attuale dibattito in merito alla riforma della scuola.
3. La felicità è il fine dell’educazione
S. Agostino scriveva che “è beato l’uomo che ama la sua buona volontà, per cui disprezza ogni altro bene, che non dipende dalla sua buona volontà”.
Nella pedagogia classica si fissava la finalità dell’educazione nelle buone forme di vita e di condotta, nella famiglia, nella società, nella Chiesa, oppure le finalità erano considerate preesistenti per volontà di Dio, iscritti nella natura dell’uomo. Nel moderno modo di pensare, nella prassi pedagogica, i fini non sono più valori e idee, ma problemi da risolvere, risultati da conseguire, con l’ausilio delle altre discipline quali biologia, psicologia, arte e cultura, economia: i fini sono diventati competenze operative.
Ciò non esclude che si possa anche pensare ad una sintesi tra i due aspetti. Nelle finalità a lungo termine dell’educazione, si dovrebbe garantire una condizione di vita umanamente degna, l’essere amati, accolti, aiutati a sviluppare la propria personalità, a partecipare alla vita della società, trovandovi significato e senso, superando tutte le forme di condizionamenti.
Allo stesso modo si dovrebbe garantire la valorizzazione della propria identità, la promozione di verità, amore, giustizia, solidarietà, il miglioramento delle condizioni dei beni e dei servizi, l’evoluzione della convivenza civile in vista del bene comune, il superamento di regimi basati sul privilegio e la violenza, la formazione di quadri responsabili civili e politici, dotati di competenza e amore; senza dimenticare di conservare la cultura, fruirne, produrla, coltivare se stessi e la ricerca e lo sviluppo di scienza, arte, tecnica, risolvere i temi delle pluralità delle culture, di ogni cultura, (conservazione, integrazione, transizione critica e innovativa).
Oggi è particolarmente importante formare ad un uso valido dei mezzi della comunicazione e a divenirne operatori in modo critico. Nei fini a medio termine, si vuole l’uomo capace di uso retto della libertà, preparato ad entrare con preparazione ed onestà nei ruoli sociali, politici, economici; con un giusto patrimonio di saper fare, sapere e saper essere. Nei fini a breve termine, le aree educative da tenere a mente sono quelle della crescita organica e funzionale, fisica, corporea, mentale, spirituale, sociale, morale, religiosa, cristiana, sessuale, artistica, relazioni reali ed esistenziali, acquisto degli strumenti del vivere e del convivere, del lavorare, comunicare, virtù morali e sociali.
Ancora riguardo ai fini, un passaggio sovente omesso nel pensiero moderno, è la distinzione tra fini naturali e fini liberi, i primi determinati dalla natura stessa del soggetto, i secondi posti dal soggetto mediante una scelta della volontà; nell’uomo vi sono entrambi, tale dualità può trarre in inganno, non esistono atti guidati solo da fini naturali o atti guidati solo da fini liberi, i due ordini teleologici s’influenzano reciprocamente .
L’essere umano è, infatti, sintesi di natura e libertà. Un’intelligenza straordinaria, non è scontato che sia immune dall’errore, e per conoscere la verità è richiesta anche la rettitudine della volontà. L’autonomia personale ha dunque carattere relativo perché non siamo padroni del nostro essere, non siamo stati noi a darcelo: “l’essere umano è da se stesso, ma non per se stesso”. Tutto ciò è decisivo riguardo all’educazione, si può escludere o sottovalutare nelle varie correnti pedagogiche un fine o l’altro, avremo un orientamento materialista o spiritualista, a seconda che si privilegino i fini naturali o quelli liberi.
L’ambito della finalità naturale non deve essere escluso dall’educazione, per esempio la nutrizione è certo finalità naturale, ma gli alimenti, la quantità, la qualità sono oggetto di libera scelta, quindi l’educazione deve occuparsene. Molti guai in campo educativo derivano dal dimenticare che gli educandi hanno un corpo, oltre che una mente. Si potrebbe anche menzionare la necessità di un’educazione estetica. Questa si differenzia sia da quella morale, che da quella intellettuale, la sensazione è un atto incardinato nell’unità psicofisica dell’uomo, partecipa della dimensione teleologica, è possibile indirizzare la sensazione, orientarla, pur essendo movimenti indipendenti dalla volontà, possono e debbono essere guidati da essa. Quando l’educazione estetica viene trascurata o ignorata siamo di fronte ad un orientamento spiritualista. Una soluzione opposta, con attenzione preferenziale o esclusiva verso i fini naturali, produce una concezione materialista dell’educazione. Sia l’orientamento materialista, come quello spiritualista, dimenticano che l’essere umano “è un’unità essenziale ed operativa, sia in quello che è, sia in quello che fa”. Pur essendo un’unità, ha una pluralità di istanze operative, vi sono cioè movimenti diversi che rispondono a fini diversi, ciò presuppone un ordine interno sia nei fini naturali che in quelli liberi. Rispetto alla finalità il significato del perché si esprime con affinché, in ordine al fine non si domanda perché una cosa è così, ma a che scopo si opera così. Si arriva così al fine ultimo, sia per i fini naturali che per i fini liberi (che apparterrà comunque a quest’ultimo genere). Aristotele parlava del fine ultimo come il culmine dell’aspirazione umana, come perfetto e come autosufficiente (cioè deve fare in modo che non si continui a desiderare all’infinito).
C’è una gerarchia nella teologia umana, i fini naturali sono subordinati ai fini liberi e, tra questi, c’è quello che è anche il riferimento ultimo dell’agire umano, tutto quello che si fa è per qualcosa di unico e permanente, sempre uguale a se stesso, di cui partecipano tutti gli altri fini, questo è il fine ultimo.
Riguardo al concetto di finalità, sono necessarie ancora alcune precisazioni su termini come il fine e la fine, in greco due parole distinte: compimento, pieno sviluppo, risultato e fine, confine, limite, estremità. Alla questione su quale sia il fine della vita umana si può rispondere in due modi, la felicità e la morte, la felicità è il fine, il compimento, il senso supremo della vita umana, mentre la morte è il termine, il limite dell’operare, ma nulla si fa per morire, mentre tutto faremmo per essere felici!
Nel concetto di fine abbiamo due significati: fine-causa e fine-effetto. Il fine ultimo ha carattere di principio e causa dell’agire umano. Questa riflessione, trascurata o addirittura omessa, ha influenzato notevolmente la teleologia pedagogica, dove la nozione di finalità è ambigua, creando confusione nel lavoro educativo e si utilizzano a caso termini come obiettivi, ideali, propositi, mète, fini, perdendo di vista la necessaria relazione gerarchica tra fini particolari e il fine ultimo.
L’essere umano è libero, di una libertà assoluta soprattutto nella scelta dei fini, allora si confondono gli ordini teleologici e si sconvolgono le implicazioni e le conseguenze pratiche, l’uomo diviene un essere che può tutto e al quale tutto è permesso, gli effetti sono perplessità e insicurezza davanti all’azione e la perdita di una rotta precisa nella vita.
Si può porre il piacere come fine ultimo, ma se arriva la malattia? Oppure il lavoro e la carriera, ma se lo si perde ?
Il fine ultimo dell’educazione deve essere la sintesi di tutti i suoi fini particolari, si tratta di cercare l’unità in tanta diversità, Whitehead diceva che il problema educazione consiste nel riuscire a mostrare all’allievo la foresta per mezzo degli alberi, Maritain invitava a nutrire l’intera unità dell’uomo.
Si arriva così alla postulazione del concetto di persona come un tutto integrale, diversa cosa dal tutto di ordine, che è una somma, un’aggregazione. I fini particolari dell’apprendimento formano un tutto di ordine ed è ciò di cui s’intende quando si parla di obiettivi dell’educazione.
La teoria degli obiettivi operativi “ha reso inutile la pedagogia per la metà delle sue funzioni”, recentemente è decaduta, mentre l’attività docente continua ad essere programmata con la formulazione di un certo numero di obiettivi, considerati indicatori, indizi, mai segno della finalità educativa. L’unità della formazione umana non viene fuori dalla somma degli obiettivi particolari dell’educazione, quando gli elementi del composto vengono separati, si perde il composto come tale, perché il suo principio unificatore non è un elemento tra gli altri, ma una loro relazione.
C’è ancora una conseguenza nell’impostare la finalità educativa mediante obiettivi particolari, è la perdita della dimensione immanente di praxis che non può ridursi a semplice poìesis, cioè si riduce l’agire umano ad un’attività produttiva, gli obiettivi possono sì essere raggiunti, ma il loro senso ultimo sfugge, quanto più numerosi sono i fini particolari. “La disgregazione teleologica porta alla dispersione operativa, da questo al non senso esistenziale il passo è breve”.
Occorrerà configurare e modulare le attività in base al significato dell’azione immanente e formativa che attualizza direttamente il fine ultimo. “Per poter comprendere e realizzare il fine ultimo si richiede una conoscenza adeguata del suo contenuto, che è la felicità”.
Conclusioni
Per quanto riguarda fini e finalità educative, possiamo contare al massimo su una normatività teleologica, non tecnica, cioè possiamo indicare i traguardi da raggiungere, ma per il come, il quando, il dove, non vi è scienza, ma solo confronto ragionato, azione prudente, tatto. Il sapere educativo si sviluppa differenziandosi dall’etica filosofica, in altri termini ogni uomo, soprattutto, desidera essere felice; se l’educazione deve essere preparazione alla vita, si dovrà riflettere sulla felicità, fine della vita umana e fine ultimo dell’educazione. Sapere in che cosa consiste la felicità però non spiega cosa fare per essere felici, allora “nell’educazione si tratta proprio di questo, conoscere l’indole delle azioni umane che devono essere promosse o stimolate per favorire un’agire felice.”
S. Tommaso riteneva la felicità il più grande dei beni umani, perché tutti gli altri si ordinano ad essa come al loro fine. C’è un’evidente priorità anche sulla libertà, visto che “non spetta al libero arbitrio, ma all’istinto naturale il voler essere felice”. La felicità è qualcosa che la volontà non può non volere. Il fine ultimo è il fine supremo, che consisterà nel Bene supremo e Assoluto, cioè Dio, e l’ultimo fine non può essere altro che l’unione con Dio.
L’agire felice è la contemplazione, integrazione di conoscenza e di amore, anche Aristotele ne parlava come un atto proprio dell’agire felice.
La contemplazione è l’agire felice che realizza il fine ultimo, ma è necessario imparare a contemplare, e qui entrano in gioco volontà e immaginazione, due grandi dimenticanze in campo educativo. Contemplare è la fusione del conoscere e del volere in uno stesso atto. L’apprendere si realizza orientandosi grazie alla contemplazione, si trasforma nella gioia diretta e riflessa del lavoro e si proietta nella tensione verso il futuro sotto forma di speranza.
Quando si contempla non si ragiona, non si discorre, non si pensa, ma si vede con gli occhi della mente. Contemplare è puro atto, avviene una silenziosa percezione della realtà. Per contemplare è necessaria l’immaginazione, l’indispensabile facoltà mediatrice tra i sensi e l’intelligenza, senza di essa si fa più fatica ad affrontare presente e futuro. Tutto dipende, infatti, dal colore della lente con cui si guarda.
Oggi s’insegna poco ad immaginare, occorre un ritorno ai saperi narrativi che servono alla contemplazione, anticamente si educava con i racconti, nella modernità abbiamo il cinema. Se accettiamo la contemplazione come agire felice, fine ultimo dell’educazione, sarà necessario modificare fini e obiettivi dell’educazione.
Contemplare, ricordava Maritain, non è solo vedere ma anche “godere di vedere”. Andando per questa strada esiste un termometro dell’efficacia educativa, la gioia, che è risposta alla felicità. Se tutto ha funzionato, assisteremo alla gioia d’imparare. L’apprendimento diviene gioioso se l’educatore riesce a trasmettere l’idea che ogni uomo non fruisce solo di una vocazione individuale, è anche un essere sociale e cosmico, esiste nel mondo per realizzarsi e trasformarlo creativamente, possiede una missione terrena secondo le qualità personali ricevute dal Creatore, ma, soprattutto, che ogni vita è una missione”. M.L.A.
NOTE e BIBLIOGRAFIA
Status et conditio eius cui omnes res secundae fluunt, bona fortuna, prosperitas, beatitudo. Felicitas, deriv. felix-icis, "felice", la cui radice "fe-" significa abbondanza, ricchezza, prosperità. Def. Enciclopedia Pedagogica. M. LAENG (Ed), Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992: "felicità".
In questo contesto già la maieutica socratica è fortemente significativa! Così pure tra i moderni educatori : “Il generare e l’educare sono inseparabili, stanno insieme come fatti e significati, come dono della vita e senso della vita”, in A. BOZZOLO,R. CARELLI, Evangelizzazione e educazione, LAS ROMA 2011, p.381.
Cfr. H. VON BALTHASAR, Se non diventerete come questo bambino, Piemme, Casale, 1995. Nel verbo latino sapio, vi è il doppio significato del gustare e del conoscere.
P. WATZLAWICK Il codino del barone di Munchhausen, Ovvero psicoterapia e realtà, Feltrinelli, Mi,1991.
Cfr. La psicologia del profondo ha messo in luce come il mito dell’autonomia consegni l’adulto ad una cronica immaturità. Paradossalmente, in riferimento a certe tendenze teorizzanti modelli di società senza padri, più si è figli e più si è liberi. In A.BOZZOLO-R. CARELLI, Evangelizzazione e educazione, LAS Roma, 2011, pp.388 e 395.
J. MARITAIN, Per una filosofia dell’educazione, La Scuola, Brescia 2001, p.124.
Cfr. F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p.23.
DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Inf. Canto XXVI, 116-120, Paravia Torino, 1966, p.340.
La sezione è nota come: La professione di fede del Vicario Savoiardo e contiene i principi che l’educatore dovrà seguire perché il giovane pervenga alla conoscenza di Dio. “La pedagogia, saturata di metodologismo, per carenza di finalismo, è in realtà una scienza che proprio a motivo dei suoi fini deve alleggerire la pressione dei suoi metodi”, in C. XODO, L’adolescenza e la fragile costruzione dell’identità, in L’arte di educare, p.93, Ed. Messaggero, Padova 2008.
A. BOZZOLO - R. CARELLI, Evangelizzazione e educazione, LAS ROMA 2011, p. 375. Ibidem p. 373. Ibidem p.374
M. BUBER, Discorsi sull’educazione, Armando Roma, 2009, 81.61.65.74.
Cfr G. GIUSSANI, Il rischio educativo, Rizzoli Milano 2006, p.15.
R.S. PETERS, Education as initiation, The University of London, Institute of Education, London, 1962, p.47.
F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p.29.
G. PENATI, in M. LAENG (Ed), Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992: "felicità". p. 4824.
Si studiavano le tre relazioni fondamentali dell’uomo, con Dio, con il prossimo, con il creato, ma veniva proposta anche una sapienza di tipo popolare con i proverbi, per norme etiche spicciole; ricordiamo le figure all’interno del libro dei Proverbi, al cap. 7, di “signora sapienza” e “signora stoltezza” o anche la stessa teoria della retribuzione.
ARISTOTELE, Etica Nicomachea, libro VII, in Opere, Bari Laterza, 1973,vol.VII, pp. 63 e 185. Anche se la sua giustizia etica non è fondata né voluta in funzione della felicità.
G. PENATI, in M. LAENG (Ed), Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992: "felicità", p. 4825.
L. A. SENECA, Dialoghi, VII, De Vita beata 5,2.
S. GREGORIO DI NISSA, Vita di Mosè, I,5 a cura di M. Simonetti, Vicenza 1984, in M. BELDA, Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009, p.456.
S. AGOSTINO, De Trinitate, cit. in M. BELDA, Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009, p.94. “Cognitio enim Trinitatis in unitate est fructus et finis totius vitae nostrae”, in M. BELDA, Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009, p.94.
S. NATOLI, Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, Rai Educational, http://www.emsf.rai.it S. AGOSTINO, Libero Arbitrio, cap. XIII, libro I, Signorelli Roma 1965, p.112. Cfr , Fine dell’educazione, in Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992, p.429.
Alcuni modelli di maturità sono quello spirituale idealista di Gentile, materiale marxista, personale sociale di Dewey, umanistico integrale di Maritain, sociologico di Durkheim e Weber, psicoanalista di Freud, psicologico evolutivo di Piaget.
Cfr F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p.77-78.
Cfr F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p. 80
Il fine ultimo e i fini particolari si differenziano per la relazione di ordine tra loro. Molto didattica in questo contesto è la vicenda di Des Esseint, protagonista del romanzo Controcorrente, di J. K. Huysmans.
L’unità dinamica della personalità è una delle affermazioni base della psicologia umanistico-transpersonale che ha come concetto di fondo quello di un organismo umano unitario nei suoi momenti biologici, psicologici, relazionali, spirituali. L’organismo è una realtà simmetrica con delle funzioni collegate e interagenti tra loro, l’individuo adulto è considerato come un’entità organica, integrata, coerente, in tutta la sua esistenza. B. GOYA, Vita spirituale tra psicologia e grazia, EDB, Bologna, 2002, p.217.
Nata negli anni ’70-’80, metodologia didattica contenente una concezione completa dell’educazione. F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p. 90. Ibidem B. GOYA, Vita spirituale tra psicologia e grazia, EDB, Bologna, 2002, p.217.
Cfr X. ZUBIRI , Natura, storia, Dio, Augustinus, Palermo 1985, p.255.
Bibliografia
ALTAREJOS MASOTA F., C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Ed. La Scuola, Brescia 2003
BELDA, M. Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009
BOZZOLO A. CARELLI R. , Evangelizzazione e educazione, LAS ROMA 2011
CHIOSSO G., Elementi di pedagogia, Brescia, La scuola, 2002
GOYA B., Vita spirituale tra psicologia e grazia, EDB, Bologna, 2002
LAENG M., Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992
SCURATI C., Pedagogia della scuola, La scuola Brescia, 2003.
Felicità ed educazione (II parte)
2. La felicità
La felicità è condizione di equilibrio e corrispondenza fra desideri, aspirazioni della volontà e loro attuazione, generante un sentimento di appagamento nel soggetto.
Secondo la definizione di altri dizionari, la felicità è lo stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti propri desideri. Lo stesso concetto di felicità, così come quello di educazione, sembrerebbe variare attraverso le diverse Weltanschauung.
Ma, con un po’ di attenzione, si nota una costante in tutti gli sviluppi del pensiero umano, nel mondo biblico, quello romano, quello filosofico classico: legare al concetto di felicità quello di virtù, verità, bontà, bellezza, senza contare il campo semantico altamente significativo dei termini di alcune antiche lingue, ad esempio l’ebraico dove tov sta per bello/buono, così come il greco kalo,j.
Nel contesto biblico, il Cantico dei Cantici, massimo emblema dell’amore e della felicità legata al più potente dei sentimenti umani, è inserito nella sezione dei libri sapienziali, che erano raccolte di massime per l’educazione degli intellettuali dell’epoca e per le nuove leve del potere politico-giudiziario.
Nella lingua ebraica può essere significativo ricordare l’utilizzo del verbo conoscere per indicare l’azione dell’amare. Nel pensiero greco solo chi segue la virtù può essere felice. Nel Protagora, chi è ingiusto è anche infelice, si arriva a dire che è meglio subire l’ingiustizia che commetterla. Si distingueva, inoltre, tra edonismo ed eudemonismo.
La felicità per Socrate, non poteva avere carattere istintuale -sensibile, ma doveva implicare e consistere in una conoscenza, nella consapevolezza di sé e dei fini del proprio agire. Epicuro, nella celebre Lettera sulla felicità a Meneceo, sosteneva che non c'è età per conoscere la felicità, per occuparsi del benessere dell'anima, cioè per filosofare; ed è la conoscenza delle cose che dona lo stato di felicità. Platone, nel Filebo, scriveva che la vita migliore per l'uomo consiste in una miscela proporzionata di intelligenza e piacere; con l'educazione l'uomo imparerà a distinguere i veri piaceri e le cose che danno l’autentica felicità. Nonostante le apparenze, i giusti vivono meglio e sono più felici degli ingiusti; consapevole che la felicità non potrà essere perfetta sulla terra, alla vita terrena contrapponeva il mondo delle Idee, con i valori imperituri e il Bene, il valore più alto.
Nella concezione aristotelica della felicità abbiamo tre aspetti: la felicità come giusta misura; la felicità come realizzazione della propria natura; la felicità come conseguenza di un modo di essere.
Aristotele distingueva tra virtù etiche e dianoetiche: le prime riguardano la disciplina delle passioni, le seconde il sapere e la ragione. Egli non escludeva un rapporto tra felicità e piacere, a patto che le passioni fossero regolate dalla ragione. La virtù sta nel giusto mezzo, che è l’atteggiamento per conseguire la felicità. Il piacere non s’identifica con il sommo bene, quindi non può dare la felicità in senso proprio. “Diciamo poi più perfetto, ciò che è perseguito per sé stesso in confronto a ciò che è perseguito per altro […] di tale natura è la felicità, perché la scegliamo sempre per se stessa e mai in vista di altro”.
Per gli Stoici le passioni disturbavano la contemplazione della verità. La difficoltà nel distinguere felicità e piacere per l’aspetto soggettivo della questione, portava a ricondurre tutto alla legge del dovere, la vita autentica era contemplazione della verità del logos, conoscere la verità e condurre la propria vita in funzione di essa. Rimosse le passioni, il saggio, seguendo la propria ragione, si poneva in armonia con il tutto e non poteva non essere anche felice.
Nel mondo romano, il saggio Seneca scriveva che tutti vogliono vivere felici, “sed ad peruidendum quid sit quod beatam ultam efficiat caligant” e alla fine “beatus nemo dici potest extra veritatem proiectus”. Nella visione cristiana, con il celebre discorso della montagna (Mt 5,5-12) in cui Gesù proclama le beatitudini, viene proposto un ribaltamento della visione convenzionale del mondo per un nuovo ordine di valori e per la felicità. Il termine greco da noi tradotto con "beati" propriamente sta per felici. S. Gregorio di Nissa scriveva: “la felicità non consiste nel conoscere qualche verità su Dio, ma nell’avere Dio in se stessi, ‘beati i puri di cuore, perché vedranno di Dio’ (Mt 5,8)”. Nella visione cristiana la felicità s’identifica con la visione-unione con Dio, come l’immersione in un mare d’amore che non termina mai, l’apice della vita spirituale, la Gerusalemme celeste: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! […] asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento, né affanno” (Ap 21,3-4).
Per questo siamo stati creati, diceva Agostino, per raggiungere la piena conoscenza e il perfetto amore della S. Trinità, l’eterna contemplazione di Dio Uno e Trino in Paradiso. “La nostra gioia perfetta della quale nulla c’è di più alto, è godere di Dio Trinità che ci ha fatti a sua immagine”.
Ma, nella visione cristiana non troviamo l’idea di una felicità solo escatologica, ultraterrena, nelle testimonianze evangeliche sono numerose le immagini gioiose, quella descritta da Luca nella Magnificat o l’intero libro degli Atti, tutto pervaso dalla gioia.
Lo stesso Gesù non ci viene presentato come un maestro musone, ma gode delle amicizie degli uomini, della bellezza del creato e giubila nel suo cuore.
Tommaso d’Aquino diceva che, per l’inabitazione, “Dio, in tutta la pienezza del suo mistero, entra nell’intimo dell’uomo. Le divine Persone si donano realmente per lasciarsi possedere e per possedere, nella più meravigliosa comunione […] trasformando tutto in pienezza di vita divina”.
Tutto ciò possiamo raggiungerlo quaggiù, anche se imperfettamente, perché Dio si è donato personalmente all’essere umano per santificarlo. Ma, la conoscenza della Trinità, ammoniva, è anche il frutto della nostra vita e quindi delle nostre azioni. Più avanti nel tempo, Kant, opponendosi alle morali illuministiche del sentimento e del piacere e a quelle teologiche-intellettualistiche, dovette far coincidere virtù e felicità.
Spinoza affermava: “poiché in variatione vivimus, ci sentiamo più o meno felici a secondo che cresciamo o diminuiamo. Ne segue che il tempo, di per sé, non produce infelicità, ma può cambiare la natura dell'essere felici”.
Fin anche Nietzsche riconosceva che "l'uomo è felice, non quando è sazio, ma quando è capace di vittoria". Secondo voci filosofiche più contemporanee, “La filosofia moderna ha lavorato più sulle condizioni di felicità, ossia sulla rottura dei vincoli, che possono gravare sulla capacità soggettiva di conquistarsi la felicità […] alla fine della modernità, dopo che tanto abbiamo lavorato sulle condizioni di felicità, sulla libertà del bisogno, per trovare la felicità si torna agli antichi. Perché non è nell'esterno che c'è la felicità, ma nella capacità di fare lievitare infinitamente la propria vita come una buona pasta, come una sana pasta ”.
Va detto, per spezzare una lancia in favore della modernità, che il concetto di felicità è un valore sancito in alcune costituzioni, come in quella americana, ma anche nella Costituzione italiana si parla di “pieno sviluppo della persona umana” all'art.3. Qui la felicità ha a che fare con la privacy, più che con la virtù, essenziale per garantire la tutela della dignità della persona in ogni suo aspetto e dunque garantire la sua felicità. Realizzare i propri sogni è sviluppare in pieno se stessi, trovare l’equilibrio necessario per raggiungere la propria felicità.
Si parla dunque di diritto alla felicità, alla privacy e all'identità personale (tra i diritti inviolabili ex art. 2 Cost., sent. Corte Cost. n. 13/1994). Si ribadisce come ciascun essere umano sia unico e, come tale, irripetibile, artefice dei suoi progetti, non standardizzabile. M.L.A (Continua )