sabato 13 settembre 2014

Felicità ed educazione (II parte)

2. La felicità

La felicità è condizione di equilibrio e corrispondenza fra desideri, aspirazioni della volontà e loro attuazione, generante un sentimento di appagamento nel soggetto.
Secondo la definizione di altri dizionari, la felicità è lo stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti propri desideri. Lo stesso concetto di felicità, così come quello di educazione, sembrerebbe variare attraverso le diverse Weltanschauung.
Ma, con un po’ di attenzione, si nota una costante in tutti gli sviluppi del pensiero umano, nel mondo biblico, quello romano, quello filosofico classico: legare al concetto di felicità quello di virtù, verità, bontà, bellezza, senza contare il campo semantico altamente significativo dei termini di alcune antiche lingue, ad esempio l’ebraico dove tov sta per bello/buono, così come il greco kalo,j.
Nel contesto biblico, il Cantico dei Cantici, massimo emblema dell’amore e della felicità legata al più potente dei sentimenti umani, è inserito nella sezione dei libri sapienziali, che erano raccolte di massime per l’educazione degli intellettuali dell’epoca e per le nuove leve del potere politico-giudiziario.
Nella lingua ebraica può essere significativo ricordare l’utilizzo del verbo conoscere per indicare l’azione dell’amare. Nel pensiero greco solo chi segue la virtù può essere felice. Nel Protagora, chi è ingiusto è anche infelice, si arriva a dire che è meglio subire l’ingiustizia che commetterla. Si distingueva, inoltre, tra edonismo ed eudemonismo.
La felicità per Socrate, non poteva avere carattere istintuale -sensibile, ma doveva implicare e consistere in una conoscenza, nella consapevolezza di sé e dei fini del proprio agire. Epicuro, nella celebre Lettera sulla felicità a Meneceo, sosteneva che non c'è età per conoscere la felicità, per occuparsi del benessere dell'anima, cioè per filosofare; ed è la conoscenza delle cose che dona lo stato di felicità. Platone, nel Filebo, scriveva che la vita migliore per l'uomo consiste in una miscela proporzionata di intelligenza e piacere; con l'educazione l'uomo imparerà a distinguere i veri piaceri e le cose che danno l’autentica felicità. Nonostante le apparenze, i giusti vivono meglio e sono più felici degli ingiusti; consapevole che la felicità non potrà essere perfetta sulla terra, alla vita terrena contrapponeva il mondo delle Idee, con i valori imperituri e il Bene, il valore più alto.
Nella concezione aristotelica della felicità abbiamo tre aspetti: la felicità come giusta misura; la felicità come realizzazione della propria natura; la felicità come conseguenza di un modo di essere.
Aristotele distingueva tra virtù etiche e dianoetiche: le prime riguardano la disciplina delle passioni, le seconde il sapere e la ragione. Egli non escludeva un rapporto tra felicità e piacere, a patto che le passioni fossero regolate dalla ragione. La virtù sta nel giusto mezzo, che è l’atteggiamento per conseguire la felicità. Il piacere non s’identifica con il sommo bene, quindi non può dare la felicità in senso proprio. “Diciamo poi più perfetto, ciò che è perseguito per sé stesso in confronto a ciò che è perseguito per altro […] di tale natura è la felicità, perché la scegliamo sempre per se stessa e mai in vista di altro”.
Per gli Stoici le passioni disturbavano la contemplazione della verità. La difficoltà nel distinguere felicità e piacere per l’aspetto soggettivo della questione, portava a ricondurre tutto alla legge del dovere, la vita autentica era contemplazione della verità del logos, conoscere la verità e condurre la propria vita in funzione di essa. Rimosse le passioni, il saggio, seguendo la propria ragione, si poneva in armonia con il tutto e non poteva non essere anche felice.
Nel mondo romano, il saggio Seneca scriveva che tutti vogliono vivere felici, “sed ad peruidendum quid sit quod beatam ultam efficiat caligant” e alla fine “beatus nemo dici potest extra veritatem proiectus”. Nella visione cristiana, con il celebre discorso della montagna (Mt 5,5-12) in cui Gesù proclama le beatitudini, viene proposto un ribaltamento della visione convenzionale del mondo per un nuovo ordine di valori e per la felicità. Il termine greco da noi tradotto con "beati" propriamente sta per felici. S. Gregorio di Nissa scriveva: “la felicità non consiste nel conoscere qualche verità su Dio, ma nell’avere Dio in se stessi, ‘beati i puri di cuore, perché vedranno di Dio’ (Mt 5,8)”. Nella visione cristiana la felicità s’identifica con la visione-unione con Dio, come l’immersione in un mare d’amore che non termina mai, l’apice della vita spirituale, la Gerusalemme celeste: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! […] asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento, né affanno” (Ap 21,3-4).
Per questo siamo stati creati, diceva Agostino, per raggiungere la piena conoscenza e il perfetto amore della S. Trinità, l’eterna contemplazione di Dio Uno e Trino in Paradiso. “La nostra gioia perfetta della quale nulla c’è di più alto, è godere di Dio Trinità che ci ha fatti a sua immagine”.
Ma, nella visione cristiana non troviamo l’idea di una felicità solo escatologica, ultraterrena, nelle testimonianze evangeliche sono numerose le immagini gioiose, quella descritta da Luca nella Magnificat o l’intero libro degli Atti, tutto pervaso dalla gioia.
Lo stesso Gesù non ci viene presentato come un maestro musone, ma gode delle amicizie degli uomini, della bellezza del creato e giubila nel suo cuore.
Tommaso d’Aquino diceva che, per l’inabitazione, “Dio, in tutta la pienezza del suo mistero, entra nell’intimo dell’uomo. Le divine Persone si donano realmente per lasciarsi possedere e per possedere, nella più meravigliosa comunione […] trasformando tutto in pienezza di vita divina”.
Tutto ciò possiamo raggiungerlo quaggiù, anche se imperfettamente, perché Dio si è donato personalmente all’essere umano per santificarlo. Ma, la conoscenza della Trinità, ammoniva, è anche il frutto della nostra vita e quindi delle nostre azioni. Più avanti nel tempo, Kant, opponendosi alle morali illuministiche del sentimento e del piacere e a quelle teologiche-intellettualistiche, dovette far coincidere virtù e felicità.
Spinoza affermava: “poiché in variatione vivimus, ci sentiamo più o meno felici a secondo che cresciamo o diminuiamo. Ne segue che il tempo, di per sé, non produce infelicità, ma può cambiare la natura dell'essere felici”.
Fin anche Nietzsche riconosceva che "l'uomo è felice, non quando è sazio, ma quando è capace di vittoria". Secondo voci filosofiche più contemporanee, “La filosofia moderna ha lavorato più sulle condizioni di felicità, ossia sulla rottura dei vincoli, che possono gravare sulla capacità soggettiva di conquistarsi la felicità […] alla fine della modernità, dopo che tanto abbiamo lavorato sulle condizioni di felicità, sulla libertà del bisogno, per trovare la felicità si torna agli antichi. Perché non è nell'esterno che c'è la felicità, ma nella capacità di fare lievitare infinitamente la propria vita come una buona pasta, come una sana pasta ”.
Va detto, per spezzare una lancia in favore della modernità, che il concetto di felicità è un valore sancito in alcune costituzioni, come in quella americana, ma anche nella Costituzione italiana si parla di “pieno sviluppo della persona umana” all'art.3. Qui la felicità ha a che fare con la privacy, più che con la virtù, essenziale per garantire la tutela della dignità della persona in ogni suo aspetto e dunque garantire la sua felicità. Realizzare i propri sogni è sviluppare in pieno se stessi, trovare l’equilibrio necessario per raggiungere la propria felicità.
Si parla dunque di diritto alla felicità, alla privacy e all'identità personale (tra i diritti inviolabili ex art. 2 Cost., sent. Corte Cost. n. 13/1994). Si ribadisce come ciascun essere umano sia unico e, come tale, irripetibile, artefice dei suoi progetti, non standardizzabile. M.L.A   (Continua )

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