lunedì 30 marzo 2009

Occhi al cielo...



“100 ore di Astronomia”: tutto il mondo con lo sguardo verso il cielo

Manca poco all’inizio della “100 ore di Astronomia”, una delle principali iniziative veramente globali previste per l’Anno Internazionale dell’Astronomia. Per 4 giorni, dal 2 al 5 aprile prossimi, in oltre 135 Paesi si terranno eventi di tutti i generi: osservazioni pubbliche del cielo, conferenze, mostre, visite agli Osservatori, professionali o amatoriali. Il vero “clou” dell’iniziativa sarà però una maratona di collegamenti continui con i maggiori centri di ricerca e Osservatori in tutto il mondo. Chiunque potrà seguirla in “webcasting” nel sito www.100hoursofastronomy.org. Numerose anche in Italia le attività per il pubblico che l’Istituto Nazionale di Astrofisica, gruppi di appassionati, associazioni e Comuni hanno organizzato per l’occasione. Tutti i dettagli su: http://www.astronomy2009.it/

Per 4 giorni, dal 2 al 5 aprile prossimi, praticamente in tutto il mondo si svolgerà “100 ore di
Astronomia”, una delle sette iniziative principali (cornerstone) in programma per l’Anno Internazionale dell’Astronomia, IYA 2009, che coinvolgerà astronomi professionisti, Istituti di ricerca, circoli di appassionati ed associazioni di ben 135 nazioni. In diretta su Web (www.100hoursofastronomy.org) si susseguiranno, ininterrottamente, collegamenti dai più grandi centri di ricerca e osservatori astronomici del mondo. Ma non solo web ovviamente, durante tutto il periodo della manifestazione si svolgeranno numerose iniziative per e con il pubblico: mostre, conferenze e osservazioni del cielo con telescopi amatoriali o professionali.


Quelle in programma in Italia possono essere consultate su www.astronomy2009.it.
L’Istituto Nazionale di Astrofisica, che coordina le iniziative italiane per l’IYA 2009, ha programmato osservazioni in diretta dal Telescopio Nazionale Italiano Galileo, che è nelle Isole Canarie, e dal Large Binocular Telescope in Arizona, il maggior telescopio binoculare esistente al mondo, di cui l’Italia è partner. I due grandi strumenti saranno inseriti ne “Il giro del mondo in 80 telescopi”, una “staffetta” di 24 ore consecutive tra i più grandi osservatori mondiali da Terra e dallo spazio che, per venti minuti ciascuno, trasmetteranno in diretta l’attività e le immagini del cielo riprese. Tutto l’evento, organizzato dallo European Southern Observatory, ESO, sarà visibile su web collegandosi al sito www.100hoursofastronomy.org oppure a http://www.ustream.tv/.


La diretta con il Telescopio Nazionale Galileo è in programma dalle ore 1.20 alle 1.40 ora italiana di sabato 4 aprile, mentre il Large Binocular Telescope trasmetterà le sue immagini tra le 7.40 e le 8.00, sempre di sabato 4 aprile. Ma non è tutto. L’Osservatorio Astronomico INAF di Bologna aprirà eccezionalmente al pubblico il 3 e 4 aprile il telescopio "G.D. Cassini" di Loiano. Sempre a Bologna, il 3 e 5 aprile, l’INAF-Istituto di Radioastronomia parteciperà con il grande radiotelescopio di Medicina (Bologna) ad osservazioni di galassie e quasar, in contemporanea con altre 14 analoghe parabole sparse in tutto il mondo, dall’Australia all’America. Conferenze e osservazioni pubbliche al telescopio sono in programma poi per la
sera del 2 aprile presso l’Osservatorio INAF di Capodimonte a Napoli. Ad Asiago (Vi) on i telescopi di Cima Ekar dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Padova l’appuntamento è per le serate dell’1, 2 e 4 aprile: si potrà osservare anche Saturno, il “signore degli anelli” del nostro Sistema solare.


Anche le sedi romane dell’INAF contribuiranno alle “100 ore di Astronomia”. L’Osservatorio di Roma e gli istituti IASF e IFSI parteciperanno ad una mostra divulgativa dal titolo “Frascati fra Scienza e Tradizione”, allestita nella settimana dal 30 marzo al 3 aprile a Bruxelles, presso il Parlamento Europeo. A Palermo infine l’Osservatorio Astronomico INAF e ARPA Sicilia organizzano, la sera del 3 aprile, osservazioni astronomiche del cielo per il pubblico, la trasmissione del webcast “Il Giro del mondo in 80 telescopi”, un collegamento con il Telescopio Nazionale Galileo e un’improvvisazione musicale.
Inoltre, in tanti Comuni italiani e per tutta la durata della manifestazione, gruppi di appassionati, associazioni e Comuni organizzano conferenze, osservazioni guidate del cielo e del Sole ai telescopi, mostre fotografiche, visite ai planetari. Tutti i dettagli sulle iniziative sono disponibili sul sito web http://www.astronomy2009.it/.

Per informazioni: Ufficio Comunicazione INAF , tel. 06 355 33 390, cell. 346 002 19 43,
e-mail:info2009@inaf.it

Sito Web dell’iniziativa internazionale e webcasting: www.100hoursofastronomy.org

domenica 29 marzo 2009

V Domenica di Quaresima

« Se il chicco di grano muore, produce molto frutto » Cristo fu la primizia della nuova creazione... Infatti risuscitò sgominando la morte; anzi ascese al Padre, come dono offerto quale primizia dell'umana natura, rinnovata nella incorruttibilità... Così possiamo anche consideralo come un manipolo di frumento come quelli che il Signore domandava a Israele di offrirgli nel Tempio (Lv 23,9). Il genere umano può essere paragonato al grano nel campo: nascendo dalla terra, in attesa della sua conveniente crescita, è strappato via via dalla morte lungo il corso del tempo. Così disse Cristo stesso ai suoi discepoli: «Non dite voi: ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna» (Gv 4,35-36). Cristo, nascendo dalla santa Vergine, è sorto in mezzo a noi come una spiga di frumento. Egli stesso anzi, si definisce come un grano di frumento: «In verità vi Dio: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto». Perciò egli si è fatto davanti al Padre come qualcosa di consacrato e immolato per noi, simile a un manipolo di spighe, primizia della terra. Un'unica spiga, ma considerata non sola bensì unita a tutti noi che, come un manipolo formato da molte spighe, siamo un solo fascio.Cristo Gesù infatti è uno solo, ma può essere considerato, ed è realmente, come un manipolo compatto di spighe, in quanto contiene in sé tutti i credenti, in una mirabile unità spirituale; altrimenti perché il beato Paolo avrebbe scritto: «Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli» (Ef 2,6)? Essendo egli uno di noi, siamo diventati concorporei con lui e mediante la sua carne abbiamo ottenuto l'unione con lui. Per questo, egli stesso, in un altro punto rivolge a Dio Padre queste parole: «Come tu Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola» (Gv 17,21). Il Signore è dunque la primizia dell'umanità destinata ad essere riportata nel granaio del cielo.

San Cirillo Alessandrino (380-444)

giovedì 26 marzo 2009

Il RAGGIO VERDE

Le rayon vert illumine la cathédrale de Strasbourg



Des centaines de touristes, appareil photo au poing, ont saisi vendredi 20 mars le rayon vert qui, à chaque équinoxe, vient mourir sur un Christ de pierre dans la cathédrale de Strasbourg.

Il est 11h38 - midi à l'heure solaire - et, fidèle à son rendez-vous avec le printemps, un rayon de soleil qui se teinte de vert en traversant un vitrail vient "illuminer" quelques minutes un Christ gothique.

Les flashs crépitent et les caméras de télévision tournent pour illustrer cet événement annonciateur d'un printemps particulièrement attendu cette année en Alsace.

Le rai de lumière qui traverse le vitrail méridional représentant le patriarche Juda (ndlr: Juda sans "s"), ancêtre de Jésus, s'est positionné à la minute prévue sur le Christ, illuminant son visage puis descendant peu à peu jusqu'à ses pieds dans une course de 20 minutes environ.

Ce phénomène a été découvert en 1972 par Maurice Rosart

Pendant sept jours, il continuera à apparaître à la même heure, mais un peu plus bas chaque jour. Il disparaîtra ensuite jusqu'au 23 septembre, jour de l'équinoxe d'automne, à 12h24 précises.

Ce phénomène a été découvert en 1972 par Maurice Rosart, un géomètre en retraite.

Il se dit persuadé que l'étrange facétie astronomique revêt un caractère symbolique voulu. Des vitraillistes qui ont rénové le triforium sud de la cathédrale auraient "sciemment créé le phénomène", assure-t-il contre l'avis des autorités ecclésiastiques.

Les autorités rejettent toute interprétation ésotérique expliquant que dans les cathédrales, "on observe souvent des phénomènes liés à des changements de verre".

"Le problème, c'est qu'on n'a retrouvé aucune trace écrite pour expliquer le sens de ce rayon. Alors, chacun est libre de ses suppositions", avait expliqué, Maurice Rosart, ravi de "l'intérêt croissant" du public et des télévisions. (la-croix.com)

AFP

Photo : le rayon vert passe à travers un vitrail de la cathédrale de Strasbourg, vendredi 20 mars 2009 (Photo AFP/Hertzog)

martedì 24 marzo 2009

“Construire la maison Europe”
Déclaration des évêques de la COMECE en vue des élections européennes des 4-7 juin 2009
1. Les élections européennes : une opportunité pour construire une Europe meilleure
Après 64 années de développement pacifique et 20 ans après la chute du Rideau de Fer, qui a mis un terme à la division du continent, le processus d’intégration européenne mérite d’être apprécié, en dépit de certaines lacunes. C’est pourquoi nous, les évêques de la COMECE, soutenons et promouvons l’Union européenne comme projet d’espoir pour tous ses citoyens.

Même en ces temps d’incertitudes dus à la crise financière et économique, l’Union européenne a prouvé qu’elle est un havre qui s’efforce de préserver la stabilité et la solidarité parmi ses membres. Aujourd’hui, en 2009, l’Union européenne porte en elle la capacité et les moyens de répondre aux défis les plus urgents et les plus pressants de notre temps.

En participant à l’élection du Parlement européen, tous les citoyens ont la possibilité de contribuer au développement et à l’amélioration de l’Union européenne.

2 La participation aux élections : un droit et une responsabilité

L’Eglise catholique a dès le départ soutenu le projet d’intégration européenne et continue à le soutenir aujourd’hui. Tout chrétien a non seulement le droit, mais également la responsabilité de s’engager activement dans ce projet en exerçant son droit de vote.

La participation des chrétiens est essentielle pour redécouvrir l’« âme de l’Europe », qui est vitale pour répondre aux besoins fondamentaux de la personne humaine et pour le service du bien commun.

Le Parlement européen, à travers ses pouvoirs et ses compétences (qui seront encore renforcés à l’issue de la ratification du Traité de Lisbonne), doit contribuer à répondre à ces aspirations et objectifs.

3 Ce que les chrétiens attendent du Parlement européen :

Les principes fondamentaux de toute société sont la dignité humaine et la promotion du bien commun. C’est pourquoi ces principes doivent se trouver au coeur même de toutes les politiques de l’Union européenne.

Compte tenu du rôle considérable joué par le Parlement européen, nous attendons des membres du Parlement européen qu’ils participent et contribuent activement à ce qui suit :

‐ respecter la vie humaine de la conception à la mort naturelle ‐ partie intégrante des législations, programmes et politiques de l’nion européenne dans leur ensemble;

‐ soutenir la famille fondée sur le mariage ‐ compris comme l’nion entre un homme et une femme ‐ en tant qu’nité de base de la société;

‐ promouvoir les droits sociaux des travailleurs en leur procurant des conditions de travail respectueuses de leur santé, de leur sécurité et de leur dignité;

‐ appuyer une gouvernance économique fondée sur des valeurs éthiques visant un développement humain durable au sein de l’Union européenne et au niveau mondial;

‐ promouvoir la justice dans les relations de l’Union européenne avec les pays en voie de développement par le biais d’une assistance financière et de partenariats innovants ;

‐ faire preuve de solidarité par l’élaboration de politiques d’aide envers les plus faibles et les plus nécessiteux dans nos sociétés (en particulier, les personnes avec un handicap, les demandeurs d’asile, les immigrés);

‐ protéger la Création par la lutte contre le changement climatique et l’encouragement d’un style de vie basé sur la modération;

‐ promouvoir la paix dans le monde par une politique extérieure de l’UE coordonnée et cohérente.

Eclairés et guidés par l’enseignement du Christ, les chrétiens sont disponibles et désireux d’aider à la satisfaction de ces aspirations, ayant à l’esprit la déclaration de Sa Sainteté le Pape Jean‐Paul II : “L'inspiration chrétienne peut transformer l'ensemble des composantes politiques, culturelles et économiques en une convivialité où tous les Européens se sentent chez eux” (Ecclesia in Europa, 121).

lunedì 23 marzo 2009

IV Domenica di Quaresima

QUARTA QUARESIMA, B3
2 Cr 36,14-23; Sal 136; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21

Nell’incontro con Nicodemo, uno dei capi dei farisei che gli sarà fedele sino alla fine, Gesù illustra il mistero di Dio che si rivela nella sua persona e nella sua storia. Tutto il colloquio è incentrato sulla necessità dell'esaltazione (sulla croce) del Figlio dell'uomo e della nuova nascita per l'uomo che vuole entrare nel regno di Dio. Lo sguardo della chiesa, lungo tutta la liturgia quaresimale, è teso alla Pasqua e si fissa su quel Figlio dell'uomo che viene innalzato proprio sulla croce.
La liturgia di oggi sfrutta dei punti di osservazione privilegiati. La prima lettura, tratta dal secondo libro delle Cronache, si conclude con l'invito ai deportati in Babilonia a salire a Gerusalemme e tornare a godere dell'alleanza che Dio rinnova loro. Questa pagina conclude la terza parte, denominata Scritti, della Bibbia ebraica; è l'ultima pagina della Bibbia secondo la disposizione del canone ebraico. La liturgia collega il salire a Gerusalemme, così tipico della tensione dell'anima e della storia degli ebrei, con il salire di Gesù alla città santa per la sua Pasqua, per l'esaltazione sulla croce, argomento del suo colloquio con Nicodemo. L'alleanza di Dio con il popolo è rivisitata con l'immagine dell'offerta della salvezza in Gesù da parte del Padre che ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, come proclama il canto al vangelo.
Nicodemo non ha qualcosa da chiedere a Gesù in particolare. Evidentemente è mosso da benevolenza nei suoi confronti, è profondamente colpito dal modo di agire di Gesù e si chiede che valore abbia il suo apparire rispetto alla storia che vive con il suo Dio. Gesù legge il suo cuore e ne interpreta il movimento profondo come desiderio di vedere il regno di Dio. Nicodemo segue il discorso di Gesù ma continuamente chiede: “Come può avvenire quello che dici? Non comprendo. Gesù non ha altra possibilità di spiegargli le cose se non di focalizzare la sua attenzione sul mistero della sua persona. Prima aveva parlato di nascita dall'alto, da acqua e Spirito, alludendo evidentemente al mistero del battesimo e del dono dello Spirito Santo che ci fa nuove creature, adatte per il regno di Dio. La nascita implica la volontà di qualcun altro. Nessuno sceglie di nascere, occorre che qualcun altro abbia voluto farmi nascere. In primo piano, parlando di nuova nascita, c'è appunto la volontà di Dio, l'amore suo che a noi si dona e ci chiama. E subito dopo annuncia: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Di lui parla l'immagine del serpente di bronzo che viene innalzato da Mosè nel deserto secondo il racconto di Numeri 21,4-9.
Si tratta di comprendere il nesso tra l’invio del Figlio, esaltato sulla croce e il dono della vita eterna. La comprensione non può che abbozzarsi da dentro quell’imperativo tremendo: bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, come Gesù si è premurato di ricordare più volte e in varie occasioni ai suoi discepoli. Quando in bocca a Gesù troviamo quel bisogna, è necessario, dobbiamo intendere: si tratta di un evento che non è alla nostra portata, che non risponde alle nostre attese, che noi non avremmo mai immaginato perché comporta la rivelazione di un segreto di Dio. E non solo di un segreto nel senso che ci fa conoscere qualcosa che fino ad allora non era noto, ma di un segreto nel senso che caratterizza l'intima vita di Dio e quindi caratterizzerà l'intima vita dei suoi figli. Se Gesù deve essere innalzato, deve morire in croce, non è solo in ragione del peccato dell'uomo, ma della manifestazione del segreto della vita divina che a tutti verrà comunicata in modo da vivere di quella pienezza che appartiene solo a Dio. Gesù è l'Agnello immolato fin dalla fondazione del mondo, come suggerisce il testo di Ap 13,8. Il mistero adombrato dalla parola di Dio è che la sofferenza non è legata al peccato, ma al dono dell'essere da parte di Dio, alla creazione stessa e quindi alla natura della stessa vita trinitaria che Gesù è venuto a svelarci e a comunicarci perché ne diventiamo partecipi e possiamo così non subire più la morte. Se Dio conosce le nostre sofferenze non è solo perché le vede in noi, ma perché le vive sue e la salvezza che ci dona è proprio quella di farci vivere quella sofferenza in quell'abisso di amore che costituisce la rivelazione suprema della realtà di Dio. Gesù è proprio la prova e la misura dell'amore di Dio per noi e come suonano vere le parole di Paolo ai Romani 8,35.39: “chi ci separerà dall'amore di Cristo? ... Io sono persuaso che né morte né vita ... né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore”! A questo conduce l'esperienza della fede, a questo porta quella vita nuova che ci viene data al battesimo e che risulterà incomprimibile e incorruttibile di fronte a qualsiasi evento.
Allora il credere in Gesù significa far fiducia all'amore che Dio ha per noi. Non siamo più sotto il segno della condanna, nonostante che ancora agisca la potenza del peccato nella nostra vita, perché il cuore è rinato, ha potuto percepire in Gesù l'amore di Dio e a quello sta aggrappato. La preghiera dopo la comunione recita: “O Dio, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo, fa’ risplendere su di noi la luce del tuo volto, perché i nostri pensieri siano sempre conformi alla tua sapienza e possiamo amarti con cuore sincero
. Chiedere che i pensieri siano conformi alla sapienza significa chiedere che le nostre radici interiori derivino dall’esperienza dell'amore di Dio per l'uomo, che in Gesù comporta la condivisione della sua umanità come luogo dello splendore della presenza di Dio in questo mondo.

mercoledì 18 marzo 2009

Torture moderne (La corona di spine)

Depressione: curarla ricaricando il cervello come una pila.
Trattamento sperimentato in Italia: risultati preliminari incoraggianti su pazienti «resistenti» ai farmaci

(Grazia Neri)

MILANO - Se il cervello fosse come una pila, la depressione potrebbe essere vista come se il livello della «batteria» fosse basso. Perchè allora non ricaricare un cervello gravemente depresso con la corrente, innocua e indolore? È quello che hanno provato a fare i ricercatori del Policlinico Ospedale Maggiore di Milano guidati da Alberto Priori, in collaborazione con la Clinica Villa Santa Chiara di Verona, in uno studio pubblicato oggi sul Journal of affective disorders.

L'ESPERIMENTO - Gli specialisti hanno applicato due elettrodi sulla fronte dei pazienti, collegandoli a uno stimolatore elettrico gestito da un computer. Il dispositivo, che rilascia una corrente elettrica continua a bassa intensità, è stato testato su 14 pazienti (di cui 13 donne) gravemente depressi e sui quali i farmaci non avevano sortito alcun effetto. «I pazienti - dicono i ricercatori - sono stati sottoposti alla tecnica due volte al giorno per cinque giorni consecutivi, riportando un marcato miglioramento già dopo cinque giorni, che si manteneva per diverse settimane».

PROSPETTIVE - La tecnica potrebbe essere usata su coloro che soffrono delle forme più gravi di depressione, circa il 30% dei 5 milioni di italiani colpiti, e «seppure lo studio sia ancora preliminare e su un piccolo numero di individui, i risultati indicherebbero una nuova possibilità per il trattamento della depressione grave farmaco-resistente». I ricercatori sono già al lavoro per estendere questi primi risultati preliminari:


17 marzo 2009 (Corriere della Sera)



La provocazione terapeutica chiamata elettroshock

di CLAUDIA DI GIORGIO

E' la più controversa delle terapie psichiatriche e torna ciclicamente ad occupare le prime pagine dei giornali, suscitando ogni volta polemiche roventi. Stiamo parlando dell'elettroshock, o, per usare il gergo medico, la terapia elettroconvulsivante, al centro, in questi giorni, dell'ennesima diatriba tra favorevoli e contrari. Inutile, repressivo e barbarico o insostituibile salvatore di vite umane? Ora da uno studio scientifico statunitense viene una provocazione - a favore dell'"elettro" - che merita di essere conosciuta. Proprio nei giorni in cui in Italia la circolare del ministro della Sanità Rosy Bindi, a favore di questa pratica, sta suscitando tante polemiche, nel mondo sia politivo che scientifico.

Per il profano che non si accontenta di suggestioni emotive, è difficile districarsi tra le diverse posizioni e sfuggire alle evocazioni di tanto cinema e tanta letteratura. Lasciamo dunque da parte per un momento il ricordo delle immagini di "Qualcuno volò sul nido del cuculo", (che sarebbe un po' come tentare di formarsi un'opinione sulla chirurgia del trapianto di organi sulla base dei film di Frankestein), e vediamo anzitutto in cosa consiste oggi l'elettroshock. Il fondamento medico della terapia sta nella constatazione, che risale ai tempi di Ippocrate, che una convulsione di tipo epilettico ha effetti positivi sulla depressione.

Nel corso dei secoli, le convulsioni sono state provocate con vari metodi, spesso estremamente violenti e pericolosi, fino a quando, nel 1938, due medici italiani, Ugo Cerletti e Lucio Bini, non ebbero l'idea di ricorrere all'elettricità. Come molte altre terapie psichiatriche, nella fase iniziale l'elettroshock è stato usato in maniera grossolana, francamente pericolosa e talora utilizzata più per controllare i pazienti scomodi che per ragioni effettivamente terapeutiche. Ma dai tempi di Cerletti e Bini, la metodologia dell'ECT (per usare l'acronimo inglese di "electroconvulsant therapy") si è evoluta e perfezionata ed oggi la pratica psichiatrica effettua quella che viene chiamata "terapia elettroconvulsivante unilaterale", così detta perché coinvolge solamente uno degli emisferi cerebrali.

Niente sedie elettriche, legacci di cuoio e dosi elevate di elettricità somministrate quasi a casaccio. Oggi l'intervento viene eseguito con macchine computerizzate e programmate a seconda del paziente, in anestesia generale e con l'obbligatoria presenza di uno psichiatra e di un anestesista. Ed altrettanto obbligatorio, almeno in teoria, è il consenso del paziente o di chi ne fa le veci, che a termini di legge deve essere pienamente informato sul funzionamento della terapia e sui suoi effetti collaterali.

Al paziente vengono applicate due piastrine metalliche all'esterno dell'emisfero non dominante del cervello (il destro, nella maggior parte dei casi), attraverso cui viene fatta passare una corrente dell'intensità di circa 0.9 Ampere (tanto per intenderci, per accendere una lampadina servono 2 Ampere). L'energia è di circa 24 joules e il voltaggio utilizzato (si tratta di corrente continua, come quella delle batterie) è di circa 100-110. La scossa dura circa 0.14 secondi, e la convulsione che ne segue va da 10 a 40 secondi. La seduta viene ripetuta due o tre volte a settimana per circa un mese, a seconda dei casi.

Ma cosa fa la scossa elettrica? In pratica, riattiva di colpo i neurotrasmettitori, rialzando in particolare la noradrenalina, che nei depressi sarebbe estremamente carente. Equivale, insomma, ad una dose elevatissima di antidepressivi somministrata in un colpo solo, sostituendo l'intervento farmacologico che, in dosi equivalenti, sarebbe pericolosamente tossico.

Una scossa rivivificante, dunque, che rimette in moto meccanismi cerebrali devastati dalla malattia. Da usare, e questo viene sottolineato in tutti i testi ufficiali, anche i più favorevoli, solo ed esclusivamente per i casi di emergenza. Nel 1985, i National Institutes of Health americani hanno dedicato al problema dell'elettroshock un'intera conferenza, emettendo alla fine una sentenza favorevole alla sua applicazione. Citando direttamente dal documento finale emesso dai NIH, "nessuno studio ha rilevato un'altra forma di terapia che si dimostri superiore all'Ect per la cura a breve termine delle depressioni gravi." L'unica terapia possibile, insomma, per i soggetti in condizioni acute, con evidenti intenzioni suicide, catatonia o mancata rispondenza alle cure farmacologiche. L'elettroshock permetterebbe dunque di recuperare un paziente a rischio di vita (oppure troppo anziano o debilitato per assumere farmaci) che potrà poi essere curato con antidepressivi e/o psicoterapia.

I fautori dell'elettrochock sostengono infatti che non è possibile mettere sullo stesso piano un intervento di emergenza, di durata limitata, come l'Ect e una cura lunga e complessa come quella psicoterapica, inapplicabile nella maggioranza dei casi acuti. E per molti soggetti, aggiungono, la psicoterapia è comunque improponibile, perché prevede la volontà del paziente a sottoporvisi, e gli strumenti culturali ed anche finanziari per proseguirla e trarne giovamento.

L'elettroshock uscirebbe quindi assolto e addirittura vincente nella letteratura medica più diffusa e recente. Ma non ne vanno per nulla sottovalutati gli effetti collaterali, che rimangono pesanti anche rispettando la metodologia prevista. I rischi di mortalità sono bassi (2,9 decessi su 10.000 secondo lo studio più pessimistico, 4,5 su 100.000 secondo il più favorevole) e vanno comunque confrontati con un rischio di suicidio che tocca una media del 15 per cento nei depressi gravi. Tuttavia, immediatamente dopo il risveglio, l'elettrochock provoca uno stato confusionale, in alcuni casi anche molto grave, ed una perdita di memoria che può coprire anche un arco di una decina di giorni.

Secondo i Nih, inoltre, l'1 per cento circa dei pazienti sottoposti a ECT può soffrire di forme gravi di amnesia, anche se generalmente i problemi si risolvono entro sei-sette mesi dal trattamento. Una ricerca condotta a tre anni dalla terapia, però, ha rilevato in molti pazienti un complessivo peggioramento delle capacità di memorizzazione. Un po' salomonicamente, il panel di esperti dei National Health Institute (che comprendeva anche psichiatri decisamente contrari all'Ect), ha concluso la sua conferenza sottolineando che servono ancora altri studi sui meccanismi di base del funzionamento dell'elettrochock, raccomandando che la scelta della terapia venga effettuata solo dopo "una complessa considerazione di vantaggi e svantaggi a confronto con altre terapie" e ricordando che "per prevenire errori ed abusi è essenziale stabilire adeguati standard procedurali e di controllo dell'Ect". Sembra insomma di poterne concludere che se gli abusi e gli errori del passato (sperando che appartengano solo al passato) non possono essere utilizzati come argomenti a sfavore della terapia, quando si troverà un'alternativa efficace all'elettrochock tireremo tutti quanti un bel respiro di sollievo. Pazienti, psichiatri e pubblica opinione.

***

Stop elettroshock

Nonostante la mancanza di adeguati e rigorosi studi scientifici (in cinquant'anni ne sono stati effettuati sei), l'utilizzo dell'elettroshock è stato generalizzato e allargato alla quasi totalità dei disturbi psichiatrici: in particolare, viene generalmente utilizzato con pazienti gravemente depressi, quando altre forme di terapia, come gli psicofarmaci o la psicoterapia, non sono stati efficaci o non sono indicati, o si valuta che non possano essere di aiuto, come in casi di emergenza come ad esempio un elevato rischio di suicidio; pazienti che soffrono delle principali forme di mania (un disturbo dell'umore associato a comportamento iperattivo, irrazionale e distruttivo), alcune forme di schizofrenia, e qualche altro disturbo mentale e neurologico. L'elettroshock è usato anche nel trattamento dei disturbi mentali nei pazienti anziani, le cui condizioni di salute possono sconsigliare un trattamento farmacologico.

Proprio sulla riduzione del rischio di suicidio, esiste uno studio - spesso citato dai fautori dell'elettroshock - "Mortality in depressed patient with electroconvulsive therapy and antidepressants", di D. Avery e G. Winokur, pubblicato nel 1976; esso recita testualmente: "Nel presente studio, i trattamenti utilizzati non hanno dimostrato di avere alcuna efficacia nel diminuire i suicidi".

Nel 1986 è stata pubblicata una rassegna critica di cinque studi di Crow e Johnston, condotti tra il 1953 e il 1966 mettendo a confronto elettroshock vero con elettroshock simulato. I risultati furono i seguenti: solo una particolare patologia, la depressione delirante, mostrava un sostanziale miglioramento con la Tec vera rispetto a quella simulata; tale miglioramento non permaneva per un periodo superiore ad un mese, dopo di che i pazienti trattati e non trattati tornavano ad essere indistinguibili quanto a sintomatologia. In un trial del 1985, Gregory, Slawers e Gill confrontarono 69 pazienti depressi, giungendo alle stesse conclusioni.

Un dato molto importante da sottolineare è che i due terzi delle persone che subiscono l'elettroshock nel mondo sono donne.

Negli anni passati, l'elettroshock è stato utilizzato come "terapia" per omosessuali e alcolisti. Negli anni '50 e '60 il prof. Giorgio Coda, uno psichiatra di Collegno, somministra elettroshock lombopubici ai bambini enuretici - quelli che fanno pipì addosso durante la notte. L'operato del prof. Coda è stato ampiamente documentato nel libro "La fabbrica della follia" (Associazione per la lotta contro le malattie mentali, La fabbrica della follia, Torino, 1971, Einaudi): "la variante dell'elettromassaggio era utilizzata per i più svariati fini... sugli alcolisti, sui catatonici, perfino sui morti per vederne le reazioni... consisteva nell'applicare due elettrodi alle tempie del paziente e poi, anziché dare la corrente in misura da far perdere la coscienza, nell'agire alternativamente sul pulsante, procurando ripetute scariche con un effetto che doveva essere terribile...". Nel 1974 il prof. Coda viene processato con l'accusa di aver torturato i suoi pazienti con la macchina da elettroshock.

Segnalazioni sull'utilizzo dell'elettroshock come strumento di tortura risultano nei rapporti delle principali organizzazioni umanitarie mondiali; nel Kashmir è utilizzato per estorcere confessioni "spontanee" ai ribelli armati (vedasi "Informazioni ottenute con la tortura e il terrore", Gabriel Kash in "Avvenimenti" del 28 giugno 1995).

Nel Sud Africa della segregazione razziale, crescono e proliferano manicomi per neri, i centri Smith Mitchell, all'interno dei quali l'elettroshock è usato come mezzo punitivo e unica terapia psichiatrica, come risulterà dalle denunce del 1975 e dalla condanna da parte dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (1977).

La recente circolare del Ministro della Sanità Rosy Bindi consiglia, su indicazione del Consiglio Superiore di Sanità, l'utilizzo dell'elettroshock nella cura delle seguenti patologie: depressione, mania, disturbo schizofreniforme, schizofrenia, catatonia, sindrome maligna da neurolettici, gravi disturbi mentali in corso di gravidanza, psicosi puerperale. La stessa circolare definisce la TEC come "presidio terapeutico di provata efficacia".

***

Esistono persone decisamente innocue sottoposte a questo tipo di "cura" e a loro insaputa, e a insaputa dei loro parenti. Esistono persone sottoposte a questo trattamento ogni qualvolta devono compiere qualcosa di importante in cui è richiesta una certa lucidità mentale, un incontro di lavoro, un esame...ecc. ecc. Gli effetti immediati sono confusione mentale, difficoltà di espressione, apatia, mancanza di forza di volontà, memoria a "buchi". Se può andare bene come arma in mano alle forze dell'ordine per bloccare un malvivente, o un potenziale assassino, perché deve essere usata per colpire persone innocenti? Quanti danni materiali, morali e fisici può chiedere una persona che è stata sottoposta da un decennio a questo trattamento? I danni alla "corteccia" superficialmente quasi invisibili, tranne a volte un piccolo rossore e una sorta di mini "bernoccolo" dolente al tatto, ma non subito, compare diverse ore dopo la scossa. Alla lunga diviene come una sorta di "corona di spine"...!
Organizzazioni umanitarie, dove siete?
(MLA)

martedì 17 marzo 2009

Prigioni invisibili?

ÉTATS-UNIS • Terrorisme : le traitement des prisonniers en question Au lendemain de son enquête révélant l’existence en Europe de prisons secrètes où la CIA envoie des terroristes présumés, The Washington Post revient sur le problème plus vaste du non-droit qui entoure les prisonniers depuis 2001.
Dessin de Patrick Chappatte
Le mois dernier, un prisonnier de la base militaire de Guantanamo Bay a brusquement interrompu un entretien avec son avocat pour regagner une cellule où il s’est tailladé un bras et s’est pendu. Cette tentative de suicide désespérée d’un prisonnier incarcéré depuis quatre ans – sans inculpation formelle, sans procès et sans la moindre perspective réelle de libération – n’est pas un cas isolé. Au moins 131 prisonniers de Guantanamo ont entamé une grève de la faim le 8 août dernier pour protester contre leur détention indéfinie, et plus d’une vingtaine sont encore actuellement alimentés de force afin d’être maintenus en vie. Rien d’étonnant à ce que le ministre de la Défense américain, Donald H. Rumsfeld, ait refusé de laisser les enquêteurs de la Commission des droits de l’homme de l’ONU rencontrer les pensionnaires du camp de Guantanamo Bay. Leurs témoignages ne feraient sans aucun doute qu’aggraver le discrédit que le traitement des prisonniers étrangers hors de tout cadre juridique a d’ores et déjà jeté sur les Etats-Unis. Guantanamo n’est pourtant pas le problème le plus grave. Comme le révélait Dana Priest dans l’enquête du Washington Post parue le 2 novembre, la CIA a son propre réseau de prisons secrètes, où une centaine ou plus de terroristes présumés ont “disparu”, comme s’ils avaient été engloutis par une dictature du tiers-monde. Une trentaine de prisonniers parmi les plus importants sont gardés dans des lieux de détention clandestins établis dans plusieurs pays d’Europe de l’Est – ce qui devrait faire honte à des gouvernements démocratiques qui n’ont démantelé que très récemment les appareils de la police secrète hérités de l’époque soviétique. Incarcérés dans des cachots sombres en sous-sol, les prisonniers n’y bénéficient d’aucun droit, ne peuvent recevoir aucune visite hormis celles des agents de la CIA, et personne n’a aucun moyen de contrôler la façon dont ils sont traités, pas même le Comité international de la Croix-Rouge (CICR). Le président Bush a autorisé les personnes chargées de les interroger à soumettre ces hommes à des traitements “cruels, inhumains et dégradants” – traitements illégaux aux Etats-Unis (car strictement interdits par un traité ratifié par le Sénat). Les Etats qui tolèrent la présence sur leur territoire de prisons de la CIA enfreignent ce traité international, voire leurs propres lois. Cette situation ignominieuse provient directement de la décision de M. Bush, en février 2002, de ne plus tenir compte ni des conventions de Genève ni des réglementations américaines en vigueur sur le traitement des détenus. Conformément aux conventions de Genève, les militants d’Al-Qaida auraient pu se voir refuser le statut de prisonniers de guerre et être condamnés à une détention à durée indéterminée ; ils auraient pu être interrogés et jugés soit par des tribunaux américains, soit par une cour martiale. Mais, dans le même temps, les accords de Genève les auraient prémunis de la torture et d’autres traitements cruels. Si M. Bush avait pris cette option, les scandales qui ont éclaté à la suite des abus à Guantanamo Bay comme en Afghanistan et en Irak – et le grave préjudice qu’ils ont causé aux Etats-Unis – auraient pu être évités. Les principaux acteurs des attentats du 11 septembre 2001, comme Khalild Cheik Mohammed et Ramzi Binalshibh, auraient pu être jugés et leurs crimes dénoncés à la face du monde. Au lieu de quoi, depuis quatre ans, pas un seul dirigeant d’Al-Qaida n’a été traduit en justice. Le système d’auditions du Pentagone sur le statut des détenus de Guantanamo – qui n’a été introduit qu’après une décision unanime de la Cour suprême – ne peut en aucune façon résoudre le statut à long terme de la plupart des détenus. La CIA n’a strictement rien prévu au sujet du sort à long terme de ses prisonniers clandestins, que l’un des responsables de l’agence qualifiait d’“atroce fardeau”. Depuis quelque temps, cette politique désastreuse soulève un vent de révolte au gouvernement comme au Sénat. A la tête de cette rébellion, des sénateurs comme le républicain John McCain (Arizona) et les militaires et personnalités du département d’Etat qui s’étaient dès le début opposés à la décision de M. Bush de passer outre aux accords de Genève. En face d’eux, un petit groupe de politiques civils nommés par le pouvoir qui serrent les rangs autour de M. Rumsfeld et du vice-président Cheney. Selon une enquête du New York Times, les militaires de métier souhaitent réintégrer à la doctrine officielle du Pentagone les mesures de protection prévues par les accords de Genève contre les traitements cruels. M. McCain s’efforce de faire interdire toute forme de traitement “cruel, inhumain et dégradant” pour tous les prisonniers détenus par les Etats-Unis, y compris ceux des prisons secrètes de la CIA. C’est là la question la plus importante sur laquelle doivent aujourd’hui trancher le pays et le Congrès. Mais, étrangement, les apôtres du respect de la personne humaine et du bon sens ne semblent bénéficier que d’un soutien très frileux de la part des démocrates. Le 2 novembre, les démocrates du Sénat ont exécuté une de ces pirouettes dont ils sont le secret pour rouvrir l’éternel débat sur ce que les services de renseignements savaient avant la guerre en Irak. Ils se sont toutefois bien gardés de prendre aussi fermement position sur les abus perpétrés par la CIA à l’encontre des prisonniers étrangers. Lors d’une conférence réunie pour étudier l’amendement proposé par M. McCain, le soutien démocrate a été pour le moins hésitant. Et, pendant que les démocrates relancent avec tambour et trompettes un débat sur la guerre vieux de trois ans, les champions de la torture au sein de l’administration Bush œuvrent discrètement pour maintenir une politique qu’il serait urgent d’inverser. The Washington Post
La Fides et ratio e la questione del senso
ROMA, sabato, 14 marzo 2009 (ZENIT.org).- Relazione pronunciata dal prof. Giuseppe D’Acunto, in occasione del Congresso sull'Enciclica di Giovanni Paolo II "Fides et ratio", nel 10º anniversario della pubblicazione, svoltosi a Roma il 5 e il 6 marzo presso l'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum

* * *

La Fides et ratio inizia modulando l’antico topos – prima platonico (Theæt., 155 d), poi aristotelico (Metaph., I, 2) – della meraviglia quale origine del filosofare.
Le conoscenze fondamentali [dell’uomo] scaturiscono dalla meraviglia suscitata in lui dalla contemplazione del creato: […] dallo stupore nello scoprirsi inserito nel mondo. […] Parte di qui il cammino che lo porterà poi alla scoperta di orizzonti di conoscenza sempre nuovi [1].
Ora, come, per Aristotele, chi si meraviglia è colui che versa in uno stato di dubbio per essersi imbattuto in una "difficoltà (atopia)", e proprio dallo stupore riceve l’impulso per liberarsi dalla propria ignoranza (che è ignoranza di cause), così la Fides et ratio afferma che quel che alimenta il desiderio di conoscere – «sempre di più e sempre più a fondo» – è una «ragione carica di interrogativi» (FR 8-9). E ciò perché la verità «inizialmente si presenta all’uomo in forma interrogativa» (FR 38) [2]. La prima questione che si impone ad ognuno di noi è quella del senso: del senso da dare alla nostra esistenza.
Sono domande [quelle radicali] che hanno la loro comune scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell’uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l’orientamento da imprimere all’esistenza (FR 4).
Inoltre, affermando che la verità è un «cammino» che è stato dato a noi, in Oriente come in Occidente, «entro l’orizzonte dell’autocoscienza personale», per cui c’è un rapporto di proporzionalità diretta fra conoscenza della realtà e conoscenza di se stessi, si puntualizza che, proprio perciò, per l’uomo, «sempre più impellente [è] la domanda sul senso delle cose e della sua stessa esistenza» (FR 3).
Si aggiunga, infine, che il nostro vivere è costitutivamente fragile, ossia esposto al rischio permanente di apparirci come radicalmente svuotato di senso.
L’esperienza quotidiana della sofferenza, propria ed altrui, la vista di tanti fatti che alla luce della ragione appaiono inspiegabili, bastano a rendere ineludibile una questione così drammatica come quella del senso (FR 38).
E una delle domande radicali in cui si articola la questione, per noi inaggirabile, del "senso" è proprio quella che riguarda l’ineluttabilità della nostra morte, intesa come quel «fatto» che, sempre di nuovo, ci mette davanti agli occhi il problema del «senso della vita e dell’immortalità». Di fronte a tali «interrogativi [a cui] nessuno può sfuggire», l’uomo «cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua ricerca» (FR 39).
La Fides et ratio intende, così, il termine "senso" nell’unità della sua doppia accezione di significato e di orientamento. Ebbene, orientarsi – scriveva Kant, riflettendo proprio sull’unità delle due accezioni del termine "senso" – letteralmente «significa: determinare […] l’oriente»: disposizione che fondava in una umana «facoltà di distinguere», posta originariamente in noi dalla natura, ma consolidatasi in un "abito" «in virtù di un frequente esercizio» [3].
Ciò che Kant non si lasciava sfuggire sono proprio i risvolti metafisici di un tale "abito", affermando che esso può esserci di aiuto nelle elaborazioni concernenti la conoscenza degli oggetti soprasensibili [4]. La capacità di orientarsi nello spazio fungeva, così, per lui, da modello per la capacità di orientarsi nel pensiero, ossia per quell’uso logico in cui la ragione, «partendo da oggetti noti (dell’esperienza)» ed estendendosi oltre i confini di quest’ultima, non trova un termine cui corrisponde un’intuizione, ma apre solo uno «spazio per essa» [5]. Tutto sta nell’appurare «se il concetto con cui osiamo spingerci al di là di ogni esperienza possibile è libero da contraddizioni»: in tal modo, noi non ci rappresentiamo un oggetto in veste sensibile, ma «pensiamo pur sempre qualcosa di sovrasensibile come per lo meno idoneo all’uso empirico della nostra ragione».
In sintesi, ciò che, per Kant, muove il pensiero nello «spazio smisurato del sovrasensibile per noi avvolto da tenebre profonde», permettendo ad esso di orientarsi, è unicamente il «bisogno della ragione», bisogno che si fa valere anche in rapporto al concetto di Dio, inteso come «intelligenza suprema» e come «sommo bene» [6].
Infatti non solo la nostra ragione sente già un bisogno di porre il concetto dell’illimitato a fondamento di quello di tutto ciò che è limitato, e quindi di tutte le cose, ma questo bisogno giunge a presupporre anche l’esistenza dell’illimitato, senza la quale sarebbe impossibile rendere ragione in modo soddisfacente sia della contingenza dell’esistenza delle cose nel mondo, sia soprattutto della finalità e dell’ordine che ovunque si incontrano in misura tanto ammirevole (nel piccolo, poiché ci è più vicino, più ancora che nel grande) [7].
Se abbiamo fatto questo richiamo a Kant è perché ci sembra molto produttivo per intendere il modo in cui la Fides et ratio prospetta la questione del "senso": il bisogno che, per il primo, innesca la ragione e le fa da guida oltre la soglia del sensibile presenta delle analogie strutturali con ciò che la seconda chiama «intelligenza della fede». Ricordiamo, infatti, che la Lettera enciclica, laddove parla dell’«intellectus fidei» di s. Anselmo, dice che suo compito non è di formulare un giudizio di tenore intellettivo, ma – ben più originariamente – di «saper trovare un senso», ossia di «scoprire delle ragioni che permettano a tutti di raggiungere una qualche intelligenza dei contenuti della fede» (FR 57). O, detto in termini kantiani, che ci forniscano le coordinate essenziali per orientarci [8].
Ricordiamo, inoltre, che la definizione di filosofia offertaci dalla Fides et ratio la qualifica come ciò che, in origine, è un abbozzo di «risposta» alla «domanda circa il senso della vita».
Di fatto, la filosofia è nata e si è sviluppata nel momento in cui l’uomo ha iniziato a interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e forme differenti, essa mostra che il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell’uomo (FR 5-6).
In questa luce, fondamentale è la distinzione fra «sistema filosofico», in quanto «sapere sistematico» costruito nel segno della «coerenza logica delle affermazioni» e dell’«organicità dei contenuti», e «pensare filosofico» (FR 7), inteso come quella dimensione sorgiva del "senso" in cui il primo mette radici e a cui deve sempre tornare ad attingere.
Ed è proprio intorno a quest’ultimo punto che vorremmo chiudere il nostro breve contributo: la questione del "senso", quale – abbiamo visto – è prospettata da Kant, presuppone come vincolante il riferimento in atto ad un principio senza il quale non è possibile orientarsi [9]: principio che la Lettera enciclica determina, appunto, nel segno di quel «desiderio di verità» che è una «proprietà nativa della […] ragione [umana]» (FR 6). In questa luce, l’uomo stesso è definito come «colui che cerca la verità», ricerca che, poiché non può essere del tutto inutile e vana, deve implicare, per il fatto stesso di porsi, «già una prima risposta» (FR 40). La «sete di verità è talmente radicata nel cuore dell’uomo» che ciascuno di noi custodisce in sé, insieme all’«assillo di alcune domande essenziali», «almeno l’abbozzo delle relative risposte» (FR 41).
"Tutti gli uomini desiderano sapere" [Aristotele, Metaph., I, 1], e oggetto proprio di questo desiderio è la verità (FR 36).
----------------
1) Fides et ratio, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, pp. 6-7 (citata, d’ora in poi, direttamente nel testo, con la sigla FR, seguita dall’indicazione della pagina).
2) Sul fatto che la meraviglia è quel «primo impulso conoscitivo» che si manifesta, innanzi tutto, sollevando in noi «una serie di quesiti», cfr., in particolare, di K. Wojty?a, Persona e atto, a cura di G. Reale e T. Stycze?, Rusconi, Milano 1999, p. 77.
3) I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero (1786), a cura di F. Volpi, tr. it. di P. Dal Santo, Adelphi, Milano 1996, pp. 47-8.
4) Un tentativo di ripensare la metafora kantiana dell’orientamento, «nell’ottica di ciò che oggi comunemente viene chiamato "il problema del senso"», è rappresentato da A. Fabris, Kant e la metafora dell’orientamento, in «Per la filosofia. Filosofia e insegnamento», 2000, n. 48, pp. 65-74: p. 69. Qui, si nota come Kant sposti la trattazione delle questioni metafisiche fondamentali dal piano della spiegazione – su cui «era collocata gran parte della teologia filosofica [a lui] precedente» (p. 74) – al piano del senso. Mentre la spiegazione «rinvia alla catena delle relazioni causali (intese nel loro significato più ampio), grazie a cui qualcosa è fissato come tale a partire da qualcos’altro che ne è responsabile», il senso, invece, «non è colto all’interno di una catena che, sotto vari aspetti, può definire e spiegare il motivo del suo presentarsi». Esso, infatti, è un qualcosa che, riferendosi ad un’«ambito ulteriore», mantiene la differenza fra i due livelli in questione, «senza che si ricada nell’appiattimento della spiegazione» (p. 69).
5) Che cosa significa orientarsi nel pensiero, cit., p. 49.
6) Ivi, pp. 50-2.
7) Ivi, pp. 52-3.
8) A conferma di questa interpretazione dell’«intellectus fidei» di s. Anselmo, proposta dalla Fides et ratio, va rilevato che I. Sciuto, curatore di un’ed. it. del Proslogion (Rusconi, Milano 1996), nella sua introduzione (pp. 5-76) al testo, afferma che, nell’arcivescovo di Canterbury, il verbo credere ha un «uso chiaramente non fideistico», riferendosi al «momento preliminare […] del comprendere» (pp. 27-8), ossia a quei contenuti, non ancora accertati, la cui posizione ci serve per dare un primo "orientamento" al movimento di ricerca attivato dalla ragione.
9) In questa luce, ciò che F.Volpi, Kant e l’"oriente" della ragione, premessa a Che cosa significa orientarsi nel pensiero, cit., pp. 11-42, indica come un’aporia in cui rimarrebbe fatalmente irretita la posizione di Kant, è, invece, proprio il suo grande pregio: cogliere il dispiegarsi di un «riferimento oggettivo» all’interno di un «criterio soggettivo a priori dell’orientamento» (p. 34).


Il nichilismo da Nietzsche a Vattimo

ROMA, sabato, 14 marzo 2009. Relazione pronunciata da padre Juan G. Ascencio, LC, in occasione del Congresso sull'Enciclica di Giovanni Paolo II "Fides et ratio", nel 10º anniversario della pubblicazione, svoltosi a Roma il 5 e il 6 marzo presso l'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA).

* * *
Le seguenti riflessioni cercano di presentare alcune linee portanti del nichilismo, come si è sviluppato storicamente da Nietzsche a Vattimo. In seguito, confronterò brevemente i risultati della prima ricerca con la diagnosi che l’Enciclica Fides et Ratio ha fatto del nichilismo, facendo attenzione alle proposte rivolte al superamento del nihilismo.
Nietzsche si è battuto in diversi modi contro la ragione moderna, e non contro la ragione "tout-court". Si ricorderà che la ragione moderna –quella concepita da Descartes, da Kant e da altri grandi filosofi—nutriva il desiderio di essere una ragione autonoma. Occorre però osservare che l’autonomia comportava anche l’atemporalità della ragione, la sua indipendenza dalla storia. Queste due caratteristiche della ragione moderna –l’autonomia e l’atemporalità-- sono difficilmente separabili. A differenza dell’autonomia, l’atemporalità era rimasta quasi nell’ombra di ciò che è dato per scontato. Perciò l’atemporalità, chiaramente più sguarnita dell’autonomia, fu uno dei fianchi più deboli della fortezza moderna.
L’ondata di riflessioni filosofiche sulla storia, anzi, sull’intero percorso storico del pensiero occidentale, è già ben presente in Hegel. Questa prospettiva di studio non abbandonerà più la filosofia. Nietzsche non trovò molta difficoltà per operare una generalizzazione e leggere la storia del pensiero occidentale alla luce di una antitesi: quella della ricerca razionale della verità dell’essere eleatico e platonico, e quella della ragione nihilistica, messa davanti ad un essere indifferenziato e informe, ovvero alla vita storica che scorre e agisce in modi che non possono essere colti con "categorie razionali".
Una volta che la sua finta atemporalità è stata messa allo scoperto, la ragione moderna ha perduto la sua invulnerabilità. Il "soggetto" non si poteva più concepire come un "semplice dato", al riparo da ogni critica. Il soggetto non era atemporale, a-storico, ma dipendeva totalmente da quella storia che aveva avuto inizio tra i Greci con l’ipotesi di un "essere stabile e vero", del quale il soggetto era semplicemente il correlato in grado di accoglierne l’evidenza e la verità.
Nemmeno si poteva sostenere l’identificazione tra la mente e la coscienza soggettiva: l’io pensante si dimostrava essere soltanto una sovrastruttura che difficilmente avrebbe potuto dirsi autonoma e lontana dagli influssi di altre zone della complessa interiorità umana dove primeggiava la volontà di potenza.
Il successo di Nietzsche nella sua lotta contro il soggetto moderno è dunque dipeso largamente dal suo modo di guardarlo con sospetto, e dall’aver rinnovato il legame tra la conoscenza e la storia che era stato trascurato dai teorici della modernità. Questa sensibilità storica genererà, al tempo della sua maturazione, il vero movente del il nihilismo. Ciò è avvenuto puntualmente con Heidegger, che collocò la storicità come il punto cardine della vita conoscitiva del Dasein. Forse senza volerlo, Heidegger si trovò così a prolungare nel tempo il nihilismo.
La via di Heidegger, anche tramite la riflessione ermeneutica di Gadamer, esercitò un lungo influsso nella filosofia della seconda metà del secolo XX. Essa conobbe poi un inasprimento distruzionistico in virtù della Nietzsche-Renaissance francese, attiva negli anni Sessanta, potenziata dai continui approcci freudiani e marxisti. Autori quali Derridà, Lacan e Foucault ne trassero abbondanti frutti.
Gianni Vattimo, nonostante la sua vicinanza a Gadamer, ha voluto rimeditare la lezione di Nietzsche e di Heidegger. Perciò egli richiama fortemente l’attenzione sulle categorie linguistiche, sulla loro storicità e sul loro rapporto mutuo: quando queste categorie cambiano, subentra il caos linguistico e culturale. Egli sottolinea anche l’autoreferenzialità del pensare e del parlare, lontani da ogni tipo di fondamentazione. La sua posizione potrebbe dirsi un nihilismo ermeneutico e relativistico, diverso dal nihilismo assiologico e storico di Nietzsche, e anche da quello ontologico e storico di Heidegger.
Siamo arrivati al primo momento di sintesi. Alla luce di questi passaggi storici, si può dire che il nichilismo presenti tre diversi livelli. Il primo è di tipo teorico, e conosce molteplici forme: il "pensiero debole", il "relativismo", il "pensiero posmoderno", ecc. Il secondo livello è di tipo tecnico: sopravvive nella "civiltà tecnica" vincolata al tecnicismo. Infine, il terzo livello è di tipo pratico, una "dottrina della società" (secondo un’espressione di Vattimo).
A questo punto ci si può domandare se nell’Enciclica Fides et Ratio sia presente o no una comprensione sufficiente del fenomeno del nichilismo. Chi percorre con attenzione le sue pagine, può costatare l’acutezza della diagnosi ivi espressa. Non manca nessuno dei tre livelli che sono venuti a luce con l’analisi filosofica.
Il paragrafo 90 dell’Enciclica mette a nudo la radice di tutta la problematica: «l’oblio dell’essere», ovvero le «molte filosofie che hanno preso congedo dal senso dell’essere». Poi, l’Enciclica considera la conseguenza teorica principale: «il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva».
Ciò nonostante, ciò che appare maggiormente preoccupante secondo l’analisi dell’Enciclica è il fatto che, secondo il versante nichilistico della post-modernità, «il tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato», condannando di conseguenza l’uomo «a vivere in un orizzonte di totale assenza di senso». Diventa così palese il nesso tra la dimensione teorica del nihilismo (l’assenza di certezze) e la sua dimensione pratica o sociale (la disperazione diffusa), di cui si fa menzione anche nel paragrafo 46, che ricorda il nihilismo come «filosofia del nulla» che «riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei».
L’Enciclica non coglie solo le dimensioni teorica e pratica del nihilismo. Dà anche un certo spazio alla sua dimensione tecnica. Essa viene ricordata al paragrafo 91. Infatti, per l’uomo post-moderno l’unica speranza sembra essere contenuta nelle «conquiste scientifiche e tecniche» che gli consentirebbero di «giungere da solo ad assicurarsi il pieno dominio del suo destino».
L’Enciclica non solo presenta un attenta diagnosi del nichilismo. Essa mira anche al suo superamento. Sarebbe, però, un grande errore il voler ricorrere esclusivamente alla filosofia nella ricerca della cura da applicare. Il pensiero può e deve trovare il modo di uscire dalle secche del nihilismo scettico e relativista, ma ciò non basterebbe da solo. Certo, questa liberazione intellettuale è importante, e l’Enciclica ne spiega il motivo. La chiave risiede nell’unione esistente tra la libertà e la verità o, il che è lo stesso, nell’unione tra la dimensione speculativa e quella esistenziale.
A differenza del suo versante teorico, il nihilismo tecnico e quello pratico sono divenuti un problema di ordine culturale, non superabile con i soli strumenti della filosofia. Vengono implicate in quella problematica strutture, persuasioni esistenziali e modi di vivere il cui cambiamento è assai difficile. Basti dire che a questo punto la Fides et Ratio merita di essere seguita più nel suo invito alla Fides (e alla spes che ne fa seguito), che alla Ratio. In un certo senso, la cultura della vita, in quanto cultura umana aperta al Logos, è l’unica risposta adeguata. Varrebbe la pena tornare sulle pagine dell’esortazione apostolica Ecclesia in Europa per capire più articolatamente quale sia la proposta cristiana per far fronte al nihilismo culturale. Togliendo il pungiglione a questo nihilismo –se mai sarà possibile farlo– non sarà difficile persuadersi definitivamente della vacuità del nihilismo tecnico e di quello teorico.

domenica 15 marzo 2009

III Domenica di Quaresima

Alla scuola di Paolo per vivere di Cristo Messaggio per la Quaresima 2009 di mons. Bruno Forte


1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo - la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo - è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!

2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco...

3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio - narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 - consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.

4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.

5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli - che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” - hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo - Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) - che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due - entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi - decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità - come si vede - non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?

6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete...”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia - ci confida nella seconda lettera ai Corinzi - è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?

7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?

8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen. Alleluia! E il racconto della vita di Paolo continui nella vita di ciascuno di noi…

sabato 14 marzo 2009

Lettera del Papa

Lettera del Papa sulla revoca della scomunica ai Vescovi lefebvriani

CITTA' DEL VATICANO, giovedì, 12 marzo 2009


Cari Confratelli nel ministero episcopale!
La remissione della scomunica ai quattro Vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’Arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa Cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata. Molti Vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi. Anche se molti Vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del Papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo. Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio: si scatenava così una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento. Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari Confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede. Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.
Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro Vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa. Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico. Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente. Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie. Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco. Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come nel tempo di Papa Giovanni Paolo II – anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.
Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione. La scomunica colpisce persone, non istituzioni. Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità. A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro Vescovi ancora una volta al ritorno. Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio. Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione. La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale. Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.
Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la Pontificia Commissione "Ecclesia Dei" – istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col Papa – con la Congregazione per la Dottrina della Fede. Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi. Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei Cardinali al mercoledì e la Plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei Prefetti di varie Congregazioni romane e dei rappresentanti dell’Episcopato mondiale nelle decisioni da prendere. Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.
Spero, cari Confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009. Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva. La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: "Tu … conferma i tuoi fratelli" (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: "Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pt 3, 15). Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est.
Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie. Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che "ha qualche cosa contro di te" (cfr Mt 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme. Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?
Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.
Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 – 15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: "Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!" Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo "mordere e divorare" esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel Seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia. Di fatto: Maria ci insegna la fiducia. Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci. Egli ci guiderà – anche in tempi turbolenti. Vorrei così ringraziare di cuore tutti quei numerosi Vescovi, che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera. Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il Successore di san Pietro. Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace. È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.
Con una speciale Benedizione Apostolica mi confermo
Vostro nel Signore
BENEDICTUS PP. XVI
Dal Vaticano, 10 Marzo 2009