Di P. Peter-Hans Kolvenbach
Una caratteristica del carisma ignaziano è di situarsi sempre in un movimento. Ignazio ama esprimere questo servendosi di comparativi: così nelle Costituzioni (Cost. 52) scrive che si deve decidere tutto “per la maggior gloria e lode di Dio nostro Signore”. Forse anche troppo conosciuto, ma spesso poco compreso è l’avverbio “più” – “magis” – che spinge a desiderare e scegliere quello che “più” ci conduce al fine per il quale siamo stati creati [EE, 23]. Per conservare uno slancio spirituale e un dinamismo apostolico nel senso del “magis”, Ignazio ha immesso in questo cammino verso Dio tutta una serie di tensioni che non ci consentono di fermarci o di essere soddisfatti delle mete raggiunte. Proprio da queste tensioni noi siamo spinti a fare di più,o meglio a permettere a Dio di fare di più in noi e con noi. Conosciamo bene la tensione richiesta da una vita di impegno apostolico, vissuto nella contemplazione dei misteri della vita di Cristo.
Nelle Costituzioni tale tensione spicca soprattutto nella passione per l’universalità, per il mondo intero – perché “il bene quanto più è universale tanto più è divino” (Cost. 622) – mentre ci si preoccupa di inserire il proprio ministero in un bene particolare.
Pensare globalmente e agire localmente: Ignazio desiderava vivere questo apostolicamente come una tensione costruttiva. In tale contesto bisogna ricordare anche la tensione, difficile da vivere, tra una povertà scelta in tutta la sua radicalità, seguendo la kenosi del Figlio, e la povertà attuale. Il Signore ci chiama a servirlo concretamente, in uno stile e in un livello di vita mai
scontati ma sempre da fare e rifare.Di tutte queste tensioni dell’ispirazione ignaziana che spingono verso il “magis” fa parte anche il tema del mio intervento: la “cura personalis” (“attenzione alla persona”), una caratteristica dell’accompagnamento spirituale e insieme un elemento costitutivo nell’educazione gesuitica e nella formazione.
La tensione contenuta nella “cura personalis” può essere descritta in questo modo: Ignazio ha fatto esperienza che nell’itinerario verso Dio la persona necessita di una “cura” particolare, cioè dell’aiuto di un compagno di cammino, anche se tale avventura spirituale sarà – secondo lo Spirito che è sempre rigorosamente personale - una “cura personalis”. Per scoprire il significato di questa espressione ci lasciamo guidare dalle annotazioni che sono state poste all’inizio del libretto degli
Esercizi Spirituali. Come dice l’espressione latina, le annotazioni sono “note”, che proprio come note devono spiegare il testo scritto che Ignazio ci ha lasciato. Molto probabilmente infatti si trattava di conversazioni orali che Ignazio intratteneva con l’esercitante prima di iniziare propriamente gli esercizi. Di fatto era necessario precisare il tipo di relazione da intrattenere – la “cura” – tra Ignazio e la persona dell’esercitante. Al posto di un trattato devoto oppure di uno studio esaustivo al riguardo, Ignazio si limitava a poche note per illuminare i punti salienti.
Come primo impatto, insiste sul carattere personale della “cura personalis”. Anche a livello di semplice scelta dei termini, egli rifiuta ogni terminologia professionale o istituzionale; non parla di un direttore spirituale né di un animatore che si trovano davanti a un esercitante. La “cura personalis” viene espressa attraverso gli atti umani di “dare” e “ricevere”, un atto di trasmissione e di conseguenza un atto di ricezione. Si stabilisce una relazione lineare tra uno che dà gli esercizi e
uno che li riceve. Né il libretto né uno schema di esso danno gli esercizi. Ignazio dava il libretto scritto solo a chi aveva già fatto gli esercizi personalmente e ora necessitava dell’aiuto del testo per dare se stesso nel dare gli esercizi. Tutta la tradizione ignaziana mette in rilievo che non si tratta di trasmettere un sapere o una dottrina, di imporre un metodo o le proprie idee, ma di proporre i misteri della vita e della persona di Cristo in modo che l’esercitante possa da solo accoglierli nella propria storia personale. Chi dà gli esercizi si sente allora spinto a dare se stesso, senza fare da schermo e sapendo rinunciare a metterci del suo; e chi li riceve viene incoraggiato ad agire e reagire personalmente davanti al dono ricevuto, non soddisfatto di fermarsi alla superficie delle impressioni e dei sentimenti, ma sentendo interiormente il dono ricevuto e gustandolo nelle profondità di se stesso (EE, 2).
È proprio su questo punto che prende posizione l’annotazione meno messa in pratica nel corso dei secoli. La “cura personalis” non è più realizzata quando chi dà gli esercizi impedisce chi li riceve di agire e decidere da solo, quando la “cura” è manovrata in una precisa direzione oppure intorno a una valanga di idee o iniziative proprie del direttore. Anche se colui che dà gli esercizi è altamente qualificato, seriamente preparato per tale ministero, uomo di larga esperienza e di indiscutibile
competenza, Ignazio lo vuole sobrio, breve e soprattutto fedele a Ignazio e rispettoso di chi riceve gli esercizi (EE, 2). Oggi in particolare, con tanti direttori-animatori ben formati nell’arte del counseling e nelle dinamiche di gruppo, in esegesi e spiritualità, perché non arricchire la “cura personalis” anche con le acquisizioni delle scienze umane? Ciò nonostante, proprio all’inizio del libretto Ignazio osa esigere da chi dà gli esercizi di rinunciare a ogni abbondanza di sapere e a ogni dispiegamento della propria animazione spirituale, in modo tale che chi li riceve possa agire come autore – personalmente – di ciò che vuole e desidera. Tutta l’autorità di un direttore spirituale dovrebbe servire a rendere gli altri autori, secondo l’autentica etimologia del termine latino “auctoritas”. Al contrario, un atteggiamento autoritario o seduttore rischia di privare del loro senso sia “cura” sia “personalis”.
Passando ora da colui che dà gli esercizi a colui che li riceve, è sorprendente che Ignazio non dia alcuna spiegazione sul fatto che chi entra nell’avventura spirituale degli esercizi si metta quasi naturalmente nelle disposizioni di colui che deve riceverli. Per Ignazio non c’è bisogno di dire che la persona ha bisogno di “cura personalis” e che nessuno può cavarsela da solo. Molto semplicemente, possiamo dire che per crescere e svilupparci noi abbiamo bisogno di aiuto e rifiutare tale aiuto significa condannarsi fatalmente al ristagno o alla sconfitta. Tuttavia il
riconoscere la “cura personalis” di un compagno nel cammino verso Dio come qualcosa di indispensabile non comporta alcun atteggiamento rinunciatario. Al contrario, il rivolgersi con grande generosità (EE, 5) e in completa libertà a un’altra persona per aiuto è paradossalmente il modo migliore per aiutarsi. Paradossalmente, proprio questo ricorrere per aiuto a un’altra persona deve culminare nel prendere veramente sul serio quello che io stesso voglio. Questa espressione è ripetuta più di dodici volte nel libretto degli Esercizi ed è rinforzata da tutta una serie di verbi
riflessivi indicanti un’azione che ricade sul soggetto del verbo; ad esempio: “disporsi” (EE, 18), “correggersi” (EE, 24), oppure del tipo “riflettere in me stesso” (EE, 114). È chiaro che chi riceve la “cura personalis” è una persona capace di volere e di scegliere in libertà e con generosità. Come dice l’espressione “cura personalis”, si tratta di prendersi cura della persona. Tutta la dinamica degli
Esercizi porta a rendere chi li riceve responsabile, cioè capace di rispondere a ciò che il Signore vuole e desidera per lui. Ma tale responsabilità personale non lo isola in alcun modo in una torre d'avorio. Inoltre, l’insistenza degli Esercizi sul “me stesso” non intende affatto promuovere e favorire un esagerato individualismo. Al contrario, attraverso gli esercizi della prima settimana fa emergere nell’esercitante la corresponsabilità – fatta di complicità consapevoli o inconsapevoli – verso per
tutto ciò che in noi e attorno a noi viene distrutto dal peccato. La medesima responsabilità personale è chiamata in causa quando il Signore, nel corso degli esercizi della seconda settimana, desidera servirsi di noi per costruire una nuova umanità, più umana perché più divina. Così la “cura personalis” dispone chi riceve gli esercizi a diventare liberamente, e soprattutto personalmente, una risposta a Colui che chiama ciascuno e ciascuna per nome, per il più grande servizio, per la
maggiore gloria di Dio.
Ma allora in che cosa consiste concretamente la “cura personalis” nel servizio di dare gli esercizi? Come sempre, Ignazio è molto sensibile alla diversità delle persone – la loro età, la loro cultura, la loro maturità spirituale, il loro stato di vita (EE, 18-28) – e non esclude neppure l’eventualità che, almeno per il momento, non si debbano dare gli esercizi. Di qui tante possibilità suggerite da Ignazio per diventare capaci di offrire un aiuto concreto adattando gli esercizi, anche nei dettagli, alle necessità di colui che desidera riceverli. Questo adattamento al bisogno della persona presuppone che chi dà gli esercizi sia informato fedelmente delle diverse agitazioni e pensieri che si muovono in chi fa gli esercizi (EE, 17). Soprattutto, egli deve intervenire se la persona non è per nulla mossa da consolazioni o desolazioni (EE, 6). Come aiutare la persona nel caso di una calma
piatta, che non consente alla barca di muoversi e di andare avanti? Un problema, questo, più difficile da gestire rispetto a quello di un vento contrario provocato dal cattivo spirito, oppure di un vento troppo favorevole dove sembra sia lo spirito buono a indicare l’orientamento. In tutte queste situazioni di turbolenza, per rimanere nel linguaggio meteorologico, la “cura personalis” è indispensabile. Chi dà gli esercizi - dice Ignazio - deve allora intervenire ponendo domande. Ma in questi interrogativi non deve mostrarsi né aspro né severo (EE, 7) ma incoraggiante, facendo luce su tutto ciò che il buono e il cattivo spirito possono provocare nel cuore
di una persona. Un grande aiuto proviene dallo smascherare gli inganni di colui che è stato menzognero fin dal principio (Gv 8,44) e che continua a sedurre e a ingannarci, trasformandosi così spesso in angelo di luce (EE, 332). La “cura personalis” consiste allora, secondo le annotazioni, nel richiamare l’attenzione (EE, 12), nell’essere vigilanti (EE, 14), nel mettere in guardia e avvertire (EE, 14).
Soprattutto bisogna dire, nello spirito di Ignazio, che la “cura personalis” richiede un’atmosfera di reciproca fiducia, una fiducia che è sempre difficile guadagnare e sempre facile perdere. Ignazio stesso dovette dare gli esercizi spirituali in un contesto di grande diffidenza, in una relazione tra persone esposta al rischio concreto di rottura del dialogo nel periodo della riforma e controriforma. Ignazio aveva pure avuto l’esperienza che spesso possiamo sbagliarci, ad esempio quando era convinto che il Signore lo chiamasse a continuare la sua missione nel Vicino Oriente. In mezzo a queste incertezze, Ignazio tenta di avanzare con fiducia nella “cura personalis”. Anche oggi noi rischiamo di essere incompresi e di perdere la fiducia perché considerati di destra o di sinistra, catalogati come conservatori o progressisti. Allora – ci dice Ignazio, (EE, 22) – devono prevalere la comprensione e la benevolenza riguardo a quanto viene riferito, salvando nella misura del possibile quanto l’altro dice invece di condannare in partenza. Questa predisposizione favorevole avrà la priorità in tutto, insieme alla preoccupazione di mantenere aperto il dialogo con l’altro fino alla fine, per amore del prossimo. Una volta fissato questo principio della “cura personalis” piena di fiducia misericordiosa, Ignazio si industria di tracciare nelle annotazioni alcuni limiti. Un limite nella “cura personalis”, nel preciso contesto di una relazione tra due persone – chi dà gli esercizi e chi li riceve – consiste in questo: i due che parlano tra loro portano avanti la conversazione soltanto durante il tempo degli esercizi. Tuttavia Ignazio conosce situazioni completamente diverse e distingue esplicitamente la “cura
personalis” fuori dall’organizzazione degli esercizi e durante gli esercizi. Al di fuori di questi, l’accompagnatore spirituale può e deve incoraggiare le persone a scegliere il presbiterato o la vita consacrata (EE, 15). Durante gli esercizi invece l’esercitante deve sentirsi veramente libero, in modo che il Signore possa servirsi di lui; perciò chi dà gli esercizi non deve interferire quando il Signore stesso si sta riservando l’iniziativa di chiamarlo. Per la stessa ragione, c’è un limite insito nel bisogno di conoscere chi ha bisogno di “cura personalis”. Chi dà gli esercizi è obbligato a porre molte domande e a conoscere molti dettagli, per essere in grado di aiutare veramente la persona (EE, 6). Ignazio desidera che in questa acquisizione di informazioni chi dà gli esercizi sia guidato da un profondo rispetto per la persona interessata, evitando di fare domande o di voler conoscere i pensieri intimi e i peccati (EE, 17).
Comunque, chi dà gli esercizi non sarebbe in grado di garantire la “cura personalis” se non fosse informato sui diversi movimenti e agitazioni provocate nel cuore dell’esercitante dal buono o dal cattivo spirito. È vero che la “cura personalis” all’interno degli esercizi costituisce un caso particolare e una situazione privilegiata, ma nella pratica dei primi gesuiti sono salvaguardati lo stesso principio e le stesse limitazioni che ne derivano: saper cioè offrire una “cura personalis” a ciascuno e a ciascuna secondo la misura in cui queste persone vorranno rendersi disponibili e in un contatto da persona a persona. Il libretto degli Esercizi non ne parla, ma i primi gesuiti evitavano un pubblico troppo numeroso e abbandonavano il tono da predicatore per assumere invece lo stile di un dialogo personale. L’ideale rimane la conversazione, il colloquio. È attraverso le conversazioni che Ignazio si guadagnò dei compagni; è attraverso queste che Ignazio preparava le persone agli esercizi spirituali, dove però tali conversazioni - condotte in modo più accurato – assumevano il carattere di un colloquio. Anche se oggi viene riconosciuto l’apporto delle dinamiche di gruppo e della comunicazione di massa, si assiste a una specie di ritorno alle sorgenti in un movimento dagli esercizi predicati agli esercizi individualmente guidati, sebbene questa “cura personalis” comporti delle limitazioni nel numero di quelli che ne possono beneficiare.
Questa è la ragione per cui lo stesso Ignazio non presenta gli esercizi spirituali come un blocco monolitico da prendere o lasciare, ma prevede egli stesso esercizi lievi o impegnativi (EE, 18-20),rispettando così il desiderio e le reali possibilità di ciascuno; in tal modo, secondo l’apertura delle persone, sia lui sia lei possono essere aiutati nel loro personale cammino verso Dio. Spingendo la “cura personalis” il più lontano possibile, Ignazio apre la porta a ciò che è stata chiamata la democratizzazione dell’esperienza cristiana, sia attraverso gli esercizi nella vita quotidiana sia attraverso il ministero dell’accompagnamento spirituale, così diffuso nel nostro tempo grazie all' aiuto di uomini e donne ben preparati per il diverso tipo di “cura personalis”, i quali vi dedicano se stessi e il proprio tempo.
A tutti coloro che sono coinvolti nella “cura personalis” rimane da dire e da ripetere con Ignazio che la ragione per cui chi dà e chi riceve si impegnano in tale conversazione è quella di far sì che il Creatore si comunichi lui stesso alla persona che desidera essergli fedele, abbracciandola con il suo amore e lode, disponendola a entrare nel cammino in cui potrà meglio servire Lui in futuro (EE, 15). È ovvio che chi dà gli esercizi può sentirsi pieno di buoni consigli, di interessanti idee di teologia, esegesi e spiritualità, del tutto pronto ad aiutare chi li riceve, specie se costui ne ha veramente bisogno. Pur tuttavia, nella pedagogia ignaziana egli è chiamato a scomparire in modo che il Signore possa conversare senza intermediari con colui che riceve. Talvolta, o piuttosto spesso, la nostra fede in questo contatto personale con Dio è debole. Ignazio medesimo aveva avuto l’esperienza di “essere ammaestrato da Dio” (Aut. 27) e ha sperimentato in se stesso il desiderio che Dio ha di comunicarsi a chi entra in conversazione con Lui con tutto il cuore, a chi è disposto con tutto il cuore a riceverlo. Bisogna allora arrendersi all’evidenza che la relazione tra chi dà e chi riceve trae origine non solamente da una relazione reciproca, ma dal desiderio di questa comunicazione immediata ed efficace che il Creatore desidera avere con la sua creatura (EE, 15 e 231). In sostanza, la “cura personalis” è semplicemente un aiuto, da persona a persona, affinché Dio e l’uomo possano veramente incontrarsi.
Alla fine di tutte le annotazioni Ignazio osa scrivere (EE, 20) che quanto più una persona si trova sola e appartata, tanto più si rende adatta a incontrare il suo
Creatore e Signore e unirsi a Lui, e quanto più è unita a Lui tanto più è disposta a ricevere grazie e doni dalla sua divina e sovrana bontà. Non è forse questo un andare contro ciò che stiamo oggi cercando in una chiesa che si percepisce come “comunione”, a livello di tanti nuovi gruppi così vivaci, che sperimentano i benefici della dimensione comunitaria come una benedizione vitale? Tuttavia Ignazio insiste fin dall’inizio degli Esercizi e quasi come un principio (EE, 23) che non è stata in primo piano l’umanità ad essere creata per servire Dio, ma l’uomo – la persona – chiamata da Dio con il suo nome personale. Così le persone non si dissociano mai del tutto da una comunità dove il proprio io, la propria libertà e volontà sono presi in considerazione. In sinergia con il Signore che fa crescere (1Cor 3,7), l’uomo è in persona l’autore della propria crescita e riceve questo dono personalmente da Colui che è suo Maestro e suo amico, con il quale egli stabilisce un colloquio da servo e amico (EE, 54). Qui la “cura personalis”, nata dalla ‘conversazione familiare’ tra chi dà e chi riceve, raggiunge la pienezza di significato in Dio, il primo ad essere servito in ogni cosa.
C’è forse da meravigliarsi se i primi gesuiti e i loro successori, formati a questa “cura personalis”, l’abbiano sempre avuta davanti agli occhi in ogni passo del loro ministero pastorale e sociale, educativo e intellettuale, almeno nel rendere personalizzato il loro compito? Fin dall’inizio il ministero privilegiato era “predicare il Vangelo”, ma in un modo diverso dallo stile scolastico – come prescrivono le Costituzioni –, cioè piuttosto in conversazioni con il popolo, da persona a persona. Proprio nel trasformare questo stile scolastico, la “cura personalis” prende piede come una caratteristica dell’educazione gesuitica. La Ratio Studiorum del 1599 prenderà a cuore questa sollecitudine personale piena di rispetto per la vocazione di ogni alunno, per la storia personale di ciascuno. Gli educatori e gli insegnanti devono comprendere che l’esempio della loro vita personale favorisce la formazione degli studenti più delle loro parole. Questi studenti essi devono amarli, conoscendoli personalmente - “cura personalis” – e vivendo con loro una familiarità piena di rispetto. Questa conoscenza personale dovrebbe consentire un adattamento dei tempi scolastici, dei programmi e dei metodi, alle necessità di ciascuno. Questa “cura personalis” in tutta la sua pienezza e in tutta la sua pratica concreta ci è sembrata come un cardine degli Esercizi Spirituali.
Nell’esperienza educativa della Compagnia essa diventa il cardine di ogni educazione ignaziana,
che ha di mira una pedagogia personalizzata, nella misura in cui tale desiderio si rivela possibile,considerando i pesi imposti alle nostre istituzioni dall’esterno degli stati o dei mercati, con riconoscimenti e diplomi e con il supporto finanziario così spesso indispensabile. Proprio come prolungamento della “cura personalis” praticata negli Esercizi, la Ratio Studiorum – anche nella versione aggiornata delle Caratteristiche dell’educazione gesuitica – non persegue nelle scuole e università solamente l’eccellenza accademica, la specializzazione professionale o la ricerca scientifica più avanzata, ma attraverso queste iniziative ha di mira la formazione integrale della persona per una vita responsabile in mezzo popolo di Dio e nella società umana. Bisogna prendere atto che nell’attuale contesto impersonale, in cui contano soltanto i crediti e i risultati per ottenere i riconoscimenti degli stati e il sostegno del mercato, la “cura personalis” è più necessaria che mai. Infatti, come ci ricorda Papa Benedetto nella sua prima Enciclica (Deus caritas est, 33), non sono le ideologie che fanno progredire l’umanità, ma le persone, toccate dall’amore di Cristo. Questa convinzione del Papa riguarda anche altri ambiti, ad esempio l’attività sociale, dove esiste un facile rischio di sostituire i migliori programmi manageriali alla presenza e inserimento tra i poveri. Nel raccomandare la “cura personalis” Ignazio e i suoi compagni volevano seguire Cristo, che desidera essere servito personalmente in ogni persona che soffre e ha bisogno del suo aiuto, consolandola “nella maniera in cui gli amici sogliono consolarsi tra loro” (EE, 224).
Il testo è stato
pubblicato nel n. 114 (I, 2007) della Rivista di Spiritualità Ignaziana (CIS della Curia generalizia).
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