lunedì 6 dicembre 2010

Sul patrimonio culturale

Claudio Scarpati

[Un mio collega della ‘Sapienza’ inizia il suo corso di letteratura italiana chiedendo agli studenti di estrarre dalle tasche una moneta da un euro e una da due euro: noi non abbiamo sulle monete volti di regnanti o marianne o aquile imperiali, ma l’uomo vitruviano di Leonardo e un ritratto di Dante. Un artista scienziato e un poeta. E’ un modo efficace per ricordare agli studenti che quando vogliamo identificare noi stessi dobbiamo ricorrere a una tradizione culturale, letteraria e artistica].

Da Dante dunque occorre prendere inizio. Quando Dante conclude e rende pubblica la sua Commedia, alla fine del secondo decennio del Trecento, è passato un secolo dalla diffusione del primo testo poetico in lingua volgare, il Cantico di frate sole di Francesco d’Assisi. Lungo quel secolo il volgare era stato usato per traduzioni di opere storiche, per la redazione di annali e cronache: aveva altresì accompagnato la migrazione della lirica dalla corte di Federico II alla Toscana. Ma l’opera che viene ora divulgata, la Commedia, ha un ardimento non prima immaginabile: si tratta di un viaggio ultraterreno in cui il viaggiatore, che è insieme autore e personaggio, vede la condizione degli uomini fissata definitivamente e giudicata in modo da conservare nell’al di là – come notò Hegel – i tratti che definirono la loro esistenza terrena. Questo viaggio è scritto in lingua volgare – il volgare toscano di Dante – perché si rivolge a un pubblico nuovo di “uomini desiderosi di sapere e di animo nobile che non conoscono il latino”. Si tratta di un balzo culturale e morale, dal momento che in questo modo accedono alla riflessione poetica, nutrita di sapere biblico e di sapienza antica, uomini e donne venuti alla luce nella vitalità sociale della civiltà comunale e cittadina.
La Commedia ha un respiro universale, legge il mondo antico e il mondo cristiano, e tuttavia in essa l’Italia ha un presenza particolare: vi trovano posto “l’arzanà (l’arsenale) de’ veneziani” (Inf. XXXI 7), la “bella Trinacria che caliga (si copre di fumo) tra Pachino e Peloro” (Par. VIII 67), la “vipera (il biscione dei Visconti) che ’l melanese accampa” e il “gallo di Gallura” (Purg. VIII 80). L’Italia di Dante è l’Italia di Virgilio e di Enea, travagliata ora dalle discordie cittadine e signorili contro le quali il poeta invoca l’intervento dell’imperatore nella cui funzione unificante ancora crede. Anche Petrarca deplora lo stato miserevole dell’Italia che sta sotto i suoi occhi, ma in lui prevale l’antico disprezzo per le genti germaniche barbare che forniscono milizie mercenarie ai signori italiani.
Petrarca è colui che elabora, con lo strumento malleabile del volgare, la nuova lingua della poesia d’amore. I temi da lui introdotti si diffonderanno nelle letterature europee per oltre tre secoli. E insieme il Petrarca scrittore latino sarà accolto dalla cultura dell’Occidente come philosophus moralis, capace di collegare i classici con i padri della Chiesa, l’eredità antica e l’eredità del medioevo cristiano.
E’ questa la scaturigine della nuova cultura che sorge in Italia, quella che si chiamerà umanistica. Mi piace pensare che all’origine dell’umanesimo stia l’ultimo canto della Commedia ove Dante vede apparire entro i tre cerchi che rappresentano la Trinità, l’immagine dell’uomo. Il tema umanistico della dignità dell’uomo non può essere disgiunto dalla dignità a lui conferita dall’Incarnazione del Verbo.
L’umanesimo è un grande moto di cultura dietro cui sta una nuova organizzazione degli studi: alle materie tradizionali del trivio (grammatica, dialettica e retorica) si aggiungono lo studio degli scrittori antichi, della lingua greca, della storia. Il ciclo della cultura dell’Occidente si ricompone; il lascito degli antichi viene accolto in un orizzonte cristiano. Gli umanisti sono consapevoli di intraprendere una strada nuova, ma non volgono le spalle al passato. Contrapponendosi a tenaci schemi storiografici, il maggiore studioso del pensiero del Rinascimento, Paul Oskar Kristeller, ha messo in luce il fatto che in Italia i nuovi orientamenti del pensiero convivono con l’eredità della filosofia scolastica, che il rinnovato interesse per Platone non copre lo studio di Aristotele che continua a vivere nella sua etica, nella retorica, nella poetica.
Nel moto umanistico l’Italia precede gli altri paesi europei: questi riconoscono il primato italiano e forniscono all’Italia l’autocoscienza della sua centralità culturale in un arco di tempo lungo che va da Leonardo a Bernini: nel 1516 Leonardo è chiamato a Parigi da Francesco I che rinnova le istituzioni culturali del suo regno; nel 1665 Bernini è a Parigi per discutere il progetto (poi non attuato) del Louvre.

Il libro più letto nell’Europa del Rinascimento è il Cortegiano di Baldassar Castiglione. E’ il libro in cui l’uomo di corte (che è poi il consigliere del principe, il diplomatico dei tempi nuovi) si caratterizza per la sua cultura, non per l’abilità guerresca. Questo diviene il ‘modello italiano’ che le corti di Francia e d’Inghilterra desiderano imitare. Il libro veicola l’idea che la cultura precede la politica e la orienta, secondo l’ideale antico del governo dei sapienti. Noi sappiamo che questo ideale è discusso: Machiavelli ritiene fondamentale l’efficacia dell’azione politica per mantenere lo stato, Castiglione pensa che il principe non possa “stare sempre in guerra”: egli deve partecipare della “vita contemplativa” (la riflessione, il pensiero, lo studio) che è il fine cui tende la vita attiva. Ma entrambi gli scrittori hanno gli occhi aperti sulla situazione italiana: Castiglione sa bene che il “nome italiano è ridutto in obbrobrio”, e si attende, si augura, intravede una nuova generazione di prìncipi; Machiavelli conclude la sua opera politica con l’esortazione a liberare l’Italia dai barbari.
Mentre, come sapete, controversa è la fortuna del Principe, straordinaria è la fama europea del Cortegiano: stampato nel 1528, è tradotto in spagnolo nel 1534, in francese nel 1537, in latino per i lettori tedeschi nel 1569, in inglese nel 1560. Una simile fortuna in traduzione tocca al Galateo di Giovanni della Casa. Il ‘modello italiano’ si afferma perché discute la vita di relazione, l’essere gli uni accanto agli altri con rispetto e libertà, con quei modi che saranno tipici delle aristocrazie e delle classi colte del nostro continente. E’ un’esperienza comune a chi anche oggi viaggia in Europa notare la facilità di comunicazione che si attua tra i cittadini delle nazioni che hanno accolto nella loro storia il contributo del Rinascimento italiano.

Nel primo trentennio del Cinquecento l’Italia è un grande laboratorio artistico su cui si sporgono gli occhi degli stranieri. Se nel secolo precedente l’attenzione si era concentrata su Firenze, ora anche Milano si arricchisce della nuova misura volumetrica di Bramante e dell’animazione compositiva di Leonardo, che ai tempi del Cenacolo dipinto nel convento di Santa Maria delle Grazie assegnava arditamente all’artista il compito di dipingere “i moti dell’animo”. Nel 1506 Albrecht Durer scriveva a un amico: “A Venezia sono divenuto un gentiluomo” (e voleva intendere uomo colto e compiuto). Nello stesso anno a Roma, che acquista ora una centralità indiscussa, viene esposto nel cortile del Belvedere il Laocoonte acquisito da Giulio II. La passione antiquaria intensifica l’esplorazione archeologica: disegni tratti da statue antiche circolano velocemente al di qua e al di là delle Alpi. Nel 1512 viene aperta al pubblico la Cappella Sistina, con la volta affrescata da Michelangelo. Nel 1511 Raffaello termina la Scuola d’Atene nelle Stanze vaticane. In quell’affresco alcuni dei grandi antichi hanno i volti dei contemporanei. Al 1519 risale la lettera scritta a Leone X da Castiglione e Raffaello sulla salvaguardia dei monumenti romani.
Nel mezzo di questo fervore artistico e letterario – sono gli anni in cui appare la prima edizione dell’Orlando furioso – riemerge problema della lingua. La nuova industria della stampa, a Venezia fiorente, avverte l’esigenza di stampare libri che abbiano una circolazione più che regionale e rispondano a caratteristiche grammaticali uniformi.
Molte proposte sono avanzate, ma è un umanista veneziano, Pietro Bembo, già segretario da Leone X, colui che fa la proposta destinata negli anni ad essere raccolta. Con le sue Prose della volgar lingua, stampate a Venezia nel 1525, l’anno della battaglia di Pavia, quando in Italia imperiali e francesi si contendono sanguinosamente la supremazia sulla penisola, tre anni prima del sacco di Roma, quasi in un atto di salvataggio di una eredità culturale di valore inestimabile, Bembo proponeva la lingua di Petrarca come riferimento per le scritture poetiche, la lingua di Boccaccio per le scritture in prosa. La lingua di Dante era troppo composita per essere indicata come modello. Per un verso questa proposta (che fu poi avallata nella Firenze della seconda metà del secolo) ancorava la lingua scritta a modelli di due secoli prima, per un altro riconosceva che non è possibile definire una lingua di cultura senza rifarsi a esemplari di prima grandezza.
La lingua scritta italiana conobbe così una continuità che non fu posseduta da alcuna altra lingua europea. Il 70 o 80 per cento della parole di Dante sono ancora usate da noi. La nostra letteratura si è sviluppata su questa base; tuttavia, entro questa cornice, la lingua si è arricchita nel tempo di termini derivati dai mestieri, dalle attività economiche, dalla scienza medica, dalla tecnica. Resta che noi – quasi – possiamo leggere il Canzoniere di Petrarca senza l’ausilio di un commento letterale. Ha scritto Gian Luigi Beccaria: “Noi ci riconosciamo da secoli in questa grande lingua comune, il suo effetto aggregante ha molto contribuito al conseguimento dell’unità politica. Non esisteva ancora la nazione, ma da secoli esisteva l’unità linguistico-letteraria nazionale”.
La lingua italiana fu considerata la terza tra le lingue classiche, studiata in Francia e in Inghilterra per arricchimento culturale, divenne la lingua della terminologia musicale. La sua conoscenza è oggi indispensabile per chiunque nel mondo si occupi di storia delle arti figurative.

La storia delle nostre lettere scritta negli anni del Risorgimento aveva fatto coincidere la perdita della libertà politica con l’inizio di un declino inarrestabile dell’Italia. Da alcuni decenni questa visione viene ridiscussa. Sembra di poter dire che la cultura italiana seppe resistere, proprio grazie alle fondamenta di cui abbiamo parlato, nell’epoca del predominio straniero. Negli anni ottanta del Cinquecento viene alla luce il grande poema della Gerusalemme liberata, nel quale Tasso congiunge il tema dantesco del viaggio, ora volto all’acquisto di una città, viaggio che egli definisce come “ricomposizione del corpo sociale”, [unisce questo motivo dantesco] con la petrarchesca indagine del mondo interiore dei personaggi, che passano dalla disgiunzione alla reciprocità. Alla fine del Cinquecento Padova e Bologna permangono centri universitari che attraggono studenti dall’Europa centrale, mentre sorgono nuove istituzioni culturali. A Roma l’Accademia dei Lincei accoglie Galileo che nel 1610 ha pubblicato tra l’entusiasmo del mondo scientifico il Sidereus Nuncius. A Milano nel 1609 si apre la Biblioteca Ambrosiana con il Collegio dei dottori voluto da Federico Borromeo. L’Accademia fiorentina della Crusca stampa nel 1612 il suo Vocabolario. Accademie sorgono anche nelle città minori: sono luoghi di incontro fra uomini di lettere e uomini di scienza. L’arte barocca prolunga, soprattutto in Roma, il classicismo del Rinascimento con un’audacia sperimentale che dà luogo a un nuovo linguaggio architettonico e figurativo, fondato sul movimento delle masse, sulla visione pluriprospettica, su una nuova grammatica dei sentimenti. Uno studioso francese, Jean Rousset, ha scritto che una facciata barocca è una facciata rinascimentale immersa nell’acqua, è il suo riflesso nell’acqua agitata, poiché le superfici si gonfiano e si scavano, i frontoni si spezzano e si avvolgono, le colonne diritte diventano colonne tortili, le fontane sono monumenti all’acqua e al moto incessante.
Nel Seicento ancora l’arte italiana è sentita come un crocevia di esperienze che si diffondono a misura continentale. Nel Seicento l’Italia tutta, da Firenze, a Venezia, a Napoli dona al continente il nuovo genere artistico del melodramma, che congiunge parola e musica nella cornice teatrale, rappresentativa, scenica, lungo una linea che condurrà alla fortuna immensa, lungo tre secoli, dell’opera in musica.
Nell’epoca in cui le arti interpretavano in vario modo una volontà di efficacia comunicativa, si accumulò anche un patrimonio di discorsi, di discorsi pronunciati e ascoltati, che hanno contribuito a costruire l’identità italiana. Nell’età post-tridentina la predicazione occupa un posto centrale nella prassi pastorale della Chiesa. Da alcuni decenni l’oratoria sacra tra Cinque e Seicento è stata oggetto di studi numerosi e approfonditi. Sappiamo che la retorica ecclesiastica è di origine dotta. Francesco Panigarola, il colto predicatore francescano caro a Carlo Borromeo, scrive un trattato sulla predicazione modellato su un testo illustre dell’età ellenistica, il De interpretatione attribito a Demetrio Falereo, di gran moda in quei decenni. Le retoriche dei gesuiti – come d’altra parte la Ratio studiorum, si costruiscono su fondamenta classiche. Come accade nella letteratura di quegli anni anche per la predicazione di pongono problemi di stile oratorio, che per alcuni deve essere ricco, fiorito, emotivamente accattivante, per altri sobrio, misurato, aderente al sermo humilis della Scrittura sacra. Sembra che su questo terreno gli ordini religiosi e il clero secolare procedano su linee non dissimili. Lo storico non può non registrare l’imponente complesso comunicativo che fu allora allestito, con la convergenza tra i messaggi visivi dell’architettura e della pittura e la rete estesissima dell’oratoria sacra. Questa rete fu il nutrimento culturale di fedeli non alfabetizzati, indirizzò le loro menti verso i grandi orizzonti della sapienza cristiana, dichiarò la loro dignità di uomini “figli tutti d’un solo riscatto”, come dirà Manzoni. Per intere generazioni di dialettofoni, nella civiltà contadina, la predicazione divenne forma di contatto con una lingua sovraregionale, quella che ormai si chiamava lingua italiana, che indicava loro l’appartenenza ad una realtà più vasta, oltre i confini del villaggio e del borgo, quella che poi ritrovavano nei pellegrinaggi e nelle feste predisposte da una pedagogia religiosa e umana divenuta intensa e capillare.

Il Settecento è, in Italia, il secolo della storia. La storia ideale eterna di Vico e la storia erudita e documentaria di Muratori. Sulle loro orme si pone Foscolo, che vede nella memoria storica l’unica via attraverso la quali gli italiani potranno prendere coscienza di sé. E invita gli italiani a meditare sulla loro storia, a scriverne, rilevando – siamo nel 1809 – che sono gli storici stranieri quelli che ci spiegano quale fu la funzione svolta in Europa dalla nostra cultura. Sulle orme di Muratori si pone Manzoni con la sua riforma della tragedia fondata sul ‘metodo storico’. Ogni opera di Manzoni ha un’implicazione patriottica, pone sullo sfondo l’idea della nazione italiana. Al centro della prima tragedia stanno le contese tra gli stati italiani e la loro dipendenza dalle truppe mercenarie. Manzoni è un innovatore, ma inserito in una tradizione: l’esecrazione per i mercenari era stato il grande tema di Petrarca e di Machiavelli. Ora torna in primo piano: poiché i fratelli uccidono i fratelli, lo straniero guarda dalle Alpi e ne gode. Nell’Adelchi gli italiani del secolo VIII attendono da Carlo una liberazione che non verrà: Franchi e Longobardi si assidono insieme sulla terra di un “vulgo disperso”. Nel romanzo, la Lombardia spagnola è il quadro entro il quale il sopruso e la prepotenza e il delitto si sostituiscono alle leggi: solo un figlio di Francesco e un vescovo illuminato vi si oppongono.
Le generazioni risorgimentali si riconobbero nei versi della poesia manzoniana dedicata al Marzo 1821. Quando essa venne alla luce, nel 1848, durante le Cinque Giornate di Milano, vi trovarono dichiarata l’autorizzazione biblica e religiosa del riscatto italiano: Dio è “padre di tutte le genti” e non ha mai concesso ad alcuno di raccogliere dove non ha seminato. Pensando all’Italia del futuro Manzoni la vedeva “una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor”. Nel tumulto migratorio di questi anni a noi è difficile pensare all’Italia “una di sangue”. L’Italia “una di cor” è invece, ancora, quella che desideriamo.

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