mercoledì 31 dicembre 2008

Buon Anno!



Lettera Orationis formas su alcuni aspetti della meditazione cristiana.
In molti cristiani del nostro tempo è vivo il desiderio di imparare a pregare in modo autentico e approfondito, nonostante le non poche difficoltà che la cultura moderna pone all'avvertita esigenza di silenzio, di raccoglimento e di meditazione...

1 INTRODUZIONE

1. In molti cristiani del nostro tempo è vivo il desiderio di imparare a pregare in modo autentico e approfondito, nonostante le non poche difficoltà che la cultura moderna pone all'avvertita esigenza di silenzio, di raccoglimento e di meditazione. L'interesse a forme di meditazione connesse ad alcune religioni orientali ed ai loro peculiari modi di preghiera in questi anni hanno suscitato anche tra i cristiani è un segno non piccolo di tale bisogno di raccoglimento spirituale e di profondo contatto col mistero divino. Di fronte a questo fenomeno, tuttavia, da molte parti è sentita pure la necessità di poter disporre di sicuri criteri di carattere dottrinale e pastorale che consentano di educare alla preghiera, nelle sue molteplici manifestazioni, restando nella luce della verità rivelatasi in Gesù, tramite la genuina tradizione della chiesa. A tale urgenza intende rispondere la presente lettera, affinché nelle varie chiese particolari, la pluralità di forme, anche nuove, di preghiera non ne faccia mai perdere di vista la precisa natura, personale e comunitaria. Queste indicazioni sono rivolte anzitutto ai vescovi perché le rendano oggetto di sollecitudine pastorale verso le chiese loro affidate, così che tutto il popolo di Dio - sacerdoti, religiosi e laici - sia richiamato a pregare, con rinnovato vigore, il Padre mediante lo Spirito di Cristo nostro Signore.

2. Il contatto sempre più frequente con altre religioni e con i loro differenti stili e metodi di preghiera, ha condotto negli ultimi decenni molti fedeli ad interrogarsi sul valore che possono avere per i cristiani forme non cristiane di meditazione. La questione riguarda soprattutto i metodi orientali1. C'è chi si rivolge oggi a tali metodi per motivi terapeutici: l'irrequietezza spirituale di una vita sottoposta al ritmo assillante della società tecnologicamente avanzata spinge anche un certo numero di cristiani a cercare in essi la via della calma interiore e dell'equilibrio psichico. Quest'aspetto psicologico non sarà considerato nella presente lettera, che intende invece evidenziare le implicazioni teologiche e spirituali della questione. Altri cristiani, sulla scia del movimento d'apertura e di scambio con religioni e culture diverse, sono e parere che la loro stessa preghiera abbia molto da guadagnare da tali metodi. Rilevando che, in tempi recenti, non pochi metodi tradizionali di meditazione, peculiari del cristianesimo, sono caduti in disuso, costoro si chiedono: non sarebbe allora possibile, attraverso una nuova educazione alla preghiera, arricchire la nostra eredità incorporandovi anche ciò che le era finora estraneo.

3. Per rispondere a questa domanda, occorre anzitutto considerare, sia pure a grandi linee, in che cosa consista la natura intima della preghiera cristiana, per vedere in seguito se e come possa essere arricchita da metodi di meditazione nati nel contesto di religioni e culture diverse. E' necessario a tale scopo formulare una decisiva premessa. La preghiera cristiana è sempre determinata dalla struttura della fede cristiana, nella quale risplende la verità stessa di Dio e della creatura. Per questo essa si configura, propriamente parlando, come un dialogo personale, intimo e profondo, tra l'uomo e Dio. Essa esprime quindi la comunione delle creature redente con la vita intima delle Persone trinitarie. In questa comunione, che si fonda sul battesimo e sull'eucaristia, fonte e culmine della vita della chiesa, è implicato un atteggiamento di conversione, un esodo dall'io verso il tu di Dio. La preghiera cristiana, quindi, è sempre allo stesso tempo autenticamente personale e comunitaria. Rifugge da tecniche impersonali o incentrate sull'io, capaci di produrre automatismi nei quali l'orante resta prigioniero di uno spiritualismo intimista, incapace di un'apertura libera al Dio trascendente. Nella chiesa la legittima ricerca di nuovi metodi di meditazione dovrà sempre tenere conto che a una preghiera autenticamente cristiana è essenziale l'incontro di due libertà, quella infinita di Dio con quella finita dell'uomo.

2 LA PREGHIERA CRISTIANA

ALLA LUCE DELLA RIVELAZIONE

4. Come debba pregare l'uomo che accoglie la rivelazione biblica, lo insegna la Bibbia stessa. Nell'Antico Testamento c'è una meravigliosa raccolta di preghiere, rimasta viva lungo i secoli anche nella chiesa di Gesù Cristo, nella quale essa è diventata la base della preghiera ufficiale: il libro delle Lodi o dei Salmi2. Preghiere del tipo dei salmi si trovano già in testi più antichi o vengono riecheggiate in testi più recenti dell'Antico Testamento3. Le preghiere del libro dei Salmi narrano anzitutto le grandi opere di Dio per il popolo eletto. Israele medita, contempla e rende di nuovo presenti le meraviglie di Dio, facendone memoria attraverso la preghiera.

Nella rivelazione biblica Israele giunge a riconoscere e lodare Dio, presente in tutta la creazione e nel destino di ogni uomo. Cosi lo invoca, ad esempio, come soccorritore nel pericolo, nella malattia, nella persecuzione, nella tribolazione. Infine, sempre alla luce delle sue opere salvifiche, egli viene celebrato nella sua divina potenza e bontà, nella sua giustizia e misericordia, nella sua regale grandezza.

5. Grazie alle parole, alle opere, alla passione e risurrezione di Gesù Cristo, nel Nuovo Testamento la fede riconosce in lui la definitiva autorivelazione di Dio, la Parola incarnata che svela le profondità più intime del suo amore. È lo Spirito santo che fa penetrare in queste profondità di Dio, lui che, inviato nel cuore dei credenti, "scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio" (1Cor 2,10). Lo Spirito, secondo la promessa di Gesù ai discepoli, spiegherà tutto ciò che egli non poteva ancora dire loro. Però lo Spirito "non parlerà da sé, ... ma mi glorificherà perché prenderà dei mio e ve lo annunzierà" (Gv 16,13s). Quello che Gesù chiama qui "suo" è, come spiega in seguito, anche di Dio Padre, perché "tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve lo annunzierà" (Gv 16,15).

Gli autori del Nuovo Testamento, con piena consapevolezza, hanno sempre parlato della rivelazione di Dio in Cristo all'interno di una visione illuminata dallo Spirito santo. I Vangeli sinottici narrano le opere e le parole di Gesù Cristo in base alla comprensione più profonda, acquisita dopo la pasqua, di ciò che i discepoli avevano visto e udito; tutto il Vangelo di Giovanni respira della contemplazione di colui che fin dall'inizio è il Verbo di Dio fatto carne; Paolo, al quale Gesù è apparso sulla via di Damasco nella sua maestà divina, tenta di educare i fedeli perché siano "in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità [del mistero di Cristo] e conoscere l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, per essere ricolmi di tutta la pienezza di Dio" (Ef 3,18s). Per Paolo il "mistero di Dio è Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza" (Col 2,3) e - precisa l'apostolo - "Dico questo perché nessuno vi inganni con argomenti seducenti" (v. 4).

6. Esiste quindi uno stretto rapporto fra la rivelazione e la preghiera. La costituzione dogmatica Dei verbum ci insegna che mediante la sua rivelazione Dio invisibile "nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (Cf. Es 33,11; Gv 15,14-15) e si intrattiene con essi (Cf. Bar 3,38), per invitarli e ammetterli alla comunione con Sé"4.

Questa rivelazione si è attuata attraverso parole e opere che rinviano sempre, reciprocamente, le une alle altre; fin dall'inizio e di continuo tutto converge verso Cristo, pienezza della rivelazione e della grazia, e verso il dono dello Spirito santo. Questi rende l'uomo capace di accogliere e contemplare le parole e le opere di Dio e di ringraziarlo e adorarlo, nell'assemblea dei fedeli e nell'intimità del proprio cuore illuminato dalla grazia.

Per questo la chiesa raccomanda sempre la lettura della parola di Dio come sorgente della preghiera cristiana, e allo stesso tempo esorta a scoprire il senso profondo della sacra Scrittura mediante la preghiera "affinché possa svolgersi il colloquio tra Dio e l'uomo; poiché "gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini""5.

7. Da quanto è stato ricordato derivano subito alcune conseguenze. Se la preghiera del cristiano deve inserirsi nel movimento trinitario di Dio, il suo contenuto essenziale dovrà necessariamente essere anche determinato dalla duplice direzione di tale movimento: nello Spirito santo il Figlio viene nel mondo per riconciliarlo con il Padre attraverso le sue opere e le sue sofferenze; d'altra parte, nello stesso movimento e nel medesimo Spirito, il Figlio incarnato ritorna al Padre, compiendo la sua volontà mediante la e la risurrezione. Il Padre nostro, la preghiera di Gesù, indica chiaramente l'unità di questo movimento: la volontà del Padre deve realizzarsi sulla terra come in cielo (le richieste di pane, di perdono, di protezione esplicitano le dimensioni fondamentali della volontà di Dio verso di noi) affinché una nuova terra viva e si sviluppi nella Gerusalemme celeste.

È alla chiesa che la preghiera di Gesù6 viene consegnata ("così voi dovete pregare", Mt 6,9) e per questo la preghiera cristiana, anche quando avviene nella solitudine, in realtà è sempre all'interno di quella "comunione dei santi" nella quale e con la quale si prega, tanto in forma pubblica e liturgica quanto in forma privata. Pertanto, essa deve compiersi sempre nello spirito autentico della chiesa in preghiera e quindi sotto la sua guida, che può concretizzarsi talvolta in una direzione spirituale sperimentata. Il cristiano, anche quando è solo e prega nel segreto, ha la consapevolezza di pregare sempre in unione con Cristo, nello Spirito santo, insieme con tutti i santi per il bene della chiesa7.

3 MODI ERRONEI DI PREGARE

8. Già nei primi secoli s'insinuarono nella chiesa modi erronei di pregare, dì cui già alcuni testi del Nuovo Testamento (Cf. lGv 4,3; 1Tm 1,3-7 e 4,3-4) fanno riconoscere le tracce. In seguito si possono rilevare due deviazioni fondamentali: la pseudognosi e il messalianismo, di cui si sono occupati i padri della chiesa. Da quella primitiva esperienza cristiana e dall'atteggiamento dei padri si può imparare molto per affrontare la problematica contemporanea.

Contro la deviazione della pseudognosi8 i padri affermano che la materia è creata da Dio e come tale non è cattiva. Inoltre sostengono che la grazia, la cui sorgente è sempre lo Spirito santo, non è un bene proprio dell'anima, ma dev'essere impetrata da Dio come dono. Perciò l'illuminazione o conoscenza superiore dello Spirito ("gnosi") non rende superflua la fede cristiana. Infine, per i padri, il segno autentico di una conoscenza superiore, frutto della preghiera, è sempre l'amore cristiano.

9. Se la perfezione della preghiera cristiana non può essere valutata in base alla sublimità della conoscenza gnostica, non può esserlo neppure in riferimento all'esperienza del divino, alla maniera del messalianismo9. I falsi carismatici del IV secolo identificavano la grazia dello Spirito santo con l'esperienza psicologica della sua presenza nell'anima. Contro di essi i padri insistettero sul fatto che l'unione dell'anima orante con Dio si compie nel mistero, in particolare attraverso i sacramenti della chiesa. Essa può inoltre realizzarsi perfino attraverso esperienze di afflizione e anche di desolazione. Contrariamente all'opinione dei messaliani, queste non sono necessariamente un segno che lo Spirito ha abbandonato l'anima. Come hanno sempre chiaramente riconosciuto i maestri spirituali, possono invece essere un'autentica partecipazione allo stato di abbandono di nostro Signore sulla croce, il quale resta sempre modello e mediatore della preghiera10.

10. Tutte e due queste forme di errore continuano a essere una tentazione per l'uomo peccatore. Lo istigano a cercare di superare la distanza che separa la creatura dal Creatore, come qualcosa che non dovrebbe esserci; a considerare il cammino di Cristo sulla terra, con il quale egli ci vuole condurre al Padre, come realtà superata; ad abbassare ciò che viene accordato come pura grazia al livello della psicologia naturale, come "conoscenza superiore" o come "esperienza".

Riapparse di tanto in tanto nella storia ai margini della preghiera della chiesa, tali forme erronee oggi sembrano impressionare nuovamente molti cristiani, raccomandandosi loro come rimedio, sia psicologico che spirituale, e come rapido procedimento per trovare Dio11.

11. Ma queste forme erronee, dovunque sorgano, possono essere diagnosticate in maniera molto semplice. La meditazione cristiana orante cerca di cogliere nelle opere salvifiche di Dio in Cristo, Verbo incarnato, e nel dono del suo Spirito la profondità divina, che vi si rivela sempre attraverso la dimensione umano-terrena. Invece, in simili metodi di meditazione, anche quando si prende lo spunto da parole e opere di Gesù, si cerca di prescindere il più possibile da ciò che è terreno, sensibile e concettualmente limitato, per salire o immergersi nella sfera del divino, che in quanto tale non è né terrestre, né sensibile, né concettualízzabile12.

Questa tendenza, presente già nella tarda religiosità greca (soprattutto nel "neoplatonismo"), si riscontra, in fondo, nell'ispirazione religiosa di molti popoli, non appena essi abbiano riconosciuto il carattere precario delle loro rappresentazioni del divino e dei loro tentativi di avvicinarvisi.

12. Con l'attuale diffusione dei metodi orientali di meditazione nel mondo cristiano e nelle comunità ecclesiali, ci troviamo di fronte ad un acuto rinnovarsi del tentativo, non esente da rischi ed errori, di fondere la meditazione cristiana con quella non cristiana. Le proposte in questo senso sono numerose e più o meno radicali: alcune utilizzano metodi orientali solo ai fini di una preparazione psicofisica per una contemplazione realmente cristiana; altre vanno oltre e cercano dì generare, con diverse tecniche, esperienze spirituali analoghe a quelle di cui si parla in scritti di certi mistici cattolici13; altre ancora non temono di collocare quell'assoluto senza immagini e concetti, proprio della teoria buddista14, sullo stesso piano della maestà di Dio, rivelata in Cristo, che si eleva al di sopra della realtà finita e, a tal fine, sì servono di una "teologia negativa" che trascende ogni affermazione contenutistica su Dio, negando che le cose del mondo possono essere una traccia che rinvia all'infinità di Dio. Per questo propongono di abbandonare non solo la meditazione delle opere salvifiche che il Dio dell'antica e della nuova alleanza ha compiuto nella storia, ma anche l'idea stessa del Dio uno e trino, che è amore, in favore di un'immersione "nell'abisso indeterminato della divinità"15.

Queste proposte o altre analoghe di armonizzazione tra meditazione cristiana e tecniche orientali dovranno essere continuamente vagliate con accurato discernimento di contenuti e di metodo, per evitare la caduta in un pernicioso sincretismo.

4 LA VIA CRISTIANA DELL'UNIONE CON DIO

13. Per trovare la giusta "via" della preghiera, il cristiano considererà ciò che è stato precedentemente detto a proposito dei tratti salienti della via di Cristo, il cui "cibo è fare la volontà di colui che (lo) ha mandato a compiere la sua opera" (Gv 4,34). Gesù non vive con il Padre un'unione più intima e più stretta di questa, che per lui si traduce continuamente in una profonda preghiera. La volontà del Padre lo invia agli uomini, ai peccatori, addirittura ai suoi uccisori ed egli non può essere più intimamente unito al Padre che obbedendo a questa volontà. Ciò non impedisce in alcun modo che nel cammino terreno egli si ritiri anche nella solitudine per pregare, per unirsi al Padre e ricevere da lui nuovo vigore per la sua missione nel mondo. Sul Tabor, dove certamente egli è unito al Padre in maniera manifesta, viene evocata la sua passione (Cf. Lc 9,3 1) e non viene neppure presa in considerazione la possibilità di permanere in "tre tende" sul monte della trasfigurazione. Ogni preghiera contemplativa cristiana rinvia continuamente all'amore del prossimo, all'azione e alla passione, e proprio così avvicina maggiormente a Dio.

14. Per accostarsi a quel mistero dell'unione con Dio, che i padri greci chiamavano divinizzazione dell'uomo, e per cogliere con precisione le modalità secondo cui essa si compie, occorre tenere presente anzitutto che l'uomo è essenzialmente creatura16, e tale rimane in eterno, cosicché non sarà mai possibile un assorbimento dell'io umano nell'io divino, neanche nei più alti stati di grazia. Si deve però riconoscere che la persona umana è creata "ad immagine e somiglianza" di Dio, e l'archetipo di questa immagine è il Figlio di Dio, nel quale e per il quale siamo stati creati (Cf. Col 1,16). Ora questo archetipo ci svela il più grande e il più bel mistero cristiano: il Figlio è dall'eternità "altro" rispetto al Padre e tuttavia, nello Spirito santo, è "della stessa sostanza"; di conseguenza, il fatto che ci sia un'alterità non è un male, ma piuttosto il massimo dei beni. C'è alterità in Dio stesso, che è una sola natura in tre persone, e c'è alterità tra Dio e la creatura, che sono per natura differenti. Infine, nella santa eucaristia, come anche negli altri sacramenti - e analogamente nelle sue opere e nelle sue parole - Cristo ci dona se stesso e ci rende partecipi della sua natura divina17,senza per altro sopprimere la nostra natura creata, alla quale egli stesso partecipa con la sua incarnazione.

15. Se si considerano insieme queste verità, si scopre, con profonda meraviglia, che nella realtà cristiana vengono adempiute, oltre ogni misura, tutte le aspirazioni presenti nella preghiera delle altre religioni, senza che con questo l'io personale e la sua creaturalità debbano essere annullati e scomparire nel mare dell'Assoluto. "Dio è amore" (1Gv 4,8): questa affermazione profondamente cristiana può conciliare l'unione perfetta con l'alterità tra amante e amato, con l'eterno scambio e l'eterno dialogo. Dio stesso è questo eterno scambio, e noi possiamo in piena verità diventare partecipi di Cristo, quali "figli adottivi", e gridare con il Figlio nello Spirito santo "Abbà, Padre". In questo senso, i padri hanno pienamente ragione di parlare di divinizzazione dell'uomo che, incorporato a Cristo Figlio di Dio per natura, diventa per la sua grazia partecipe della natura divina, "figlio nel Figlio". Il cristiano, ricevendo lo Spirito santo, glorifica il Padre e partecipa realmente alla vita trinitaria di Dio.

5 QUESTIONI DI METODO

16. La maggior parte delle grandi religioni che hanno cercato l'unione con Dio nella preghiera, hanno anche indicato le vie per conseguirla. Siccome "la chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni"18, non si dovranno disprezzare pregiudizialmente queste indicazioni in quanto non cristiane. Si potrà, al contrario, cogliere da esse ciò che vi è di utile, a condizione di non perdere mai di vista la concezione cristiana della preghiera, la sua logica e le sue esigenze, poiché è all'interno di questa totalità che quei frammenti dovranno essere riformulati ed assunti. Tra di essi si può annoverare anzitutto l'umile accettazione di un maestro esperto nella vita di preghiera e delle sue direttive; di ciò si è sempre avuto consapevolezza nell'esperienza cristiana sin dai tempi antichi, dall'epoca dei padri del deserto. Questo maestro, esperto nel "sentire cum ecclesia", deve non solo guidare e richiamare l'attenzione su certi pericoli, ma, quale "padre spirituale", deve anche introdurre in maniera viva, da cuore a cuore, nella vita di preghiera, che è dono dello Spirito santo.

17. La tarda classicità non cristiana distingueva volentieri tre stadi nella vita di perfezione: la via della purificazione, dell'illuminazione e dell'unione. Questa dottrina è servita da modello per molte scuole di spiritualità cristiana. Questo schema, in se stesso valido, necessita tuttavia di alcune precisazioni, che ne permettano una corretta interpretazione cristiana, evitando pericolosi fraintendimenti.

18. La ricerca di Dio mediante la preghiera deve essere preceduta e accompagnata dalla ascesi e dalla purificazione dai propri peccati ed errori, perché secondo la parola di Gesù soltanto "i puri di cuore vedranno Dio" (Mt 5,8). Il Vangelo mira soprattutto a una purificazione morale dalla mancanza di verità e di amore e, su un piano più profondo, da tutti gli istinti egoistici che impediscono all'uomo di riconoscere e accettare la volontà di Dio nella sua purezza. Non sono le passioni in quanto tali ad essere negative (come pensavano gli stoici e i neoplatonici) ma la loro tendenza egoistica. È da essa che il cristiano deve liberarsi: per arrivare a quello stato di libertà positiva che la classicità cristiana chiamava "apatheia", il medioevo "impassibilitas" e gli Esercizi spirituali ignaziani "indiferencia"19.

Ciò è impossibile senza una radicale abnegazione, come si vede anche in san Paolo che usa apertamente la parola "mortificazione" (delle tendenze peccaminose)20. Solo questa abnegazione rende l'uomo libero di realizzare la volontà di Dio e di partecipare alla libertà dello Spirito santo.

19. Dovrà perciò essere interpretata rettamente la dottrina di quei maestri che raccomandano di "svuotare" lo spirito da ogni rappresentazione sensibile e da ogni concetto, mantenendo però un'amorosa attenzione a Dio, così che rimanga nell'orante un vuoto che può allora essere riempito dalla ricchezza divina. Il vuoto di cui Dio ha bisogno è quello della rinuncia al proprio egoismo, non necessariamente quello della rinuncia alle cose create che egli ci ha donato e tra le quali ci ha posti. Non vi è dubbio che nella preghiera ci si deve concentrare interamente su Dio ed escludere il più possibile quelle cose di questo mondo che ci incatenano al nostro egoismo. Sant'Agostino è, su questo punto, un maestro insigne: se vuoi trovare Dio, dice, abbandona il mondo esteriore e rientra in te stesso. Tuttavia, prosegue, non rimanere in te stesso, ma oltrepassa te stesso, perché tu non sei Dio: egli è più profondo e più grande di te. "Cerco la sua sostanza nella mia anima e non la trovo; ho meditato tuttavia sulla ricerca di Dio e, proteso verso di lui, attraverso le cose create, ho cercato di conoscere le "perfezioni invisibili di Dio" (Rm 1,20)"21. "Restare in se stessi": ecco il vero pericolo. Il grande dottore della chiesa raccomanda di concentrarsi in se stessi, ma anche di trascendere l'io che non è Dio, ma solo una creatura. Dio è "interior intimo meo, et superior summo meo"22. Dio infatti è in noi e con noi, ma ci trascende nel suo mistero23.

20. Dal punto di vista dogmatico, è impossibile arrivare all'amore perfetto di Dio se si prescinde dalla sua autodonazione nel Figlio incarnato, crocifisso e risuscitato. In lui, sotto l'azione dello Spirito santo, prendiamo parte, per pura grazia, alla vita intradivina. Quando Gesù dice: "Chi ha visto me ha visto il Padre" (Gv 14,9), non intende semplicemente la visione e la conoscenza esteriori della sua figura umana ("la carne non giova a nulla", Gv 6,63). Ciò che intende è piuttosto un "vedere" reso possibile dalla grazia della fede: vedere attraverso la manifestazione sensibile di Gesù ciò che questi, quale Verbo del Padre, vuole veramente mostrarci di Dio ("t lo Spirito che dà la vita... ; le parole che vi ho dette sono spirito e vita", Gv 6,63). In questo "vedere" non si tratta dell'astrazione puramente umana ("abstractio") dalla figura in cui Dio si è rivelato, ma del cogliere la realtà divina nella figura umana di Gesù, del cogliere la sua dimensione divina ed eterna nella sua temporalità. Come dice sant'Ignazio negli Esercizi spirituali, dovremmo tentare di cogliere "il profumo infinito e la dolcezza infinita della divinità" (n. 124), partendo dalla finita verità rivelata dalla quale abbiamo iniziato. Mentre ci eleva, Dio è libero di "svuotarci" di tutto ciò che ci trattiene in questo mondo, di attirarci completamente nella vita trinitaria del suo amore eterno. Tuttavia, questo dono può essere concesso solo "in Cristo attraverso lo Spirito santo" e non attraverso le proprie forze, astraendo dalla sua rivelazione.

21. Nel cammino della vita cristiana, alla purificazione segue l'illuminazione mediante l'amore che il Padre ci dona nel Figlio e l'unzione che da lui riceviamo nello Spirito santo (cf. lGv 2,20). Fin dall'antichità cristiana si fa riferimento alla "illuminazione" ricevuta nel battesimo. Essa introduce i fedeli, iniziati ai divini misteri, alla conoscenza di Cristo mediante la fede che opera per mezzo della carità. Anzi, alcuni scrittori ecclesiastici parlano in modo esplicito dell'illuminazione ricevuta nel battesimo come fondamento di quella sublime conoscenza di Cristo Gesù (cf. Fil 3,8) che viene definita come "theoria" o contemplazione24.

I fedeli, con la grazia dei battesimo, sono chiamati a progredire nella conoscenza e nella testimonianza dei misteri della fede mediante "la profonda intelligenza che essi esperiscono delle cose spirituali"25. Nessuna luce di Dio rende superate le verità della fede. Le eventuali grazie di illuminazione che Dio può concedere aiutano piuttosto a chiarir meglio la dimensione più profonda dei misteri confessati e celebrati dalla chiesa, in attesa che il cristiano possa contemplare Dio come egli è nella gloria (cf. 1Gv 3,2).

22. Il cristiano orante, infine, può arrivare, se Dio lo vuole, ad un'esperienza particolare di unione. I sacramenti, soprattutto il battesimo e l'eucaristia26, sono l'inizio obiettivo dell'unione del cristiano con Dio. Su questo fondamento, per una speciale grazia dello Spirito, l'orante può essere chiamato a quel tipo peculiare di unione con Dio che, nell'ambito cristiano, viene qualificato come mistica.

23. Certamente il cristiano ha bisogno di determinati tempi di ritiro nella solitudine per raccogliersi e ritrovare, presso Dio, il suo cammino. Ma, dato il suo carattere di creatura, e di creatura che sa di essere al sicuro solo nella grazia, il suo modo di avvicinarsi a Dio non si fonda su alcuna tecnica nel senso stretto della parola. Ciò contraddirebbe lo spirito d'infanzia richiesto dal Vangelo. La mistica cristiana autentica non ha niente a che vedere con la tecnica: è sempre un dono di Dio, di cui chi ne beneficia si sente indegno27.

24. Ci sono determinate grazie mistiche, conferite ad esempio ai fondatori di istituzioni ecclesiali in favore di tutta la loro fondazione nonché ad altri santi, che caratterizzano la loro peculiare esperienza di preghiera e che non possono, come tali, essere oggetto di imitazione e di aspirazione per altri fedeli, anche appartenenti alla stessa istituzione, e desiderosi di una preghiera sempre più perfetta28. Possono esserci diversi livelli e diverse modalità di partecipazione all'esperienza di preghiera di un fondatore, senza che a tutti debba venir conferita la medesima forma. Del resto l'esperienza di preghiera che ha un posto privilegiato in tutte le istituzioni autenticamente ecclesiali, antiche e moderne, è sempre in ultima analisi qualcosa di personale. Ed è alla persona che Dio dona le sue grazie in vista della preghiera.

25. A proposito della mistica si deve distinguere tra i doni dello Spirito santo e i carismi accordati in modo totalmente libero da Dio. I primi sono qualcosa che ogni cristiano può ravvivare in sé attraverso una vita zelante di fede, di speranza e di carità e così, attraverso una seria ascesi, arrivare a una certa esperienza di Dio e dei contenuti della fede. Quanto ai carismi, san Paolo dice che essi sono soprattutto in favore della chiesa, degli altri membri del corpo mistico di Cristo (cf. 1Cor 12,7). A questo proposito, va ricordato sia che i carismi non possono essere identificati con dei doni straordinari ("mistici") (cf. Rm 12,3-21), sia che la distinzione fra i "doni dello Spirito santo" e i "carismi" può essere fluida. Certo è che un carisma fecondo per la chiesa non può, nell'ambito neotestamentario, venir esercitato senza un determinato grado di perfezione personale e che, d'altra parte, ogni cristiano "vivo" possiede un compito peculiare (e in questo senso un "carisma") "per l'edificazione del corpo di Cristo" (cf. Ef 4,15-16)29, in comunione con la gerarchia, alla quale "spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono" (Lumen gentium, n. 12).


6 METODI PSICOFISICI-CORPOREI

26. L'esperienza umana dimostra che la posizione e l'atteggiamento del corpo non sono privi d'influenza sul raccoglimento e la disposizione dello spirito. E un dato al quale alcuni scrittori spirituali dell'oriente e dell'occidente cristiano hanno prestato attenzione.

Le loro riflessioni, pur presentando punti in comune con i metodi orientali non cristiani di meditazione, evitano quelle esagerazioni o unilateralità che, invece, spesso vengono oggi proposte a persone non sufficientemente preparate.

Questi autori spirituali hanno adottato quegli elementi che facilitano il raccoglimento nella preghiera, riconoscendone al contempo anche il valore relativo: essi sono utili se riformulati in vista del fine della preghiera cristiana30. Ad esempio, il digiuno nel cristianesimo possiede anzitutto il significato di un esercizio di penitenza e di sacrificio, ma, già presso i padri, era anche finalizzato a rendere l'uomo più disponibile all'incontro con Dio e il cristiano più capace di dominio di sé e allo stesso tempo più attento ai fratelli bisognosi.

Nella preghiera è tutto l'uomo che deve entrare in relazione con Dio, e dunque anche il suo corpo deve assumere la posizione più adatta per il raccoglimento31. Tale posizione può esprimere in modo simbolico la preghiera stessa, variando a seconda delle culture e della sensibilità personale. In alcune aree, i cristiani, oggi, stanno acquisendo maggior consapevolezza di quanto l'atteggiamento dei corpo possa favorire la preghiera.

27. La meditazione cristiana dell'oriente32 ha valorizzato il simbolismo psicofisico, spesso carente nella preghiera dell'occidente. Esso può partire da un determinato atteggiamento corporeo, fino a coinvolgere anche le funzioni vitali fondamentali, come la respirazione e il battito cardiaco. L'esercizio della "preghiera di Gesù", ad esempio, che si adatta al ritmo respiratorio naturale, può - almeno per un certo tempo - essere di reale aiuto per molti33. D'altra parte gli stessi maestri orientali hanno anche constatato che non tutti sono ugualmente idonei a far uso di questo simbolismo, perché non tutti sono in grado di passare dal segno materiale alla realtà spirituale ricercata. Compreso in modo inadeguato e non corretto, il simbolismo può diventare addirittura un idolo e, di conseguenza, un impedimento all'elevazione dello spirito a Dio. Vivere nell'ambito della preghiera tutta la realtà del proprio corpo come simbolo è ancora più difficile: ciò può degenerare in un culto del corpo e può portare a identificare surretiziamente tutte le sue sensazioni con esperienze spirituali.

28. Alcuni esercizi fisici producono automaticamente sensazioni di quiete e di distensione, sentimenti gratificanti, forse addirittura fenomeni di luce e di calore che assomigliano ad un benessere spirituale. Scambiarli per autentiche consolazioni dello Spirito santo sarebbe un modo totalmente erroneo di concepire il cammino spirituale. Attribuire loro significati simbolici tipici dell'esperienza mistica, quando l'atteggiamento morale dell'interessato non corrisponde ad essa, rappresenterebbe una specie di schizofrenia mentale, che può condurre perfino a disturbi psichici e, talvolta, ad aberrazioni morali.

Ciò non toglie che autentiche pratiche di meditazione provenienti dall'oriente cristiano e dalle grandi religioni non cristiane, che esercitano un'attrattiva sull'uomo di oggi diviso e disorientato, possano costituire un mezzo adatto per aiutare l'orante a stare davanti a Dio interiormente disteso, anche in mezzo alle sollecitazioni esterne.

Occorre tuttavia ricordare che l'unione abituale con Dio, o quell'atteggiamento di vigilanza interiore e di invocazione dell'aiuto divino che nel Nuovo Testamento viene chiamato la "preghiera continua"34, non si interrompe necessariamente quando ci si dedica anche, secondo la volontà di Dio, al lavoro e alla cura del prossimo. "Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio", ci dice l'apostolo (1Cor 10,31). La preghiera autentica infatti, come sostengono i grandi maestri spirituali, desta negli oranti un'ardente carità che li spinge a collaborare alla missione della chiesa e al servizio dei fratelli per la maggior gloria di Dio35.

7 IO SONO LA VIA"

29. Ogni fedele dovrà cercare e potrà trovare nella varietà e ricchezza della preghiera cristiana, insegnata dalla chiesa, la propria via, il proprio modo di preghiera; ma tutte queste vie personali confluiscono, alla fine, in quella via al Padre, che Gesù Cristo ha detto di essere. Nella ricerca della propria via ognuno si lascerà quindi condurre non tanto dai suoi gusti personali quanto dallo Spirito santo, il quale lo guida, attraverso Cristo, al Padre.

30. Per chi si impegna seriamente verranno comunque tempi in cui gli sembrerà di vagare in un deserto e di non "sentire" nulla di Dio, malgrado tutti i suoi sforzi. Deve sapere che queste prove non vengono risparmiate a nessuno che prenda sul serio la preghiera. Ma egli non deve identificare immediatamente questa esperienza, comune a tutti i cristiani che pregano, con la "notte oscura" di tipo mistico. Ad ogni modo in quei periodi la preghiera, che egli si sforzerà di mantenere fermamente, potrà dargli l'impressione di una certa "artificiosità" benché si tratti in realtà di qualcosa di totalmente diverso: essa è infatti proprio allora espressione della sua fedeltà a Dio, alla presenza del quale egli vuole rimanere anche quando non è ricompensato da alcuna consolazione soggettiva.

In questi momenti apparentemente negativi diventa manifesto ciò che l'orante cerca realmente: se cerca proprio Dio che, nella sua infinita libertà, sempre lo supera, oppure se cerca solo se stesso, senza riuscire ad andare oltre le proprie "esperienze", sia che gli sembrino "esperienze" positive d'unione con Dio che "esperienze" negative di "vuoto" mistico.

31. L'amore di Dio, unico oggetto della contemplazione cristiana, è una realtà della quale non ci si può "impossessare" con nessun metodo o tecnica; anzi, dobbiamo aver sempre lo sguardo fisso in Gesù Cristo, nel quale l'amore divino è giunto per noi sulla croce a tal punto che egli si è assunto anche la condizione d'allontanamento dal Padre (cf. Me 15,34). Dobbiamo dunque lasciar decidere a Dio la maniera con cui egli vuole farei partecipi del suo amore. Ma non possiamo mai, in alcun modo, cercare di metterci allo stesso livello dell'oggetto contemplato, l'amore libero di Dio; neanche quando, per la misericordia di Dio Padre, mediante lo Spirito Santo mandato nei nostri cuori, ci viene donato in Cristo, gratuitamente, un riflesso sensibile di quest'amore divino e ci sentiamo come attirati dalla verità, dalla bontà e dalla bellezza del Signore.

Quanto più viene concesso ad una creatura di avvicinarsi a Dio, tanto maggiormente cresce in lei la riverenza davanti al Dio, tre volte santo. Si comprende allora la parola di sant'Agostino: "Tu puoi chiamarmi amico, io mi riconosco servo"36. Oppure la parola che ci è ancora più familiare, pronunciata da colei che è stata gratificata della più alta intimità con Dio: "Ha guardato l'umiltà della sua serva" (Le 1,48).

Il sommo pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell'udienza concessa al sottoscritto cardinale prefetto, ha approvato la presente lettera, decisa nella riunione plenaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.

Roma, dalla sede della Congregazione per la dottrina della fede, il 15 ottobre 1989, nella festa di santa Teresa di Gesù.

JOSEPH card. RATZINGER, prefetto

+ ALBERTO BOVONE

arciv. tit. di Cesarea di Numidia

segretario


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NOTE

1 Con l'espressione "metodi orientali" s'intendono metodi ispirati all'induismo e al buddismo, come lo "Zen" o la "meditazione trascendentale" oppure lo "Yoga". Si tratta quindi di metodi di meditazione dell'estremo oriente non cristiano, che non di rado oggi sono adoperati anche da alcuni cristiani nella loro meditazione. Gli orientamenti di principio e di metodo contenuti nel presente documento intendono essere un punto di riferimento non solo in relazione a questo problema, ma anche, più in generale, per le diverse forme di preghiera oggi praticate nelle realtà ecclesiali, in particolar modo nelle associazioni, movimenti e gruppi.

2 Sul libro dei Salmi nella preghiera della chiesa, Cf. Institutio generali de Liturgia horarum, nn. 100-109: [EV 4/238-2471.

3 Cf. ad esempio Es. 15, Dt 32, 1Sani 2, 2Sam 22, taluni testi profetici, lCr 16.

4 CONCILIO VATICANO II, Cost. dogm. Dei verbum 2: [EV 1/873]. Questo documento offre altre indicazioni sostanziose per una comprensione teologica e spirituale della preghiera cristiana; si vedano, ad es., nn. 3, 5, 8, 21: [EV 1/874.877.882-884.904].

5 DV 25: [EV 908s].

6 Sulla preghiera di Gesù si veda Istitutio generalis de Liturgia horarum, n. 9: [EV 4/135-137].

7 Cf. Institutio generalis de Liturgia horarum, n. 9: [EV 4/143].

8 La pseudognosi considerava la materia come qualcosa di impuro, di degradato, che avvolgeva l'anima in un'ignoranza dalla quale la preghiera avrebbe dovuto liberarla per ìnnalzarla alla vera conoscenza superiore e quindi alla purezza. Certamente non tutti ne erano capaci, ma solo gli uomini veramente spirituali; per i semplici credenti bastavano la fede e l'osservanza dei comandamenti di Cristo.

9 I messaliani furono già denunciati da sant'EFREM SIRO (Hymni contra heresis 22, 4: ed. E. BECK, CSCO 169, 1957, p. 79) e in seguito, tra gli altri, da EPIFANIO DI SALAMNA(Panarion, detto anche Adversus haereses: PG 41, 156-1200; PG 42, 9-832) e ANFILOCHIO, vescovo di lconio (Contra haeretícos: C. FICKER, Amphilochiana 1, Leipzig 1906, 21-77).

10 Cf., ad es., S. GIOVANNI DELLA CROCE, Subida del Monte Carmelo, II, c. 7, 1l.

11 Nel medioevo esistevano correnti estremistiche ai margini della chiesa, che vengono descritte, non senza ironia, da uno dei grandi contemplativi cristiani, il fiammingo Jan van Ruysbroek. Egli distingue nella vita mistica tre tipi di deviazione (Die gheestelike Brulocht 228,12-230,17; 230,18~232,22; 232,23-236,6) e riporta anche una critica generale riguardante queste forme (236,7-237,29). Tecniche simili sono state successivamente individuate e respinte da santa Teresa di Gesù, la quale osserva acutamente che "la stessa cura che si mette a non pensare a nulla sveglierà l'intelletto a pensare molto" e che lasciare da parte il mistero di Cristo nella meditazione cristiana è sempre una specie di tradimento (si veda: S.TERESA DI GESU', Vida, 12,5 e 22,1-5).

12 Additando a tutta la chiesa l'esempio e la dottrina di S. Teresa di Gesù, che a suo tempo dovette respingere la tentazione di certi metodi che invitavano a prescindere dall'umanità di Cristo a vantaggio dì un vago immergersi nell'abisso della divinità, papa Giovanni Paolo Il diceva in un'omelia del 1novembre 1982 che il grido di Teresa di Gesù in favore di una preghiera tutta centrata in Cristo "è valido anche ai nostri giorni contro alcuni metodi di orazione che non s'ispirano al Vangelo e che in pratica tendono a prescindere da Cristo, a vantaggio di un vuoto mentale che nel cristianesimo non ha senso. Ogni metodo di orazione è valido in quanto si ispira a Cri sto e conduce a Cristo, la via, la verità e la vita (cf. Gv 14,6)". Si veda: Homilia Abulae in honorem Sanctae Teresiae: AAS 75(1983), 256-259.

13 Si veda, ad esempio, La nube della non-conoscenza, opera spirituale di un anonimo scrittore inglese dei sec. XIV.

14 Il concetto di "nirvana" viene inteso nei testi religiosi del buddismo come uno stato di quiete che consiste nell'estinzione di ogni realtà concreta in quanto transitoria, e quindi deludente e dolorosa.

15 Maestro Eckhart parla di un'immersione "nell'abisso indeterminato della divinità", che è "una tenebra nella quale la luce della Trinità non e mai rifulsa". Cf. Serno "Ave gratia plena" in fine (J. QUINT, Deutsche Predigten und Traktate, Hanser 1955, 261).

16 Cf. CONCILIO VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, 19 [EV 11 1373]: "La ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché creato per amore da Dio, da lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente secondo verità se non lo riconosce liberamente e se non si affida al suo Creatore".

17 Come scrive S.TOMMASO a proposito dell'eucaristia: "... proprius effectus huius sacramenti est conversio hominis in Christum, ut dicat cum Apostolo: Vivo ego, iam non ego; vivit vero in me Christus (Gal 2,20)" (In IV Sent., d. 12, q. 2, a. 1).

18 CONCILIO VATICANO 11, Dich. Nostra aetate. 2: [EV 1/8571.

19 S. IGNAZIO DI LOYOLA, Ejercicios espirituales, n. 23 e passim.

20 Cf. Col 3,5; Rm 6,11ss; Gal 5,24.

21 S. AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, XLI, 8: PL 36, 469.

22 S. AGOSTINO, Confessiones 3, 6, 11: PL 32, 688; cf. De vera religione 39,72: PL 34, 154.

23 Il senso cristiano positivo dello "svuotamento" delle creature risplende in maniera esemplare nel Poverello d'Assisi. San Francesco, proprio perché ha rinunciato alle creature per amore del Signore, le vede tutte riempite della sua presenza e fulgenti nella loro dignità di creature di Dio e ne intona la segreta melodia dell'essere nel suo Cantico delle creature (cf. C. ESSER, Opuscola Sancti Patris Francisci Assisiensis, Ed. Ad Claras Aquas, Grottaferrata-Roma 1978, pp. 83-86). Nello stesso senso scrive nella "Lettera a tutti i fedeli": "Ogni creatura che è in cielo e in terra e nel mare e nella profondità degli abissi (Ap 5,13) renda a Dio lode, gloria e onore e benedizione, poiché egli è la nostra vita e la nostra forza. Egli che solo è buono (Le 18,19), che solo è altissimo, che solo è onnipotente e ammirabile, glorioso e santo, degno di lode e benedetto per gli infiniti secoli dei secoli. Amen" (C. ESSER, Opuscola, p. 124). San Bonaventura fa notare come in ciascuna creatura Francesco percepiva il richiamo di Dio ed effondeva la sua anima nel grande inno della riconoscenza e della lode (cf. Legenda Sancti Francisci, e. 9, n. 1, in Opera omnia, Quaracchi 1898, vol. VIII, p. 530).

24 Si vedano, ad esempio, S. GIUSTINO, Apologia 1, 61, 12-13: PG 6, 420-421; CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedagogus 1, 6, 25-31: PG 8, 281-284; S. BASILIO DI CESAREA, Homiliae diversae 13, 1: PG 31, 424-425; S. GREGORIO NAZIANZENO, Orationes 40, 3, 1: PG 36, 361.

25 DV 8: [EV 11883].

26 L'eucaristia, definita dalla cost. dogm. Lumen gentium "fonte e apice di tutta la vita cristiana" (LG 11: [EV 1/313]) ci fa "partecipare realmente al corpo del Signore" (LG 7: [EV 1/297]); in essa "siamo elevati alla comunione con lui" (LG 7: [EV 1/2971]).

27 Cf. S. TERESA DI GESU', Castillo interior IV, 1, 2.

28 Nessun orante, senza una grazia speciale, ambirà ad una visione globale della rivelazione di Dio quale san Gregorio Magno riconosce in san Benedetto, oppure a quello slancio mistico con cui san Francesco d'Assisi contemplava Dio in tutte le sue creature, o ad una visione ugualmente globale, come quella donata a sant'Ignazio al fiume Cardoner e della quale egli afferma che in fondo avrebbe potuto prendere per lui il posto della sacra Scrittura. La "notte oscura" descritta da san Giovanni della Croce, è parte del suo personale carisma d'orazione: ogni membro dei suo ordine non ha bisogno di viverla nello stesso modo per arrivare a quella perfezione nella preghiera cui è chiamato da Dio.

29 La chiamata dei cristiano ad esperienze "mistiche" può includere tanto ciò che san Tommaso qualifica come esperienza viva di Dio attraverso i doni dello Spirito, quanto le forme inimitabili (e quindi alle quali non si deve aspirare) di donazione della grazia. Cf. S. TOMMASO D'AQUINO, Summa theologiae I-II, a. 1 c, come pure a. 5 ad l.

30 Si vedano, ad esempio, gli scrittori antichi, che parlano dell'atteggiamento dell'orante assunto dai cristiani in preghiera: TERTULLIANO, De oratione XIV e XVII: PL 1, 1170 e 1174-76; ORIGENE, De oratione XXXI, 2: PG 11, 550-553, nonché del significato di tal gesto: BARNABA, Epistula XII, 2-4: PG 2, 760-761; S. GIUSTINO, Dialogus 90, 4-5: PG 6, 689-692; S. IPPOLITO ROMANO, Commentarium in Dan. 111, 24: GCS 1, 168, 8-17; ORIGIENE, Homiliae in Ex. XI, 4: PG 12, 377-378. Sulla posizione dei corpo si veda anche ORIGENE, De oratione XXXI, 3: PG 11, 553-555.

31 Cf. S. IGNAZIO Di LOYOLA, Ejercicios espirituales, n. 76.

32 Come ad esempio quella degli anacoreti esicasti. L'hesychia o quiete, esterna ed interna, viene considerata dagli anacoreti una condizione della preghiera; nella sua forma orientale è caratterizzata da solitudine e da tecniche di raccoglimento.

33 L'esercizio della "preghiera di Gesù", che consiste nel ripetere una formula densa di riferimenti biblici di invocazione e supplica (ad es. "Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me"), si adatta al ritmo respiratorio naturale. A questo proposito si veda: S. IGNAZIO Di LOYOLA, Ejercicios espirituales, n. 258.

34 Cf. 1Ts 5,17. Si veda d'altra parte 2Ts 3,8-12. Da questi e altri testi sorge la problematica: Come conciliare l'obbligo della preghiera continua con quello dei lavoro? Si vedano, tra altri, S. AGOSTINO, Epistula 130, 20: PL 33, 501-502, e S. GIOVANNI CASSIANO, De institutis coenobiorum III, 1-3: SC 109, 92-93. Si legga anche la "Dimostrazione sulla preghiera" di Afraate, il primo padre della chiesa siriaca, e in particolare i numeri 14-15 dedicati alle cosiddette "opere della preghiera" (cf. l'edizione di J. PARISOT, Afraatis Sapientis Persae Demonstrationes IV: PS 1, pp. 170-174).

35 S. TERESA DI GESÙ, Castillo interior VII, 4,6.

36 S. AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos CXLU, 6: PL 37, 1849. Si veda anche: S. AGOSTINO, Tract. in Ioh. IV, 9: PL 35, 1410: "Quando autem nec ad hoc dignum se dicit, vere pienus Spiritu sancto erat, qui sic servus Dominum agnovit, et ex servo amicus fieri meruit".

mercoledì 24 dicembre 2008

Buon Natale!


Nella Festa dell'Umiltà di Dio, “appaia o Signore, la Bontà alla quale l'uomo
creato a tua immagine, si possa conformare”, appaia il Verbo che raggiunge l'uomo nella carne, e quella Carne che ci eleva, essendo unita al cielo, appaia, o Signore, il mistero che si fa prossimo e raggiungibile, appaia o Signore, la Bellezza, l'unica Bellezza in grado di trasfigurare il mondo, appaia o Signore la Luce, l'unica Luce che le tenebre non potranno mai raggiungere e spegnere, appaia o Signore Colui che non giudicherà secondo le apparenze, non prenderà decisioni per sentito dire, non spegnerà un lucignolo fumigante, appaia o Signore la vigna deliziosa, il Principe della pace,
grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine.
AUGURI A TUTTI!

venerdì 19 dicembre 2008

Iman e rabbini al congresso «Hommes de parole»






Parigi, 18
. Non è cosa di tutti i giorni, a un convegno, sentire un rabbino terminare il suo intervento con insha'Allah e un imam salutare con shalom, così come è inusuale vedere una cinquantina di essi pregare insieme nella Grande moschea di Parigi e il gran rabbino del concistoro centrale di Francia, René-Samuel Sirat, accanto a due ayatollah sciiti. Potere del dialogo fra le religioni che negli ultimi tempi sta facendo indiscutibili passi avanti. Una prova si è avuta al terzo congresso mondiale degli imam e dei rabbini per la pace riunitosi da lunedì a mercoledì scorsi nella sede dell'Unesco a Parigi. Una tre giorni di intensi e a volte animati dibattiti tra religiosi di ventitré Paesi. Gli ottantacinque partecipanti, provenienti per lo più dai Territori palestinesi e da Israele, hanno fatto venire allo scoperto divergenze e incomprensioni ma hanno anche cominciato a sgretolare il muro che per decenni ha separato i rappresentanti delle due religioni.
Al termine, nessuna dichiarazione finale ("sarà pubblicata al più presto", si sono affrettati a dire gli organizzatori) ma una posizione comune da sostenere nei mesi a venire: una soluzione politica della crisi mediorientale - è stato affermato - non può essere soltanto laica; i politici devono ascoltare gli imam e i rabbini, voce spirituale che deve essere presente nelle discussioni di pace; e imam e rabbini devono assieme condannare tempestivamente ogni atto di violenza, da qualsiasi parte provenga.
"In questa terza edizione - ha sottolineato Alain Michel, presidente della fondazione Hommes de parole e co-fondatore del congresso - enormi progressi sono stati fatti e si è delineata con forza la volontà comune di essere utili al processo di pace tra israeliani e palestinesi". A chi gli ha fatto notare l'assenza di una dichiarazione finale (sembra che il documento si sia arenato sull'annosa questione della definizione di terrorismo e sui termini occupazione e kamikaze), Michel ha risposto: "Mi sarei molto meravigliato se non ci fosse stata animosità nel dibattito; sarebbe stato il fallimento del congresso. Averli messi tutti insieme a parlare, a gettare basi di amicizia, è già grandissima cosa".
Il presidente di Hommes de parole spera di avere, fondi permettendo, un maggior numero di partecipanti alla prossima edizione, che sarà allargata ai cristiani (a Parigi era comunque presente una rappresentanza dei cristiani di Terra Santa). Michel ha annunciato la creazione di un comitato misto che si riunirà una volta al mese e che vede tra i membri il vicepresidente della Comunità religiosa islamica (Coreis), l'imam Yahya Pallavicini. Il rappresentante dei musulmani italiani ha ammesso che "non c'è una bacchetta magica" per arrivare alla pace aggiungendo però che da questo congresso "non facile", perché non è facile "unire senza confondere le esperienze culturali delle varie regioni del mondo", è emersa "una vera volontà politica": operare insieme per la pace nel Vicino Oriente. Perché, come ha spiegato l'imam Yahya Hindi, della Georgetown University (Washington), il Vicino Oriente "è un battello che sta affondando, e dobbiamo lavorare insieme senza accuse reciproche, senza farci paralizzare dal passato, e condannando insieme la violenza".
Il terzo congresso mondiale degli imam e dei rabbini - intitolato "La sacralità della pace" - è giunto al termine dell'Anno delle iniziative di pace per la riconciliazione fra israeliani e palestinesi indetto per il 2008 dall'organizzazione. Dopo i precedenti incontri a Bruxelles e a Siviglia, l'impegno è di riscoprire i valori religiosi comuni attraverso la lettura dei testi sacri e di promuovere azioni di dialogo tese a sostenere gli sforzi di pace.

Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo III


MONS. DOMINIQUE MAMBERTI

L’intolleranza verso i cristiani, l’eliminazione degli armamenti, la difficile situazione nel Caucaso, la piaga del traffico di esseri umani: sono alcuni dei temi forti toccati dall’arcivescovo Dominique Mamberti, segretario vaticano per i Rapporti con gli Stati, nell’intervento al 16.mo Consiglio ministeriale dell’Osce, tenutosi in questi giorni ad Helsinki. Il presule ha inoltre esortato gli Stati che fanno parte dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea a prestare attenzione all’attuale crisi economica-finanziaria.

A 60 anni dall’adozione della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, la Chiesa cattolica “lotta per garantire che i diritti umani non vengano soltanto proclamati, ma anche rispettati”. E’ quanto ribadito al Consiglio ministeriale dell’Osce dall’arcivescovo Dominique Mamberti che ha messo l’accento, in particolare, sul diritto alla libertà religiosa. La Santa Sede, ha affermato, “richiede che sia rispettato universalmente e guarda con preoccupazione ai sempre più frequenti episodi di violenza e ai costanti atti di discriminazione e di intolleranza contro i cristiani e i membri di altre religioni”. Ed ha aggiunto: “L'odio non può trovare giustificazione fra coloro che definiscono Dio “nostro Padre”. Questo è un altro motivo per cui Dio non si può mai escludere dall'orizzonte della persona umana e della storia”. “Il nome di Dio – ha ribadito - è un nome di giustizia. È un appello urgente alla pace”.


Mons. Mamberti ha quindi espresso la sua preoccupazione per il “deterioramento” di quelle “condizioni di fiducia e di sicurezza che sono state la base di relazioni e negoziati fra gli Stati”. Le crisi attuali nell’area Osce, ha precisato, “potrebbero portare inevitabilmente al peggioramento della qualità della vita e delle aspettative legittime dei cittadini di Stati sovrani”. In Georgia, ha avvertito il presule, “la situazione nelle aree di conflitto e in quelle circostanti resta instabile”. La stagione invernale, ha proseguito, “ha lanciato nuove sfide e la Santa Sede è particolarmente preoccupata per il ritorno alle proprie abitazioni degli sfollati all’interno del Paese”. Ed ha incoraggiato l’Osce nel suo impegno per “l’eliminazione dei rischi legati a eccessivi stoccaggi di armamenti leggeri e di armi convenzionali, la sua lotta contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa e, non da ultimo, le sue iniziative nella lotta al terrorismo”.


L’arcivescovo Mamberti ha quindi esortato l’Osce a “prestare attenzione all’attuale crisi economica e finanziaria che – ha detto – colpisce la vita di tutti, in particolare dei più vulnerabili”. Una parte importante del discorso, è stata dedicata da mons. Mamberti alla “piaga del traffico di essere umani”. Un fenomeno sociale, ha rilevato, “pluridimensionale”, “di povertà, avidità, corruzione, ingiustizia e oppressione che si manifesta con lo sfruttamento sessuale, il lavoro forzato, la schiavitù e il reclutamento di minori per il conflitto armato”. Un fenomeno, ha proseguito, che ha anche cause economiche, politiche e socio-culturali. D’altro canto, è stato il suo richiamo, “la globalizzazione e l’aumentato movimento di persone possono anche rendere gruppi vulnerabili” come donne e giovani, “preda più facile dei trafficanti” che non hanno alcun riguardo per la dignità della persona umana. Né ha mancato di mettere in guardia dalla “banalizzazione della sessualità” nei mass media che “conduce il declino dei valori morali e conduca al degrado di uomini e donne e anche all’abuso dei bambini”. Mons. Mamberti ha quindi garantito il pieno sostegno della Santa Sede "agli sforzi dell'Osce per eliminare la piaga del traffico di persone, in particolare di donne e bambini, della prostituzione e del lavoro forzato".
(dal sito della Radio Vaticana)

Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo II


Intervento del Card. Tarcisio Bertone
Aula Paolo VI
Mercoledì, 10 dicembre 2008


Sono lieto di prendere la parola in questo atto solenne che celebra il 60mo Anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dalle Nazioni Unite. Si tratta di un momento significativo al quale si unirà personalmente il Santo Padre Benedetto XVI per sottolineare, ancora una volta, l’importanza che la Santa Sede assegna al riconoscimento e alla tutela dei diritti fondamentali della persona umana. È ancora vivo in noi l’eco della Sua Parola rivolta all’Assemblea Generale dell’ONU, lo scorso 18 aprile, che indicava la Dichiarazione come "il risultato di una convergenza di tradizioni religiose e culturali, tutte motivate dal comune desiderio di porre la persona umana al cuore delle istituzioni, leggi e interventi della società, e di considerare la persona umana essenziale per il mondo della cultura, della religione e della scienza".

Vorrei anche esprimere la mia sentita gratitudine al Cardinale Renato Raffaele Martino e al Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace per l’organizzazione di questo significativo evento.

1. Nel momento in cui veniva adottata, la Dichiarazione Universale esprimeva il primato della libertà contro l’oppressione, dell’unità della famiglia umana rispetto alle divisioni ideologiche e politiche, come pure alle differenze di razza, di sesso, di lingua e di religione. Si voleva difendere la persona dall’idolatria dello Stato che i totalitarismi avevano addirittura divinizzato, proponendo un modo ulteriore per costruire la "città degli uomini", fondandola sulla convinzione che "il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia, della pace" (Dichiarazione Universale, Preambolo).

La Dichiarazione Universale, infatti, testimonia un rinnovarsi della speranza di fare della persona umana il segno di un futuro capace di liberarsi del peso del passato, quasi a voler purificare la memoria della famiglia umana. Sessanta anni or sono, infatti, le vittime delle barbarie, gli orrori della guerra, gli atti di genocidio erano tutte contraddizioni da superare per ricercare nelle relazioni internazionali e nella vita interna degli Stati quel necessario equilibrio capace di proiettare l’umanità verso un futuro degno dell’uomo.

2. La Dichiarazione, proponendo un insieme di diritti e di facoltà della persona, ne esalta la libertà e l’appartenenza alla famiglia umana, coniugando l’idea di giustizia con le affermazioni del primato della vita, l’idea della socialità, l’apprezzamento del metodo democratico inteso come insieme di regole, istituzioni e strutture in grado di esprimere e veicolare valori.

Non siamo di fronte solo ad una proclamazione, ma piuttosto ad una nuova considerazione e collocazione della dignità umana da parte della Comunità internazionale e delle diverse Comunità politiche che la animano, fino ad allora poco inclini ad ammettere la persona come protagonista. Un approccio che si presenta ancora valido e non sostituibile perché chiama la persona a vivere i propri diritti con un atteggiamento di condivisione dei diritti altrui, e a guardare ogni suo simile non come termine di contrapposizione o di limite, ma riconoscendone la "sostanziale uguaglianza" e impegnandosi a vivere in "spirito di fratellanza" (Cfr. Dichiarazione Universale, art. 1).

3. La Chiesa, che da parte sua considera con grande rispetto quanto di vero, buono e bello si trova nella comunità degli uomini (Cfr. Gaudium et Spes, 42), ha visto nella Dichiarazione un "segno dei tempi", ritenendola "un passo importante nel cammino verso l’organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale" (Enc. Pacem in Terris, 75). Un atto in grado di sintetizzare il senso della libertà umana coniugando a principi immutabili le esigenze attuali, capace di offrire indicazioni antropologicamente fondate e giuridicamente in grado di rispondere ai bisogni umani più profondi.

La stessa idea dei diritti fondamentali ha una radice profonda nella tradizione cristiana sin dall’iniziale annuncio della "Buona Novella", che arricchisce i precetti del Decalogo con l’invito ad essere solidali verso ogni persona (Cfr. Mt 25, 35-36), senza alcuna distinzione: "non conta più l’essere giudeo o greco, né l’essere schiavo o libero, uomo o donna, perché tutti sono una sola cosa in Cristo Gesù" (Gal 3,28).

Nella dottrina della Chiesa, poi, la tutela della persona umana evoca la sussidiarietà quale principio regolatore dell’ordine sociale e che partendo dalla persona garantisce diritti e libertà individuali come pure quelli legati alla dimensione comunitaria con la libertà di associarsi, di dar vita alle formazioni sociali, agli enti intermedi, fino alla realtà dello Stato e quindi alla Comunità internazionale con le sue istituzioni.

4. I Sommi Pontefici hanno espresso in molte occasioni l’apprezzamento della Chiesa per il grande valore della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 10 dicembre 1948. Vorrei almeno ricordare qui gli insegnamenti di Paolo VI, di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI in occasione dei loro interventi davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il 4 ottobre 1965, Paolo VI così si espresse di fronte ai Rappresentati delle Nazioni: «Perché voi qui proclamate i diritti e i doveri fondamentali dell’uomo, la sua dignità, la sua libertà e, per prima, la libertà religiosa». Giovanni Paolo II parlò per due volte davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite. Nella prima, il 3 ottobre 1979, a proposito della Dichiarazione Universale sui diritti umani, egli affermò: «Questo documento è una pietra miliare posta sul lungo e difficile cammino del genere umano. Bisogna misurare il progresso dell’umanità non solo col progresso della scienza e della tecnica, dal quale risalta tutta la singolarità dell’uomo nei confronti della natura, ma contemporaneamente e ancor più col primato dei valori spirituali e col progresso della vita morale». Nella seconda, il 5 ottobre 1995, Giovanni Paolo II definì la Dichiarazione come «una delle più alte espressioni della coscienza umana nel nostro tempo» e sottolineò con forza come «vi siano realmente dei diritti umani universali, radicati nella natura della persona, nei quali si rispecchiano le esigenze obiettive e imprescindibili di una legge morale universale. Ben lungi dall’essere affermazioni astratte, questi diritti ci dicono anzi qualcosa di importante riguardo alla vita concreta di ogni uomo e di ogni gruppo sociale. Ci ricordano anche che non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso, ma che, al contrario vi è una logica morale che illumina l’esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli. Se vogliamo che un secolo di costrizione lasci spazio a un secolo di persuasione, dobbiamo trovare la strada per discutere, con un linguaggio comprensibile e comune, circa il futuro dell’uomo. La legge morale universale, scritta nel cuore dell’uomo, è quella sorta di "grammatica" che serve al mondo per affrontare questa discussione circa il suo stesso futuro». Benedetto XVI, parlando a sua volta davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, il 18 aprile 2008, e ricordando esplicitamente l’evento che oggi celebriamo, ossia il 60mo anniversario della Dichiarazione, ha detto: «È evidente che i diritti riconosciuti e delineati nella Dichiarazione si applicano ad ognuno in virtù della comune origine della persona, la quale rimane il punto più alto del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia. Tali diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti».

5. Oggi, di fronte ad un preoccupante quadro globale che è anzitutto il riflesso di strutture economiche non rispondenti al valore dell’uomo, i diritti basilari sembrano dipendere da anonimi meccanismi senza controllo e da una visione che si rinchiude nel pragmatismo del momento, dimenticando che la cifra del futuro della famiglia umana è la solidarietà.

Ci si chiede, allora, se siano le strutture economiche e i loro recenti mutamenti la causa del diniego dei diritti o se non si tratti piuttosto di un abbandono della visione della persona che da soggetto è diventata sempre più un oggetto dell’agire economico, spesso ridotta a rivendicare i soli diritti legati alla sua funzione di consumatore e non di persona.

6. Di fronte alla dimensione globale che segna la nostra era, è l’universalità della persona – come ricordava il Santo Padre all’ONU – il criterio che fornisce ai diritti umani la caratteristica di essere universali, così da evitare applicazioni parziali o visioni relative. Questo significa che ogni Comunità politica è chiamata a dare realizzazione ai contenuti della Dichiarazione Universale analizzando obiettivamente la propria situazione, ma avendo chiaro che quell’atto non è privo di forza perché adottato ed elaborato in un contesto sociale, politico e giuridico differente da quello in cui oggi operiamo: anzi, trae tutta la sua permanente efficacia dalla "connaturalità" alla storia di ogni persona umana.

La mancata tutela dei diritti umani che spesso si evidenzia nell’atteggiamento di tante istituzioni e funzioni dell’autorità, è il frutto della disgregazione dell’unità della persona intorno alla quale si pensa di proclamare diritti diversi, di costruire ampi spazi di libertà che però rimangono privi di ogni fondamento antropologico.

Trascorsi ormai sessant’anni da quel 10 dicembre 1948, non sembra più possibile garantire i diritti se si trascura la loro indivisibilità e non si abbandona la convinzione che la tutela dei diritti civili e politici passa per un "non fare" degli apparati istituzionali, mentre l’impegno per quelli economici, sociali e culturali è da considerare solo programmatico.

7. Un’attenzione particolare la Chiesa sente di doverla rivolgere alla libertà religiosa che la Dichiarazione Universale nel suo articolo 18 ha reso esplicita in significati e limiti, prevedendo altresì i diritti e le situazioni che a tale libertà sono connessi. Oggetto di quel diritto non è il contenuto intrinseco di una determinata fede religiosa, ma l’immunità da ogni coercizione, quasi una zona di sicurezza in grado di garantire l’inviolabilità di uno spazio umano in cui il singolo credente e la comunità in cui egli esprime la propria fede sono liberi di agire, senza pressioni esterne di singoli, di gruppi sociali o di qualsivoglia autorità.

È un dato di tutta evidenza che il fatto religioso abbia un’influenza diretta nello svolgersi della vita interna degli Stati e di quella della Comunità internazionale. Questo nonostante si percepiscano sempre di più indicazioni e tendenze che sembrano voler escludere la religione e i diritti ad essa connessi dalla possibilità di concorrere alla costruzione dell’ordine sociale, pur nel pieno rispetto del pluralismo che contraddistingue le società contemporanee.

La libertà religiosa rischia di essere confusa con la sola libertà di culto o comunque interpretata come elemento appartenente alla sfera privata e sempre più sostituita da un imprecisato "diritto alla tolleranza". E questo ignorando che la libertà religiosa quale diritto fondamentale segna il superamento della tolleranza religiosa, che era saldamente ancorata ad una visione relativa della verità e ad un individualismo senza limiti.

Analogamente, proprio la prospettiva internazionale lascia emergere la tendenza a relegare il fatto religioso alla dimensione della cultura o ad accomunarla alle pratiche ed ai saperi tradizionali ai quali non è estranea una visione sincretista, dimenticando che la religione, e le libertà e i diritti ad essa collegati, sono un’esperienza di vita, un indicatore delle aspirazioni più profonde che la persona attraverso il suo agire vuole raggiungere.

8. Un aspetto sul quale diventa necessario volgere la nostra attenzione è quello dell’esatta natura dei diritti che la Dichiarazione fa discendere dalla dignità che è comune ad ogni essere umano. Un aspetto verso il quale è necessario che possano convergere rivendicazioni, pensieri, proposte per dar loro un ordine, senza far dilagare la domanda di diritti verso ogni direzione. Difendere i diritti fondamentali significa, infatti, non confonderli con semplici e spesso limitati bisogni contingenti. Poter ricondurre all’originaria impostazione della Dichiarazione anche le nuove situazioni è possibile e può essere una strada da seguire per dare rinnovato vigore alla causa dell’uomo.

Anche una volta riconosciuti e perfino fissati in una eventuale convenzione, i diritti umani hanno sempre bisogno di essere difesi. Hanno bisogno di fedeltà da parte nostra, perché possono essere persi di vista, reinterpretati in modo restrittivo o addirittura negati. La pedagogia alla quale dobbiamo la loro formulazione è la stessa di cui hanno bisogno per essere conservati. Il Santo Padre ci ricorda spesso che il progresso morale dell’umanità ha bisogno di essere sempre nuovamente intrapreso. Non essendo un fatto materiale esso non può avvenire per accumulo. Ciò vale anche per i diritti umani, che hanno bisogno di essere ogni giorno ribaditi, rifondati nella nostra consapevolezza e rivissuti.

9. Rispettare e rinvigorire i diritti fondamentali sarà un modo concreto attraverso cui contrastare le forme, differenti e diffuse, di abbandono dei cardini di ordine morale nei rapporti sociali, dalla dimensione interpersonale sino a quella delle relazioni internazionali. Infatti, è sempre più difficile prevedere una tutela dei diritti, efficace e universale, senza un collegamento a quella legge naturale che feconda i diritti medesimi ed è l’antitesi di quel degrado che in tante nostre società ha interesse a mettere in discussione l’etica della vita e della procreazione, del matrimonio e della vita familiare, come pure dell’educazione e della formazione delle giovani generazioni, introducendo unicamente una visione individualistica su cui arbitrariamente costruire nuovi diritti non meglio precisati nel contenuto e nella logica giuridica.

I diritti, dunque, non possono essere dei contenitori che secondo i momenti storici, culturali e politici si riempiono di significati e di elementi diversi. Anzi è l’assenza di valori a cui legare i diritti la causa principale della loro inefficacia e della loro violazione. La legge naturale, invece, consente a tutti di trovare una radice comune, anche di fronte a posizioni che pur avendo un diverso fondamento etico non sono disposte a cedere di fronte all’abbandono di quella verità che è comune al genere umano.

Solo una visione debole dei diritti umani può ritenere che l’essere umano sia la risultante dei suoi diritti, non riconoscendo che i diritti restano uno strumento creato dall’uomo per dare piena realizzazione alla sua dignità innata.

10. La Dichiarazione del 1948 è un punto di arrivo. Essa deve essere però anche sempre un nuovo punto di partenza; mantiene ancora tutto il suo potenziale che non va consumandosi, anzi richiede una maggiore condivisione in grado di tradursi in atti concreti. La Dichiarazione Universale, infatti, è chiamata non solo a difendere la libertà e le sue regole, ma anche ad impedire che esse possano degenerare nella negazione del primato dell’essere umano.

Tra i diritti umani, a rigor di termini, non esiste una gerarchia. Essi sono un tutt’uno, sono come un unico diritto: il diritto a poter diventare uomo o, come scriveva Paolo VI, a poter diventare più uomo. La Chiesa, insieme con la saggezza politica e giuridica, ha sempre sostenuto il principio della indivisibilità dei diritti umani: ognuno di essi rispecchia tutti gli altri e rimanda ad essi come a elementi complementari e insostituibili di se stesso. La sua insistenza sull’importanza del diritto alla vita e del diritto alla libertà religiosa non deriva, quindi, dalla volontà di voler inserire una qualche divisione tra i diritti dell’uomo, una gerarchia. L’insistenza nasce piuttosto dal bisogno di esplicitare il fatto che gli stessi diritti non si fondano da soli, ma sono espressione del volto della persona umana e della sua dignità. Aver ricevuto la vita in dono e poter ringraziare l’Autore della vita sono i primi due diritti umani. Ciò non significa collocare gli altri diritti a un livello inferiore, anzi, tutti i diritti umani vengono con ciò innalzati indivisibilmente a essere espressione di una dignità ricevuta per amore e non prodotta da tecniche umane. Il discorso può essere anche rovesciato. Si constata che quando viene meno il riconoscimento del diritto alla vita e alla libertà religiosa anche il rispetto per gli altri diritti vacilla.

Tutti i diritti dell’uomo si sostengono insieme, "simul stabunt, simul cadent", ma anche le loro violazioni, purtroppo, si sostengono insieme. Il principio della indivisibilità vale sia nel bene sia nel male. La Chiesa afferma che le ragioni di chi lotta per il diritto alla vita e alla libertà religiosa devono allargarsi fino a comprendere anche tutti gli altri diritti e afferma che chi è sensibile a qualche altro diritto non può disinteressarsi di quello alla vita né del diritto alla libertà religiosa. Non possiamo dividere tra loro i diritti umani, scegliere ideologicamente quale preferire, oppure attribuire all’uno o all’altro delle connotazioni politiche.

Nei discorsi pronunciati all’ONU che ho brevemente ricordato, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno precisato che il motivo ultimo e fondamentale per il quale la Chiesa ha a cuore i diritti umani è di ordine etico-religioso e riguarda la sua stessa missione. Nella comunità internazionale la Chiesa così esprime in modo ancor più multiforme il proprio contributo alla promozione e al rispetto dei diritti umani.

Come ha ribadito Benedetto XVI domenica scorsa, «Per le popolazioni sfinite dalla miseria e dalla fame, per le schiere dei profughi, per quanti patiscono gravi e sistematiche violazioni dei loro diritti, la Chiesa si pone come sentinella sul monte alto della fede e annuncia: "Ecco il vostro Dio! Ecco il Signore Dio viene con potenza" (Is 40,11)».

Per il credente, e per quanti ripongono la loro fede nella dignità umana, la piena tutela dei diritti non può che coincidere con un modello di vita e di ordine sociale in cui si realizza l’attesa di quei nuovi cieli e quella terra nuova nei quali trova stabile dimora la giustizia (Cfr. 2 Pt 3, 13). E’ questo il nostro comune augurio.


mercoledì 10 dicembre 2008

Declaration of Human Rights 1948


Chief Points:

Article 2. Non -discrimination. ...

Article 4. Bans slavery

Article 5. Bans torture.

Article 6 and 7. Equal rights....

Il valore indelebile della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo
Intervento della Santa Sede a Ginevra per i 60 anni del documento

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 17 : intervento pronunciato il 12 dicembre dall'Arcivescovo Silvano M. Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l'Ufficio delle Nazioni Unite ed Istituzioni Specializzate a Ginevra, in occasione della commemorazione del 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo.
Signor Presidente,

1. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo (1948) è un momento memorabile della storia della coesistenza umana e una grande espressione di una civiltà giuridica universale basata sulla dignità umana e orientata alla pace. La Delegazione della Santa Sede sostiene appieno la decisione del Consiglio dei Diritti dell'Uomo di celebrare in modo speciale il 60° anniversario di questa Dichiarazione. Dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, la Dichiarazione ha riaffermato solennemente il valore supremo della dignità umana di ogni persona e di ogni popolo, senza alcuna distinzione basata sul sesso, sulla condizione sociale, sull'appartenenza etnica, sulla cultura o sulle convinzioni politiche, religiose o filosofiche. Con questo documento, la dignità umana viene infine riconosciuta come il valore essenziale su cui si fonda un ordine internazionale autenticamente pacifico e sostenibile. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo proclama: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza» (art. 1). La Santa Sede celebra il 60° anniversario della Dichiarazione, in primo luogo, richiamando il grande senso di unità, solidarietà e responsabilità che ha spinto le Nazioni Unite a proclamare i diritti umani universali come risposta a tutte le persone e i popoli oppressi dalla violazione della propria dignità, un compito che ci sfida ancora oggi. In secondo luogo, ha promosso eventi, programmi educativi, iniziative assistenziali nel mondo, in particolare per i bambini, le donne e i gruppi vulnerabili cosicché Dio, come ha affermato Sua Santità Papa Benedetto xvi il 10 dicembre 2008, «ci conceda di edificare un mondo in cui ogni essere umano si senta accettato nella sua piena dignità e in cui i rapporti fra persone e fra popoli si basino sul rispetto, sul dialogo e sulla solidarietà». In terzo luogo, ha evidenziato ancora una volta il fatto che i diritti umani sono a rischio se non sono radicati nel fondamento etico della nostra comune umanità creata da Dio, che ha dato a ognuno i doni dell'intelligenza e della libertà.

2. I diritti umani hanno un ruolo sociale indispensabile. Essi rimangono «la strategia più efficace per eliminare le disuguaglianze tra Paesi e gruppi sociali, come pure per un aumento della sicurezza». Per la tutela degli individui e della società, la Santa Sede ha riaffermato incessantemente la centralità dei diritti umani e il ruolo dell'Organizzazione delle Nazioni Unite nel sostenere questo patrimonio comune della famiglia umana. La libertà e la creatività dell'uomo hanno elaborato diversi modelli di organizzazione politica ed economica nel contesto di differenti culture ed esperienze storiche.

«Una cosa è affermare un legittimo pluralismo di «forme di libertà, ed altra cosa è negare qualsiasi universalità o intelligibilità alla natura dell'uomo o all'esperienza umana». Il fondamento dei diritti umani è dunque un sano realismo, vale a dire il riconoscimento di ciò che è reale e iscritto nella persona umana e nella creazione. Quando nella ricerca dei cosiddetti «nuovi» diritti umani si crea un divario fra ciò che è rivendicato e ciò che è vero, si corre il rischio di reinterpretare il vocabolario consolidato dei diritti umani per promuovere meri desideri e misure che, a loro volta, divengono fonte di discriminazione e di ingiustizia e sono il frutto di ideologie egoiste. Quando si parla del diritto alla vita, del rispetto per la famiglia, del matrimonio come unione fra un uomo e una donna, di libertà di religione e di coscienza, dei limiti dell'autorità dello Stato di fronte ai valori e ai diritti fondamentali, non si dice niente di nuovo o di rivoluzionario e si mantengono entrambi la lettera e lo spirito della Dichiarazione, si tutela la coerenza tra la natura delle cose e il bene comune della società.

3. Questo anniversario della Dichiarazione ci spinge anche a riflettere sulla sua attuazione. In un mondo in cui ci sono troppe persone affamate, troppi conflitti violenti, troppe persone perseguitate per il loro credo, resta ancora una lunga strada da percorrere e il dovere di eliminare ogni discriminazione cosicché tutte le persone possano godere della propria dignità intrinseca uguale a quella degli altri. Nel perseguire questo scopo, gli sviluppi generati dalla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo sono motivo di speranza. La famiglia, «il nucleo naturale e fondamentale della società» (art. 16, 3), può essere la prima «agenzia» di tutela e di promozione della dignità umana e dei diritti fondamentali. Questo è in sintonia con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e con la Carta dei Diritti della Famiglia della Santa Sede, di cui, quest'anno, si celebra il 25° anniversario. L'Organizzazione delle Nazioni Unite e le sue Agenzie specializzate, questo Consiglio in particolare, sono chiamate a mettere fedelmente in pratica i principi della Dichiarazione, sostenendo gli Stati nell'adozione di politiche efficaci veramente incentrate sui diritti e sul senso di responsabilità di ognuno. I patti internazionali e gli accordi regionali derivati dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo confluiscono in un organismo di diritto internazionale che funge da necessario riferimento.

4. In conclusione, Signor Presidente, ogni essere umano «ha diritto a un ordine sociale e internazionale, nel quale i diritti e le libertà» enunciati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo possano essere pienamente realizzati» (art. 28). Ogni essere umano ha diritto a uno sviluppo integrale e il «diritto sacro» di vivere in pace. Con queste premesse i diritti umani non concedono solo privilegi. Sono piuttosto l'espressione e il frutto di ciò che è di più nobile nello spirito umano: dignità, aspirazione alla libertà e alla giustizia, ricerca di ciò che è bene e pratica di solidarietà. Alla luce delle esperienze tragiche del passato e di oggi, la famiglia umana si può riunire intorno a questi valori e principi essenziali, come un dovere verso i più deboli e i più bisognosi e verso le generazioni future. (da Zenit)

sabato 6 dicembre 2008

Alessio II

Biographie du patriarche Alexis II de Moscou et de toute la Russie

55 Le patriarche Alexis II (Alexis Mikhaïlovitch Ridiger) est né le 23 février 1929 à Tallinn (Estonie) dans une famille profondément religieuse. Le père Michel Alexandrovitch Ridiger († 1962) était originaire de Saint-Pétersbourg et avait fait des études de droit, terminé le lycée dans l'émigration en Estonie, en 1940 il avait achevé trois années de cours de théologie à Tallinn et fut ordonné diacre, puis prêtre ; pendant 16 ans il fut le recteur de l'église de la Nativité de la Vierge à Tallinn, membre, puis président du conseil diocésain. Sa mère — Hélène Iosifovna Pisareva († 1959) était originaire de Revel (Tallinn).

49-50 Depuis son plus jeune âge, Alexis Ridiger servait à l'église sous la direction de son père spirituel, l'archiprêtre Jean Bogoyavlenski, qui devint plus tard l'évêque Isidore de Tallinn et d'Estonie († 1949). De 1944 à 1947, il est le sous-diacre de l'archevêque Paul (Dmirovski; † 1946) de Tallinn, puis de l'évêque Isidore. Il étudie alors à l'école russe de Tallinn. En 1945, le sous-diacre Alexis reçoit la mission de préparer la cathédrale Saint-Alexandre-Nevski à sa réouverture (la cathédrale avait été fermée pendant l'occupation militaire). De mai 1945 à octobre 1946 il est serviteur de l'autel et responsable des ornements de la cathédrale. En 1946, il est psalmiste à l'église Saint-Siméon et en 1947 à l'église de Kazan de Tallinn. En 1947, il entre au séminaire théologique de Saint-Pétersbourg (à l'époque — Léningrad), qu'il achève avec mention en 1949. En première année de l'académie théologique de Saint-Pétersbourg, Alexis Ridiger est ordonné diacre le 15 avril 1950, puis prêtre le 17 avril, et nommé recteur de l'église de la Théophanie de Johvi dans le diocèse de Tallinn. En 1953, le père Alexis achève l'académie de théologie avec mention et reçoit le grade de candidat de théologie.
64-89 Le 15 juillet 1957, le père Alexis est nommé recteur de la cathédrale de la Dormition de Tartu et doyen de la région de Tartu. Le 17 août 1958 il est élevé au rang d'archiprêtre. Le 30 mars 1959, il est nommé doyen du doyenné de Tartu-Vilyandis du diocèse de Tallinn. Le 3 mars 1961, il prend la tonsure monacale dans la cathédrale de la Trinité de la laure de la Trinité-Saint-Serge. Le 14 août 1961, le hiéromoine Alexis est choisi comme évêque de Tallinn et d'Estonie avec mission de gérer provisoirement le diocèse de Riga. Le 21 août 1961, le hiéromoine Alexis devient archimandrite. Le 3 septembre, dans la cathédrale Saint-Alexandre-Nevski de Tallinn, est célébrée l'ordination épiscopale de l'archimandrite Alexis en évêque de Tallinn et d'Estonie ; le 14 novembre, l'évêque Alexis est nommé vice-président du département des relations extérieures du Patriarcat de Moscou. Le 23 juin 1964, l'évêque Alexis est promu archevêque. A partir du 22 décembre 1964, l'archevêque Alexis devient chancelier du Patriarcat de Moscou, et membre permanent du Saint Synode. Il restera à ce poste jusqu'au 20 juillet 1986. Le 7 mai 1965, l'archevêque Alexis est nommé président du comité de l'éducation, et en est libéré le 16 octobre 1986, sur sa propre requête. Du 17 octobre 1963 jusqu'en 1979, l'archevêque Alexis est membre de la commission du Saint Synode de l'Église orthodoxe russe pour les questions d'unité chrétienne et de relations interconfessionnelles.
64-19 Le 25 février 1968, l'archevêque Alexis est promu métropolite. Le métropolite Alexis a une responsabilité importante comme membre de la commission pour la préparation du 50e anniversaire (1968) et du 60e anniversaire (1978) du rétablissement du patriarcat dans l'Église orthodoxe russe ; comme membre de la commission du Saint Synode pour la préparation du concile des évêques de 1971, et comme président du groupe d'organisation et président du secrétariat du concile ; à partir du 23 décembre 1980, il est vice-président de la commission de préparation de la célébration du millénaire du baptême de la Rus' et président du groupe d'organisation de cette commission, puis du groupe de théologie — à partir de septembre 1986. Le 25 mai 1986, il est nommé président de la commission responsable de l'organisation des actions pour la réception des immeubles de l'ensemble architectural du monastère Saint-Daniel, de l'organisation et de la mise en œuvre de tous les travaux de restauration et de construction sur le territoire de celui-là d'un centre religieux et administratif pour l'Église orthodoxe russe. Il resta à ce poste jusqu'à sa nomination au diocèse de Saint-Pétersbourg (alors Léningrad). Le 29 juin 1986, il devient métropolite de Léningrad et de Novgorod avec mission de diriger le diocèse de Tallinn.
2_MG_4417 Le 7 juin 1990, lors du concile local de l'Église orthodoxe russe, il est élu patriarche de Moscou. Son intronisation a lieu le 10 juin 1990.
Il est co-président du comité russe d'organisation de la préparation au troisième millénaire et à la célébration du deuxième millénaire du christianisme (1998-2000). À l'initiative et avec la participation de Sa Sainteté le patriarche Alexis, eut lieu la conférence interconfessionnelle «Foi chrétienne et hostilité humaine» (Moscou, 1994). Sa Sainteté présida la conférence du comité consultatif chrétien interconfessionnel «Jésus-Christ hier et aujourd'hui, est le même, Il le sera pour l'éternité» (Hébr. 13, 8) ; «Le christianisme au seuil du 3e millénaire» (1999) ; le forum interreligieux de la paix (Moscou, 2000).
Sa Sainteté le patriarche Alexis est membre honoraire des académies théologiques de Saint-Pétersbourg et de Moscou, de l'académie orthodoxe de Crète (Grèce) ; docteur en théologie de l'académie théologique de Saint-Pétersbourg (1984) ; docteur en théologie honoris causa de l'académie théologique de Debrecen de l'Église réformée de Hongrie et de la faculté de théologie Jan Amos Komensky de Bratislava ; docteur en théologie honoris causa du séminaire général de l'Église épiscopale des États-Unis (1991) ; docteur en théologie honoris causa du séminaire (académie) de théologie Saint-Vladimir aux États-Unis (1991).
En 1992, il est élu membre de l'académie russe de l'éducation ; docteur en théologie honoris causa de l'université Alaska Pacific à Anchorage, Alaska, États-Unis (1993). Lauréat du prix A.E. Koulakovski de la république de Sakha (Iakoutie) «pour son action éminente pour la consolidation des peuples de la Fédération de Russie» (1993). La même année, Sa Sainteté reçoit le titre de professeur honoraire de l'université d'État d'Omsk pour les services rendus dans la sphère de la culture et de l'éducation. En 1993 — professeur honoraire de l'université d'État de Moscou pour services rendus dans le renouveau spirituel de la Russie. 1994 : docteur honoraire de l'université de Saint-Pétersbourg (24 janvier) ; docteur honoraire en théologie de la faculté de théologie de l'Église orthodoxe serbe de Belgrade (15 mai). Docteur honoraire en théologie de l'académie de théologie de Tbilissi (Géorgie, avril 1996) ; médaille d'or de l'université de Koshice ce pour la faculté de théologie orthodoxe (Slovaquie, mai 1996) ; membre d'honneur du Fonds international pour la charité et la santé ; président du conseil de surveillance pour la reconstruction de l'église du Christ-Sauveur.
Décoré de la plus haute distinction de la Fédération de Russie — l'ordre du saint apôtre André, de l'ordre «Pour les services rendus à la patrie», de nombreux ordres des Églises orthodoxes locales et d'ordres d'État de différents pays, ainsi que de décorations d'organisations civiles. En l'an 2000, Sa Sainteté est élu citoyen d'honneur de Moscou ; il est également citoyen d'honneur de Saint-Pétersbourg, Novgorod, des républiques de Mordovie, de Kalmykie, de Serguiev Posad, de Dmitrov. Sa Sainteté a été récompensé des prix nationaux de «l'homme de l'année», «Hommes remarquables de la décennie (1990-2000), qui ont contribué à la prospérité et à la glorification de la Russie», «l'Olympe national de russe» et le titre honoraire d'«homme du siècle» (Celovek-epokha).
2GolubDe plus, Sa Sainteté le patriarche est lauréat du prix international «Perfection. Bien. Gloire», accordé par l'Institut biographique de Russie (2001), et du prix «Personne de l'année», accordé par le holding «Top secret» (2002). Le 24 mai 2004 le patriarche Alexis a reçu, pour services rendus pour le renforcement de la paix, de l'amitié et de la concorde entre les peuples, la récompense de l'ONU «Apôtre de la justice», ainsi que l'ordre de Pierre-le-Grand (1er degré) avec le numéro 001. Le 31 mars 2005, le patriarche reçoit l'ordre «Étoile d'or pour la fidélité à la Russie» ; le 18 juillet 2005 — l'ordre civil : étoile d'argent «Reconnaissance de la société» numéro un «pour son activité zélée à soutenir socialement et spirituellement les vétérans de la grande guerre patriotique en relation avec le 60e anniversaire de la grande victoire».
Pendant ses années d'épiscopat, le patriarche Alexis a visité de nombreux diocèses de l'Église orthodoxe russe et de nombreux pays du monde, il a participé à de nombreux évènements de l'Église. Il a publié plusieurs centaines d'articles dans la presse religieuse et laïque de Russie et de l'étranger, des discours et des travaux sur des thèmes théologiques, historiques, pacifistes et autres.
2DSC_0047 Le patriarche Alexis a dirigé les conciles des évêques des années 1992, 1994, 1997, 2000 et 2004 et les réunions du Saint Synode. En tant que patriarche, il a visité 83 diocèses (à plusieurs reprises pour nombre d'entre d'eux), a effectué plus de 120 voyages dans le diocèse, avec pour dessein essentiel de pourvoir aux besoins pastoraux des communautés éloignées, de renforcer l'unité ecclésiastique et apporter le témoignage de l'Église face à la société.
Pendant son activité épiscopale, Sa Sainteté le patriarche Alexis a présidé à 84 ordinations épiscopales (dont 71 comme patriarche), a ordonné plus de 400 prêtres et presque autant de diacres.

Source et photographie : Mospat.ru

info: Orthodoxie.com