lunedì 18 aprile 2016

Intervista ad Alain de Benoist

Dopo gli incidenti suscitati nelle scuole dal rifiuto di alcuni studenti di osservare un minuto di silenzio in omaggio ai morti di “Charlie Hebdo”, Najat Vallaud-Belkacem annuncia il varo di un ampio programma di “formazione dei futuri cittadini ai valori della Repubblica” e aggiunge che “i candidati professori saranno d’ora in poi valutati sulla base della loro capacità di far condividere i valori della Repubblica”. Che cosa significa?
I «valori della Repubblica» che oggi vengono invocati ritualmente si riducono ad un solo concetto: la licità. Una laicità che non è la laicità “prudenziale” di cui parlava Émile Poulat, ma una sorta di nuova religione pubblica che, per imporsi, esige che il bambino sia sottratto a qualunque appartenenza, a qualunque credenza, a qualunque identità ereditata. È il principio stesso della metafisica progressista: l’idea che una società libera e fraterna potrà nascere solo dalla distruzione di tutte le forme particolari di radicamento. È altresì l’ideale di una società che si presume sia composta di soggetti autosufficienti, senza alcuna forma di impegno o di reciproco attaccamento che non sia volontaria, razionale o contrattuale. Vincente Peillon, d’altronde, lo aveva detto senza nascondersi dietro un dito: la scuola deve “strappare l’alunno a tutti i determinismi: familiare, etnico, sociale, intellettuale”. Per i moderni, essere liberi significa essere indeterminati. Il postulato basilare è che degli allievi a cui siano state tagliate le radici saranno portati alla “tolleranza”. In termini chiari: i bambini di origine immigrata si sentiranno meno stranieri in Francia quando i giovani francesi si sentiranno a loro volta stranieri a casa propria. Ovviamente, non è altro che un pio desiderio, giacché l’indistinzione generalizzata è fondamentalmente produttrice di conflitti. Inoltre, è una evidente deviazione del ruolo della scuola.
L’istituzione scolastica già non se la passa affatto bene. Negli ultimi anni, sono stati pubblicati innumerevoli libri per denunciare il calo di livello di una scuola trasformata in una “fabbrica di cretini”, come ha scritto Jean-Paul Brighelli. La colpa è delle riforme? Degli insegnanti?
Smettiamo di credere che la maggior parte degli insegnanti siano dei “sessantottini attardati”. Sono, anzi, nell’immensa maggioranza dei funzionari conformisti, che gestiscono le cose come possono e la cui principale preoccupazione è conformarsi all’ingiunzione che ricevono di evitare di “smuovere le acque”. Le continue riforme adottate da governi di destra o di sinistra da cinquant’anni a questa parte in genere hanno aggravato la situazione, ma è assolutamente inutile prendersela cin esse se non si capisce da quale ideologia discendono. La crisi della scuola ha fondamentalmente cause ideologiche. Ne distinguo almeno quattro. La prima è quella di cui ho già parlato. La si può riassumere in una frase: il rifiuto di trasmettere. François- Xavier Bellamy, nella sua eccellente opera intitolata Les déshérités, riporta queste parole di un ispettore generale dell’Educazione nazionale, che lo avevano profondamente segnato quando era un giovane insegnante: “Lei non ha niente da trasmettere!”. In questa prospettiva, la trasmissione della cultura è automaticamente sospetta di “alienazione” e “chiusura”. La cultura deve essere “decostruita” per poter fondare il sapere sulla sola ragione. Valérie Pecresse, ministro Ump dell’Insegnamento superiore, aveva perciò soppresso dai concorsi di ingresso alle “grandi scuole” la prova di cultura generale, giudicata “discriminatoria”. Oggi, interi pezzi di cultura vengono gradualmente abbandonati adducendo come motivo la lotta contro gli “stereotipi”, in particolare nell’ambito del “genere”. La memoria e l’identità di un popolo scompaiono così dall’apprendimento scolastico. A questa ideologia del rifiuto della trasmissione si aggiunge molto classicamente il vecchio egualitarismo. Poiché ci si rifiuta di ammettere che gli allievi non sono tutti egualmente capaci, dall’eguaglianza delle possibilità in partenza si passa all’eguaglianza dei risultati all’arrivo (l’intera classe deve “avere la maturità”). Risultati: crollo dei livelli, aumento degli illetterati e diplomi al ribasso. “A partire dal momento in cui si proibisce di trasmettere la cultura sostenendo che è discriminatoria”, scrive ancora François-Xavier Bellamy, “si rende l’origine sociale degli allievi più determinante che mai. Dato che il sapere non viene trasmesso a scuola, saranno salvati solo quelli che lo ricevono in famiglia”. La pensa così anche Michel Onfray: “La scuola di oggi uccide sul posto i figli di poveri e seleziona i figli delle classi favorite che monetizzano nella vita attiva non quel che hanno appreso a scuola ma quel che hanno appreso a casa”. In nome dell’eguaglianza si è così messo in piedi il sistema scolastico più inegualitario che esista. Bourdieu ha prodotto il sistema che metteva sotto accusa. Il terzo fattore, aggravato dal generale discredito del concetto di autorità, è il “pedagogismo” degli anni Ottanta e Novanta, il cui grande teorico è stato Philippe Meirieu (quello che un tempo proclamava che bisognava imparare a leggere sui fogli di istruzioni degli elettrodomestici). Con il pretesto di mettersi “all’altezza del bambino”, esso finisce con l’abbandonare ogni logica educativa, onde, come stabiliva la legge Jospin del luglio 1989, lasciare che il bambino “costruisca da solo i propri saperi”. Trasformato in gentile istruttore- accompagnatore, il buon professore sarebbe quello che lascia l’alunno “essere se stesso” in una scuola trasformata in “luogo di vita”. Da ciò discende la scomparsa dei corsi magistrali (a profitto delle “sequenze pedagogiche”) e la moltiplicazione delle “sperimentazioni” più aberranti, che hanno trascinato il sistema ancor più in basso. L’ultima influenza è più recente. È la concezione utilitaristica o “manageriale”, per la quale la scuola esiste non per educare ma per fornire “strumenti”, un “bagaglio” per trovare un mestiere. In questa concezione puramente mercantile della scuola, la cultura generale e gli studi classici vengono soppressi in dipendenza dal fatto che li si giudica “inutili”. La cultura, che appartiene all’ambito dell’essere, è ridotta ad un “capitale” quanto più leggero possibile, pensato nella sua totalità nel vocabolario dell’avere, giacché lo scopo è fabbricare “individui indeterminati, indifferenziati e indifferenti, attori e prodotti perfetti della società dei consumi”, come sostiene Bellamy. “Dal punto di vista antropologico”, scriveva Pasolini, “la rivoluzione capitalista esige uomini sprovvisti di legami con il passato”. Nel momento in cui si va verso l’instaurazione nella scuola del “tutto digitale”, questa tendenza è ovviamente destinata a svilupparsi.
Esistono delle soluzioni?
Se si vuol favorire negli allievi di qualsiasi origine la volontà di appartenere alla Francia, bisogna stabilire il principio che la Francia è prima di tutto una nazione (prima di essere una “Repubblica”) e che, come ha di recente ricordato Robert Redeker, l’amore di una nazione si nutre di due elementi basilari: l’amore della lingua e l’amore della storia. Ebbene: l’insegnamento della storia, della lingua e della letteratura francesi è stato sistematicamente distrutto. Non sarà la “laicità” a surrogarlo. In ultima analisi, non si può fare a meno di un’antropologia. Il problema è capire se l’uomo è o no un essere sociale la cui cultura è inerente alla sua natura umana, e se il dato specifico dell’esperienza umana sta nel fatto che noi non siamo immediatamente noi stessi. Finché queste questioni non saranno state poste, la scuola continuerà a sprofondare.
(28 gennaio 2015) 

domenica 10 aprile 2016

Un ricordo e un intervista al Card. Cottier



In un caldo mese di agosto, sul finire degli anni 90, mi ero recata, accompagnata dal mio vescovo di allora, Mons. Fernando Charrier, che amava trascorrere alcuni giorni di ferie tra le sue montagne, per un paio di settimane nella foresteria del Monastero della Visitazione di Pinerolo. Inizialmente non ero molto entusiasta a quell'idea. Quella delle "Visitandine" era una spiritualità che ancora non conoscevo e non mi diceva molto. Ma Mons. Charrier era legatissimo a quella comunità, vi era praticamente cresciuto, abitando vicino al monastero, me lo descriveva come un luogo storico, spiritualmente e artisticamente interessante, fondato nel '600, visitato dalla stessa S. Giovanna Freymot di Chantal, cofondatrice insieme a S. Francesco di Sales, Vescovo di Ginevra, dell'Ordine della Visitazione. Alla fine dovetti dargli ragione, oltre ogni aspettativa, perché conobbi una comunità accogliente e affettuosa, e vi trovai anche un ospite di riguardo. 

Padre Cottier si recava in quel luogo in estate, nei giorni precedenti alla festività dell'Assunta, per tenere delle catechesi alle monache. Lasciava sempre spazio a domande e curiosità, ed io, fresca di conversione, avevo trovato in lui una straordinaria disponibilità nel rispondere a tutte le questioni che mi arrovellavano. In quel bel contesto lessi le opere principali del S.Francesco di Sales e tutto quanto mi parve interessante nella fornita biblioteca del monastero. La mia prima chiacchierata con Padre Cottier, terminò con l'invito di andare a trovarlo qualora fossi passata da Roma. Così avvenne. Ma la prima volta fu per caso. Alla fine della storica celebrazione in S. Pietro, in cui si chiedeva perdono per le colpe della Chiesa, fortemente voluta da Giovanni Paolo II, lo incontrai all'uscita dalla Basilica di S. Pietro, alla fine del rito penitenziale.

Aveva un piccolo e spartano alloggio nel Palazzo Apostolico, sotto la loggia del Santo Padre, pieno di libri e riviste, con una minuscola cappellina, mi parlò del Priorato di Saint Pierre in Valle d'Aosta, una casa di riposo per sacerdoti anziani che in estate si trasforma in casa per esercizi spirituali.    Si recava in quel luogo ogni anno, sul finire del mese di agosto, per predicare gli esercizi. Da allora, per diversi anni, quello è diventato per me un appuntamento fisso. 

Venuta a conoscenza della sua scomparsa qualche giorno fa sono andata a ritrovare i miei taccuini di appunti sulle sue meditazioni, in genere leggeva e ci commentava le lettere paoline. Agli esercizi partecipavano persone molto diverse tra loro, laici, religiose, vi erano insegnanti di vario genere, ma anche operatori sociali, inutile dire che era sempre a disposizione di tutti, per le confessioni, per i consigli, per ogni necessità e tutti erano trattati allo stesso modo. Diventando cardinale, nel 2003, non ha cambiato il suo modo di trattare con le persone, continuava ad arrossire quando, alla fine delle meditazioni, qualcuno applaudiva. Anche quando alla fine del lungo pontificato di Giovanni Paolo II, venne sostituito come teologo della casa pontificia da un altro padre domenicano, è rimasto a servizio come teologo emerito spostandosi in un altro semplice piccolo alloggio non lontano dall'aula Nervi. Niente di più lontano dall'immagine di certi attici di cui si parla in questi giorni. 

L'ultima volta che ci siamo incontrati è stato circa quattro anni addietro. Ero a Roma per i miei esami  di "Scienze Religiose" e dovevo prendere una decisione che mi costava fatica. Ancora una volta mi veniva chiesto una radicale cambiamento di programma, ero molto recalcitrante e necessitavo di saggi consigli. Il Padre mi ascoltò con attenzione come sempre, poi non disse molte parole ma pregammo insieme nella sua cappellina per qualche minuto, prima del commiato, e, come sempre, mi diede la sua benedizione. 

L' intervista che segue è stata realizzata a Saint Pierre dopo i consueti esercizi spirituali ed è stata sicuramente determinante perché io mi decidessi a iniziare a studiare teologia in modo ordinato e sistematico.

                                                                           ***

"D. Quali sono i più diffusi errori teologici e le sfide per i cattolici del terzo millennio?

R. E’ una grossissima questione. Gli errori teologici ci sono sempre stati. Perciò c’è un Magistero della Chiesa che ci ricorda quale è l’interpretazione autentica della parola di Dio, perché la teologia è una riflessione umana alla luce della fede sul contenuto del messaggio biblico evangelico, questo messaggio è ricchissimo e anche complesso. Da sempre esistono errori di interpretazione, perciò per noi cattolici, questo messaggio della parola di Dio è affidato alla Chiesa e nella Chiesa è affidato al Magistero della Chiesa che ci dice qual è la linea giusta. Questo non toglie la necessità della teologia, nel senso di riflessione fatta da tutti i cristiani che devono “pensare” la loro fede, poi c’è una disciplina più specializzata, scientifica, chiamiamola teologia, che è un discorso di riflessione sul contenuto, le ricchezze e l’armonia del messaggio rivelato. Tutti i grandi Concili ecumenici sono intervenuti perché c’erano degli errori, prima di tutto sull’identità di Cristo, sul mistero stesso di Dio o sul mistero della S. Trinità. Questo mi sembra l’asse della riflessione teologica che ha provocato la Chiesa a precisare e lo fa lungo tutta la sua storia. Oggi i problemi riguardano l’incontro con le altre religioni.  C’è la tendenza da parte di molta gente ad accorgersi della ricchezza che tutte le religioni possono contenere e di porre come una sorta di equivalenza.

D. Si può dire che esistono delle mode nella teologia?

R. Si può dire, perché la teologia come tale è una disciplina umana, cioè non è Magistero. Il Magistero è assistito dallo Spirito Santo e può dire questo è giusto o questo è falso. Ma ciò non toglie la necessità della riflessione che può dipendere dai problemi ai quali un epoca è più o meno sensibile o può dipendere dalle filosofie che sono più forti in un’epoca che in un'altra. Tutto questo ha un influsso sul lavoro teologico.

D. Rahner in “Scritti teologici” aveva scritto che l’interlocutore della teologia in futuro non sarebbe più stata la filosofia ma la scienza. Cosa ne pensa?

R. Non sono pienamente d’accordo perché tutte le scienze “ricercano” e gli scienziati si rivolgono a dei problemi che non sono risolvibili dalla scienza stessa, cioè c’è sempre dietro le scienze una filosofia implicita e una mediazione della filosofia è necessaria. E’ vero che molti problemi ci arrivano proprio a partire delle scoperte scientifiche e anche dalle scienze umane, ma non vedo come si possa fare economia di questa mediazione.

D. La difficoltà di comprensione fra teologi e Magistero scaturiscono da un difficile compito di cui già parlò a Parigi nel 1980 Giovanni Paolo II di fronte ai responsabili delle università cattoliche: unificare due ordini di realtà che vengono talora percepiti come antitetici, la ricerca della verità e la certezza di conoscere già la fonte della verità stessa. Questo accadeva prima dell’enciclica “Fides et Ratio”. È cambiato qualcosa ?

R. No, la problematica è sempre la stessa e la risposta è sempre la stessa, già dai  tempi dei Padri della Chiesa. E’ stata elaborata in maniera magisteriale dal Concilio Vaticano I, quando si è parlato della ragione e della fede, perché la filosofia è una disciplina umana che cerca di rispondere ai grandi problemi che l’uomo si pone. L’uomo è dotato di ragione, è capace di cogliere il vero, tema che è sottolineato dalla “Fides et Ratio”. Invece la fede riceve la parola di Dio ma non si tratta dello stesso oggetto, perché la ragione conosce questo aspetto della realtà che è alla portata della ragione umana che ha dei limiti, può arrivare a conoscere per esempio le tracce di Dio nella natura, come Creatore, questo lo dice già S. Paolo all’inizio della Lettera ai Romani, invece la rivelazione cristiana biblica che comincia nel Vecchio Testamento e continua nel Nuovo, ci apre il mistero stesso di Dio, cioè una cosa che la ragione umana da se stessa non può penetrare. Dunque, al di là della ragione, c’è tutto il mondo del mistero di Dio e del disegno di salvezza di Dio che possiamo conoscere soltanto se Dio si fa conoscere lui stesso. Questo significa “rivelazione”. Allora il  Concilio Vaticano I ha aggiunto una cosa molto importante: dicendo come l’origine, la fonte, la radice sia della ragione umana, sia della rivelazione, è Dio stesso, le due non possono contraddirsi. Se c’è una contraddizione vuol dire che qualche cosa nel ragionamento umano non è andata bene, infatti la Chiesa ha sempre favorito la ricerca filosofica.

D. Negli ultimi decenni, la teologia, dopo essere stata appannaggio dei chierici, è coltivata da un numero considerevole di laici. Vede positivamente questo fenomeno? 

R. Certo. Pensare la nostra fede è una esigenza, l’ho detto all’inizio. Quando comincio  pensare la mia fede non sono solo e neanche il primo che lo fa, c’è stato lungo i secoli la costruzione di un patrimonio umano ricchissimo che è la tradizione teologica. Entrare nella conoscenza di questa grande riflessione umana dei credenti  lungo i secoli mi aiuta a riflettere, è una esigenza che ogni battezzato può sentire. Alcuni trovano proprio lì una vocazione specifica, molti laici, religiose, religiosi, fanno della teologia e, quando lo fanno bene, è un arricchimento molto positivo per la Chiesa.

D. Se dovesse dare un consiglio a chi incomincia lo studio della teologia...

R. Leggere il Catechismo della Chiesa Cattolica, che non è un libro di teologia ma ci dà la base. Se è possibile, seguire dei corsi, inizierei dai corsi biblici, l’esegesi, la fonte primaria della teologia è la Parola di Dio e dobbiamo conoscerla. Poi seguire i corsi sulle parti essenziali della teologia, quella speculativa, i grandi misteri della fede e la teologia morale che sono mondi immensi. Un corso di teologia sistematica, mi sembra utile per avere una visione globale del problema. Poi si può approfondire un tema, per arrivare a leggere i grandi teologi, S. Agostino, S. Tommaso, i Padri della Chiesa.

Vuole dare un  messaggio come religioso domenicano ai religiosi di oggi?

Se io sono filosofo e teologo è perché sono Domenicano. L’Ordine Domenicano è l’ordine della predicazione, cioè dell’annuncio della fede, tutto quello che abbiamo detto finora, l’aiuto ad aiutare la gente a penetrare il mistero della fede, con una dimensione missionaria e apostolica. S. Tommaso diceva che la nostra vita religiosa deve essere trasmettere agli altri il frutto della nostra contemplazione, la nostra teologia deve essere radicata nella preghiera, nella ricerca della perfezione cristiana, che è la carità. Due elementi fondamentali sono l’ufficio divino e la vita fraterna, perché, come diceva Paolo VI, la testimonianza fa parte della predicazione, non si può separare predicazione e testimonianza e la testimonianza è la testimonianza della comunità cristiana, cioè l’amore fraterno deve essere segno dell’amore di Dio. La vita consacrata, questo vale per tutti, è come un’anticipazione escatologica del regno, questo segno che è costituito dalla vita religiosa, la Chiesa ci tiene moltissimo. Essere teologo per me è quasi una conseguenza dell’essere religioso domenicano.


                                                                                                                      m.l.a.