giovedì 21 maggio 2009

Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
PER LA XLIII GIORNATA MONDIALE
DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI

"Nuove tecnologie, nuove relazioni.
Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia."

24 maggio 2009

Cari fratelli e sorelle,

in prossimità ormai della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, mi è caro rivolgermi a voi per esporvi alcune mie riflessioni sul tema scelto per quest’anno: Nuove tecnologie, nuove relazioni. Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia. In effetti, le nuove tecnologie digitali stanno determinando cambiamenti fondamentali nei modelli di comunicazione e nei rapporti umani. Questi cambiamenti sono particolarmente evidenti tra i giovani che sono cresciuti in stretto contatto con queste nuove tecniche di comunicazione e si sentono quindi a loro agio in un mondo digitale che spesso sembra invece estraneo a quanti di noi, adulti, hanno dovuto imparare a capire ed apprezzare le opportunità che esso offre per la comunicazione. Nel messaggio di quest’anno, il mio pensiero va quindi in modo particolare a chi fa parte della cosiddetta generazione digitale: con loro vorrei condividere alcune idee sullo straordinario potenziale delle nuove tecnologie, se usate per favorire la comprensione e la solidarietà umana. Tali tecnologie sono un vero dono per l’umanità: dobbiamo perciò far sì che i vantaggi che esse offrono siano messi al servizio di tutti gli esseri umani e di tutte le comunità, soprattutto di chi è bisognoso e vulnerabile.

L’accessibilità di cellulari e computer, unita alla portata globale e alla capillarità di internet, ha creato una molteplicità di vie attraverso le quali è possibile inviare, in modo istantaneo, parole ed immagini ai più lontani ed isolati angoli del mondo: è, questa, chiaramente una possibilità impensabile per le precedenti generazioni. I giovani, in particolare, hanno colto l’enorme potenziale dei nuovi media nel favorire la connessione, la comunicazione e la comprensione tra individui e comunità e li utilizzano per comunicare con i propri amici, per incontrarne di nuovi, per creare comunità e reti, per cercare informazioni e notizie, per condividere le proprie idee e opinioni. Molti benefici derivano da questa nuova cultura della comunicazione: le famiglie possono restare in contatto anche se divise da enormi distanze, gli studenti e i ricercatori hanno un accesso più facile e immediato ai documenti, alle fonti e alle scoperte scientifiche e possono, pertanto, lavorare in équipe da luoghi diversi; inoltre la natura interattiva dei nuovi media facilita forme più dinamiche di apprendimento e di comunicazione, che contribuiscono al progresso sociale.

Sebbene sia motivo di meraviglia la velocità con cui le nuove tecnologie si sono evolute in termini di affidabilità e di efficienza, la loro popolarità tra gli utenti non dovrebbe sorprenderci, poiché esse rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre.

Questo desiderio di comunicazione e amicizia è radicato nella nostra stessa natura di esseri umani e non può essere adeguatamente compreso solo come risposta alle innovazioni tecnologiche. Alla luce del messaggio biblico, esso va letto piuttosto come riflesso della nostra partecipazione al comunicativo ed unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia. Quando sentiamo il bisogno di avvicinarci ad altre persone, quando vogliamo conoscerle meglio e farci conoscere, stiamo rispondendo alla chiamata di Dio – una chiamata che è impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, il Dio della comunicazione e della comunione.

Il desiderio di connessione e l’istinto di comunicazione, che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri. In realtà, quando ci apriamo agli altri, noi portiamo a compimento i nostri bisogni più profondi e diventiamo più pienamente umani. Amare è, infatti, ciò per cui siamo stati progettati dal Creatore. Naturalmente, non parlo di passeggere, superficiali relazioni; parlo del vero amore, che costituisce il centro dell’insegnamento morale di Gesù: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza" e "Amerai il tuo prossimo come te stesso" (cfr Mc 12,30-31). In questa luce, riflettendo sul significato delle nuove tecnologie, è importante considerare non solo la loro indubbia capacità di favorire il contatto tra le persone, ma anche la qualità dei contenuti che esse sono chiamate a mettere in circolazione. Desidero incoraggiare tutte le persone di buona volontà, attive nel mondo emergente della comunicazione digitale, perché si impegnino nel promuovere una cultura del rispetto, del dialogo, dell’amicizia.

Pertanto, coloro che operano nel settore della produzione e della diffusione di contenuti dei nuovi media non possono non sentirsi impegnati al rispetto della dignità e del valore della persona umana. Se le nuove tecnologie devono servire al bene dei singoli e della società, quanti ne usano devono evitare la condivisione di parole e immagini degradanti per l’essere umano, ed escludere quindi ciò che alimenta l’odio e l’intolleranza, svilisce la bellezza e l’intimità della sessualità umana, sfrutta i deboli e gli indifesi.

Le nuove tecnologie hanno anche aperto la strada al dialogo tra persone di differenti paesi, culture e religioni. La nuova arena digitale, il cosiddetto cyberspace, permette di incontrarsi e di conoscere i valori e le tradizioni degli altri. Simili incontri, tuttavia, per essere fecondi, richiedono forme oneste e corrette di espressione insieme ad un ascolto attento e rispettoso. Il dialogo deve essere radicato in una ricerca sincera e reciproca della verità, per realizzare la promozione dello sviluppo nella comprensione e nella tolleranza. La vita non è un semplice succedersi di fatti e di esperienze: è piuttosto ricerca del vero, del bene e del bello. Proprio per tale fine compiamo le nostre scelte, esercitiamo la nostra libertà e in questo, cioè nella verità, nel bene e nel bello, troviamo felicità e gioia. Occorre non lasciarsi ingannare da quanti cercano semplicemente dei consumatori in un mercato di possibilità indifferenziate, dove la scelta in se stessa diviene il bene, la novità si contrabbanda come bellezza, l’esperienza soggettiva soppianta la verità.

Il concetto di amicizia ha goduto di un rinnovato rilancio nel vocabolario delle reti sociali digitali emerse negli ultimi anni. Tale concetto è una delle più nobili conquiste della cultura umana. Nelle nostre amicizie e attraverso di esse cresciamo e ci sviluppiamo come esseri umani. Proprio per questo la vera amicizia è stata da sempre ritenuta una delle ricchezze più grandi di cui l’essere umano possa disporre. Per questo motivo occorre essere attenti a non banalizzare il concetto e l’esperienza dell’amicizia. Sarebbe triste se il nostro desiderio di sostenere e sviluppare on-line le amicizie si realizzasse a spese della disponibilità per la famiglia, per i vicini e per coloro che si incontrano nella realtà di ogni giorno, sul posto di lavoro, a scuola, nel tempo libero. Quando, infatti, il desiderio di connessione virtuale diventa ossessivo, la conseguenza è che la persona si isola, interrompendo la reale interazione sociale. Ciò finisce per disturbare anche i modelli di riposo, di silenzio e di riflessione necessari per un sano sviluppo umano.

L’amicizia è un grande bene umano, ma sarebbe svuotato del suo valore, se fosse considerato fine a se stesso. Gli amici devono sostenersi e incoraggiarsi l’un l’altro nello sviluppare i loro doni e talenti e nel metterli al servizio della comunità umana. In questo contesto, è gratificante vedere l’emergere di nuove reti digitali che cercano di promuovere la solidarietà umana, la pace e la giustizia, i diritti umani e il rispetto per la vita e il bene della creazione. Queste reti possono facilitare forme di cooperazione tra popoli di diversi contesti geografici e culturali, consentendo loro di approfondire la comune umanità e il senso di corresponsabilità per il bene di tutti. Ci si deve tuttavia preoccupare di far sì che il mondo digitale, in cui tali reti possono essere stabilite, sia un mondo veramente accessibile a tutti. Sarebbe un grave danno per il futuro dell’umanità, se i nuovi strumenti della comunicazione, che permettono di condividere sapere e informazioni in maniera più rapida e efficace, non fossero resi accessibili a coloro che sono già economicamente e socialmente emarginati o se contribuissero solo a incrementare il divario che separa i poveri dalle nuove reti che si stanno sviluppando al servizio dell’informazione e della socializzazione umana.

Vorrei concludere questo messaggio rivolgendomi, in particolare, ai giovani cattolici, per esortarli a portare nel mondo digitale la testimonianza della loro fede. Carissimi, sentitevi impegnati ad introdurre nella cultura di questo nuovo ambiente comunicativo e informativo i valori su cui poggia la vostra vita! Nei primi tempi della Chiesa, gli Apostoli e i loro discepoli hanno portato la Buona Novella di Gesù nel mondo greco romano: come allora l’evangelizzazione, per essere fruttuosa, richiese l’attenta comprensione della cultura e dei costumi di quei popoli pagani nell’intento di toccarne le menti e i cuori, così ora l’annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo. A voi, giovani, che quasi spontaneamente vi trovate in sintonia con questi nuovi mezzi di comunicazione, spetta in particolare il compito della evangelizzazione di questo "continente digitale". Sappiate farvi carico con entusiasmo dell’annuncio del Vangelo ai vostri coetanei! Voi conoscete le loro paure e le loro speranze, i loro entusiasmi e le loro delusioni: il dono più prezioso che ad essi potete fare è di condividere con loro la "buona novella" di un Dio che s’è fatto uomo, ha patito, è morto ed è risorto per salvare l’umanità. Il cuore umano anela ad un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi, dove si edifichi l’unità, dove la libertà trovi il proprio significato nella verità e dove l’identità di ciascuno sia realizzata in una comunione rispettosa. A queste attese la fede può dare risposta: siatene gli araldi! Il Papa vi è accanto con la sua preghiera e con la sua benedizione.

Ascensione


(Da:www.contemplativi.it)
ASCENSIONE, B3

At 1,1-11; Sal 46; Ef 4,1-13; Mc 16,15-20

Il mistero dell’ascensione è presentato dalle Scritture e dalla liturgia in due registri: un registro dogmatico, secondo l’enunciato della fede e un registro narrativo, secondo i ricordi degli apostoli. Il ‘fatto’ dell’ascensione di Gesù, vale a dire della sua sparizione agli occhi degli apostoli mentre sale al cielo è narrato dalla prima lettura, secondo il resoconto che l’evangelista Luca presenta nel primo capitolo degli Atti; l’enunciato dogmatico, vale a dire che Gesù fu assunto in cielo e ora siede alla destra del Padre, lo troviamo nel vangelo di Marco. I due registri vanno tenuti insieme.

La gioia della colletta: “Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo nostro Capo nella gloria”, è una gioia, potremmo dire, in terza battuta, conseguenza cioè dell’aver contemplato con gli apostoli il fatto dell’ascensione al cielo di Gesù, dell’aver ‘compreso’ il senso di quell’avvenimento e perciò applicato a noi la potenza di grazia che comporta.

L’ascensione chiude le apparizioni pasquali. Tutti i passi di Matteo, Marco, Luca e Atti, che ricordano l'evento dell'ascensione di Gesù, hanno per contesto la missione alle genti con l'assicurazione della presenza costante del Signore. Quando Gesù, nell'ultima cena, aveva ricordato il suo ritorno al Padre, aveva causato negli apostoli una grande tristezza. Ora che gli apostoli lo vedono sparire in cielo senza poterlo più rivedere provano una grande gioia. Come mai?

Evidentemente il mistero vissuto dagli apostoli era d’altra natura rispetto a quello che immaginiamo. In effetti i discepoli hanno visto il fatto materiale dell’ascendere di Gesù al cielo (il testo usa il verbo greco vedere) ma hanno anche intravisto la portata mistica del fenomeno (il testo usa il verbo contemplare). Ciò significa che lo sparire di Gesù dalla loro vista permetteva di coglierlo presente nei loro cuori. Nella percezione degli apostoli l’ascensione è colta come un dono di presenza, come un’interiorizzazione di rapporto, che non solo non perde nulla della sua realtà con la sottrazione della fisicità di Gesù, ma acquista profondità e intensità insospettate. Se potessi riassumere con mie parole la sensazione degli apostoli, direi che si è trattato dell’esperienza di una gioia assolutamente dinamica, capace di allargare i confini del cuore e le energie corrispondenti in maniera illimitata. Resta sottolineato sia una dimensione di azione, in rapporto diretto con la missione alle genti, sia una dimensione di essere, in rapporto all’esperienza della presenza potente di Gesù in loro e con loro. Proprio qui si innesta l’enunciato di fede: Gesù è alla destra del Padre, cioè nell’atteggiamento di Colui al quale è stato dato ogni potere in cielo e in terra per ottenerci la salvezza. Da tale considerazione deriva la nostra speranza e tutta la nostra fiducia, tanto che possiamo contemplarci, nel suo amore, vicini a Dio, assunti in Dio anche noi, legati a Lui, Lui la vite e noi i tralci, Lui il capo e noi le membra.

Nel racconto di Marco ciò che colpisce è una specie di forza potente che muove tutto: il cuore degli apostoli come l’insieme del mondo e lo stesso desiderio di Dio per l’uomo. In quel correre alla predicazione non va visto solo lo zelo degli apostoli, ma anche l’attesa degli uomini e il desiderio di Dio. Così la presenza potente di Gesù accanto ai suoi non va vista nella capacità di fare miracoli, come farebbe supporre l’annotazione dell’evangelista nel finale del suo vangelo; va vista piuttosto in riferimento alla predicazione, vale a dire alla capacità che ha di riempire il cuore, che parla a tutti della sua presenza viva, senza che il mondo lo possa soffocare. La molla segreta di tale capacità è lo stesso desiderio di salvezza che Dio nutre nei riguardi degli uomini e che si comunica ai discepoli per raggiungere tutto il mondo.

Se la presenza del Signore è assicurata nel mondo, lo si deve al fatto che precisamente qui, nel mondo, continua la sua opera, così come nel mondo continua la rivelazione dell’amore del Padre, tanto a livello interiore che ecclesiale, nell’attesa che anche al mondo sia dato ciò che è dato ai discepoli. I discepoli diventano testimoni non semplicemente di Gesù, ma testimoni/collaboratori della sua opera di salvezza. Il dono dello Spirito Santo ha attinenza proprio a quella dinamica di predicazione per la conversione e il perdono dei peccati.

È una verità che risalta anche da un dettaglio riferito da Luca in At 1,6-8. Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, vale a dire: non si vedrà; nessuno potrà dire: è qui, è là. È inutile che pensiate di vedere il regno di Dio nella storia; i tempi e i modi di questa venuta gloriosa solo Dio li conosce, la cosa non vi riguarda. Ma voi “avrete forza dallo Spirito Santo … e mi sarete testimoni”. Quello che vi riguarda è che siate agiti dalla potenza dello Spirito Santo per essermi testimoni.

Gli apostoli sono i testimoni della salvezza operata da Gesù, non gli amministratori; favoriscono in ogni modo l’opera della salvezza, non ne sono mai i detentori. L’invio dello Spirito da parte di Gesù li assicura dell’accesso alla salvezza, per sé e per tutti, nella storia

martedì 19 maggio 2009

Angeli e demoni

“Angeli e demoni” dimostra il grande interesse per la Chiesa

Intervista a padre John Wauck, docente presso la Pontificia Università della Santa Croce

di Jesús Colina


ROMA, martedì, 19 maggio 2009 (ZENIT.org).- Il film “Angeli e Demoni”, nonostante gli incredibili errori basati sul romanzo di Dan Brown, mostra l’enorme interesse suscitato dalla Chiesa cattolica, sostiene un sacerdote che in passato ha curato uno dei blog più conosciuti sul “Codice Da Vinci”.

Padre John Wauck, della prelatura dell’Opus Dei, nato a Chicago, professore di letteratura e comunicazione della fede presso la Pontificia Università della Santa Croce a Roma, ha studiato storia della letteratura all’Università di Harvard.

In questa intervista rilasciata a ZENIT sottolinea un dato inconfutabile su questo interesse per la Chiesa: mai vi sono stati tanti pellegrini a Roma come in questi ultimi anni.

Non pensa che Dan Brown abbia una specie di fissazione per la Chiesa?

P. Wauck: Talvolta mi chiedo: dove sarebbe Dan Brown senza la Chiesa cattolica? Quasi tutti gli elementi interessanti dei suoi romanzi derivano dal loro contesto cattolico. Ovviamente le persone non sono attratte dai personaggi di scarso spessore e dal dialogo che lascia a desiderare. È per questo che l’effetto principale del “Codice Da Vinci” non è stato quello di un declino nella fede e nella pratica religiosa, ma un aumento piuttosto repentino del turismo a Roma ... e al Louvre.

Dan Brown vende i suoi libri offrendo un “cocktail” di storia, arte, religione e mistero, e nel mondo di oggi sembra che esista un solo posto dove si possono trovare tutti questi elementi insieme: nella Chiesa cattolica romana. In effetti, lui riesce a lucrare sulla cultura della Chiesa.

Se ti affascinano la storia, la bellezza e i misteri sacri, è difficile non essere affascinati dalla Chiesa. Se ci si sposta dalla Piazza di San Pietro si ha, nell’arco di qualche centinaio di metri, una necropoli romana, un antico obelisco egiziano portato a Roma da Caligola, la tomba di San Pietro, il luogo del tentato omicidio contro il suo successore, Giovanni Paolo II, la volta della Cappella sistina e la Pietà di Michelangelo, le stanze di Raffaello, il colonnato del Bernini, la basilica più grande al mondo, e pellegrini provenienti da tutto il mondo. E tutto questo, non in un museo. È una realtà vivente che ci mette in contatto diretto con la storia di 20 secoli fa: dal mondo antico, ad oggi. Cosa potrebbe chiedere di meglio un narratore? È certamente difficile trovare qualcosa di simile nell’america suburbana dove vive la maggior parte dei suoi lettori.

Se Dan Brown sembra così affascinato dalla Chiesa cattolica, non è sicuramente il solo. Il numero dei pellegrini a Roma in questi giorni ha toccato le cifre più alte. Vengono a vedere Roma e ad ascoltare Papa Benedetto. Ma questo interesse non è mera curiosità. Nei giorni di Pasqua di quest’anno, negli Stati Uniti, più di 150.000 adulti sono entrati nella Chiesa.

Le sembra che la decisione del Vaticano di non consentire le riprese all’interno delle chiese di Roma sia stata corretta nei confronti dei produttori?

P. Wauck: Sono ormai 14 anni che vivo a Roma e non ho mai visto un film di Hollywood girato in una chiesa. Come regola generale, nessuna produzione commerciale – per quanto pia possa essere – ha il permesso di entrare nelle chiese di Roma. Neanche il film sui “Dieci Comandamenti” potrebbe essere girato in una chiesa romana! Coerentemente, nessuna eccezione è stata fatta per “Angeli e Demoni”, che è stato trattato esattamente come gli altri. Fine della storia. Qualsiasi cosa che vada al di là di questo è solo una montatura pubblicitaria.

“Angeli e Demoni” prefigura un’ostilità naturale tra la fede cristiana e la scienza moderna. Cosa ne pensa?

P. Wauck: Che gran parte delle arti del mondo occidentale – musica, pittura, scultura, letteratura, architettura – sia un prodotto della cultura cristiana, spesso ispirata dalla fede o persino finanziata dalla Chiesa, è un fatto assodato e piuttosto evidente. Ma che un discorso simile valga anche per le scienze è meno evidente e noto.

Ma basta rifletterci. Le università sono un’invenzione della Chiesa. Copernico era un sacerdote cattolico, che ha dedicato al Papa il suo libro sull’universo eliocentrico. Il calendario che usiamo oggi si chiama gregoriano perché è stato promulgato dal Papa Gregorio XIII ed elaborato dai migliori astronomi e matematici del tempo. Lo stesso Galileo è sempre rimasto cattolico e le sue due figlie si sono fatte suore. Uno dei più grandi astronomi italiani del XIX secolo era Angelo Secchi, un sacerdote gesuita. Il padre della moderna genetica, Gregor Mendel, era un monaco cattolico. Il creatore della teoria del “Big Bang” è stato il sacerdote belga Georges Lemaitre.

In sostanza, l’idea che vi sia qualche tensione naturale tra scienza e Chiesa, tra ragione e fede, non ha alcun senso. Oggi quando si sentono le parole “scienza” e “Chiesa”, si pensa immediatamente al processo contro Galileo nel XVII secolo. Ma nell’insieme, quel caso piuttosto complesso – che spesso viene distorto dai propagantisti anticattolici – fu una plateale eccezione. C’è un motivo per cui chi critica la Chiesa continua a tirarlo fuori: perché è l’unico caso di questo tipo. Così, quando sentiamo le parole “scienza” e “Chiesa”, dovremmo pensare a Copernico, Secchi, Mendel e Lamaitre. Questi sono casi rappresentativi, mentre il processo a Galileo non lo è.

Vi è qualche aspetto del libro che ha trovato interessante?

P. Wauck: Sì. C’è una scena in cui il protagonista – il professor Langdon dell’Università di Harvard, che nel romanzo rappresenta la voce del mondo scientifico – ad un certo punto si trova di fronte alla Basilica di San Pietro e fa delle riflessioni che sembrano una sorta di pubblicità per il Cattolicesimo; si fa fatica a non confonderle con quelle del Catechismo! Ecco il passaggio:

“Pietro è la pietra. La fede di Pietro era incrollabile, salda come la roccia su cui Dio avrebbe edificato la sua Chiesa. Pietro era stato crocifisso e sepolto proprio lì, sul colle Vaticano, e i primi cristiani avevano costruito un piccolo altare sulla sua tomba. Poi, con la diffusione del cristianesimo, l’altare era diventato sempre più grande, finché intorno ad esso era stata costruita la basilica. La Chiesa cattolica era quindi stata letteralmente edificata su Pietro, il primo apostolo. La pietra” (Angeli e Demoni, cap. 118).

Come pubblicità, non è certo come un cartellone gigante di Times Square, ma comunque non è male.

Non crede che con questa intervista stiamo pubblicizzando gratuitamente il film?

P. Wauck: Nel senso che: noi stiamo pubblicizzando chi pubblicizza noi? Forse è così. Ma considerando il tempo, l’energia e i milioni di dollari spesi per fare e pubblicizzare il film, credo che noi stiamo facendo un affare! Forse Dio si sta divertendo non poco a utilizzare Hollywood per attirare l’attenzione di molte persone sulle ricchezze della fede e della cultura cattoliche.

Detto questo, vorrei precisare che personalmente non ho alcuna intenzione di sprecare tempo e denaro per andare a vedere il film. Le recensioni del Codice Da Vinci – della stessa produzione – sono state sufficientemente caustiche da indurre chiunque a non andare a vedere neanche questo.

sabato 16 maggio 2009


Discours du pape Benoît XVI à son départ des Territoires palestiniens
"Bien que les murs peuvent être facilement construits, nous savons que ils ne subsistent pas toujours. Ils peuvent être abattus. Il est d’abord nécessaire d’ôter les murs construits autour de nos cœurs, les barrières érigées contre nos voisins", a déclaré Benoît XVI mercredi 13 mai, en quittant les Territoires palestiniens.


Monsieur le Président,

Chers Amis,

Je vous remercie pour la grande délicatesse dont vous m’avez entouré durant cette journée que j’ai passée en votre compagnie, ici dans les Territoires Palestiniens. Je sais gré au Président Mahmoud Abbas pour son hospitalité et pour ses paroles bienveillantes. Il était émouvant pour moi également d’écouter les témoignages des résidents qui nous ont parlé de leurs conditions de vie, ici, en Cisjordanie et à Gaza. Je vous assure tous que je vous garde dans mon cœur et que j’attends ardemment de voir se réaliser la paix et la réconciliation dans ces terres tourmentées.

Ce fut vraiment un jour mémorable. Depuis mon arrivée à Bethléem, ce matin, j’ai eu la joie de célébrer la Messe avec une multitude de fidèles dans le lieu même où Jésus-Christ, lumière des Nations et espérance du monde, est né. J’ai pu constater les soins donnés aux nouveaux nés du Caritas Baby Hospital. Avec angoisse, j’ai été le témoin de la situation des réfugiés qui, comme la Sainte Famille, ont été obligés de fuir de leurs maisons. Près du Camp et surplombant une partie de Bethléem, j’ai vu également le mur qui fait intrusion dans vos territoires, séparant des voisins et divisant des familles.

Bien que les murs peuvent être facilement construits, nous savons que ils ne subsistent pas toujours. Ils peuvent être abattus. Il est d’abord nécessaire d’ôter les murs construits autour de nos cœurs, les barrières érigées contre nos voisins. C’est pourquoi, dans ce mot de congé, je désire relancer un appel à l’ouverture et à la générosité d’esprit pour mettre fin à l’intolérance et à l’exclusion. Peu importe combien un conflit peut paraître insoluble et profondément ancré, il y a toujours des raisons d’espérer qu’il puisse être résolu, et que les efforts patients et persévérants de ceux qui travaillent pour la paix et la réconciliation, porteront des fruits en fin de compte. Mon souhait sincère pour vous, peuple de Palestine, est que cela arrivera bientôt pour vous permettre de jouir de la paix, de la liberté et de la stabilité dont vous avez été privés depuis si longtemps.

Soyez assurés que je vais continuer à utiliser toutes les opportunités pour encourager ceux qui sont engagés dans les négociations de paix à travailler ensemble pour une solution juste qui respecte les aspirations légitimes des Israéliens et des Palestiniens. Comme un pas important dans cette direction, le Saint-Siège cherche à établir rapidement, conjointement avec l’Autorité Palestinienne, la Commission bilatérale permanente de travail qui fut envisagée par l’Accord de base, signé au Vatican le 15 février 2000 (cf. Basic Agreement between the Holy See and the Palestine Liberation Organization, art. 9).

Monsieur le Président, chers amis, je vous remercie une nouvelle fois et je vous recommande tous à la protection du Tout-Puissant. Puisse Dieu regarder avec amour chacun d’entre vous, vos familles et ceux qui vous sont chers. Puisse-t-Il bénir par la paix le peuple Palestinien !

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Le pape Benoît XVI a jugé mercredi 13 mai "tragique" la construction de la barrière de séparation israélienne en Cisjordanie, lors d'une visite dans un camp de réfugiés à Bethléem.

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Monsieur le Président,
Chers amis,

Cet après-midi, ma visite au camp de réfugiés d'Aïda me donne l’opportunité d’exprimer ma solidarité à l’ensemble des Palestiniens sans-toit et qui attendent de pouvoir retourner sur leur terre natale, ou d’habiter de façon durable dans une patrie qui soit à eux. Merci à vous, Monsieur le Président, pour votre aimable accueil. Je vous remercie aussi, Monsieur Abu Zayd, ainsi que toutes les personnes qui ont pris la parole. À tous les personnels de l’Office de Secours et de Travaux des Nations Unies pour les Réfugiés de Palestine dans le Proche-Orient qui prennent soin des réfugiés, j’exprime la reconnaissance d’une multitude d’hommes et de femmes à travers le monde pour le travail qui est fait ici et dans les autres camps de la région.

J’adresse un salut particulier aux élèves et aux professeurs des écoles. Par votre engagement dans l’éducation, vous exprimez une espérance pour l’avenir. À tous les jeunes présents ici, je dis : renouvelez vos efforts pour vous préparer au temps où, dans les années à venir, vous serez en charge des affaires du Peuple palestinien. Les parents ont ici un rôle très important, et à toutes les familles présentes dans ce camp, je dis : ayez à cœur d’encourager vos enfants dans leurs études et de cultiver leurs talents, de telle sorte que ne manque pas le personnel qualifié pour occuper les fonctions dirigeantes dans la communauté palestinienne dans l’avenir. Je sais que beaucoup de vos familles sont séparées – à cause de l’emprisonnement de membres de la famille, ou des restrictions dans la liberté de déplacement – et que beaucoup d’entre vous ont connu le deuil pendant les hostilités. Mon cœur va vers tous ceux qui ont ainsi souffert. Soyez assurés que tous les réfugiés palestiniens à travers le monde, spécialement ceux qui ont perdu leurs maisons et des êtres chers durant le récent conflit à Gaza, sont constamment présents dans mes prières.

Je souhaite saluer le bon travail réalisé par nombres d’organismes de l’Église en faveur des réfugiés ici et dans les autres parties des Territoires Palestiniens. La Mission pontificale pour la Palestine, fondée il y a soixante ans pour coordonner l’assistance catholique humanitaire aux réfugiés, poursuit son travail toujours indispensable aux côtés d’autres organisations semblables. Dans ce camp, la présence des Sœurs franciscaines missionnaires du Cœur immaculée de Marie nous invite à faire mémoire de la figure charismatique de saint François, ce grand apôtre de la paix et de la réconciliation. En effet, je veux exprimer ma reconnaissance particulière pour la contribution exceptionnelle apportée par les différents membres de la famille franciscaine dans l’attention aux populations de cette région, se faisant des « instruments de paix », selon l’expression du saint d’Assise retenue par la postérité.

Instruments de paix. Combien les gens de ce camp, de ces Territoires, et de la région tout entière attendent la paix ! En ces jours, ce long désir prend un relief particulier quand vous vous souvenez des événements de mai 1948 et des années de conflit, non encore résolu, qui suivirent ces événements. Vous vivez maintenant dans des conditions précaires et difficiles, avec des possibilités limitées de trouver un emploi. Il est compréhensible que vous vous sentiez souvent frustrés. Vos aspirations légitimes à un logement stable, à un État palestinien indépendant, demeurent non satisfaites. Au contraire, vous vous trouvez piégés, comme beaucoup d’autres en cette région et à travers le monde sont piégés, dans une spirale de violence, d’attaque et de contre-attaque, de vengeance et de destruction continuelle. Le monde entier soupire pour que cette spirale soit brisée et pour que par la paix soit mis fin à ces combats qui ne cessent pas de durer.

S’élevant au-dessus de nous qui sommes rassemblés ici cet après-midi, nous domine le mur, rappel incontournable de l’impasse où les relations entre Israéliens et Palestiniens semblent avoir abouti. Dans un monde où les frontières sont de plus en plus ouvertes – pour le commerce, pour les voyages, pour le déplacement des personnes, pour les échanges culturels – il est tragique de voir des murs continuer à être dressés. Comme il nous tarde de voir les fruits d’une tâche bien plus difficile, celle de construire la paix ! Comme nous prions constamment pour la fin des hostilités qui sont à l’origine de ce mur !

De part et d’autres du mur, un grand courage est nécessaire pour dépasser la peur et la défiance, pour résister au désir de se venger des pertes ou des torts subis. Il faut de la magnanimité pour rechercher la réconciliation après des années d’affrontement. Pourtant l’histoire a montré que la paix ne peut advenir que lorsque les parties en conflit sont désireuses d’aller au-delà de leurs griefs et de travailler ensemble pour des buts communs, prenant chacune au sérieux les inquiétudes et les peurs de l’autre et s’efforçant de créer une atmosphère de confiance. Il faut de la bonne volonté pour prendre des initiatives imaginatives et audacieuses en vue de la réconciliation : si chaque partie insiste en priorité sur les concessions que doit faire l’autre, le résultat ne peut être qu’une impasse.

L’aide humanitaire, comme celle qui est fournie dans ce camp, a un rôle essentiel à jouer, mais la solution à long terme à un conflit tel que celui-ci ne peut être que politique. Personne n’attend que les Palestiniens et les Israéliens y parviennent seuls. Le soutien de la communauté internationale est vital, et c’est pourquoi, je lance un nouvel appel à toutes les parties concernées pour jouer de leur influence en faveur d’une solution juste et durable, respectant les requêtes légitimes de toutes les parties et reconnaissant leur droit de vivre dans la paix et la dignité, en accord avec la loi internationale. En même temps, toutefois, les efforts diplomatiques ne pourront aboutir heureusement que si les Palestiniens et les Israéliens ont la volonté de rompre avec le cycle des agressions. Je me rappelle ces autres mots magnifiques attribués à saint François : « Là où il y a la haine, que je mette l’amour, là où il y a l’injure, que je mette le pardon… là où il y a les ténèbres, que je mette la lumière, là où il y a la tristesse, la joie ».

À vous tous, je renouvelle mon appel à vous engager profondément pour cultiver la paix et la non-violence, suivant l’exemple de saint François et des autres grands artisans de paix. La paix doit commencer à la maison, dans la famille, dans le cœur. Je continue de prier pour que toutes les parties du conflit qui se déroule sur ces terres aient le courage et l’imagination nécessaires pour emprunter le difficile mais indispensable chemin de la réconciliation. Puisse la paix fleurir à nouveau sur ces terres ! Puisse Dieu bénir son peuple avec la paix !

martedì 12 maggio 2009


I credenti di tutte le religioni promuovano ciò che li unisce per annunciare insieme al mondo che Dio esiste: così il Papa nell'incontro interreligioso


“Mentre molti sono pronti a indicare le differenze tra le religioni facilmente rilevabili, come credenti o persone religiose noi siamo posti di fronte alla sfida di proclamare con chiarezza ciò che noi abbiamo in comune”: così benedetto XVI nell’ultimo impegno della giornata, l’Incontro con le Organizzazioni per il Dialogo Interreligioso, presso l’Auditorium del “Notre Dame of Jerusalem Centre” di Gerusalemme. “Noi – ha detto il Pontefice - vediamo la possibilità di una unità che non dipende dall’uniformità. Mentre le differenze che analizziamo nel dialogo inter-religioso possono a volte apparire come barriere, tuttavia esse non esigono di oscurare il senso comune di timore riverenziale e di rispetto per l'universale, per l'assoluto e per la verità che spinge le persone religiose innanzitutto a stabilire rapporti l’una con l’altra”. Poi ha aggiunto: “non dobbiamo essere scoraggiati nei nostri sforzi di rendere testimonianza al potere della verità. Insieme possiamo proclamare che Dio esiste e che può essere conosciuto, che la terra è sua creazione, che noi siamo sue creature, e che egli chiama ogni uomo e donna ad uno stile di vita che rispetti il suo disegno per il mondo…Ciascuno di noi qui presenti sa, pure, comunque che la voce di Dio viene udita oggi meno chiaramente, e la ragione stessa in così numerose situazioni è divenuta sorda al divino. E, però, quel “vuoto” non è vuoto di silenzio. Al contrario, è il chiasso di pretese egoistiche, di vuote promesse e di false speranze, che così spesso invadono lo spazio stesso nel quale Dio ci cerca”. E ha così concluso: “Sospinti dall’Onnipotente e illuminati dalla sua verità, possiate voi continuare a camminare con coraggio, rispettando tutto ciò che ci differenzia e promuovendo tutto ciò che ci unisce come creature benedette dal desiderio di portare speranza alle nostre comunità e al mondo. Dio ci guidi su questa strada!”. Ecco il testo integrale del discorso del Papa:

Cari Fratelli Vescovi,
Distinti Capi Religiosi,
Cari Amici,

è motivo di grande gioia per me incontrarvi questa sera. Desidero ringraziare Sua Beatitudine il Patriarca Fouad Twal per le sue gentili parole di benvenuto espresse a nome di tutti i presenti. Ricambio i calorosi sentimenti espressi e cordialmente saluto tutti voi e i membri dei gruppi ed organizzazioni che rappresentate.

“ Il Signore disse ad Abramo, ‘ Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò’... Allora Abramo partì...e prese la moglie Saràh” con sé (Gn 12,1-5). L’irruzione della chiamata di Dio, che segna gli inizi della storia delle tradizioni della nostra fede, venne udita nel mezzo dell’ordinaria esistenza quotidiana dell’uomo. E la storia che ne conseguì fu plasmata, non nell’isolamento, ma attraverso l’incontro con la cultura Egiziana, Hittita, Sumera, Babilonese, Persiana e Greca.

La fede è sempre vissuta in una cultura. La storia della religione ci mostra che una comunità di credenti procede per gradi di fedeltà piena a Dio, prendendo dalla cultura che incontra e plasmandola. Questa stessa dinamica si riscontra in singoli credenti delle tre grandi tradizioni monoteistiche: in sintonia con la voce di Dio, come Abramo, rispondiamo alla sua chiamata e partiamo cercando il compimento delle sue promesse, sforzandoci di obbedire alla sua volontà, tracciando un percorso nella nostra particolare cultura.

Oggi, circa quattro mila anni dopo Abramo, l’incontro di religioni con la cultura si realizza non semplicemente su un piano geografico. Certi aspetti della globalizzazione ed in particolare il mondo dell’internet hanno creato una vasta cultura virtuale il cui valore è tanto vario quanto le sue innumerevoli manifestazioni. Indubbiamente molto è stato realizzato per creare un senso di vicinanza e di unità all'interno dell’universale famiglia umana. Tuttavia, allo stesso tempo, l'uso illimitato di portali attraverso i quali le persone hanno facile accesso a indiscriminate fonti di informazioni può divenire facilmente uno strumento di crescente frammentazione: l’unità della conoscenza viene frantumata e le complesse abilità di critica, discernimento e discriminazione apprese dalle tradizioni accademiche ed etiche sono a volte aggirate o trascurate.

La domanda che poi sorge naturalmente è quale contributo porti la religione alle culture del mondo che contrasti la ricaduta di una così rapida globalizzazione. Mentre molti sono pronti a indicare le differenze tra le religioni facilmente rilevabili, come credenti o persone religiose noi siamo posti di fronte alla sfida di proclamare con chiarezza ciò che noi abbiamo in comune.

Il primo passo di Abramo nella fede, e i nostri passi verso o dalla sinagoga, la chiesa, la moschea o il tempio, percorrono il sentiero della nostra singola storia umana, spianando la strada, potremmo dire, verso l’eterna Gerusalemme (cfr Ap 21,23). Similmente ogni cultura con la sua specifica capacità di dare e ricevere dà espressione all'unica umana natura. Tuttavia, ciò che è proprio dell’individuo non è mai espresso pienamente attraverso la cultura di lui o di lei, ma piuttosto lo trascende nella costante ricerca di qualcosa al di là. Da questa prospettiva, cari Amici, noi vediamo la possibilità di una unità che non dipende dall’uniformità. Mentre le differenze che analizziamo nel dialogo inter-religioso possono a volte apparire come barriere, tuttavia esse non esigono di oscurare il senso comune di timore riverenziale e di rispetto per l'universale, per l'assoluto e per la verità che spinge le persone religiose innanzitutto a stabilire rapporti l’una con l’altra. E’ invece la partecipata convinzione che queste realtà trascendenti hanno la loro fonte nell’Onnipotente e ne portano tracce – quell’Onnipotente che i credenti innalzano l’uno di fronte all’altro, alle nostre organizzazioni, alla nostra società e al nostro mondo. In questo modo, non solo noi possiamo arricchire la cultura ma anche plasmarla: vite di religiosa fedeltà echeggiano l’irrompente presenza di Dio e formano così una cultura non definita dai limiti del tempo o del luogo ma fondamentalmente plasmate dai principi e dalle azioni che provengono dalla fede.

La fede religiosa presuppone la verità. Colui che crede è colui che cerca la verità e vive in base ad essa. Benché il mezzo attraverso il quale noi comprendiamo la scoperta e la comunicazione della verità differisca in parte da religione a religione, non dobbiamo essere scoraggiati nei nostri sforzi di rendere testimonianza al potere della verità. Insieme possiamo proclamare che Dio esiste e che può essere conosciuto, che la terra è sua creazione, che noi siamo sue creature, e che egli chiama ogni uomo e donna ad uno stile di vita che rispetti il suo disegno per il mondo. Amici, se crediamo di avere un criterio di giudizio e di discernimento che è divino nella sua origine e destinato a tutta l’umanità, allora non possiamo stancarci di portare tale conoscenza ad influire sulla vita civile. La verità deve essere offerta a tutti; essa serve a tutti i membri della società. Essa getta luce sulla fondazione della moralità e dell’etica, e permea la ragione con la forza di andare oltre i suoi limiti per dare espressione alle nostre più profonde aspirazioni comuni. Lungi dal minacciare la tolleranza delle differenze o della pluralità culturale, la verità rende il consenso possibile e mantiene ragionevole, onesto e verificabile il pubblico dibattito e apre la strada alla pace. Promuovendo la volontà di essere obbedienti alla verità, di fatto, allarga il nostro concetto di ragione e il suo ambito di applicazione e rende possibile il dialogo genuino delle culture e delle religioni di cui c’è oggi particolarmente bisogno.

Ciascuno di noi qui presenti sa, pure, comunque che la voce di Dio viene udita oggi meno chiaramente, e la ragione stessa in così numerose situazioni è divenuta sorda al divino. E, però, quel “vuoto” non è vuoto di silenzio. Al contrario, è il chiasso di pretese egoistiche, di vuote promesse e di false speranze, che così spesso invadono lo spazio stesso nel quale Dio ci cerca. Possiamo noi allora creare spazi, oasi di pace e di riflessione profonda, in cui si possa nuovamente udire la voce di Dio, in cui la sua verità può essere scoperta all’interno dell’universalità della ragione, in cui ogni individuo, senza distinzione di luogo dove abita, o di gruppo etnico, o di tinta politica, o di credenza religiosa, può essere rispettato come persona, come un essere umano, un proprio simile? In un’epoca di accesso immediato all’informazione e di tendenze sociali che generano una specie di monocultura, la riflessione profonda che contrasti l’allontanamento della presenza di Dio rafforzerà la ragione, stimolerà il genio creativo, faciliterà la valutazione critica delle consuetudini culturali e sosterrà il valore universale della credenza religiosa.

Cari amici, le istituzioni e i gruppi che voi rappresentate s’impegnano nel dialogo interreligioso e nella promozione di iniziative culturali in un vasto ambito di livelli. Dalle istituzioni accademiche – e qui voglio fare speciale menzione delle eccezionali conquiste dell’Università di Betlemme – ai gruppi di genitori in difficoltà, da iniziative mediante la musica e le arti all’esempio coraggioso di madri e padri ordinari, dai gruppi di dialogo alle organizzazioni caritative, voi quotidianamente dimostrate la vostra convinzione che il nostro dovere davanti a Dio non si esprime soltanto nel culto ma anche nell’amore e nella cura per la società, per la cultura, per il nostro mondo e per tutti coloro che vivono in questa terra. Qualcuno vorrebbe che noi crediamo che le nostre differenze sono necessariamente causa di divisione e pertanto al più da tollerarsi. Alcuni addirittura sostengono che le nostre voci devono semplicemente essere ridotte al silenzio. Ma noi sappiamo che le nostre differenze non devono mai essere mal rappresentate come un’inevitabile sorgente di frizione o di tensione sia tra noi stessi sia, più in largo, nella società. Al contrario, esse offrono una splendida opportunità per persone di diverse religioni di vivere insieme in profondo rispetto, stima e apprezzamento, incoraggiandosi reciprocamente nelle vie di Dio. Sospinti dall’Onnipotente e illuminati dalla sua verità, possiate voi continuare a camminare con coraggio, rispettando tutto ciò che ci differenzia e promuovendo tutto ciò che ci unisce come creature benedette dal desiderio di portare speranza alle nostre comunità e al mondo. Dio ci guidi su questa strada!

lunedì 4 maggio 2009

IV Domenica di Pasqua


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
PER LA XLVI GIORNATA MONDIALE
DI PREGHIERA PER LE VOCAZIONI.

3 MAGGIO 2009 - IV DOMENICA DI PASQUA

Tema: «La fiducia nell’iniziativa di Dio e la risposta umana.»

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

In occasione della prossima Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni al sacerdozio ed alla vita consacrata, che sarà celebrata il 3 maggio 2009, Quarta Domenica di Pasqua, mi è gradito invitare l’intero Popolo di Dio a riflettere sul tema: La fiducia nell’iniziativa di Dio e la risposta umana. Risuona perenne nella Chiesa l’esortazione di Gesù ai suoi discepoli: “Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Mt 9,38). Pregate! Il pressante appello del Signore sottolinea come la preghiera per le vocazioni debba essere ininterrotta e fiduciosa. Solamente se animata dalla preghiera infatti, la comunità cristiana può effettivamente “avere maggiore fede e speranza nella iniziativa divina” (Esort. ap. postsinodale Sacramentum caritatis, 26).

La vocazione al sacerdozio e alla vita consacrata costituisce uno speciale dono divino, che si inserisce nel vasto progetto d’amore e di salvezza che Iddio ha su ogni uomo e per 1’intera umanità. L’apostolo Paolo, che ricordiamo in modo speciale durante quest’Anno Paolino nel bimillenario della sua nascita, scrivendo agli Efesini afferma: “Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo, in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,3-4). Nell’universale chiamata alla santità risalta la peculiare iniziativa di Dio, con cui sceglie alcuni perché seguano più da vicino il suo Figlio Gesù Cristo, e di lui siano ministri e testimoni privilegiati. Il divino Maestro chiamò personalmente gli Apostoli “perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,14-15); essi, a loro volta, si sono associati altri discepoli, fedeli collaboratori nel ministero missionario. E così, rispondendo alla chiamata del Signore e docili all’azione dello Spirito Santo, schiere innumerevoli di presbiteri e di persone consacrate, nel corso dei secoli, si sono poste nella Chiesa a totale servizio del Vangelo. Rendiamo grazie al Signore che anche oggi continua a convocare operai per la sua vigna. Se è pur vero che in talune regioni della terra si registra una preoccupante carenza di presbiteri, e che difficoltà e ostacoli accompagnano il cammino della Chiesa, ci sorregge l’incrollabile certezza che a guidarla saldamente nei sentieri del tempo verso il compimento definitivo del Regno è Lui, il Signore, che liberamente sceglie e invita alla sua sequela persone di ogni cultura e di ogni età, secondo gli imperscrutabili disegni del suo amore misericordioso.

Nostro primo dovere è pertanto di mantenere viva, con preghiera incessante, questa invocazione dell’iniziativa divina nelle famiglie e nelle parrocchie, nei movimenti e nelle associazioni impegnati nell’apostolato, nelle comunità religiose e in tutte le articolazioni della vita diocesana. Dobbiamo pregare perché 1’intero popolo cristiano cresca nella fiducia in Dio, persuaso che il “padrone della messe” non cessa di chiedere ad alcuni di impegnare liberamente la loro esistenza per collaborare con lui più strettamente nell’opera della salvezza. E da parte di quanti sono chiamati si esige attento ascolto e prudente discernimento, generosa e pronta adesione al progetto divino, serio approfondimento di ciò che è proprio della vocazione sacerdotale e religiosa per corrispondervi in modo responsabile e convinto. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ricorda opportunamente che la libera iniziativa di Dio richiede la libera risposta dell’uomo. Una risposta positiva che presuppone sempre 1’accettazione e la condivisione del progetto che Dio ha su ciascuno; una risposta che accolga 1’iniziativa d’amore del Signore e diventi per chi è chiamato un’esigenza morale vincolante, un riconoscente omaggio a Dio e una totale cooperazione al piano che Egli persegue nella storia (cfr n. 2062).

Contemplando il mistero eucaristico, che esprime in modo sommo il libero dono fatto dal Padre nella Persona del Figlio Unigenito per la salvezza degli uomini, e la piena e docile disponibilità di Cristo nel bere fino in fondo il “calice” della volontà di Dio (cfr Mt 26,39), comprendiamo meglio come “la fiducia nell’iniziativa di Dio” modelli e dia valore alla “risposta umana”. Nell’Eucaristia, il dono perfetto che realizza il progetto d’amore per la redenzione del mondo, Gesù si immola liberamente per la salvezza dell’umanità. “La Chiesa - ha scritto il mio amato predecessore Giovanni Paolo II - ha ricevuto l’Eucaristia da Cristo suo Signore non come un dono, pur prezioso fra tanti altri, ma come il dono per eccellenza, perché dono di se stesso, della sua persona nella sua santa umanità, nonché della sua opera di salvezza” (Enc. Ecclesia de Eucharistia, 11).

A perpetuare questo mistero salvifico nei secoli, sino al ritorno glorioso del Signore, sono destinati i presbiteri, che proprio in Cristo eucaristico possono contemplare il modello esimio di un “dialogo vocazionale” tra la libera iniziativa del Padre e la fiduciosa risposta del Cristo. Nella celebrazione eucaristica è Cristo stesso che agisce in coloro che Egli sceglie come suoi ministri; li sostiene perché la loro risposta si sviluppi in una dimensione di fiducia e di gratitudine che dirada ogni paura, anche quando si fa più forte 1’esperienza della propria debolezza (cfr Rm 8,26-30), o si fa più aspro il contesto di incomprensione o addirittura di persecuzione (cfr Rm 8,35-39).

La consapevolezza di essere salvati dall’amore di Cristo, che ogni Santa Messa alimenta nei credenti e specialmente nei sacerdoti, non può non suscitare in essi un fiducioso abbandono in Cristo che ha dato la vita per noi. Credere nel Signore ed accettare il suo dono, porta dunque ad affidarsi a Lui con animo grato aderendo al suo progetto salvifico. Se questo avviene, il “chiamato” abbandona volentieri tutto e si pone alla scuola del divino Maestro; ha inizio allora un fecondo dialogo tra Dio e l’uomo, un misterioso incontro tra l’amore del Signore che chiama e la libertà dell’uomo che nell’amore gli risponde, sentendo risuonare nel suo animo le parole di Gesù: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16).

Questo intreccio d’amore tra l’iniziativa divina e la risposta umana è presente pure, in maniera mirabile, nella vocazione alla vita consacrata. Ricorda il Concilio Vaticano II: “I consigli evangelici della castità consacrata a Dio, della povertà e dell’obbedienza, essendo fondati sulle parole e sugli esempi del Signore, e raccomandati dagli Apostoli, dai Padri, dai dottori e dai pastori della Chiesa, sono un dono divino, che la Chiesa ha ricevuto dal suo Signore e con la sua grazia sempre conserva” (Cost. Lumen gentium, 43). Ancora una volta, è Gesù il modello esemplare di totale e fiduciosa adesione alla volontà del Padre, a cui ogni persona consacrata deve guardare. Attratti da lui, fin dai primi secoli del cristianesimo, molti uomini e donne hanno abbandonato famiglia, possedimenti, ricchezze materiali e tutto quello che umanamente è desiderabile, per seguire generosamente il Cristo e vivere senza compromessi il suo Vangelo, diventato per essi scuola di radicale santità. Anche oggi molti percorrono questo stesso esigente itinerario di perfezione evangelica, e realizzano la loro vocazione con la professione dei consigli evangelici. La testimonianza di questi nostri fratelli e sorelle, nei monasteri di vita contemplativa come negli istituti e nelle congregazioni di vita apostolica, ricorda al popolo di Dio “quel mistero del Regno di Dio che già opera nella storia, ma attende la sua piena attuazione nei cieli” (Esort. ap. postsinodale Vita consecrata, 1).

Chi può ritenersi degno di accedere al ministero sacerdotale? Chi può abbracciare la vita consacrata contando solo sulle sue umane risorse? Ancora una volta, è utile ribadire che la risposta dell’uomo alla chiamata divina, quando si è consapevoli che è Dio a prendere l’iniziativa ed è ancora lui a portare a termine il suo progetto salvifico, non si riveste mai del calcolo timoroso del servo pigro che per paura nascose sotto terra il talento affidatogli (cfr Mt 25,14-30), ma si esprime in una pronta adesione all’invito del Signore, come fece Pietro quando non esitò a gettare nuovamente le reti pur avendo faticato tutta la notte senza prendere nulla, fidandosi della sua parola (cfr Lc 5,5). Senza abdicare affatto alla responsabilità personale, la libera risposta dell’uomo a Dio diviene così “corresponsabilità”, responsabilità in e con Cristo, in forza dell’azione del suo Santo Spirito; diventa comunione con Colui che ci rende capaci di portare molto frutto (cfr Gv 15,5).

Emblematica risposta umana, colma di fiducia nell’iniziativa di Dio, è l’“Amen” generoso e pieno della Vergine di Nazaret, pronunciato con umile e decisa adesione ai disegni dell’Altissimo, a Lei comunicati dal messo celeste (cfr Lc 1,38). Il suo pronto “si” permise a Lei di diventare la Madre di Dio, la Madre del nostro Salvatore. Maria, dopo questo primo “fiat”, tante altre volte dovette ripeterlo, sino al momento culminante della crocifissione di Gesù, quando “stava presso la croce”, come annota l’evangelista Giovanni, compartecipe dell’atroce dolore del suo Figlio innocente. E proprio dalla croce, Gesù morente ce l’ha data come Madre ed a Lei ci ha affidati come figli (cfr Gv 19,26-27), Madre specialmente dei sacerdoti e delle persone consacrate. A Lei vorrei affidare quanti avvertono la chiamata di Dio a porsi in cammino nella via del sacerdozio ministeriale o nella vita consacrata.

Cari amici, non scoraggiatevi di fronte alle difficoltà e ai dubbi; fidatevi di Dio e seguite fedelmente Gesù e sarete i testimoni della gioia che scaturisce dall’unione intima con lui. Ad imitazione della Vergine Maria, che le generazioni proclamano beata perché ha creduto (cfr Lc 1,48), impegnatevi con ogni energia spirituale a realizzare il progetto salvifico del Padre celeste, coltivando nel vostro cuore, come Lei, la capacità di stupirvi e di adorare Colui che ha il potere di fare “grandi cose” perché Santo è il suo nome (cfr ibid., 1,49).


OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

Secondo una bella consuetudine, la Domenica "del Buon Pastore" vede riuniti il Vescovo di Roma e il suo presbiterio per le Ordinazioni dei nuovi sacerdoti della Diocesi. Questo è ogni volta un grande dono di Dio; è sua grazia! Risvegliamo pertanto in noi un sentimento profondo di fede e di riconoscenza nel vivere l’odierna celebrazione. E in questo clima mi è caro salutare il Cardinale Vicario Agostino Vallini, i Vescovi Ausiliari, gli altri Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, e con speciale affetto voi, cari Diaconi candidati al presbiterato, insieme con i vostri familiari e amici. La Parola di Dio che abbiamo ascoltato ci offre abbondanti spunti di meditazione: ne raccoglierò alcuni, perché essa possa gettare una luce indelebile sul cammino della vostra vita e sul vostro ministero.

"Questo Gesù è la pietra … non vi è altro nome nel quale siamo salvati" (At 4,11-12). Nel brano degli Atti degli Apostoli – la prima lettura – colpisce e fa riflettere questa singolare "omonimia" tra Pietro e Gesù: Pietro, il quale ha ricevuto il suo nuovo nome da Gesù stesso, qui afferma che è Lui, Gesù, "la pietra". In effetti, l’unica vera roccia è Gesù. L’unico nome che salva è il suo. L’apostolo, e quindi il sacerdote, riceve il proprio "nome", cioè la propria identità, da Cristo. Tutto ciò che fa, lo fa in nome suo. Il suo "io" diventa totalmente relativo all’"io" di Gesù. Nel nome di Cristo, e non certo nel proprio nome, l’apostolo può compiere gesti di guarigione dei fratelli, può aiutare gli "infermi" a risollevarsi e riprendere a camminare (cfr At 4,10). Nel caso di Pietro, il miracolo poco prima compiuto rende questo particolarmente evidente. E anche il riferimento a ciò che dice il Salmo è essenziale: "la pietra scartata dai costruttori / è divenuta la pietra d’angolo" (Sal 117[118],22). Gesù è stato "scartato", ma il Padre l’ha prediletto e l’ha posto a fondamento del tempio della Nuova Alleanza. Così l’apostolo, come il sacerdote, sperimenta a sua volta la croce, e solo attraverso di essa diventa veramente utile per la costruzione della Chiesa. Dio ama costruire la sua Chiesa con persone che, seguendo Gesù, ripongono tutta la propria fiducia in Dio, come dice lo stesso Salmo: "E’ meglio rifugiarsi nel Signore / che confidare nell’uomo. / E’ meglio rifugiarsi nel Signore / che confidare nei potenti" (vv. 8-9).

Al discepolo tocca la medesima sorte del Maestro, che in ultima istanza è la sorte scritta nella volontà stessa di Dio Padre! Gesù lo confessò alla fine della sua vita, nella grande preghiera detta "sacerdotale": "Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto" (Gv 17,25). Anche in precedenza l’aveva affermato: "Nessuno conosce il Padre se non il Figlio" (Mt 11,27). Gesù ha sperimentato su di sé il rifiuto di Dio da parte del mondo, l’incomprensione, l’indifferenza, lo sfiguramento del volto di Dio. E Gesù ha passato il "testimone" ai discepoli: "Io – confida ancora nella preghiera al Padre – ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro" (Gv 17,26). Perciò il discepolo – e specialmente l’apostolo – sperimenta la stessa gioia di Gesù, di conoscere il nome e il volto del Padre; e condivide anche il suo stesso dolore, di vedere che Dio non è conosciuto, che il suo amore non è ricambiato. Da una parte esclamiamo, come Giovanni nella sua prima Lettera: "Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!"; e dall’altra con amarezza constatiamo: "Per questo il mondo non ci riconosce: perché non ha conosciuto lui" (1 Gv 3,1). E’ vero, e noi sacerdoti ne facciamo esperienza: il "mondo" – nell’accezione giovannea del termine – non capisce il cristiano, non capisce i ministri del Vangelo. Un po’ perché di fatto non conosce Dio, e un po’ perché non vuole conoscerlo. Il mondo non vuole conoscere Dio e ascoltare i suoi ministri, perché questo lo metterebbe in crisi.

Qui bisogna fare attenzione a una realtà di fatto: che questo "mondo", sempre nel senso evangelico, insidia anche la Chiesa, contagiando i suoi membri e gli stessi ministri ordinati. Il "mondo" è una mentalità, una maniera di pensare e di vivere che può inquinare anche la Chiesa, e di fatto la inquina, e dunque richiede costante vigilanza e purificazione. Finché Dio non si sarà pienamente manifestato, anche i suoi figli non sono ancora pienamente "simili a Lui" (1 Gv 3,2). Siamo "nel" mondo, e rischiamo di essere anche "del" mondo. E di fatto a volte lo siamo. Per questo Gesù alla fine non ha pregato per il mondo, ma per i suoi discepoli, perché il Padre li custodisse dal maligno ed essi fossero liberi e diversi dal mondo, pur vivendo nel mondo (cfr Gv 17,9.15). In quel momento, al termine dell’Ultima Cena, Gesù ha elevato al Padre la preghiera di consacrazione per gli apostoli e per tutti i sacerdoti di ogni tempo, quando ha detto: "Consacrali nella verità" (Gv 17,17). E ha aggiunto: "per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità" (Gv 17,19). Mi sono soffermato su queste parole di Gesù nell’omelia della Messa Crismale, lo scorso Giovedì Santo. Oggi mi ricollego a tale riflessione facendo riferimento al Vangelo del Buon Pastore, dove Gesù dichiara: "Io do la mia vita per le pecore" (cfr Gv 10,15.17.18).

Diventare sacerdoti, nella Chiesa, significa entrare in questa auto-donazione di Cristo, mediante il Sacramento dell’Ordine, ed entrarvi con tutto se stessi. Gesù ha dato la vita per tutti, ma in modo particolare si è consacrato per quelli che il Padre gli aveva dato, perché fossero consacrati nella verità, cioè in Lui, e potessero parlare ed agire in nome suo, rappresentarlo, prolungare i suoi gesti salvifici: spezzare il Pane della vita e rimettere i peccati. Così, il Buon Pastore ha offerto la sua vita per tutte le pecore, ma l’ha donata e la dona in modo speciale a quelle che Egli stesso, "con affetto di predilezione", ha chiamato e chiama a seguirlo nella via del servizio pastorale. In maniera singolare, poi, Gesù ha pregato per Simon Pietro, e si è sacrificato per lui, perché doveva dirgli un giorno, sulle rive del lago di Tiberiade: "Pasci le mie pecore" (Gv 21,16-17). Analogamente, ogni sacerdote è destinatario di una personale preghiera di Cristo, e del suo stesso sacrificio, e solo in quanto tale è abilitato a collaborare con Lui nel pascere il gregge che è tutto e solo del Signore.

Qui vorrei toccare un punto che mi sta particolarmente a cuore: la preghiera e il suo legame con il servizio. Abbiamo visto che essere ordinati sacerdoti significa entrare in modo sacramentale ed esistenziale nella preghiera di Cristo per i "suoi". Da qui deriva per noi presbiteri una particolare vocazione alla preghiera, in senso fortemente cristocentrico: siamo chiamati, cioè, a "rimanere" in Cristo – come ama ripetere l’evangelista Giovanni (cfr Gv 1,35-39; 15,4-10) –, e questo si realizza particolarmente nella preghiera. Il nostro ministero è totalmente legato a questo "rimanere" che equivale a pregare, e deriva da esso la sua efficacia. In tale prospettiva dobbiamo pensare alle diverse forme della preghiera di un prete, prima di tutto alla santa Messa quotidiana. La celebrazione eucaristica è il più grande e il più alto atto di preghiera, e costituisce il centro e la fonte da cui anche le altre forme ricevono la "linfa": la Liturgia delle ore, l’adorazione eucaristica, la lectio divina, il santo Rosario, la meditazione. Tutte queste espressioni di preghiera, che hanno il loro centro nell’Eucaristia, fanno sì che nella giornata del prete, e in tutta la sua vita, si realizzi la parola di Gesù: "Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore" (Gv 10,14-15). Infatti, questo "conoscere" ed "essere conosciuti" in Cristo e, mediante Lui, nella Santissima Trinità, non è altro che la realtà più vera e più profonda della preghiera. Il sacerdote che prega molto, e che prega bene, viene progressivamente espropriato di sé e sempre più unito a Gesù Buon Pastore e Servo dei fratelli. In conformità a Lui, anche il prete "dà la vita" per le pecore che gli sono affidate. Nessuno gliela toglie: la offre da se stesso, in unione con Cristo Signore, il quale ha il potere di dare la sua vita e il potere di riprenderla non solo per sé, ma anche per i suoi amici, legati a Lui dal Sacramento dell’Ordine. Così la stessa vita di Cristo, Agnello e Pastore, viene comunicata a tutto il gregge, mediante i ministri consacrati.

Cari Diaconi, lo Spirito Santo imprima questa divina Parola, che ho brevemente commentato, nei vostri cuori, perché porti frutti abbondanti e duraturi. Lo chiediamo per intercessione dei santi apostoli Pietro e Paolo e di san Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars, al cui patrocinio ho intitolato il prossimo Anno Sacerdotale. Ve lo ottenga la Madre del Buon Pastore, Maria Santissima. In ogni circostanza della vostra vita, guardate a Lei, stella del vostro sacerdozio. Come ai servi alle nozze di Cana, anche a voi Maria ripete: "Qualsiasi cosa vi dica, fatela" (Gv 2,5). Alla scuola della Vergine, siate sempre uomini di preghiera e di servizio, per diventare, nel fedele esercizio del vostro ministero, sacerdoti santi secondo il cuore di Dio.