lunedì 27 dicembre 2010

Natale pigro


Tra i messaggi natalizi ricevuti questo è stato il più simpatico!

...è già arrivato il Natale e io?
se ci penso non mi sono preparato molto...
...ho pregato poco...
non sono riuscito a fare rinunce...non ho fatto molta carità...
la fede è un po' spenta e la vita un po' lontana da Dio...
E' davvero Natale per me?
Ma il Natale non lo faccio mio, lo fai tu, Gesù!
Sei tu che vieni da me.
Sei tu che nasci nella mia povertà...
Allora sì che mi viene voglia di fare di più!
Mi viene voglia di pregare davvero e di amare concretamente
chi mi sta vicino e anche chi mi sta lontano.
Ma non perché sono bravo io, ma perchè sei buono tu!
E' questo il tuo Natale!
Grazie Gesù!

sabato 25 dicembre 2010

Da non perdere!


Double regard sur le Cantique des Cantiques

A travers les interprétations de Chagall et de Kupka, le Musée Marc-Chagall de Nice souligne la dimension universelle du poème biblique


Les esquisses de Chagall, illustrant le Cantique des Cantiques (Photo : Gérard Blot/RMN/ADAGP Paris 2010).

CHAGALL, KUPKA, DEUX VISIONS DU CANTIQUE DES CANTIQUES

Musée Marc-Chagall, Nice

L’un est juif et croyant, l’autre anarchiste et hostile aux religions. Pourtant les peintres russe Marc Chagall (1887-1985) et tchèque Frantisek Kupka (1871-1957) ont un point commun : leur passion pour le Cantique des Cantiques.

Jusqu’au 14 mars, le musée niçois Marc-Chagall met en perspective leurs visions contrastées de ces 117 vers, intégrés à la Bible bien que le nom de Dieu n’y soit pas mentionné. Un texte dans lequel une bien-aimée, la Sulamite, et son amant chantent leur amour, dans un langage érotique.

La tradition juive y décèle une allégorie de l’alliance entre Dieu et son peuple, les chrétiens y voient celle du Christ et de son Église.
Les femmes dansent au son d’une harpe

Au musée Chagall, ces deux interprétations se juxtaposent plus qu’elles ne s’opposent, la version amoureuse de Frantisek Kupka éclairant celle, plus religieuse, de Marc Chagall.

Soixante-deux dessins, prêtés par le musée parisien d’art et d’histoire du judaïsme font découvrir l’intérêt méconnu de Kupka pour ce texte. Précurseur de l’art abstrait, il l’illustre dès 1905, à l’occasion de la mise en scène théâtrale de Jean Bonnefon. Avant de s’atteler à une traduction française, puis hébraïque, aux aquarelles colorées, calligraphiée par ses soins, parue en 1931.

Le graphisme célèbre le désir, la sensualité, le culte de la femme. Les images entremêlées au texte content une vie hédoniste dans le palais du roi Salomon, au décor assyro-babylonien richement orné de motifs géométriques. Voilés de vêtements transparents, les nus féminins abondent. Les femmes dansent au son d’une harpe.

Assis sur son lit, le roi Salomon, nu, convoite une Sulamite au regard songeur. Le rouge souligne les seins des femmes, le luxe des décors, le vert l’abondance de la nature.
L’universalité d’un texte inclassable

Chez Chagall, point de chronologie mais une évocation exaltée de l’amour humain et divin à travers cinq tableaux (Le Cantique des Cantiques I à V), peints de 1957 à 1966. Seuls dix-huit des 40 dessins préparatoires (crayon, pastel ou encre de chine) sont exposés.

Fragilité des pastels oblige, l’ensemble défile sur un écran, affaiblissant le propos. Entre traits épurés et essais de couleur, Chagall tâtonne. Les masses jaunes, oranges ou mauve cèdent la place au rose et au rouge, symboles de la passion.

Ces épreuves esquissent les formes rondes de la composition et des références religieuses finales : l’âne, intermédiaire divin qui transporte les amants, la mariée, symbole du lien amoureux sanctifié par Dieu, les toits de Jérusalem. À travers ces interprétations variées ressort l’universalité d’un texte inclassable.

Corinne BOYER

Exposition jusqu’au 14 mars à Nice, musée Marc-Chagall. Ouvert de 10 heures à 17 heures sauf mardi. Fermé le 25 décembre et le 1er janvier.

www.la-croix.com

venerdì 24 dicembre 2010

La greppia nel muro

Nascerà ancora, perché la vita è più forte della morte. Nascerà comunque, perché da quando la luce venne nel mondo le tenebre non l’hanno mai potuta raggiungere e neanche comprendere, perché la luce è più veloce delle tenebre. Nascerà nonostante i nostri cuori chiusi per la paura e le necessità. Da qualche parte nascerà, con la forza inspiegabile del germoglio che si fa strada a primavera nella zolla di terra rinsecchita. Le voci dei senza voce canteranno per lui, le lacrime dei disperati scioglieranno le fortezze del male, un mare di gioia riempirà la terra. Ti conosciamo già bambino che stai per venire ti aspettiamo e ti desideriamo da sempre, compimento di ogni creatura, piccolo signore dell'universo, signore proprio perché "piccolo", dominatore per mitezza, onnipotente per dolcezza, elimina da tutti noi indugi e impedimenti, così che tutti possiamo ri-nascere con Te.
Ma dove nascerai tu piccolo bambino? Hanno costruito un muro in Betlemme, uno fuori Gerusalemme, anche nella barca di Pietro hanno costruito un muro e persino nei nostri cuori ora c’è un muro. E tu da quale parte del muro nascerai? Dalla parte di chi domina in questo mondo o nascerai solo dalla parte degli oppressi? Nascerai forse dalla parte dei peccatori, dei corrotti, di chi è schiavo delle sue passioni, oppure nascerai tra le schiere degli angeli del cielo, in mezzo ai bravi bambini, tra gli uomini giusti e pii? Lo so dove nascerai piccolo bambino. Tu nascerai nelle fondamenta di ogni muro e il tuo primo vagito li frantumerà. Tu nascerai per tutti come sempre, per chi benedice e per chi maledice, per i santi e per i ladroni, nelle fabbriche e nei castelli, perché tu nasci per questo, per riconciliare in te tutte le cose.
Il frutto tre volte santo è maturo ciò che aveva preso la madre dal cielo lo dona ora alla terra, esulta piccolo e stremato gregge, ecco viene il liberatore di coloro che furono, di coloro che sono, di coloro che saranno, esulta piccolo e stremato gregge, egli reciderà i legacci che ti imprigionano, ridonerà la parola a coloro che sono stati resi muti, non giudicherà secondo le apparenze, non prenderà decisioni per sentito dire, non spegnerà un lucignolo fumigante, chi urlava ora canterà, chi viveva nella violenza ora abbraccerà, viene il Principe della pace, grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine.

venerdì 17 dicembre 2010

La via per la pace

CELEBRAZIONE DELLA
XLIV GIORNATA MONDIALE DELLA PACE


LIBERTÀ RELIGIOSA, VIA PER LA PACE

1. All’inizio di un Nuovo Anno il mio augurio vuole giungere a tutti e a ciascuno; è un augurio di serenità e di prosperità, ma è soprattutto un augurio di pace. Anche l’anno che chiude le porte è stato segnato, purtroppo, dalla persecuzione, dalla discriminazione, da terribili atti di violenza e di intolleranza religiosa.

Il mio pensiero si rivolge in particolare alla cara terra dell'Iraq, che nel suo cammino verso l’auspicata stabilità e riconciliazione continua ad essere scenario di violenze e attentati. Vengono alla memoria le recenti sofferenze della comunità cristiana, e, in modo speciale, il vile attacco contro la Cattedrale siro-cattolica “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso” a Baghdad, dove, il 31 ottobre scorso, sono stati uccisi due sacerdoti e più di cinquanta fedeli, mentre erano riuniti per la celebrazione della Santa Messa. Ad esso hanno fatto seguito, nei giorni successivi, altri attacchi, anche a case private, suscitando paura nella comunità cristiana ed il desiderio, da parte di molti dei suoi membri, di emigrare alla ricerca di migliori condizioni di vita. A loro manifesto la mia vicinanza e quella di tutta la Chiesa, sentimento che ha visto una concreta espressione nella recente Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi. Da tale Assise è giunto un incoraggiamento alle comunità cattoliche in Iraq e in tutto il Medio Oriente a vivere la comunione e a continuare ad offrire una coraggiosa testimonianza di fede in quelle terre.

Ringrazio vivamente i Governi che si adoperano per alleviare le sofferenze di questi fratelli in umanità e invito i Cattolici a pregare per i loro fratelli nella fede che soffrono violenze e intolleranze e ad essere solidali con loro. In tale contesto, ho sentito particolarmente viva l’opportunità di condividere con tutti voi alcune riflessioni sulla libertà religiosa, via per la pace. Infatti, risulta doloroso constatare che in alcune regioni del mondo non è possibile professare ed esprimere liberamente la propria religione, se non a rischio della vita e della libertà personale. In altre regioni vi sono forme più silenziose e sofisticate di pregiudizio e di opposizione verso i credenti e i simboli religiosi. I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede. Tanti subiscono quotidianamente offese e vivono spesso nella paura a causa della loro ricerca della verità, della loro fede in Gesù Cristo e del loro sincero appello perché sia riconosciuta la libertà religiosa. Tutto ciò non può essere accettato, perché costituisce un’offesa a Dio e alla dignità umana; inoltre, è una minaccia alla sicurezza e alla pace e impedisce la realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale.[1]

Nella libertà religiosa, infatti, trova espressione la specificità della persona umana, che per essa può ordinare la propria vita personale e sociale a Dio, alla cui luce si comprendono pienamente l’identità, il senso e il fine della persona. Negare o limitare in maniera arbitraria tale libertà significa coltivare una visione riduttiva della persona umana; oscurare il ruolo pubblico della religione significa generare una società ingiusta, poiché non proporzionata alla vera natura della persona umana; ciò significa rendere impossibile l’affermazione di una pace autentica e duratura di tutta la famiglia umana.

Esorto, dunque, gli uomini e le donne di buona volontà a rinnovare l’impegno per la costruzione di un mondo dove tutti siano liberi di professare la propria religione o la propria fede, e di vivere il proprio amore per Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente (cfr Mt 22,37). Questo è il sentimento che ispira e guida il Messaggio per la XLIV Giornata Mondiale della Pace, dedicato al tema: Libertà religiosa, via per la pace.

Sacro diritto alla vita e ad una vita spirituale

2. Il diritto alla libertà religiosa è radicato nella stessa dignità della persona umana,[2] la cui natura trascendente non deve essere ignorata o trascurata. Dio ha creato l’uomo e la donna a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,27). Per questo ogni persona è titolare del sacro diritto ad una vita integra anche dal punto di vista spirituale. Senza il riconoscimento del proprio essere spirituale, senza l’apertura al trascendente, la persona umana si ripiega su se stessa, non riesce a trovare risposte agli interrogativi del suo cuore circa il senso della vita e a conquistare valori e principi etici duraturi, e non riesce nemmeno a sperimentare un’autentica libertà e a sviluppare una società giusta.[3]

La Sacra Scrittura, in sintonia con la nostra stessa esperienza, rivela il valore profondo della dignità umana: “Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,la luna e le stelle che tu hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio,di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8, 4-7).

Dinanzi alla sublime realtà della natura umana, possiamo sperimentare lo stesso stupore espresso dal salmista. Essa si manifesta come apertura al Mistero, come capacità di interrogarsi a fondo su se stessi e sull’origine dell’universo, come intima risonanza dell’Amore supremo di Dio, principio e fine di tutte le cose, di ogni persona e dei popoli.[4] La dignità trascendente della persona è un valore essenziale della sapienza giudaico-cristiana, ma, grazie alla ragione, può essere riconosciuta da tutti. Questa dignità, intesa come capacità di trascendere la propria materialità e di ricercare la verità, va riconosciuta come un bene universale, indispensabile per la costruzione di una società orientata alla realizzazione e alla pienezza dell’uomo. Il rispetto di elementi essenziali della dignità dell’uomo, quali il diritto alla vita e il diritto alla libertà religiosa, è una condizione della legittimità morale di ogni norma sociale e giuridica.

Libertà religiosa e rispetto reciproco

3. La libertà religiosa è all’origine della libertà morale. In effetti, l’apertura alla verità e al bene, l’apertura a Dio, radicata nella natura umana, conferisce piena dignità a ciascun uomo ed è garante del pieno rispetto reciproco tra le persone. Pertanto, la libertà religiosa va intesa non solo come immunità dalla coercizione, ma prima ancora come capacità di ordinare le proprie scelte secondo la verità.

Esiste un legame inscindibile tra libertà e rispetto; infatti, “nell’esercitare i propri diritti i singoli esseri umani e i gruppi sociali, in virtù della legge morale, sono tenuti ad avere riguardo tanto ai diritti altrui, quanto ai propri doveri verso gli altri e verso il bene comune”.[5]

Una libertà nemica o indifferente verso Dio finisce col negare se stessa e non garantisce il pieno rispetto dell’altro. Una volontà che si crede radicalmente incapace di ricercare la verità e il bene non ha ragioni oggettive né motivi per agire, se non quelli imposti dai suoi interessi momentanei e contingenti, non ha una “identità” da custodire e costruire attraverso scelte veramente libere e consapevoli. Non può dunque reclamare il rispetto da parte di altre “volontà”, anch’esse sganciate dal proprio essere più profondo, che quindi possono far valere altre “ragioni” o addirittura nessuna “ragione”. L’illusione di trovare nel relativismo morale la chiave per una pacifica convivenza, è in realtà l’origine della divisione e della negazione della dignità degli esseri umani. Si comprende quindi la necessità di riconoscere una duplice dimensione nell’unità della persona umana: quella religiosa e quella sociale. Al riguardo, è inconcepibile che i credenti “debbano sopprimere una parte di se stessi - la loro fede - per essere cittadini attivi; non dovrebbe mai essere necessario rinnegare Dio per poter godere dei propri diritti”.[6]

La famiglia, scuola di libertà e di pace

4. Se la libertà religiosa è via per la pace, l’educazione religiosa è strada privilegiata per abilitare le nuove generazioni a riconoscere nell’altro il proprio fratello e la propria sorella, con i quali camminare insieme e collaborare perché tutti si sentano membra vive di una stessa famiglia umana, dalla quale nessuno deve essere escluso.

La famiglia fondata sul matrimonio, espressione di unione intima e di complementarietà tra un uomo e una donna, si inserisce in questo contesto come la prima scuola di formazione e di crescita sociale, culturale, morale e spirituale dei figli, che dovrebbero sempre trovare nel padre e nella madre i primi testimoni di una vita orientata alla ricerca della verità e all’amore di Dio. Gli stessi genitori dovrebbero essere sempre liberi di trasmettere senza costrizioni e con responsabilità il proprio patrimonio di fede, di valori e di cultura ai figli. La famiglia, prima cellula della società umana, rimane l’ambito primario di formazione per relazioni armoniose a tutti i livelli di convivenza umana, nazionale e internazionale. Questa è la strada da percorrere sapientemente per la costruzione di un tessuto sociale solido e solidale, per preparare i giovani ad assumere le proprie responsabilità nella vita, in una società libera, in uno spirito di comprensione e di pace.

Un patrimonio comune

5. Si potrebbe dire che, tra i diritti e le libertà fondamentali radicati nella dignità della persona, la libertà religiosa gode di uno statuto speciale. Quando la libertà religiosa è riconosciuta, la dignità della persona umana è rispettata nella sua radice, e si rafforzano l’ethos e le istituzioni dei popoli. Viceversa, quando la libertà religiosa è negata, quando si tenta di impedire di professare la propria religione o la propria fede e di vivere conformemente ad esse, si offende la dignità umana e, insieme, si minacciano la giustizia e la pace, le quali si fondano su quel retto ordine sociale costruito alla luce del Sommo Vero e Sommo Bene.

La libertà religiosa è, in questo senso, anche un’acquisizione di civiltà politica e giuridica. Essa è un bene essenziale: ogni persona deve poter esercitare liberamente il diritto di professare e di manifestare, individualmente o comunitariamente, la propria religione o la propria fede, sia in pubblico che in privato, nell’insegnamento, nelle pratiche, nelle pubblicazioni, nel culto e nell’osservanza dei riti. Non dovrebbe incontrare ostacoli se volesse, eventualmente, aderire ad un’altra religione o non professarne alcuna. In questo ambito, l’ordinamento internazionale risulta emblematico ed è un riferimento essenziale per gli Stati, in quanto non consente alcuna deroga alla libertà religiosa, salvo la legittima esigenza dell’ordine pubblico informato a giustizia.[7] L’ordinamento internazionale riconosce così ai diritti di natura religiosa lo stesso status del diritto alla vita e alla libertà personale, a riprova della loro appartenenza al nucleo essenziale dei diritti dell’uomo, a quei diritti universali e naturali che la legge umana non può mai negare.

La libertà religiosa non è patrimonio esclusivo dei credenti, ma dell’intera famiglia dei popoli della terra. È elemento imprescindibile di uno Stato di diritto; non la si può negare senza intaccare nel contempo tutti i diritti e le libertà fondamentali, essendone sintesi e vertice. Essa è “la cartina di tornasole per verificare il rispetto di tutti gli altri diritti umani”.[8] Mentre favorisce l’esercizio delle facoltà più specificamente umane, crea le premesse necessarie per la realizzazione di uno sviluppo integrale, che riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione.[9]

La dimensione pubblica della religione

6. La libertà religiosa, come ogni libertà, pur muovendo dalla sfera personale, si realizza nella relazione con gli altri. Una libertà senza relazione non è libertà compiuta. Anche la libertà religiosa non si esaurisce nella sola dimensione individuale, ma si attua nella propria comunità e nella società, coerentemente con l’essere relazionale della persona e con la natura pubblica della religione.

La relazionalità è una componente decisiva della libertà religiosa, che spinge le comunità dei credenti a praticare la solidarietà per il bene comune. In questa dimensione comunitaria ciascuna persona resta unica e irripetibile e, al tempo stesso, si completa e si realizza pienamente.

E’ innegabile il contributo che le comunità religiose apportano alla società. Sono numerose le istituzioni caritative e culturali che attestano il ruolo costruttivo dei credenti per la vita sociale. Più importante ancora è il contributo etico della religione nell’ambito politico. Esso non dovrebbe essere marginalizzato o vietato, ma compreso come valido apporto alla promozione del bene comune. In questa prospettiva bisogna menzionare la dimensione religiosa della cultura, tessuta attraverso i secoli grazie ai contributi sociali e soprattutto etici della religione. Tale dimensione non costituisce in nessun modo una discriminazione di coloro che non ne condividono la credenza, ma rafforza, piuttosto, la coesione sociale, l’integrazione e la solidarietà.

Libertà religiosa, forza di libertà e di civiltà: i pericoli della sua strumentalizzazione

7. La strumentalizzazione della libertà religiosa per mascherare interessi occulti, come ad esempio il sovvertimento dell’ordine costituito, l’accaparramento di risorse o il mantenimento del potere da parte di un gruppo, può provocare danni ingentissimi alle società. Il fanatismo, il fondamentalismo, le pratiche contrarie alla dignità umana, non possono essere mai giustificati e lo possono essere ancora di meno se compiuti in nome della religione. La professione di una religione non può essere strumentalizzata, né imposta con la forza. Bisogna, allora, che gli Stati e le varie comunità umane non dimentichino mai che la libertà religiosa è condizione per la ricerca della verità e la verità non si impone con la violenza ma con “la forza della verità stessa”.[10] In questo senso, la religione è una forza positiva e propulsiva per la costruzione della società civile e politica.

Come negare il contributo delle grandi religioni del mondo allo sviluppo della civiltà? La sincera ricerca di Dio ha portato ad un maggiore rispetto della dignità dell’uomo. Le comunità cristiane, con il loro patrimonio di valori e principi, hanno fortemente contribuito alla presa di coscienza delle persone e dei popoli circa la propria identità e dignità, nonché alla conquista di istituzioni democratiche e all’affermazione dei diritti dell’uomo e dei suoi corrispettivi doveri.

Anche oggi i cristiani, in una società sempre più globalizzata, sono chiamati, non solo con un responsabile impegno civile, economico e politico, ma anche con la testimonianza della propria carità e fede, ad offrire un contributo prezioso al faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo umano integrale e per il retto ordinamento delle realtà umane. L’esclusione della religione dalla vita pubblica sottrae a questa uno spazio vitale che apre alla trascendenza. Senza quest’esperienza primaria risulta arduo orientare le società verso principi etici universali e diventa difficile stabilire ordinamenti nazionali e internazionali in cui i diritti e le libertà fondamentali possano essere pienamente riconosciuti e realizzati, come si propongono gli obiettivi - purtroppo ancora disattesi o contraddetti - della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948.


Una questione di giustizia e di civiltà: il fondamentalismo e l’ostilità contro i credenti pregiudicano la laicità positiva degli Stati

8. La stessa determinazione con la quale sono condannate tutte le forme di fanatismo e di fondamentalismo religioso, deve animare anche l’opposizione a tutte le forme di ostilità contro la religione, che limitano il ruolo pubblico dei credenti nella vita civile e politica.

Non si può dimenticare che il fondamentalismo religioso e il laicismo sono forme speculari ed estreme di rifiuto del legittimo pluralismo e del principio di laicità. Entrambe, infatti, assolutizzano una visione riduttiva e parziale della persona umana, favorendo, nel primo caso, forme di integralismo religioso e, nel secondo, di razionalismo. La società che vuole imporre o, al contrario, negare la religione con la violenza, è ingiusta nei confronti della persona e di Dio, ma anche di se stessa. Dio chiama a sé l’umanità con un disegno di amore che, mentre coinvolge tutta la persona nella sua dimensione naturale e spirituale, richiede di corrispondervi in termini di libertà e di responsabilità, con tutto il cuore e con tutto il proprio essere, individuale e comunitario. Anche la società, dunque, in quanto espressione della persona e dell’insieme delle sue dimensioni costitutive, deve vivere ed organizzarsi in modo da favorirne l’apertura alla trascendenza. Proprio per questo, le leggi e le istituzioni di una società non possono essere configurate ignorando la dimensione religiosa dei cittadini o in modo da prescinderne del tutto. Esse devono commisurarsi - attraverso l’opera democratica di cittadini coscienti della propria alta vocazione - all’essere della persona, per poterlo assecondare nella sua dimensione religiosa. Non essendo questa una creazione dello Stato, non può esserne manipolata, dovendo piuttosto riceverne riconoscimento e rispetto.

L’ordinamento giuridico a tutti i livelli, nazionale e internazionale, quando consente o tollera il fanatismo religioso o antireligioso, viene meno alla sua stessa missione, che consiste nel tutelare e nel promuovere la giustizia e il diritto di ciascuno. Tali realtà non possono essere poste in balia dell’arbitrio del legislatore o della maggioranza, perché, come insegnava già Cicerone, la giustizia consiste in qualcosa di più di un mero atto produttivo della legge e della sua applicazione. Essa implica il riconoscere a ciascuno la sua dignità,[11] la quale, senza libertà religiosa, garantita e vissuta nella sua essenza, risulta mutilata e offesa, esposta al rischio di cadere nel predominio degli idoli, di beni relativi trasformati in assoluti. Tutto ciò espone la società al rischio di totalitarismi politici e ideologici, che enfatizzano il potere pubblico, mentre sono mortificate o coartate, quasi fossero concorrenziali, le libertà di coscienza, di pensiero e di religione.

Dialogo tra istituzioni civili e religiose

9. Il patrimonio di principi e di valori espressi da una religiosità autentica è una ricchezza per i popoli e i loro ethos. Esso parla direttamente alla coscienza e alla ragione degli uomini e delle donne, rammenta l’imperativo della conversione morale, motiva a coltivare la pratica delle virtù e ad avvicinarsi l’un l’altro con amore, nel segno della fraternità, come membri della grande famiglia umana.[12]

Nel rispetto della laicità positiva delle istituzioni statali, la dimensione pubblica della religione deve essere sempre riconosciuta. A tal fine è fondamentale un sano dialogo tra le istituzioni civili e quelle religiose per lo sviluppo integrale della persona umana e dell'armonia della società.

Vivere nell’amore e nella verità

10. Nel mondo globalizzato, caratterizzato da società sempre più multi-etniche e multi-confessionali, le grandi religioni possono costituire un importante fattore di unità e di pace per la famiglia umana. Sulla base delle proprie convinzioni religiose e della ricerca razionale del bene comune, i loro seguaci sono chiamati a vivere con responsabilità il proprio impegno in un contesto di libertà religiosa. Nelle svariate culture religiose, mentre dev’essere rigettato tutto quello che è contro la dignità dell’uomo e della donna, occorre invece fare tesoro di ciò che risulta positivo per la convivenza civile.

Lo spazio pubblico, che la comunità internazionale rende disponibile per le religioni e per la loro proposta di “vita buona”, favorisce l’emergere di una misura condivisibile di verità e di bene, come anche un consenso morale, fondamentali per una convivenza giusta e pacifica. I leader delle grandi religioni, per il loro ruolo, la loro influenza e la loro autorità nelle proprie comunità, sono i primi ad essere chiamati al rispetto reciproco e al dialogo.

I cristiani, da parte loro, sono sollecitati dalla stessa fede in Dio, Padre del Signore Gesù Cristo, a vivere come fratelli che si incontrano nella Chiesa e collaborano all’edificazione di un mondo dove le persone e i popoli “non agiranno più iniquamente né saccheggeranno […], perché la conoscenza del Signore riempirà la terracome le acque ricoprono il mare” (Is 11, 9).

Dialogo come ricerca in comune

11. Per la Chiesa il dialogo tra i seguaci di diverse religioni costituisce uno strumento importante per collaborare con tutte le comunità religiose al bene comune. La Chiesa stessa nulla rigetta di quanto è vero e santo nelle varie religioni. “Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”.[13]

Quella indicata non è la strada del relativismo, o del sincretismo religioso. La Chiesa, infatti, “annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è «via, verità e vita» (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose”.[14] Ciò non esclude tuttavia il dialogo e la ricerca comune della verità in diversi ambiti vitali, poiché, come recita un’espressione usata spesso da san Tommaso d’Aquino, “ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo”.[15]

Nel 2011 ricorre il 25° anniversario della Giornata mondiale di preghiera per la pace, convocata ad Assisi nel 1986 dal Venerabile Giovanni Paolo II. In quell’occasione i leader delle grandi religioni del mondo hanno testimoniato come la religione sia un fattore di unione e di pace, e non di divisione e di conflitto. Il ricordo di quell’esperienza è un motivo di speranza per un futuro in cui tutti i credenti si sentano e si rendano autenticamente operatori di giustizia e di pace.

Verità morale nella politica e nella diplomazia

12. La politica e la diplomazia dovrebbero guardare al patrimonio morale e spirituale offerto dalle grandi religioni del mondo per riconoscere e affermare verità, principi e valori universali che non possono essere negati senza negare con essi la dignità della persona umana. Ma che cosa significa, in termini pratici, promuovere la verità morale nel mondo della politica e della diplomazia? Vuol dire agire in maniera responsabile sulla base della conoscenza oggettiva e integrale dei fatti; vuol dire destrutturare ideologie politiche che finiscono per soppiantare la verità e la dignità umana e intendono promuovere pseudo-valori con il pretesto della pace, dello sviluppo e dei diritti umani; vuol dire favorire un impegno costante per fondare la legge positiva sui principi della legge naturale.[16] Tutto ciò è necessario e coerente con il rispetto della dignità e del valore della persona umana, sancito dai Popoli della terra nella Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite del 1945, che presenta valori e principi morali universali di riferimento per le norme, le istituzioni, i sistemi di convivenza a livello nazionale e internazionale.

Oltre l’odio e il pregiudizio

13. Nonostante gli insegnamenti della storia e l’impegno degli Stati, delle Organizzazioni internazionali a livello mondiale e locale, delle Organizzazioni non governative e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà che ogni giorno si spendono per la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, nel mondo ancora oggi si registrano persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e di intolleranza basati sulla religione. In particolare, in Asia e in Africa le principali vittime sono i membri delle minoranze religiose, ai quali viene impedito di professare liberamente la propria religione o di cambiarla, attraverso l’intimidazione e la violazione dei diritti, delle libertà fondamentali e dei beni essenziali, giungendo fino alla privazione della libertà personale o della stessa vita.

Vi sono poi - come ho già affermato - forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei Paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini. Esse fomentano spesso l’odio e il pregiudizio e non sono coerenti con una visione serena ed equilibrata del pluralismo e della laicità delle istituzioni, senza contare che le nuove generazioni rischiano di non entrare in contatto con il prezioso patrimonio spirituale dei loro Paesi.

La difesa della religione passa attraverso la difesa dei diritti e delle libertà delle comunità religiose. I leader delle grandi religioni del mondo e i responsabili delle Nazioni rinnovino, allora, l’impegno per la promozione e la tutela della libertà religiosa, in particolare per la difesa delle minoranze religiose, le quali non costituiscono una minaccia contro l’identità della maggioranza, ma sono al contrario un’opportunità per il dialogo e per il reciproco arricchimento culturale. La loro difesa rappresenta la maniera ideale per consolidare lo spirito di benevolenza, di apertura e di reciprocità con cui tutelare i diritti e le libertà fondamentali in tutte le aree e le regioni del mondo.

Libertà religiosa nel mondo

14. Mi rivolgo, infine, alle comunità cristiane che soffrono persecuzioni, discriminazioni, atti di violenza e intolleranza, in particolare in Asia, in Africa, nel Medio Oriente e specialmente nella Terra Santa, luogo prescelto e benedetto da Dio. Mentre rinnovo ad esse il mio affetto paterno e assicuro la mia preghiera, chiedo a tutti i responsabili di agire prontamente per porre fine ad ogni sopruso contro i cristiani, che abitano in quelle regioni. Possano i discepoli di Cristo, dinanzi alle presenti avversità, non perdersi d’animo, perché la testimonianza del Vangelo è e sarà sempre segno di contraddizione.

Meditiamo nel nostro cuore le parole del Signore Gesù: “Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati […]. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati [...]. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,4-12). Rinnoviamo allora “l’impegno da noi assunto all’indulgenza e al perdono, che invochiamo nel Pater noster da Dio, per aver noi stessi posta la condizione e la misura della desiderata misericordia. Infatti, preghiamo così: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12)”.[17] La violenza non si supera con la violenza. Il nostro grido di dolore sia sempre accompagnato dalla fede, dalla speranza e dalla testimonianza dell’amore di Dio. Esprimo anche il mio auspicio affinché in Occidente, specie in Europa, cessino l’ostilità e i pregiudizi contro i cristiani per il fatto che essi intendono orientare la propria vita in modo coerente ai valori e ai principi espressi nel Vangelo. L’Europa, piuttosto, sappia riconciliarsi con le proprie radici cristiane, che sono fondamentali per comprendere il ruolo che ha avuto, che ha e che intende avere nella storia; saprà, così, sperimentare giustizia, concordia e pace, coltivando un sincero dialogo con tutti i popoli.

Libertà religiosa, via per la pace

15. Il mondo ha bisogno di Dio. Ha bisogno di valori etici e spirituali, universali e condivisi, e la religione può offrire un contributo prezioso nella loro ricerca, per la costruzione di un ordine sociale giusto e pacifico, a livello nazionale e internazionale.

La pace è un dono di Dio e al tempo stesso un progetto da realizzare, mai totalmente compiuto. Una società riconciliata con Dio è più vicina alla pace, che non è semplice assenza di guerra, non è mero frutto del predominio militare o economico, né tantomeno di astuzie ingannatrici o di abili manipolazioni. La pace invece è risultato di un processo di purificazione ed elevazione culturale, morale e spirituale di ogni persona e popolo, nel quale la dignità umana è pienamente rispettata. Invito tutti coloro che desiderano farsi operatori di pace, e soprattutto i giovani, a mettersi in ascolto della propria voce interiore, per trovare in Dio il riferimento stabile per la conquista di un’autentica libertà, la forza inesauribile per orientare il mondo con uno spirito nuovo, capace di non ripetere gli errori del passato. Come insegna il Servo di Dio Paolo VI, alla cui saggezza e lungimiranza si deve l’istituzione della Giornata Mondiale della Pace: “Occorre innanzi tutto dare alla Pace altre armi, che non quelle destinate ad uccidere e a sterminare l'umanità. Occorrono sopra tutto le armi morali, che danno forza e prestigio al diritto internazionale; quelle, per prime, dell’osservanza dei patti”.[18] La libertà religiosa è un’autentica arma della pace, con una missione storica e profetica. Essa infatti valorizza e mette a frutto le più profonde qualità e potenzialità della persona umana, capaci di cambiare e rendere migliore il mondo. Essa consente di nutrire la speranza verso un futuro di giustizia e di pace, anche dinanzi alle gravi ingiustizie e alle miserie materiali e morali. Che tutti gli uomini e le società ad ogni livello ed in ogni angolo della Terra possano presto sperimentare la libertà religiosa, via per la pace!

Dal Vaticano, 8 dicembre 2010



BENEDICTUS PP XVI


[1] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 29.55-57.
[2] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 2.
[3] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 78.
[4]Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 1.
[5] Id., Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 7.
[6] Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (18 aprile 2008): AAS 100 (2008), 337.
[7] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 2
[8] Giovanni Paolo II, Discorso ai Partecipanti all’Assemblea Parlamentare dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE) (10 ottobre 2003), 1: AAS 96 (2004), 111.
[9] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 11.
[10] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 1.
[11] Cfr Cicerone, De inventione, II, 160.
[12] Cfr Benedetto XVI, Discorso ai Rappresentanti di altre Religioni del Regno Unito (17 settembre 2010): L’Osservatore Romano (18 settembre 2010), p. 12.
[13] Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 2.
[14] Ibidem.
[15] Super evangelium Joannis, I, 3.
[16] Cfr Benedetto XVI, Discorso alle Autorità civili e al Corpo diplomatico a Cipro (5 giugno 2010): L’Osservatore Romano (6 giugno 2010), p. 8; Commissione Teologica Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: uno sguardo sulla legge naturale, Città del Vaticano 2009.
[17] Paolo VI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1976: AAS 67 (1975), 671.
[18] Ibid., p. 668.

sabato 11 dicembre 2010

Origine dell'Universo


Il Pontificio Consiglio della Cultura e il progetto Stoq (Scienza, Teologia e la Questione Ontologica) - fondato sulla collaborazione tra diverse Università Pontificie di Roma per promuovere lo sviluppo del dialogo fra scienza, filosofia e teologia - propongono un nuovo incontro teso ad approfondire, con la sponsorizzazione dell'Agenzia Spaziale Italiana, il rapporto tra ragione e fede. Si tratta della conferenza intitolata “L’Origine dell’Universo”, la prima di una serie di incontri di 'Stoq Lecture 2010' dedicati proprio a questo tema, che si terrà stasera a Roma alle ore 18 presso la Sala Pio X di via della Conciliazione. Parteciperanno, tra gli altri, il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, e il padre gesuita José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana. Amedeo Lomonaco e il prof. Piero Benvenuti, astrofisico dell’Agenzia Spaziale Italiana, che modererà l’incontro:

R. – Si parlerà proprio dell’Universo, che già sappiamo essere da molto tempo in espansione. Sembra che sia ipotizzabile anche l’esistenza di molti Universi, che non possono comunicare tra loro. Quindi siamo arrivati veramente al confine tra scienza, cosmologia e filosofia.

D. – All’incontro prenderà parte anche il cosmologo John David Barrow, noto per la teoria del principio antropico…

R. – Il principio antropico, che fu introdotto appunto da Barrow nel 1988, sarà interessante rianalizzarlo, stasera, alla luce delle nuove scoperte della cosmologia, che in 20 anni ha modificato di molto il proprio modello. Nel principio antropico si ipotizza che l’Universo, così come lo conosciamo, sia proprio quell’Universo che permette lo sviluppo della vita e quindi anche l’emergere della coscienza. L’ipotesi che di Universi ne possano esistere moltissimi o, addirittura infiniti, apre la discussione su questo punto e sarà molto interessante ascoltare cosa pensa John Barrow, - che ha introdotto questo principio - e come lo colloca nell’interfaccia tra la cosmologia, la filosofia e la teologia.

D. – A proposito di queste interfacce, qual è nella cosmologia moderna il contributo dato anche dal rapporto tra scienza e fede, dal confronto tra ricerca e teologia?

R. – Mi sembra che si sia aperto un grande dialogo, che è fruttuoso per entrambi. Ormai la scienza non pretende più di occupare tutto lo spazio del ragionamento, sa quali sono i propri limiti. D’altra parte la filosofia, come la teologia, capisce che deve circoscrivere anche il proprio ambito. E’ un dialogo fruttuoso dove ognuno deve stare entro i propri limiti e contribuire al progresso della conoscenza globale, “allargare i confini della razionalità”, come ama dire il nostro Pontefice.

D. – Contribuire, dunque, al progresso della conoscenza. La conferenza di questa sera, in particolare, sancisce anche la collaborazione tra Agenzia Spaziale Italiana e Progetto Stoq. Quali gli orizzonti futuri, le prospettive di questa cooperazione?

R. – Cercare insieme un linguaggio comune. Quando, ad esempio, gli scienziati parlano di “vuoto”, intendono qualcosa di molto preciso, che è diverso dal “nulla” di cui parlano i teologi ed i filosofi. Trovarsi insieme e trovare il modo di presentare questi concetti al pubblico, in maniera tale da non generare confusione e dubbi, è molto interessante. Siamo molto entusiasti di questo accordo, che ci permette di lavorare insieme, ognuno con le proprie competenze ma con un obiettivo comune: portare alla conoscenza del pubblico queste scoperte, questi ragionamenti, sia nel campo della filosofia sia in quello della scienza.

venerdì 10 dicembre 2010

Preghiera

O Dieu
O Dieu, nous ne pouvons pas vraiment te prier pour que cesse la guerre, car nous savons que tu as fait le monde de telle façon que l’homme doive trouver son chemin de la paix, tant en lui-même qu’avec son voisin.

O Dieu, nous ne pouvons pas vraiment te prier pour que cesse la famine, car tu nous as donné assez de ressources pour nourrir le monde entier, si seulement nous les utilisions avec sagesse.

O Dieu, nous ne pouvons pas vraiment te prier d’éradiquer l’injustice, car tu nous as donné des yeux capables de voir le bien dans chaque créature, si seulement nous les utilisions avec sagesse.

Nous ne pouvons pas vraiment te prier, ô Dieu, de faire cesser le désespoir, car tu nous as donné le pouvoir de transformer les taudis et de semer l’espérance, si seulement nous les utilisions avec sagesse.

Nous ne pouvons pas vraiment te prier, ô Dieu, de faire cesser les maladies car tu nous as donné une intelligence capable d’imaginer et créer des médicaments, si seulement nous les utilisions avec sagesse.

C’est pourquoi, ô Dieu, nous te prions plutôt de nous donner force, détermination et courage, d’agir et de ne pas simplement prier. D’être plutôt que de simplement espérer.

Jack RIEMER (Théologien juif.)

Notizie:

L’ACAT est née en 1974
.
Elle agit dans un monde où plus de la moitié des pays pratiquent la torture comme mode de gouvernement.

Elle veut sensibiliser les Chrétiens et leurs Eglises au scandale de la torture et les inciter à agir pour son abolition.

Les associations nationales, membres de la FIACAT [1], participant aux efforts de tous, s’engagent à agir dans l’esprit de la présente Charte :

La foi en Jésus Christ, crucifié et ressuscité, vainqueur de la mort,nous donne la force d’espérer et d’agir pour l’abolition de la torture.
Fidèles à Sa Parole, et dans la puissance de l’Esprit, chacun de nous et les Eglises Chrétiennes sont appelés à s’engager au service de ceux auxquels Jésus Christ s’est identifié.
Le combat contre la torture est au coeur du message chrétien.

Nous croyons que tous les êtres humains vivent de la Grâce et du Pardon de Dieu. L’ACAT invite ses membres à implorer ce Pardon pour la responsabilité, qu’ils ont aussi, dans les violences qui portent atteinte à la dignité humaine. Nous prions et agissons pour la conversion des tortionnaires.


Dieu, qui est Amour, fait de tous les êtres humains des frères capables de solidatité et d’alliance.

Il nous invite :

A nous unir pour agir
A communier à la souffrance des victimes
A nous souvenir que les tortionnaires sont aussi ses enfants.

La prière est au coeur de notre action.

Nos associations réunissent des Chrétiens de confessions et de tendances diverses en les invitant à se retrouver dans une démarche commune. Elles sont indépendantes des partis politiques, des gouvernements, des organisations partisanes.

Nous appuyons notre action sur l’article V de la Déclaration Universelle des Droits de l’Homme, et travaillons pour que nul ne soit soumis à la torture, ni à des peines ou traitements cruels, inhumains ou dégradants - dont les exécutions capitales.

Nous voulons contribuer à la création, la promotion et la diffusion d’instruments juridiques contre la torture.

Nous exerçons une fonction préventive de vigilance et d’éducation aux droits de l’homme dans nos pays.


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Notes :
[1] Chaque association membre est liée par les statuts de la FIACAT.

ACAT - Associazione dei cristiani per l'abolizione della tortura

UFFICIO STAMPA ACAT

www.acatitalia.it - ufficiostampa@acatitalia.it

in collaborazione con l’Agenzia stampa NEV della Federazione delle chiese evangeliche in Italia

tel. 06.4825120/06.483768, fax 06.4828728 - nev@fcei.it

L'Italia respinge la richiesta dell'ONU di inserire la definizione del termine "tortura" nel nostro Codice Penale.

ACAT Italia denuncia la decisione del governo italiano

Roma, 11 giugno 2010 (ACAT/NEV-05) – ACAT Italia (Azione dei Cristiani per l'Abolizione della Tortura) esprime con forza il suo disappunto per la decisione del Governo italiano di respingere la raccomandazione ONU che invita il nostro paese a introdurre una definizione esplicita del termine “tortura” nel Codice Penale.
L’Italia infatti ha accolto la stragrande maggioranza delle 92 raccomandazioni che il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha formulato lo scorso febbraio dopo aver esaminato lo stato del nostro Paese, ma ne ha respinte 12, tra le quali appunto quella relativa all'introduzione del reato di tortura.
Lo ha riferito l'ambasciatore d'Italia presso le Nazioni Unite Laura Mirachian presentando a Ginevra le risposte dell'Italia al Consiglio ONU. «Manca un testo unico, ma in vari capitoli dei nostri codici per la tortura sono già previste pesanti sanzioni», dichiara la diplomatica.
L'Italia si impegnerebbe, invece, a ratificare il protocollo facoltativo relativo alla Convenzione contro la tortura, tutto ciò “quando si sarà dotata di un meccanismo nazionale di prevenzione indipendente".
L'ACAT ricorda che la Convenzione ONU contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (firmata a New York il 10 dicembre 1984 e ratificata dall'Italia sin dall’11 febbraio 1989) impone agli Stati aderenti l'obbligo di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura sia espressamente previsto come reato nel diritto penale interno, prevedendo anche severe pene per chi lo commette.
ACAT Italia ha promosso su questo specifico argomento una petizione, da indirizzare al Presidente della Repubblica, ai due rami del Parlamento e al Governo. Nell'attesa di consegnare le migliaia di firme raccolte, ACAT Italia sollecita i destinatari della petizione a impegnarsi per introdurre nel nostro Codice Penale il reato di tortura, mantenendo fede agli impegni internazionali assunti da oltre 20 anni, accogliendo così anche questa specifica raccomandazione del Consiglio per i Diritti Umani dell'ONU.

La torture

La torture toucherait la majorité des pays dans le monde

Dans un premier rapport annuel intitulé « Un monde tortionnaire », l’Acat, Action des chrétiens pour l’abolition de la torture, dresse un tableau inquiétant de la violence d’État

Supplice de la crucifixion en Érythrée. Chocs électriques en Guinée équatoriale. Lavement forcé à l’eau et au piment en Ouzbékistan. Asphyxie par sac en Russie. Simulation d’exécution au Bangladesh. L’Action des chrétiens pour l’abolition de la torture (Acat) dresse un tableau glaçant des sévices pratiqués par les autorités de nombreux pays, dans un premier rapport annuel. « On peut raisonnablement estimer que plus de la moitié des États membres de l’ONU recourent à la torture », précise l’organisation non gouvernementale qui a fêté cette année ses 36 ans d’existence.

L’association a recensé énormément de témoignages venant du continent africain. « La torture est profondément ancrée dans la culture des forces de sécurité qui agissent dans une totale impunité », dit le document. L’imprécision des textes de loi ou l’absence de criminalisation de la torture, comme au Tchad, permettent aux policiers d’en user sans craindre d’être poursuivis. « Les régimes dictatoriaux tels que la Mauritanie, le Soudan, le Zimbabwe, l’Éthiopie et la République démocratique du Congo érigent la torture en véritable système d’enquête et de répression », selon l’Acat.

Le recours à la violence demeure aussi très répandu au sein des forces de l’ordre sud-américaines, malgré l’installation de régimes démocratiques, à l’exception de Cuba. Chaque année, de jeunes Brésiliens des bidonvilles subissent des sévices de la part de la police, avant d’être assassinés. Et les mauvais traitements restent monnaie courante dans les prisons sud-américaines.
L’Occident n’est pas épargné

L’Acat souligne que l’Occident n’est pas épargné par les mauvais traitements, voire les actes de torture, notamment lors de gardes à vue ou de séjours en prison. Sur les 47 États membres du Conseil de l’Europe, 28 ont ainsi été condamnés par la Cour européenne des droits de l’homme pour des violences ou des brutalités policières. Aux États-Unis, l’arrivée de Barack Obama a mis fin aux dérives du précédent gouvernement de George Bush. « Mais Guantanamo n’est toujours pas fermé », regrette François Walter, d’Acat France.

Par-delà les frontières, l’association observe une certaine homogénéité de la torture. « Les États s’attaquent toujours aux mêmes victimes, poursuit François Walter. Les premiers visés sont les militants des droits de l’homme, journalistes, syndicalistes, minorités ethniques ou religieuses, migrants, détenus, soldats, déserteurs. » Les objectifs aussi sont les mêmes : obtenir des informations, fabriquer des aveux, soumettre des individus ou faire naître la peur parmi les opposants.

Olivier TALLÈS la-croix.com

martedì 7 dicembre 2010

A proposito di Wikileaks

Wikileaks: l’opacité de la transparence

Moins d’une semaine après le début de la publication des télégrammes du département d’Etat américain par un certain nombre de médias, je vous propose un bilan provisoire du « cablegate »:

Rappel des faits. A l’exception du New York Times qui les a reçu du quotidien britannique The Guardian, quatre médias (The Guardian, Der Spiegel, El Pais et Le Monde ) ont été choisis par Wikileaks pour recevoir les 251 287 télégrammes diplomatiques du département d’Etat américain couvrant une période allant de 2004 à mars 2010 pour 90 % d’entre eux, les autres remontant jusqu’à 1966.

Un peu plus de la moitié de ces documents ne sont pas classifiés, 40 % sont classés « confidentiels », environ 7 % (16 652) sont classifiés « secrets ». 3 802 documents ont été envoyés depuis la France. Aucun mémo n’est « Top secret », le plus haut degré de classification aux Etats-Unis. En vertu de la législation américaines, les documents classés « confidentiel » auraient été accessibles au bout de 10 ans, ceux classés « secret » dans un délai de 20 ans. Quelque 900 000 employés du gouvernement américain ont accès aux documents classés « secret ».

Ces cinq publications décident au fur et à mesure de la publication de leurs articles et de la sélection des télégrammes mis en ligne par leurs sites et par Wikileaks. Les mémos destinés à être publiés sont édités ensemble afin de protéger les identités des individus qui pourraient être menacés. Wikileaks s’est engagé à ne publier les télégrammes qui ne seront pas utilisés par les cinq journaux qu’ultérieurement, une fois toutes les idenités protégées par ses soins.

Bradley Manning. Wikileaks n’a pas révélé l’identité du ou des individus qui lui ont fournir les documents. Le suspect numéro un se nomme Bradley Manning, un soldat américain agé de 23 ans, arrêté et incarcéré après avoit été dénoncé au FBI par le hacker américain Adrian Lamo. Depuis Bagdad, cet analyste de renseignement militaire s’était vanté, au cours d’une discussion en ligne, d’avoir copié des documents secrets explosifs sur un disque, en prétendant écouter Lady Gaga. « Hillary Clinton et des milliers de diplomates à travers le monde auront une attaque cardiaque quand il se réveilleront un matin et découvriront que la totalité de la banque de documents classifiés de politique étrangère a été mise à la disposition du public, sous un format accessible… Partout où il y a un poste diplomatique américain, il y a un scandale qui sera révélé… C’est super, et effrayant ».

Potins diplomatiques. Qu’avons nous appris jusque là ? Quelques surprises, beaucoup de confirmations et aucun scandale. Beaucoup de « potins » diplomatiques sur des personnalités en vue, de Nicolas Sarkozy au colonel Kadhafi, en passant par Silvio Berlusconi, Robert Mugabe, le leader tchétchène Ramzan Kadyrov, Vladimir Putin ou le Prince Andrew. Au delà de cet aspect trivial, les télégrammes reflètent avant tout le travail de diplomates professionnels dans l’exercice normal de leurs fonctions: collecte d’informations auprès de leaders étrangers et analyse, recherche d’actions communes, pression sur les alliés et les adversaires.

Une révélation embarassante. C’est l’instruction donnée par le département d’Etat à ses diplomates de collecter les « données biométriques », y compris les « empreintes, photos d’identité, l’ADN et les scans rétiniens » de dirigeants africains et de récolter, y compris à l’Onu, les mots de passe, clés de chiffrement personnelles, numéros de cartes de crédits, comptes de voyageurs fréquents et autres données personnelles de leurs homologues diplomates.

Des confirmations. Ce que disent en privé les responsables politiques ne correspond pas toujours, on peut s’en douter, à leurs déclarations publiques. Sur le fond, rien de fondamentalement nouveau dans le fait que l’aspiration de l’Iran a l’hégémonie régionale et son programme nucléaire rendent les leaders sunnites des pays du Golfe aussi nerveux que les dirigeants israéliens. Tout rapprochement entre les Etats-Unis et l’Iran modifierait l’équation stratégique de la région et menacerait leurs relations privilégiées avec Washington. Rien d’étonnant, non plus, dans le fait que le roi saoudien Abddallah n’apprécie pas le Premier ministre irakien chiite Nouri al-Maliki, que le président yéménite revendique la paternité des frappes aériennes américaines contre al Qaeda dans son propre pays ou que le gouvernement chinois se trouve derrière la cyberattaque contre Google en 2009.

La diplomatie américaine mise à mal. La divulgation est en elle-même plus importante que le contenu. La publication des télégrammes porte un coup significatif au prestige et à la crédibilité de la diplomatie américaine, perçue comme incapable de protéger la confidentialité de ses analyses et de ses évaluations. Les fuites compliqueront le travail des diplomates du département d’Etat avec leurs alliés et partenaires. Dans leurs échanges et les comptes-rendus qui en seront fait, la prudence, la méfiance et l’autocensure risquent de prendre le pas sur la confiance et le franc-parler. De peur d’être exposés et rendus vulnérables, certains pourraient devenir plus méfiants dans leur coopération avec les Etats-Unis.

Première victime des fuites, Helmut Metzner, chef de cabinet du ministre des affaires étrangères allemand Guido Westerwelle, a donné jeudi sa démission, après avoir été identifié comme la source d’information de l’ambassade américaine au moment des négociations entre chrétiens démocrates et libéraux pour la formation du gouvernement. William Crosbie, ambassadeur du Canada en Afghanistan, a offert la sienne après la publication d’un télégramme relatant son point de vue sur le président Karzaï et sa famille.

Les gouvernements resserrent les boulons. Wikileaks affirme que ses fuites rendront les gouvernents plus ouverts. C’est tout le contraire qui se passe. L’administration Obama a annoncé une révsion des procédures de sécurité de l’information dans toutes les agences fédrales et les administrations. Le partage des informations mis en place après les attentats du 11 septembre 2001 entre le Pentagone et le département d’Etat a été suspendu: les télégrammes diplomatiques stockés sur la base de données du département d’Etat ne sont plus distribués sur le réseau internet du Pentagone. En France, les autorités vont redéfinir les modalités de transmission des documents diplomatiques. Des Etats réputés démocratiques trouveront dans cette affaire une raisson supplémentaire de réglementer et surveiller Internet de plus près.

La fuite en avant de Julian Assange. Le fondateur mégalomane et autocratique de Wikileaks se veut le champion de la transparence totale. « L’histoire gagnera. Le monde sera meilleur » disait-il hier sur le site internet du Guardian. Pour cet ancien hacker australien (fondateur du groupe « International Subversives », il s’était affublé du surnom de « splendide mendax » ou »menteur glorieux », emprunté à Horace), informaticien surdoué, élevé par sa mère en marge de la société, le recours aux fuites massives de données numériques s’inscrit dans un combat de l’individu contre le système, une mission messianique contre les méfaits des gouvernements et des institutions. « Dans un texte daté du 2 décembre 2006, intitulé « De la conspiration comme mode de gouvernance », il affirme vouloir ainsi perturber les lignes de communication internes des régimes autoritaires dont les élites conspirent au détriment du « peuple ». Un « mouvement social » exposant leurs secrets peut « faire tomber de nombreux gouvernements fondés sur la dissimulation de la réalité, y compris le gouvernement des Etats-Unis ». « L’Amérique est une société de plus en plus militarisée et une menace contre démocratie » affirmait-il, en octobre dernier, à Londres.

Drapé dans son personnage de chevalier blanc de l’information, engagé dans un combat singulier contre le Pentagone, le département d’Etat et les banques américaines, Julian Assange alimente la paranoïa conspirationniste d’un grand complot américain, à l’oeuvre aux quatre coins du monde. Déjà, en Russie, en Turquie et en Iran, -pour ne citer que quelques exemples-, des responsables politiques accusent les Etats-Unis et/ou Israël d’être derrière les fuites de Wikileaks.

Son statut de fugitif, visé par un mandat d’arrêt d’Interpol dans le cadre d’une enquête pour « viol et agression sexuelle » en Suède, contribue à entretenir son image de « Robin des bois » de la toile. Légalement difficile, toute action en justice engagée contre lui par les Etats-Unis le transformerait immédiatement en héros planétaire, »martyr » de de la cause des « geeks ».

Paradoxe éclatant, Wikileaks, entreprise apatride et nomade, échappant à tout contrôle et à toute juridiction, reste une organisation parfaitement opaque dans son fonctionnement et son financement.

Jouissance auto-destructrice. Comme le souligne Thomas L. Friedman, chroniqueur au New York Times, les télégrammes reflètent avant tout la « fuite de puissance » des Etats-Unis, en perte d’influence géopolitique, du fait de leur double dépendance envers leurs importations de pétrole et leur créditeur chinois. La jouissance voyeuriste à voir ainsi s’accélérer l’affaiblissement de la puissance américaine sur la scène mondiale me semble malsaine et infantile.Quel en sera le bénéfice pour le citoyen des démocraties, dites libérales, du monde occidental ? Qu’y gagnerons-nous sur la scène internationale, dans les négociations avec la Corée du Nord, l’Iran ou en Afghanistan ? En quoi la « transparence » revendiquée par Wikileaks et ses supporters favorisera-t-elle la négociation d’un accord israélo-palestinien ?

WikiChina. Depuis un an, Wikileaks concentre ses tirs sur l’Amérique et c’est ce qui fait sa notoriété. L’organisation est devenue célèbre en avril 2010 avec la diffusion d’une vidéo, montrant un hélicoptère américain tirant sur des civils à la mitrailleuse, au cours d’une opération militaire dans un quartier de Bagdad. En juillet, elle a récidivé en publiant 77 000 documents confidentiels rédigés par des militaires américains en Afghanistan. Puis, en octobre, 400 000 autres documents militaires amércains sur la guerre en Irak. Dans une interview publiée dans le magazine économique Forbes, Julian Assange affirme que sa prochaine cible sera, au début de l’année prochaine, « une grande banque américaine » qui pourrait être Bank of America… On attend le jour où Wikileaks divulgera les télégrammes diplomatiques de la République populaire de Chine ou de la Corée du Nord.

Internet n’est qu’un outil. Les citoyens, internautes ou non, bénéficieront-ils des fuites massives orchestrées par Wilkileaks ? Internet peut favoriser la transparence en facilitant l’accès aux documents administratifs ou gouvernementaux et le contrôle des élus par les citoyens. En même temps, Internet peut devenir un instrument d’opacité et de manipulation pour des citoyens forcément inégaux dans leur capacité à décrypter une quantité sans cesse décuplée de données disponibles, à déméler le vrai du faux, le réel du virtuel. Loin d’annoncer le « grand soir » des internautes contre les « puissants », l’entreprise Wikileaks pourrait bien ajouter à la confusion générale des esprits qui caractérise nos sociétés médiatiques.

La transparence n’est pas une vertu absolue. La fuite de données classifiées peut servir l’intérêt général, la démocratie et l’Etat de droit, si elle révèle des abus de pouvoir, des conflits d’intérêts, des affaires de corruption, des crimes de guerre ou des crimes contre l’humanité. En revanche, à quoi sert la transparence si elle ne préserve pas le respect de la vie privée et paralyse l’action publique ?

Le secret peut être utile et nécessaire dans l’exercice de nombreuses activités, publiques ou privées. Les hommes politiques et les diplomates n’ont-ils pas droit à, au même titre que les avocats, juges, médecins, psychologues, psychanalistes, experts comptables et journalistes à bénéficier d’une part de confidentialité dans leur travail ?

L’utopie d’une politique menée dans la transparence n’est pas nouvelle. Après la première guerre mondiale, Woodrow Wilson avait mené une croisade contre la diplomatie « secrète » qui, selon lui, avait mené au carnage de la guerre de 14-18. En 1917, le 2e congrès des soviets avait adopté un « décret sur la paix » abolissant la diplomatie secrète et proclamant son intention de « mener les pourparlers en toute franchise, devant le peuple entier ». « L’histoire montre que le secret est une composante essentielle de toute négociation » rappelle l’historien Paul W. Schroeder, aucune fusion de société, aucun règlement juridique complexe, divorce à l’amiable ou compromis politique sérieux, ne pourront jamais être conclu sans un sérieux degré de confidentialité »

Wikileaks et la presse « de qualité ». Pour la deuxième fois consécutive, Wikileaks partage l’exclusivité, en amont de leur publication, des documents en sa possession avec des médias « traditionnels ». Un mode opératoire très efficace. Les grands journaux choisis par Julian Assange lui apportent leur caution d’expertise et de qualité et une forme de couverture légale. Leur participation assure à la divulgation des documents un retentissement que n’aurait jamais eu une simple mise en ligne sur le site Wikileaks. Ces médias ont-il fait leur travail de sélection et de hiérachisation comme ils l’affirment ? Au besoin, en décidant, après examen, de ne pas participer à la publication de tout ou partie des documents classés qui ne servirait pas l’ intérêt public ? Ou ont-ils succombé à la tentation d’entretenir un feuilleton médiatique au long cours, produit du « buzz » et de la « peoplisation », avec des retombées inespérées pour la fréquentation de leurs sites ?

« La décision de déballer telle ou telle archive plutôt qu’une autre a fait l’ojet, on les sait, d’une négociation: entre les pirates et la presse, puis entre celle-ci et les gouvernants » écrivait récemment Elisabeth Roudinesco dans Libération. »Dans cette partie à trois, les premiers sont des voleurs d’archives, les seconds imposent une sélection au nom d’une déontologie qui leur est propre et les troisièmes négocient avec les seconds pour rester maîtres d’un évènement qu’ils ne contrôlent pas ».

Question: Qui a instrumentalisé qui, dans le couple infernal du hacker et du journaliste, de Wikileaks et de la presse « de qualité » ?

Et pour quel profit ?

4 dicembre da la-croix.com

lunedì 6 dicembre 2010

Comitato Scientifico di cittadini europei ebrei, cristiani e musulmani che collabori con Consiglio d'Europa


La FFEU (Foundation For Ethnic Understanding) promuove oggi, lunedì 6 dicembre, a Bruxelles il Congresso delle Guide Ebraiche e Islamiche Europee (Gathering of European Muslim and Jewish Leaders). Interviene come relatore dall'Italia il Vice Presidente della COREIS (Comunità Religiosa Islamica) Italiana Yahya Pallavicini, nominato portavoce della delegazione di musulmani europei nell'incontro con il Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy.

“In questa settimana la comunità ebraica conclude gli otto giorni di Hanukkah, la Festa delle Luci, mentre proprio domani i musulmani celebrano l'inizio del nuovo anno islamico”, scrive nella sua relazione l'Imam Pallavicini rivolgendosi al Presidente Van Rompuy. “Siamo lieti di ritrovarci a Bruxelles in questo momento di illuminazione e rinascita, a distanza di sei mesi dal precedente incontro, quando con lei, il Presidente Barroso e il Presidente Buzek abbiamo discusso di Povertà ed Esclusione Sociale insieme ad altre guide religiose e politiche”.

“Non abbiamo mai creduto nello scontro di civiltà, nè nella guerra tra le religioni, poichè il conflitto è la drammatica conseguenza dell'ignoranza e dell'arroganza, e soltanto attraverso un paziente lavoro di educazione possiamo superare i pregiudizi e le strumentalizzazioni del sacro. Non vi è dissonanza alcuna tra la nostra identità religiosa e la nostra responsabilità di cittadini europei musulmani. Per questo stiamo lavorando con le nuove generazioni e con gli immigrati di fede islamica per evitare fenomeni di radicalizzazione o ghettizzazione”.

“Propongo di costituire un Comitato Scientifico di cittadini europei ebrei, cristiani e musulmani che lavorino con il Consiglio d'Europa per promuovere dibattiti, seminari, incontri interreligiosi e interculturali in collaborazione con Università europee e associazioni culturali”, conclude il Vice Presidente della COREIS Yahya Pallavicini, “con particolare attenzione alle istanze della famiglia e della gioventù, della cittadinanza inclusiva e del pluralismo religioso, della libertà di culto e del rispetto dei simboli sacri nello spazio pubblico. Il nostro auspicio è che la benedizione della spiritualità e la saggezza sacra delle religioni possa essere riconosciuta e rispettata nel suo nobile contributo allo sviluppo della società europea”.

Con l'Imam Yahya Pallavicini, numerose le personalità presenti, tra le quali Rav Linvingstone (Presidente della Fondazione Figli di Abramo), l'Imam Abd al-Jalil Sajid (Responsabile nel Regno Unito della Commissione per l'Armonia Religiosa), Rav Serfaty (Responsabile in Francia dell'Associazione di Amicizia Gudeo-Musulmana), l'Imam Fatih Sahan (Responsabile in Germania del Sindacato Turco-Islamico), Rav Joseph Levi (Rabbino Capo di Firenze), Rav Guedj (Rabbino di Ginevra), Salah Echallaoui (Portavoce del Consiglio Europeo dei Saggi Musulmani), Rav Albert Guigui (Gran Rabbino del Belgio), Moshe Kantor (Presidente del Congresso Ebraico Europeo), il Mufti Mustafa Ceric dalla Bosnia-Herzegovina, Rav Marc Schneier (Presidente della Fondazione per la Comprensione Etnica – FFEU) dagli Stati Uniti, Muzammil Siddiqi (Presidente del Consiglio per il Fiqh del Nord America), Rav Soetendorp dall'Olanda, Anas Schakfeh (Presidente della Comunità Islamica in Austria).

Tre le sessioni di lavoro previste. Preceduta da un momento di preghiera per la pace in Medio Oriente, la prima sessione si incentra sul tema Esperienze condivise, con la presentazione delle relazioni tra musulmani ed ebrei nei Paesi europei e degli sforzi per stabilire basi di comprensione, amicizia e fiducia reciproca. Dopo l'incontro con il Presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso e quello, dopo pranzo, con il Presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy, si tiene la seconda sessione, dal titolo Comunicazione e cooperazione. In discussione le differenti modalità della cooperazione e del dialogo teologico, culturale e sociale tra ebrei e musulmani. Infine la terza ed ultima sessione, dal titolo Cooperazione futura, mette a punto progetti di cooperazione per il prossimo anno tra ebrei e musulmani, con la creazione di un comitato di coordinamento. I lavori si concludono in serata con una cena ospitata dal World Jewish Congress.

Sul patrimonio culturale

Claudio Scarpati

[Un mio collega della ‘Sapienza’ inizia il suo corso di letteratura italiana chiedendo agli studenti di estrarre dalle tasche una moneta da un euro e una da due euro: noi non abbiamo sulle monete volti di regnanti o marianne o aquile imperiali, ma l’uomo vitruviano di Leonardo e un ritratto di Dante. Un artista scienziato e un poeta. E’ un modo efficace per ricordare agli studenti che quando vogliamo identificare noi stessi dobbiamo ricorrere a una tradizione culturale, letteraria e artistica].

Da Dante dunque occorre prendere inizio. Quando Dante conclude e rende pubblica la sua Commedia, alla fine del secondo decennio del Trecento, è passato un secolo dalla diffusione del primo testo poetico in lingua volgare, il Cantico di frate sole di Francesco d’Assisi. Lungo quel secolo il volgare era stato usato per traduzioni di opere storiche, per la redazione di annali e cronache: aveva altresì accompagnato la migrazione della lirica dalla corte di Federico II alla Toscana. Ma l’opera che viene ora divulgata, la Commedia, ha un ardimento non prima immaginabile: si tratta di un viaggio ultraterreno in cui il viaggiatore, che è insieme autore e personaggio, vede la condizione degli uomini fissata definitivamente e giudicata in modo da conservare nell’al di là – come notò Hegel – i tratti che definirono la loro esistenza terrena. Questo viaggio è scritto in lingua volgare – il volgare toscano di Dante – perché si rivolge a un pubblico nuovo di “uomini desiderosi di sapere e di animo nobile che non conoscono il latino”. Si tratta di un balzo culturale e morale, dal momento che in questo modo accedono alla riflessione poetica, nutrita di sapere biblico e di sapienza antica, uomini e donne venuti alla luce nella vitalità sociale della civiltà comunale e cittadina.
La Commedia ha un respiro universale, legge il mondo antico e il mondo cristiano, e tuttavia in essa l’Italia ha un presenza particolare: vi trovano posto “l’arzanà (l’arsenale) de’ veneziani” (Inf. XXXI 7), la “bella Trinacria che caliga (si copre di fumo) tra Pachino e Peloro” (Par. VIII 67), la “vipera (il biscione dei Visconti) che ’l melanese accampa” e il “gallo di Gallura” (Purg. VIII 80). L’Italia di Dante è l’Italia di Virgilio e di Enea, travagliata ora dalle discordie cittadine e signorili contro le quali il poeta invoca l’intervento dell’imperatore nella cui funzione unificante ancora crede. Anche Petrarca deplora lo stato miserevole dell’Italia che sta sotto i suoi occhi, ma in lui prevale l’antico disprezzo per le genti germaniche barbare che forniscono milizie mercenarie ai signori italiani.
Petrarca è colui che elabora, con lo strumento malleabile del volgare, la nuova lingua della poesia d’amore. I temi da lui introdotti si diffonderanno nelle letterature europee per oltre tre secoli. E insieme il Petrarca scrittore latino sarà accolto dalla cultura dell’Occidente come philosophus moralis, capace di collegare i classici con i padri della Chiesa, l’eredità antica e l’eredità del medioevo cristiano.
E’ questa la scaturigine della nuova cultura che sorge in Italia, quella che si chiamerà umanistica. Mi piace pensare che all’origine dell’umanesimo stia l’ultimo canto della Commedia ove Dante vede apparire entro i tre cerchi che rappresentano la Trinità, l’immagine dell’uomo. Il tema umanistico della dignità dell’uomo non può essere disgiunto dalla dignità a lui conferita dall’Incarnazione del Verbo.
L’umanesimo è un grande moto di cultura dietro cui sta una nuova organizzazione degli studi: alle materie tradizionali del trivio (grammatica, dialettica e retorica) si aggiungono lo studio degli scrittori antichi, della lingua greca, della storia. Il ciclo della cultura dell’Occidente si ricompone; il lascito degli antichi viene accolto in un orizzonte cristiano. Gli umanisti sono consapevoli di intraprendere una strada nuova, ma non volgono le spalle al passato. Contrapponendosi a tenaci schemi storiografici, il maggiore studioso del pensiero del Rinascimento, Paul Oskar Kristeller, ha messo in luce il fatto che in Italia i nuovi orientamenti del pensiero convivono con l’eredità della filosofia scolastica, che il rinnovato interesse per Platone non copre lo studio di Aristotele che continua a vivere nella sua etica, nella retorica, nella poetica.
Nel moto umanistico l’Italia precede gli altri paesi europei: questi riconoscono il primato italiano e forniscono all’Italia l’autocoscienza della sua centralità culturale in un arco di tempo lungo che va da Leonardo a Bernini: nel 1516 Leonardo è chiamato a Parigi da Francesco I che rinnova le istituzioni culturali del suo regno; nel 1665 Bernini è a Parigi per discutere il progetto (poi non attuato) del Louvre.

Il libro più letto nell’Europa del Rinascimento è il Cortegiano di Baldassar Castiglione. E’ il libro in cui l’uomo di corte (che è poi il consigliere del principe, il diplomatico dei tempi nuovi) si caratterizza per la sua cultura, non per l’abilità guerresca. Questo diviene il ‘modello italiano’ che le corti di Francia e d’Inghilterra desiderano imitare. Il libro veicola l’idea che la cultura precede la politica e la orienta, secondo l’ideale antico del governo dei sapienti. Noi sappiamo che questo ideale è discusso: Machiavelli ritiene fondamentale l’efficacia dell’azione politica per mantenere lo stato, Castiglione pensa che il principe non possa “stare sempre in guerra”: egli deve partecipare della “vita contemplativa” (la riflessione, il pensiero, lo studio) che è il fine cui tende la vita attiva. Ma entrambi gli scrittori hanno gli occhi aperti sulla situazione italiana: Castiglione sa bene che il “nome italiano è ridutto in obbrobrio”, e si attende, si augura, intravede una nuova generazione di prìncipi; Machiavelli conclude la sua opera politica con l’esortazione a liberare l’Italia dai barbari.
Mentre, come sapete, controversa è la fortuna del Principe, straordinaria è la fama europea del Cortegiano: stampato nel 1528, è tradotto in spagnolo nel 1534, in francese nel 1537, in latino per i lettori tedeschi nel 1569, in inglese nel 1560. Una simile fortuna in traduzione tocca al Galateo di Giovanni della Casa. Il ‘modello italiano’ si afferma perché discute la vita di relazione, l’essere gli uni accanto agli altri con rispetto e libertà, con quei modi che saranno tipici delle aristocrazie e delle classi colte del nostro continente. E’ un’esperienza comune a chi anche oggi viaggia in Europa notare la facilità di comunicazione che si attua tra i cittadini delle nazioni che hanno accolto nella loro storia il contributo del Rinascimento italiano.

Nel primo trentennio del Cinquecento l’Italia è un grande laboratorio artistico su cui si sporgono gli occhi degli stranieri. Se nel secolo precedente l’attenzione si era concentrata su Firenze, ora anche Milano si arricchisce della nuova misura volumetrica di Bramante e dell’animazione compositiva di Leonardo, che ai tempi del Cenacolo dipinto nel convento di Santa Maria delle Grazie assegnava arditamente all’artista il compito di dipingere “i moti dell’animo”. Nel 1506 Albrecht Durer scriveva a un amico: “A Venezia sono divenuto un gentiluomo” (e voleva intendere uomo colto e compiuto). Nello stesso anno a Roma, che acquista ora una centralità indiscussa, viene esposto nel cortile del Belvedere il Laocoonte acquisito da Giulio II. La passione antiquaria intensifica l’esplorazione archeologica: disegni tratti da statue antiche circolano velocemente al di qua e al di là delle Alpi. Nel 1512 viene aperta al pubblico la Cappella Sistina, con la volta affrescata da Michelangelo. Nel 1511 Raffaello termina la Scuola d’Atene nelle Stanze vaticane. In quell’affresco alcuni dei grandi antichi hanno i volti dei contemporanei. Al 1519 risale la lettera scritta a Leone X da Castiglione e Raffaello sulla salvaguardia dei monumenti romani.
Nel mezzo di questo fervore artistico e letterario – sono gli anni in cui appare la prima edizione dell’Orlando furioso – riemerge problema della lingua. La nuova industria della stampa, a Venezia fiorente, avverte l’esigenza di stampare libri che abbiano una circolazione più che regionale e rispondano a caratteristiche grammaticali uniformi.
Molte proposte sono avanzate, ma è un umanista veneziano, Pietro Bembo, già segretario da Leone X, colui che fa la proposta destinata negli anni ad essere raccolta. Con le sue Prose della volgar lingua, stampate a Venezia nel 1525, l’anno della battaglia di Pavia, quando in Italia imperiali e francesi si contendono sanguinosamente la supremazia sulla penisola, tre anni prima del sacco di Roma, quasi in un atto di salvataggio di una eredità culturale di valore inestimabile, Bembo proponeva la lingua di Petrarca come riferimento per le scritture poetiche, la lingua di Boccaccio per le scritture in prosa. La lingua di Dante era troppo composita per essere indicata come modello. Per un verso questa proposta (che fu poi avallata nella Firenze della seconda metà del secolo) ancorava la lingua scritta a modelli di due secoli prima, per un altro riconosceva che non è possibile definire una lingua di cultura senza rifarsi a esemplari di prima grandezza.
La lingua scritta italiana conobbe così una continuità che non fu posseduta da alcuna altra lingua europea. Il 70 o 80 per cento della parole di Dante sono ancora usate da noi. La nostra letteratura si è sviluppata su questa base; tuttavia, entro questa cornice, la lingua si è arricchita nel tempo di termini derivati dai mestieri, dalle attività economiche, dalla scienza medica, dalla tecnica. Resta che noi – quasi – possiamo leggere il Canzoniere di Petrarca senza l’ausilio di un commento letterale. Ha scritto Gian Luigi Beccaria: “Noi ci riconosciamo da secoli in questa grande lingua comune, il suo effetto aggregante ha molto contribuito al conseguimento dell’unità politica. Non esisteva ancora la nazione, ma da secoli esisteva l’unità linguistico-letteraria nazionale”.
La lingua italiana fu considerata la terza tra le lingue classiche, studiata in Francia e in Inghilterra per arricchimento culturale, divenne la lingua della terminologia musicale. La sua conoscenza è oggi indispensabile per chiunque nel mondo si occupi di storia delle arti figurative.

La storia delle nostre lettere scritta negli anni del Risorgimento aveva fatto coincidere la perdita della libertà politica con l’inizio di un declino inarrestabile dell’Italia. Da alcuni decenni questa visione viene ridiscussa. Sembra di poter dire che la cultura italiana seppe resistere, proprio grazie alle fondamenta di cui abbiamo parlato, nell’epoca del predominio straniero. Negli anni ottanta del Cinquecento viene alla luce il grande poema della Gerusalemme liberata, nel quale Tasso congiunge il tema dantesco del viaggio, ora volto all’acquisto di una città, viaggio che egli definisce come “ricomposizione del corpo sociale”, [unisce questo motivo dantesco] con la petrarchesca indagine del mondo interiore dei personaggi, che passano dalla disgiunzione alla reciprocità. Alla fine del Cinquecento Padova e Bologna permangono centri universitari che attraggono studenti dall’Europa centrale, mentre sorgono nuove istituzioni culturali. A Roma l’Accademia dei Lincei accoglie Galileo che nel 1610 ha pubblicato tra l’entusiasmo del mondo scientifico il Sidereus Nuncius. A Milano nel 1609 si apre la Biblioteca Ambrosiana con il Collegio dei dottori voluto da Federico Borromeo. L’Accademia fiorentina della Crusca stampa nel 1612 il suo Vocabolario. Accademie sorgono anche nelle città minori: sono luoghi di incontro fra uomini di lettere e uomini di scienza. L’arte barocca prolunga, soprattutto in Roma, il classicismo del Rinascimento con un’audacia sperimentale che dà luogo a un nuovo linguaggio architettonico e figurativo, fondato sul movimento delle masse, sulla visione pluriprospettica, su una nuova grammatica dei sentimenti. Uno studioso francese, Jean Rousset, ha scritto che una facciata barocca è una facciata rinascimentale immersa nell’acqua, è il suo riflesso nell’acqua agitata, poiché le superfici si gonfiano e si scavano, i frontoni si spezzano e si avvolgono, le colonne diritte diventano colonne tortili, le fontane sono monumenti all’acqua e al moto incessante.
Nel Seicento ancora l’arte italiana è sentita come un crocevia di esperienze che si diffondono a misura continentale. Nel Seicento l’Italia tutta, da Firenze, a Venezia, a Napoli dona al continente il nuovo genere artistico del melodramma, che congiunge parola e musica nella cornice teatrale, rappresentativa, scenica, lungo una linea che condurrà alla fortuna immensa, lungo tre secoli, dell’opera in musica.
Nell’epoca in cui le arti interpretavano in vario modo una volontà di efficacia comunicativa, si accumulò anche un patrimonio di discorsi, di discorsi pronunciati e ascoltati, che hanno contribuito a costruire l’identità italiana. Nell’età post-tridentina la predicazione occupa un posto centrale nella prassi pastorale della Chiesa. Da alcuni decenni l’oratoria sacra tra Cinque e Seicento è stata oggetto di studi numerosi e approfonditi. Sappiamo che la retorica ecclesiastica è di origine dotta. Francesco Panigarola, il colto predicatore francescano caro a Carlo Borromeo, scrive un trattato sulla predicazione modellato su un testo illustre dell’età ellenistica, il De interpretatione attribito a Demetrio Falereo, di gran moda in quei decenni. Le retoriche dei gesuiti – come d’altra parte la Ratio studiorum, si costruiscono su fondamenta classiche. Come accade nella letteratura di quegli anni anche per la predicazione di pongono problemi di stile oratorio, che per alcuni deve essere ricco, fiorito, emotivamente accattivante, per altri sobrio, misurato, aderente al sermo humilis della Scrittura sacra. Sembra che su questo terreno gli ordini religiosi e il clero secolare procedano su linee non dissimili. Lo storico non può non registrare l’imponente complesso comunicativo che fu allora allestito, con la convergenza tra i messaggi visivi dell’architettura e della pittura e la rete estesissima dell’oratoria sacra. Questa rete fu il nutrimento culturale di fedeli non alfabetizzati, indirizzò le loro menti verso i grandi orizzonti della sapienza cristiana, dichiarò la loro dignità di uomini “figli tutti d’un solo riscatto”, come dirà Manzoni. Per intere generazioni di dialettofoni, nella civiltà contadina, la predicazione divenne forma di contatto con una lingua sovraregionale, quella che ormai si chiamava lingua italiana, che indicava loro l’appartenenza ad una realtà più vasta, oltre i confini del villaggio e del borgo, quella che poi ritrovavano nei pellegrinaggi e nelle feste predisposte da una pedagogia religiosa e umana divenuta intensa e capillare.

Il Settecento è, in Italia, il secolo della storia. La storia ideale eterna di Vico e la storia erudita e documentaria di Muratori. Sulle loro orme si pone Foscolo, che vede nella memoria storica l’unica via attraverso la quali gli italiani potranno prendere coscienza di sé. E invita gli italiani a meditare sulla loro storia, a scriverne, rilevando – siamo nel 1809 – che sono gli storici stranieri quelli che ci spiegano quale fu la funzione svolta in Europa dalla nostra cultura. Sulle orme di Muratori si pone Manzoni con la sua riforma della tragedia fondata sul ‘metodo storico’. Ogni opera di Manzoni ha un’implicazione patriottica, pone sullo sfondo l’idea della nazione italiana. Al centro della prima tragedia stanno le contese tra gli stati italiani e la loro dipendenza dalle truppe mercenarie. Manzoni è un innovatore, ma inserito in una tradizione: l’esecrazione per i mercenari era stato il grande tema di Petrarca e di Machiavelli. Ora torna in primo piano: poiché i fratelli uccidono i fratelli, lo straniero guarda dalle Alpi e ne gode. Nell’Adelchi gli italiani del secolo VIII attendono da Carlo una liberazione che non verrà: Franchi e Longobardi si assidono insieme sulla terra di un “vulgo disperso”. Nel romanzo, la Lombardia spagnola è il quadro entro il quale il sopruso e la prepotenza e il delitto si sostituiscono alle leggi: solo un figlio di Francesco e un vescovo illuminato vi si oppongono.
Le generazioni risorgimentali si riconobbero nei versi della poesia manzoniana dedicata al Marzo 1821. Quando essa venne alla luce, nel 1848, durante le Cinque Giornate di Milano, vi trovarono dichiarata l’autorizzazione biblica e religiosa del riscatto italiano: Dio è “padre di tutte le genti” e non ha mai concesso ad alcuno di raccogliere dove non ha seminato. Pensando all’Italia del futuro Manzoni la vedeva “una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor”. Nel tumulto migratorio di questi anni a noi è difficile pensare all’Italia “una di sangue”. L’Italia “una di cor” è invece, ancora, quella che desideriamo.

NEI 150 ANNI UNITÀ D’ITALIA : L. Ornaghi


SUL PRESENTE E IL FUTURO DELL’ITALIA
LORENZO ORNAGHI

1. Una storia sempre inconclusa e senza termine?

I 150 anni dell’Italia unita, quando volgendosi all’indietro e pur tra tante difficoltà si vogliano raccogliere e comprendere con un’occhiata sola dal loro inizio a questo nostro presente, sembrano presentare più persistenze che fratture o discontinuità, più nodi ancora da sciogliere che questioni risolte una volta per tutte, più tendenze sotterraneamente orientate a una profittevole incompiutezza che decise propensioni a una unità la quale, incontrovertibile e sostanziale, non sia sempre costretta a ridiscutere il proprio passato per cercare di offrire non solo e non tanto una spiegazione plausibile al proprio oggi, quanto e soprattutto una direzione non troppo aleatoria o inquietante verso il proprio domani. Quel passato storico (né troppo distante nei secoli, né così vicino da essere ancora avvolto nei fumi delle inevitabili partigianerie politiche o faziosità ideologiche), che per la maggior parte dei Paesi è suggello di identità oltre che fattore di rassicurazione riguardo al sempre più incerto futuro, in Italia pare condannato a essere un tempo inconcluso o mai da considerare definitivamente chiuso: solo così, infatti, può protrarsi senza ulteriori traumi l’armistizio tra i ‘vincitori’ e i numerosi, differenti ‘vinti’ della vicenda unitaria nelle sue principali scansioni. O – per dire con maggiore precisione e attenzione all’attualità – può perpetuarsi la posizione di incontrastabile ‘assolutezza’ della politica, proprio col preservare, quali che ne siano gli alterni protagonisti, quella vita politico-statale la cui base più profonda e delicata di legittimazione sta appunto nella sua capacità di ‘tenere insieme’ come totalità le tanti ‘parti’ della nostra società.
È possibile che ciò che sto cercando di sintetizzare sia il frutto di un’impressione semplice e superficiale. Anche in questo caso, tuttavia, resterebbe la domanda sul perché tale impressione inevitabilmente affiori e sotto mille spoglie si diffonda, ogniqualvolta l’urto del presente si fa più forte e sembra in grado di scompaginare radicalmente quella che – al fine di tenerla distinta dal più circoscritto (e freddo) ‘sistema’ dei partiti e delle istituzioni statali – ho chiamato la vita politico-statale. Anche la ricorrenza dei grandi anniversari risente della fase del ciclo in cui una tale vita si trova o ritiene di trovarsi a essere. A tale proposito – lo aggiungo solo per curiosità scientifica – sarebbe assai interessante, oltre che istruttivo, se qualche studio confrontasse il 150° che ci apprestiamo a festeggiare con il centenario di cui non pochi di noi conservano il ricordo. E, mediante una rigorosa comparazione, ci mostrasse consonanze e dissonanze, ripetizioni e volute o impreviste difformità, non solo sul piano delle celebrazioni, delle loro principali modalità pubbliche, dei loro tentativi culturali e politici di penetrare nelle più consolidate rappresentazioni sociali, ma anche e in particolare nel campo delle interpretazioni e valutazioni storiografiche di quella complessa vicenda di eterna incompiutezza, di fratture ricomposte in modo mai definitivo, di nodi ancora da sciogliere piuttosto che questioni risolte una volta per sempre, a cui mi richiamavo all’inizio.
Rispetto a cinquant’anni fa, è più fragile e decomposta la Nazione italiana (e, con essa e magari indipendentemente da essa, la società), o si è invece progressivamente indebolito il sistema politico-statale? O, piuttosto, quel sistema partitico, che si è equiparato al sistema politico-statale e frequentemente si è assiso sopra di esso, incontra sempre maggiori difficoltà nell’adempiere la funzione di esclusivo tessuto connettivo, di insostituibile sintesi dell’intera società? Non avrò la pretesa, con le considerazioni che seguono, di abbozzare una pur parziale risposta a tali quesiti. Stimo indispensabile, tuttavia, almeno il formularli. Se infatti teniamo a mente questi interrogativi, ci rendiamo agevolmente conto del fatto che il più pesante e meno penetrabile cono d’ombra da cui sono avvolti, insieme, presente e futuro dell’Italia è costituito da ciò che semplicisticamente siamo soliti chiamare ‘crisi della politica’, o che, semplificando eccessivamente, definiamo crisi partitica (sia essa quella della cosiddetta Prima Repubblica, o la crisi che, in atto nella Seconda, all’altra direttamente consegue, ne amplifica alcune cause e aggiunge fattori nuovi).
A centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, lo ‘stabile squilibrio’ tra sistema politico-statale e società – uno squilibrio stabilizzatosi proprio in ragione delle tante fratture che lo rendevano necessario e non sostituibile – rischia ora di spezzarsi. E può spezzarsi per cause del tutto interne al sistema politico-statale, anche (o proprio) in forza della sostanziale equiparazione di quest’ultimo al sistema dei partiti. È questo il dato che, realmente nuovo, occorre cercare e osservare con particolare attenzione, in mezzo ai nodi storici ancora non sciolti e tra le antiche fratture riapertesi o allargatesi con intensità e forme differenti. Tenterò di considerare tale dato nuovo, soffermandomi su tre temi. Che, secondo un ordine non casuale, sono: il grado di innovabilità del sistema politico-statale, il federalismo, il ruolo e la formazione della classe dirigente. La pur breve illustrazione di ognuno dei tre temi vorrebbe riuscire a mostrare, anche se solo in filigrana, la crescente forza e attualità – almeno, credo, per gran parte dei partecipanti a questo Forum – di una questione su cui tornerò alla fine del mio intervento, e che per ora anticipo formulandola così: si è aperto il tempo, per i cattolici, di tornare a essere con decisione ‘guelfi’?


2. Riformare ciò che appare sempre meno riformabile

Il primo tema che mi appresto a considerare (e che ho posto sotto il titolo per nulla paradossale «riformare ciò che appare sempre meno riformabile») necessita di un’osservazione preliminare. Se non falsificata, certamente è stata più volte vanificata – in quel campo dai confini sempre scarsamente rispettati, che è la politica – l’enunciazione di Albert O. Hirschman, secondo cui in ogni condizione c’è sempre una riforma possibile. Più resistente è invece quest’altra constatazione dello studioso tedesco esule negli Stati Uniti, e cioè che «colui che ha di mira il mutamento sociale su grande scala dev’esser posseduto, per dirla con Kierkegaard, dalla “passione per ciò ch’è possibile”, piuttosto che affidarsi a ciò che l’analisi fattoriale ha certificato come probabile».
Anno dopo anno, da almeno tre decenni a oggi, nel nostro Paese le riforme costituzionali sono rapidamente sprofondate nelle sabbie mobili di un paradosso: più risultano necessarie, più diventano a tal punto impossibili da apparire ormai inutili. Ed in effetti, ora, sembrerebbe di essere già pienamente nella condizione in cui – fatta salva un’ennesima riforma elettorale, che propriamente riforma costituzionale non è – nessuna parte o frazione partitica abbia un qualche interesse e veda per sé un vantaggio, né di medio periodo né (tantomeno) di brevissimo raggio, nell’impugnare il vessillo di grandi o più minuscole riforme istituzionali.
Si potrebbe ipotizzare che, nelle fasi in cui la situazione politica viene avvertita come straordinaria e altamente rischiosa per i suoi stessi attori principali, le riforme appaiano inevitabilmente ridondanti o superflue rispetto all’impiego di altri strumenti di competizione e lotta partitica, mentre risulta più agevole immaginare la loro possibile (e utile) realizzazione nei momenti in cui l’eccezionalità della situazione contingente cederà il passo alla ‘ordinarietà’ del tempo della politica. In realtà, nessuna riforma istituzionale può essere disgiunta dal gioco delle parti politiche e dai disegni o dalle ambizioni di questo o quel leader di vertice. Di più: quand’anche una riforma istituzionale abbia alla sua base – in vista del bene del Paese, com’è pur auspicabile – la maggior condivisione spontanea o l’obbligata convergenza delle molteplici e differenti parti politiche, ciascuna di queste ultime è del tutto avvertita del fatto che, una volta attuata, ogni riforma inevitabilmente toccherà e muterà non solo i rapporti tra le forze partitiche, ma anche il rispettivo peso specifico.
Dopo i progetti di ‘grande riforma’ degli anni Ottanta, la questione delle riforme istituzionali è interamente rifluita dentro il riformattato sistema partitico dagli anni Novanta sino a oggi, comprensibilmente passando in second’ordine rispetto ai più impellenti sforzi di solidificazione dei due poli e al necessitato schieramento, al loro interno, anche dei nuovi partiti o gruppi partitici. Ma sarebbe ingenuo e rischioso pensare che una tale questione possa avere ancora a lungo il suo storico andamento carsico, in cui la lunghezza del corso sotterraneo compensa le intermittenti erosioni di superficie. Infatti, quanto più si appesantisse e si cronicizzasse l’odierna situazione politica, tanto più diventerebbe probabile che nelle rappresentazioni sociali dei cittadini le riforme, anziché il prodotto (magari scarsamente efficace) di una estesa o ridotta parte di classe politica, vengano considerate e più o meno ingannevolmente immaginate come la levatrice di un nuovo ceto politico. Analogamente ad alcuni ambiti di attività economico-industriale, anche in politica – come già intuivano Montesquieu e Steuart – il margine di tolleranza per le prestazioni scadenti può essere assai ristretto. Diversamente dall’economia, però, quasi mai resiste vantaggioso e favorevole per troppo tempo.
In effetti, «riformare ciò che appare sempre meno riformabile», e così cercare di impedire che si oltrepassi senza limiti la soglia di tolleranza per le prestazioni del sistema politico-statale ritenute più scadenti, vede intrecciate e tra loro strettamente interdipendenti tre linee fondamentali di riforma. La prima è quella delle riforme propriamente costituzionali; la seconda, più ampia, è scandita dalle riforme istituzionali; la terza è la riforma (o – per essere più precisi, guardando alle condizioni del presente senza peraltro considerarle perpetue – la pur difficile e magari poco probabile ‘autoriforma’) dei partiti, quale condizione necessaria per l’incremento di rappresentatività e di qualità complessiva del ceto politico.
Lungo la prima linea di riforme ritroviamo pressoché tutti i nodi o le incoerenze presenti nell’attuale fase storica dello Stato, quale svolgimento e coronamento del ‘tipo’ della longeva organizzazione del potere nata e fatta crescere dalla modernità europea (ossia, appunto, l’assetto istituzionale-organizzativo dello ‘Stato moderno’). Sono i nodi o le incoerenze che – sempre in una prospettiva rigorosamente storica – i regimi democratici occidentali si sono trovati in grandissima parte a ereditare, dopo che la democrazia, finita la fase di contrapposizione alle incarnazioni assolutiste (e alle rappresentanze politiche o di interessi) dello Stato d’Ancien Régime, ha dapprima ‘usato’ le antiche istituzioni statali e poi si è in esse progressivamente immedesimata. Richiamo due soli esempi di siffatti nodi. Il primo è offerto dalla concreta meccanica di funzionamento dei tre ‘classici’ poteri che – fondati sulla ‘impersonalità’ del potere, oltre che distinti, separabili e ciascuno in grado di ‘arrestare’ l’altrui straripamento – dovrebbe garantire per intero il libero e ordinato svolgimento della vita politica. Il secondo esempio (che, più intricato e forse anche più rilevante dell’altro, avrebbe bisogno di una lunga argomentazione) consiste nella ricerca di una perfetta e ormai impossibile coincidenza fra ‘legittimazione a rappresentare’ e ‘legittimazione a governare’: la quale coincidenza, sempre più illusoria, è forse il principale fattore di quei vistosi fenomeni odierni per cui, in molte democrazie, la vita politica manifesta tendenze plebiscitarie e populiste, in stridente e crescente contrasto con un assetto istituzionale che si vorrebbe ancora governato interamente secondo la logica del primato ‘parlamentare’.
Ma, sovrapposte od ormai del tutto mescolate a quelle attinenti al tipo generale di ‘moderna’ organizzazione statale del potere, ritroviamo – nel campo ampio delle riforme costituzionali – anche le irrisolte o mai sino in fondo risolte questioni specifiche della nostra vicenda unitaria: sotto lo svolgimento formale-costituzionale dello Stato – dal nuovo Stato unitario e accentratore, allo Stato di diritto e liberale poi scalzato dall’ordinamento fascista e dalla ‘diarchia’ tra Re e Capo del governo (che è simultaneamente capo di partito e ‘duce’ del popolo), sino allo Stato repubblicano e alla sua immedesimazione in un particolare sistema pluralistico di partiti – non è infatti difficile individuare una dopo l’altra tutte quelle persistenze profonde o di superficie della nostra storia, che a loro volta ci riconducono ai grandi problemi dei rapporti fra società e Stato, dell’identità del popolo italiano, delle peculiari qualità e del grado di intensità del nostro sentimento di appartenenza alla Nazione. E sono questi più grandi, generali problemi a riempire – ben più di quanto non succeda lungo la linea di riforme costituzionali – le altre due linee da seguire per riformare ciò che lo scorrere del tempo tende a rendere sempre meno riformabile in modo tranquillo e ordinato: vale a dire, come le sintetizzavo poco fa, la linea delle riforme istituzionali e quella della riforma dei partiti.
Anche per questo motivo il federalismo, che appartiene a pieno titolo alle riforme istituzionali e non solo a quelle strettamente costituzionali, sembra portare con sé e inestricabilmente attorcigliare pressoché tutte le antiche e nuove questioni della storia italiana, a partire dalla frattura tra Nord e Sud.
Passo dunque a trattare il secondo dei tre temi, che ho anticipato di volere considerare a proposito dei più gravi rischi a mio avviso incombenti su quello ‘stabile squilibrio’ progressivamente e faticosamente costruito tra il sistema politico-statale e la società italiana. Quanto al terzo tema – cioè il ruolo e la formazione della classe dirigente – mi limiterò ad alcune brevissime osservazioni, non solo per rispetto dei tempi fissati al mio intervento, ma anche perché mi sembra che la rivista «Vita e Pensiero», nel suo quarto numero di quest’anno, ne abbia dato una sufficiente impostazione, già con l’editoriale intitolato I cattolici e la politica: da dove ripartire.

3. Federalismo, classe dirigente e formazione del ceto politico

Si potrebbe temere, per più di un motivo, che anche la riforma istituzionale del federalismo, non diversamente dai passati progetti di riforme costituzionali, sia purtroppo affetta dal micidiale ‘paradosso dell’impossibilità’. Non pochi studiosi e commentatori politici hanno sottolineato come risulti del tutto inutile (e spesso controproducente) varare leggi, quando manca l’essenziale per dare a queste concreto ed efficace compimento. E in qualche osservatore disincantato cresce la sensazione che per il federalismo stia ormai scadendo (o già sia scaduto) il limite massimo di tempo concesso dai duri fatti della storia e della politica. Dentro il groviglio di antiche e nuove questioni da cui il federalismo è avvolto, d’altro canto, la secolare lacerazione tra Nord e Sud non solo è venuta rafforzando la sua collocazione centrale, ma sempre più spesso tende anche a farsi coincidente con l’intero tema. Anziché strumento possibile (pur se, di necessità, imperfetto) di ricomposizione o riaggiustamento di una tale lacerazione, il federalismo ne diventa l’espressione estrema, il suggello definitivo. In tal modo, però, quanto più le (comprensibilmente) differenti concezioni politiche intorno al federalismo tendono a ideologizzarsi, tanto più si diffonde l’erronea convinzione che il federalismo sia tutt’uno con la questione Nord-Sud. E tanto più tende a radicalizzarsi, simultaneamente, la persuasione dell’illusorietà di voler riformare ciò che non può o non intende essere utilmente e finalmente riformato.
Della percezione – collettivamente sempre più ampia – che il Paese sia malato di una sostanziale irriformabilità, studiosi e opinionisti anticipano per ora le conseguenze possibili o probabili. Resta invece sullo sfondo l’alternativa, secca e temibile, tra due esiti: o la capacità dell’intero sistema politico di non scivolare ulteriormente lungo il piano inclinato di una crescente stagnazione, o la rottura traumatica di alcuni (o molti) degli elementi costitutivamente strutturali del sistema politico-statale dell’età repubblicana. Le spie di allarme, che a tal proposito si stanno accendendo, non vanno tuttavia trascurate o sottovalutate. All’immagine – evocata qualche tempo fa – di una «secessione dolce», la cui natura più propriamente psicologica attiene alle rappresentazioni sociali, si vanno affiancando quelle di una «secessione silenziosa», praticabile o già praticata nella sfera dei comportamenti o degli intendimenti economico-industriali, e – come ha argomentato nelle scorse settimane Angelo Panebianco – di un «secessionismo culturale», politicamente forse più rischioso al Sud che non al Nord.
Eppure il federalismo ha dalla sua, come elementi principali di sostegno, almeno due fattori storici (o due processi di lungo periodo), di cui l’uno attraversa l’intera storia unitaria sino a oggi e l’altro, già in atto, determinerà o comunque influenzerà il domani della nostra comunità nazionale. Se bene inteso, il federalismo – appunto nei suoi termini più ampiamente istituzionali – non è soltanto un modo di riorganizzare e riequilibrare i poteri ‘costituzionali’ ai vari livelli, o di spostare competenze e funzioni dello Stato pur rilevantissime quali quelle di natura fiscale, ma è anche e soprattutto la ‘costruzione’ di corrispondenze funzionali (o le più funzionali possibile) tra centri politici e territorio, tra i gruppi in cui scalarmente si struttura la classe politica e le istituzioni di governo e di rappresentanza, tra le politiche pubbliche nei differenti snodi della loro decisione e attuazione e le aspettative dei cittadini, tra – infine, e per adoperare ancora una volta formule ipersintetiche, forse più allusive che esplicative – politica, economia e società. In questo primo senso, il federalismo è (potrebbe essere) l’indispensabile ‘ammodernamento’ dello Stato e delle sue più tradizionali istituzioni, dopo la fase lunga – dai primi del Novecento in poi – dello Stato-provvidenza (o del welfare statalmente assicurato, che ha anche alimentato, per finalità di consenso elettorale, vaste e difficilmente estirpabili aree di rendite parassitarie), e dopo quella – di poco più breve – della incontrastata pervasività della politica e dei partiti dentro la vita della società. Se bene inteso e intelligentemente attuato, il federalismo – ecco la seconda tendenza, destinata a consolidarsi nel futuro – è (potrebbe essere) quell’assetto non solo politico-istituzionale, ma anche economico-sociale, maggiormente in grado di identificare e rafforzare il contributo dell’Italia all’ancora incerta definizione del ruolo dell’Unione Europea dentro il sistema globale. E maggiormente in grado, al tempo stesso, di contrastare il rischio di essere trasformati in un Paese sostanzialmente insignificante (o eccezionalmente significativo – lo aggiungo senza un briciolo di celia – solo in quanto contenga lo Stato del Vaticano e abbracci la Santa Sede), per effetto di quegli spostamenti degli assi geo-politici e geo-economici che stanno ridisegnando il sistema globale, pur secondo i ritmi dei cambiamenti autenticamente epocali le cui accelerazioni più forti o violente si manifestano solo all’improvviso e pressoché inaspettatamente.
Un federalismo bene inteso e intelligentemente applicato – è questo un punto essenziale e irrinunciabile – non può che essere un «federalismo solidale», basato integralmente sul principio di sussidiarietà e via via costruito col ricorso a un tale principio, come sua applicazione del tutto conseguente e coerente, oltre che innovativa perché adeguata alle urgenze del presente e previdente rispetto al domani. Un federalismo solidale, quando nel suo orizzonte mostrasse con chiarezza l’inscindibile nesso tra il necessario ammodernamento delle istituzioni e l’altrettanto necessaria (e realistica) prospettiva di ciò che sarà il futuro welfare per la cittadinanza, richiamerebbe sia il Nord sia il Sud (concretamente: i loro abitanti, i loro ceti più rappresentativi, le loro classi dirigenti) a far crescere e praticare la troppo spesso evocata e troppo raramente praticata virtù della ‘responsabilità’: nei confronti dell’intero Paese, a partire dalla responsabilità rispetto a se stessi. E di necessità comporterebbe, questo federalismo solidale, il radicamento di un ceto politico ‘territoriale’, che, saldamente raccordato alle rappresentanze sociali, con esse lavori fianco a fianco, operando insieme per finalità comuni e per obiettivi condivisi.
Ceto politico e rappresentanze sociali: da qui, con ogni probabilità, si deve incominciare a cercare le più funzionali corrispondenze tra la legittimazione a governare (e il concreto esercizio dell’attività di ‘governo’) e la legittimazione a rappresentare (e il suo grado effettivo di rappresentatività, vale a dire quanto una rappresentanza viene ‘sentita’ davvero come tale da coloro che sono rappresentati). Nella formazione di chi sarà chiamato a costituire la classe dirigente di domani, conoscenza e pratica del rapporto tra politica e rappresentanze sociali si riveleranno almeno altrettanto importanti di quanto lo saranno le competenze tecniche nei rispettivi ambiti di attività o l’abilità nel rispondere con successo alle sfide dell’internazionalizzazione. Una reale capacità e un’effettiva, continua manifestazione di leadership risulteranno decisive per entrare a comporre la classe dirigente. E – se posso concludere con un’immagine queste osservazioni sul ruolo e sulla formazione della classe dirigente, che avevo anticipato sarebbero state assai brevi – il ‘movimento’, e non già la conservazione statica della propria collocazione, dovrà caratterizzare vita e funzioni della classe dirigente. ‘Movimento’ (o ‘circolazione’, se si preferisce) tra politica e rappresentanze sociali. Ma anche attitudine al ‘movimento’, poi e soprattutto, proprio rispetto a quei più ampi campi in cui verrà richiesta e sarà chiamata a esercitarsi la leadership di una classe dirigente. Il domani che ci sta venendo incontro vedrà intensificarsi e moltiplicarsi, con ogni probabilità, le richieste di essere e sentirsi partecipi di forme di idem sentire, di essere e sentirsi appartenenti ad associazioni pubbliche in grado di agire nella vita politica il più direttamente possibile, o, almeno, senza dover essere sottoposte alla ‘mediazione’ in via esclusiva dei partiti.
La leadership di quote larghe della classe dirigente dovrà allora essere pronta, con la propria capacità di movimento, a svolgere un’azione al tempo stesso aggregativa, rappresentativa e stabilmente orientativa delle decisioni collettive, oltre che delle politiche pubbliche. E una tale azione sarà tanto più indispensabile, quanto più si consoliderà la tendenza già in atto in pressoché tutte le democrazie, sotto la spinta della quale la politica – anche nei momenti più puntuali di regolazione della competizione partitica attraverso la verifica del consenso elettorale – più che dai ‘valori’, quali cose desiderate o attese dall’individuo o da gruppi per il proprio materiale bene essere, viene scossa da quegli autentici valori che danno senso alla vita di ogni singola persona e dell’intera collettività. Integrando senza eccessive forzature il titolo di un saggio assai letto di un autorevole studioso, si potrebbe dire che, se i voti continueranno a contare, saranno soprattutto i ‘valori’ – i valori in quanto, anche, risorsa politica – a decidere della politica dell’incombente domani.

4. Progetto culturale e opere

Sono così giunto alle osservazioni conclusive. Che saranno anch’esse rapide, pur dovendo io assolvere l’impegno, preso all’inizio di questo intervento, di esplicitare perché sembri essersi aperto il tempo, per il cattolicesimo italiano, di manifestarsi con decisione ‘guelfo’, se non già di originare da subito un nuovo, energico guelfismo.
Nella relazione che ho recentemente tenuto alla 46° Settimana Sociale dei Cattolici Italiani di Reggio Calabria, mi è sembrato opportuno sottolineare come la straordinaria storia e l’altrettanto straordinaria capacità di pensiero e azione del ‘cattolicesimo politico’ italiano abbiano conosciuto i loro momenti più alti, quando – dentro lo svolgersi delle vicende, non di rado drammatiche, dei centocinquant’anni del Paese – il vigore e il rigore dell’aggettivo ‘politico’ hanno saputo attingere il loro più vitale alimento dai valori fondamentali e dai caratteri essenziali del cattolicesimo. Riprendo e ripeto qui le considerazioni svolte in quella circostanza. Abbiamo sempre più bisogno di una visione politica dalle radici e dalle qualità genuinamente e coerentemente ‘cattoliche’. Ne abbiamo bisogno perché, quando difettassimo di una simile visione, ogni pur rinnovata forma della nostra presenza pubblica o politico-partitica facilmente si ridurrebbe a quella di una mera ‘parte’ tra la pluralità delle parti, destinata più a essere contata che a ‘contare’, più ad attendere di essere variamente riconosciuta come rilevante che a ‘rilevare’ non solo in modo sempre diretto, ma anche – nelle circostanze necessarie – in misura decisiva. E abbiamo bisogno di una simile visione – aggiungo ora – soprattutto per stare attivamente ‘dentro’ la vita presente del Paese, portando come nostro contributo peculiare e impareggiabile un disegno preciso, oltre che il più possibile condivisibile e aggregante, per il futuro.
Il futuro dell’Italia, temo, sarà ancora a lungo segnato dalle persistenze della sua storia specifica e da alcuni dei nodi che la vicenda unitaria non è riuscita a sciogliere definitivamente e che in qualche occasione ha ulteriormente arruffato. Ma il futuro verrà soprattutto scandito dai grandi cambiamenti che stanno percorrendo il mondo intero e l’Occidente in modo del tutto particolare. All’avanzare della tecnica e all’ampliarsi smisurato dei suoi campi di applicazione, occorre chiedersi quale sarà la propensione del nostro Paese all’innovazione tecnologica. Dentro le nuove onde lunghe dell’evoluzione storica del capitalismo, c’è da domandarsi quali rapporti legheranno i regimi politici (e il loro sistema internazionale) alle dinamiche e al potere di mercati sempre più globali. Di fronte a rappresentazioni sociali plasmate senza sosta dai mezzi antichi e recentissimi di comunicazione di massa, è necessario interrogarsi su quali siano i valori culturali e le pratiche educative maggiormente in grado di orientare positivamente pensieri, convinzioni, azioni.
Tornare a essere con decisione ‘guelfi’ comporta affermare l’idea e la realtà di ‘italianità’ quale dato storico (insieme, culturale e popolare), di cui gli essenziali e più duraturi elementi sono religiosi, cattolici. E soprattutto richiede – diversamente, in questo caso, dal guelfismo ottocentesco – la consapevolezza che la ‘perennità’ dell’Italia cattolica e la sua ‘esemplarità’ nei confronti di altre nazioni, assai più che da una disposizione naturale, dipendono dall’energia e dal successo dell’azione dei cattolici di oggi.
Rispetto ad altre (per dire sinteticamente così) ‘identità’ culturali che sono state protagoniste della storia unitaria o di alcune sue fondamentali fasi, disponiamo di idee più appropriate alla soluzione dei problemi del presente. E siamo ancora dotati di strumenti d’azione meno obsoleti o improvvisati. Ma anche una tale posizione, che questi nostri tempi fanno sentire nella comparazione con altre identità migliore e più vantaggiosa, non può essere considerata per sua natura un bene perenne. Né potrebbe restare a lungo una risorsa inesauribile, quando la visione cattolica della realtà stemperasse i propri elementi costitutivi, mischiandoli e omologandoli a quelli delle concezioni ideologiche del Novecento o dei loro scampoli attuali.
Essere ‘guelfi’, oggi, implica la consapevolezza che la nostra posizione di vantaggio culturale va di giorno in giorno consolidata. Consolidandola, saremo già pronti per quelle nuove ‘opere’ che – soprattutto per ciò che riguarda la rilevanza e la capacità attrattiva della nostra partecipazione alla vita politica del presente – il futuro prossimo già ci domanda