giovedì 6 dicembre 2012

In S.Pietro il presepe dalla Basilicata

PRESEPE REGIONE BASILICATA IN PIAZZA SAN PIETRO
 In occasione del prossimo Santo Natale Il tradizionale presepe che si allestisce ogni anno in Piazza San Pietro sarà donato quest'anno dalla Regione Basilicata.
Il presepe, costituito da oltre 100 statuine realizzate in terracotta. è opera del Maestro Francesco Artese, considerato tra i più importanti rappresentanti della scuola presepistica meridionale. La peculiarità di Artese risiede proprio nella rivisitazione in chiave artistica di uno spaccato del paesaggio dei Sassi di Matera e nella messa in scena della vita quotidiana della civiltà contadina. Il presepe di Piazza San Pietro riprodurrà la morfologia di un territorio che richiama molto i luoghi della Terra Santa.
Il paesaggio lucano è - si legge in una nota informativa - "impreziosito dall'opera di religiosi che scegliendo di vivere in quel contesto trasformarono quei luoghi in un'umana dimora ricolma di sacralità edificando ben centocinquantaquattro chiese rupestri, monasteri e santuari che dall'Alto Medioevo al XIX secolo delineano l'identità di una vasta area oggi considerata "Patrimonio Mondiale dell'Umanità".
L'intera scenografia del Presepe in Piazza San Pietro "pur ispirandosi a un genere iconografico tradizionale, è definita da elementi che riproducono le architetture e i luoghi tipici del paesaggio lucano. All'interno dello scenario, sono riconoscibili la Chiesa rupestre Convicinio di Sant'Antonio e quella di San Nicola dei Greci. In alto, tra la miriade di tetti delle case accavallate, spicca il campanile di San Pietro Barisano. L'ambiente umano è quello dell'antica civiltà contadina lucana (...). Le statuine (...) realizzate interamente in terracotta, sono rivestite con abiti di stoffa inamidata fatti a mano e ispirati ai costumi tipici dei contadini lucani di un tempo. (...) Scelta dell'artista è stata quella di vestire la Sacra Famiglia con i costumi della tradizione classica".
Come consuetudine l'allestimento del Presepe è curato dai Servizi Tecnici del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano.  (VIS).

lunedì 3 dicembre 2012

Cari amici,  è finalmente possibile vedere anche in Italia il film "Cristiada".
Non è uscito nei cinema perché incredibilmente rifiutato da tutti i distributori italiani, nonostante includa attori di fama mondiale come Peter O'Toole, a suo agio nei panni del prete cattolico. 
Avrei voluto acquistare il DVD, anche per contribuire a un ritorno di cassa al coraggioso produttore, ma intanto ce lo possiamo godere su Internet, con sottotitoli in italiano, ai link che si trovano qui in calce.
 
Primo tempo:
 
Secondo tempo:
 
 

“Cristiada”, cercasi ancora distributore

Per certi versi, la questione assomiglia a un giallo. Il protagonista è Cristiada, il film sull’epopea dei cristeros.
Vessata e perseguitata dal governo massonico e anticlericale del presidente Plutarco Elías Calles (1877-1945), tra 1926 e 1929 la popolazione cattolica del Messico insorse in armi al grido di «Viva Cristo Rey! » (da cui il nome dei combattenti), e con il beneplacito della Santa Sede, dando vita a una nuova Vandea contemporanea. Ebbene, ne è stato fatto un film. Ma, pronto da mesi, già predisposto per il lancio mondiale con tanto di trailer (emozionante) e sito ufficiale, Cristiada non si vede. Almeno fino a ieri.
Ieri, infatti, martedì 20 marzo, questo film scomparso perché ancora manca chi s’incarichi della sua distribuzione nelle sale cinematografiche è finalmente sbarcato al centro del mondo. A Roma, anzi praticamente in Vaticano, proiettato non in anteprima ma in esclusiva mondiale all’istituto Patristico Augustinianum, che sta a due passi – letteralmente – dal colonnato del Bernini. Posti rigorosamente riservati, prenotazione obbligatoria, di tutto si è occupato il servizio d’informazione cattolica H2O. Per molti aspetti, l’operazione assomiglia a un SOS.
«Siamo qui per promuovere la pellicola, sperando di riuscire presto a distribuirla ovunque come accade per qualsiasi altro film, bello o brutto che sia…». A La Bussola Quotidiana lo dice Pablo José Barroso, il produttore di Cristiada venuto dal Messico apposta per accompagnare in Italia questa sua perla. «Perché si faccia tanta fatica a trovare un distributore resta un vero mistero…».
Azzardiamo: forse che il suo essere così apertamente filocattolico nel denunciare il brutale anticristianesimo che sta al centro della vicenda risulti troppo imbarazzante? Barroso mantiene l’aplomb e smorza la nostra malizia (forse). «Non lo so, francamente non lo so», risponde. «Ci siamo rivolti a tutte le major del settore, seguendo le prassi di rito, non tralasciando alcunché convinti che l’ottima qualità tecnica della pellicola, la sua storia avvincente e il richiamo esercitato da un pool di attori di grande fama potesse essere d’aiuto; e invece, per mesi e mesi, niente, solo ostacoli… Nessuno dei distributori grandi e piccoli che abbiamo interpellato è di per sé mai entrato nei dettagli contenutistici del film… ». Però?… «Però ci siamo costantemente sentiti rispondere che Cristiada è difficile da piazzare sul mercato, è di nicchia, rischia di essere un flop al botteghino… ». Una pellicola realizzata come un kolossal di Hollywood – benché di produzione messicana -, diretta dal Premio Oscar per gli effetti speciali di cult come Le due Torri, del 2002, e Il ritorno del re, del 2003 (ovvero il secondo e il terzo episodio della trilogia cinematografica tolkieniana diretta da Peter Jackson) e interpretato da Andy Garcia [nella foto], Eva Longoria, Peter O’Toole ed Eduardo Verástegui? Difficile da credere.

«Comunque», prosegue asciutto Barroso, «non ci siamo arresi, e alla fine qualche risultato importante lo abbiamo ottenuto. La prima mondiale a Roma prelude all’uscita del film – se null’altro accadrà nel frattempo – in Messico, curata dalla 20th Century Fox. Accadrà il 20 aprile. Se andrà bene, Cristiada verrà poi distribuito in tutta l’America ispanofona. Forte di questa novità, la mia casa di produzione, la Dos Corazones Productions di Città del Messico, lancerà la pellicola negli Stati Uniti il 1° giugno. Ancora totalmente scoperta resta invece l’Europa…».
Già, l’Europa… «A dire il vero, la Disney sta forse fiutando l’occasione, abbiamo ricevuto qualche segnale, ma tutto è ancora prematuro. Stiamo persino pensando d’iscrivere il film al Festival di Cannes, per cercare di smuovere le acque. Ecco, lo scriva. Abbiamo bisogno di tutti gli aiuti. Vogliamo offrire al pubblico una storia che è avvincente come un western dei tempi d’oro e al contempo profondamente vera, davvero accaduta, basata su fatti realmente accaduti. E tragici…».
Barroso concepisce il cinema come uno strumento di testimonianza e di apostolato. All’inizio del dicembre scorso è entrato nelle sale cinematografiche statunitense con una pellicola animata in 3D, The Greatest Miracle (El gran milagro) diretto da Bruce M. Morris (che ha all’attivo veri e propri capolavori del cinema di animazione): storia di un gruppo di cattolici che vengono guidati dagli angeli alla comprensione piena del santo sacrificio della Messa… E sta in buona compagnia, visto che il regista di Cristiada, Wright, ha recentemente rivelato all’agenzia cattolica latinoamericana di stampa ACI Prensa di accarezzare un sogno: spera che il film sui cristeros possa contribuire alla promozione della libertà religiosa nel mondo.
La proiezione all’Augustinianum è stata voluta ieri perché tra pochi giorni Papa Benedetto XVI volerà in Messico. E subito dopo a Cuba, l’isola che l’attore-”cristero” Andy Garcia si porta nel cuore (vi è nato, con il nome di Andrés Arturo García Menéndez, nel 1956 ) e il cui regime comunista notoriamente detesta. L’entertainment al servizio della verità. Per parte propria, Barroso assicura che non sarà l’ultima volta per la sua Dos Corazones Productions.
[La Bussola Quotidiana 21.3.12]
 
«Cristiada», la rivolta per difendere la fede
Le logge contro le chiese, un sedicente illuminismo riformista contro una vituperata metafisica, le leggi della plutocrazia contro le tradizioni della fede: un periodo turbolento si scatena nella prima metà del ’900 in Messico, quando la massoneria al potere si scaglia contro un cattolicesimo radicato.
Fu la guerra dei cosiddetti cristeros, il cui nome deriva da Cristos Reyes, i «Cristi-Re», come gli avversari definivano con intento spregiativo gli insorti cattolici che combattevano al grido di «Viva Cristo Re!», riprendendo il tema della regalità di Cristo, all’epoca molto popolare e in sintonia con l’istituzione della festa di Cristo Re proclamata nel 1925 da Pio XI.
Una guerra civile nata con l’imposizione di leggi laiciste e oppressive volute dal nuovo presidente messicano, massone e intransigente, il generale Plutarco Elías Calles. Lotta contro la Chiesa, le sue autonomie e le cosiddette «primitive» credenze del popolo al centro del programma presidenziale, condotto con rigidità assoluta e violenze ripetute, tali da far passare alla storia il personaggio con il nomignolo, poco lusinghiero, di Nerone messicano.
Aveva, in effetti, incendiato una nazione e scatenato l’esercito governativo mandandolo a caccia, con vera furia iconoclasta, di fedeli e sacerdoti, che avevano addirittura proclamato la sospensione del culto pubblico.
Su quei fatti ancora poco divulgati, “Cristiada”apre un sipario tragico e magniloquente. La rivolta, come il film, inizia nel 1926 e si conclude, anche se non definitivamente (strascichi della storia ancora gravano sul Messico moderno), nel 1929, con l’accordo tra Governo e Santa Sede, che voleva evitare ulteriori spargimenti di sangue.
Regia di Dean Wright, autore degli effetti speciali in pellicole come “Titanic”, “Al di là dei sogni”, gli ultimi due episodi de “Il Signore degli Anelli” ed i primi due de “Le Cronache di Narnia”.
Nel cast troviamo Andy Garcia, Eva Longoria, Peter O’Toole, volti emergenti come Eduardo Verastegui (protagonista di Bella), Oscar Isaac (Robin Hood di Ridley Scott), Catalina Sandino (Maria full of Grace, L’amore ai tempi del colera, Twilight/Eclipse) e nomi Ruben Blades, cantante di salsa e attore panamense di primissimo piano.
La trama ruota attorno ad alcuni dei principali protagonisti storici di quegli anni. Come Anacleto González Flores, avvocato e difensore dei diritti civili dei cattolici, torturato e ucciso dagli uomini di Calles, beatificato nel 2005 (impersonificato da Eduardo Verastegui); Enrique Gorostieta Velarde (rappresentato da Andy Garcia), uomo d’armi non credente, a cui venne chiesto di mettere la sua esperienza a servizio della causa dei cristeros, divenendone presto il formidabile leader militare; José Sanchez Del Rio, arruolatosi poco più che bambino, catturato dai federali, seviziato e fucilato all’età di 15 anni per aver rifiutato di gridare «morte a Cristo Re!». Anche lui beatificato nel 2005.

 
(Forse questo film darà l'opportunità di debellare i pregiudizi che impediscono di conoscere la verità riguardo a un'altro conflitto di questo stesso stampo, che è avvenuto negli stessi dall'altra parte dell'oceano: la guerra civile spagnola. Noi ne conosciamo solo la versione romanzata. Pochi sanno che i repubblicani, dalla parte dei quali stava Hemingway, uccisero circa 7.000 religiosi, preti e suore, a sangue freddo, tirandoli fuori dalle chiese e i conventi, appendendone i cadaveri per le strade a monito dei cattolici. Fu per questo, per difendere la chiesa e la libertà di religione, che Francisco Franco combatté e poi instaurò la dittatura, e fu qui che Orwell, cioè il britannico Eric Blair, aprì gli occhi sulle macchinazioni disumane dei comunisti, disposti a tutto pur di seminare distruzione e orientare gli umori della gente esasperata verso la rivoluzione.) 

PRESENTATO A ROMA IL FILM “CRISTIADA”
Il produttore: “Sarà un riconoscimento ai nostri martiri che lottarono per la fede e libertà di religione
(di H. Sergio Mora – Zenit.org, 24 marzo 2012)
Tre giorni prima della partenza del Papa per il suo viaggio apostolico a Cuba e in Messico, martedì 20 marzo, è stato presentato il film messicano Cristiada, che racconta i terribili fatti della guerra civile messicana (1926–1929), conosciuta come cristera, della quale diversi dei suoi protagonisti sono stati beatificati da Benedetto XVI e altri canonizzati da Giovanni Paolo II.
Nell’auditorium dell’Istituto Patristico Augustinianum – di fronte alla colonnata del Bernini a Piazza San Pietro – gli invitati, quasi tutti giornalisti o rappresentanti del mondo della comunicazione e dello spettacolo, hanno partecipato all’anteprima del colossal messicano, nell’evento organizzato dall’agenzia H2O e presentato dal produttore messicano del film Pablo Josè Barroso.
Il produttore del film ha indicato ai presenti: “Questa domenica il Santo Padre celebrerà la messa nel monte Cubilete, dove c’è la statua di Cristo Re, centro geografico e spirituale del Messico”. Questo significa, ha detto, “un riconoscimento ai nostri martiri che hanno lottato per la fede e libertà di religione”.
Il produttore ha ricordato che uno dei principali personaggi del film è un ragazzo, “il beato Josè Sànchez del Rio, che è stato martirizzato ad appena 14 anni e beatificato da Benedetto XVI, assieme con Anacleto Gonzàlez Flores, Miguel Gòmez Loza e i fratelli Vargas”.
Voi li vedrete in questo film – ha detto – e conoscerete la loro storia, come quella di Cristòbal Magallanes, interpretato da Peter O’ Toole, e quella del padre Jose Maria Robles, canonizzato da Giovanni Paolo II.
Nel centro di Cubillete, dove 90 anni fa il delegato apostolico Ernesto Filippo era andato a consacrare la prima pietra del monumento a Cristo Re, fatto che gli costò la deportazione, “il papa celebrerà la Santa Messa con più di 400 mila persone”.
Con Cristiada vogliamo che il mondo sappia e non dimentichi questi martiri che sono morti per Gesù, la sua fede e per difendere la sua libertà di religione. Sempre con le parole: Viva Cristo Rey y la Virgen de Guadalupe!”. E ha concluso chiedendo “l’appoggio di tutti voi e di tutti coloro che credono nella libertà per poter rimanere nei cinema”.
Il film sarà presentato nei cinema del Messico il 20 aprile, negli Stati Uniti il 1° giugno ed in settembre arriverà in Spagna.
È la produzione messicana più recente girata da tecnici e talenti del Paese azteco, in grado di competere con le migliori del mercato mondiale, interpretata da attori di fama mondiale come Andy Garcia, Peter O’Toole e Eduardo Verastegui.
Il regista è Dean Wright, i cui effetti speciali sono famosi nei film come Titanic, Il Signore degli Anelli e Le cronache di Narnia.
È stato scritto da Michael Love, basandosi su fatti storici, ed è stato girata in inglese.
È stata più che una coincidenza, direi una Dioincidenza – ha detto Barroso a Zenit -. Questo film lo abbiamo pianificato tre anni fa. Chi avrebbe pensato che il Papa sarebbe andato in Messico e, per di più, a Cubilete, dove celebrerà una messa. Tutto questo ci arriva dall’Alto”.
Noi della Dos Corazones Film abbiamo realizzato altri tre film e ci accorgiamo che alla gente interessano le storie con valori positivi.
Prima ne abbiamo fatto uno sulla storia della Madonna di Guadalupe, poi un altro sulla grande leggenda del Sole e, infine, uno chiamato El Gran Milagro, primo nella classifica del Messico per cinque settimane.
In realtà non volevo fare più film, ma quando Dio vuole qualcosa, questa avviene, ed è il più insistente di tutti. Lui ci ha ispirato e condotto, abbiamo trovato attori molto bravi, che hanno funzionato e il risultato lo possiamo vedere: ha superato le mie aspettative
”.
I cristeros sono importanti per il Messico e per tutto il nostro continente. Sono persone che si sono offerte per quello che credevano e grazie a loro, oggi, c’è libertà di religione in Messico, con un imminente viaggio del Papa“.

LA TRAMA DEL FILM
Il film basandosi in fatti reali della guerra cristera, inizia con i divieti del presidente Plutarco Calles. Una richiesta di un milione di firme presentata per protesta è rigettata dal governo: partono quindi una serie di intimidazioni, con fucilazioni di sacerdoti, messe interrotte dal’esercito e un crescendo di violenza che porta a molta gente semplice dei paesi a prendere le armi. I cattolici si dividono: alcuni si uniscono ai cristeros, altri no, molti servono la causa con le armi e l’appoggio logistico. Inizia anche un boicottaggio economico popolare evitando qualsiasi consumo.
Il film che racconta una guerra di tre anni, attraverso una serie di personaggi, ed è ricco di effetti speciali. Ricorda che non sono mancate brutalità come quando un treno viene attaccato dai cristeros con 51 vittime bruciate vive. I ribelli ricevono l’aiuto di un generale, ateo, Enrique Gorostieta, si disciplinano e la rivolta prende corpo. Mettono in seria difficoltà il governo di Calles e l’esercito federale, ma non accettano la mediazione di Roma per mettere fine al conflitto.
Il film è ricco di dettagli importanti che mostrano la trasformazione interiore dei personaggi, a partire dal generale Gorostieta, che accetta il comando per lottare per la libertà della religione anche se ostile alla Chiesa, ma il susseguirsi dei fatti preparano la sua conversione, nella quale è determinante il ruolo del giovanissimo José Sanchez Del Rio, uno dei principali personaggi, assassinato dopo essere stato torturato per non aver rinnegato la sua fede e aver proclamato viva Cristo Re.

venerdì 27 luglio 2012

Cos'è Teologia secondo Benedetto XVI

CHE COS'È "TEOLOGIA"

di Benedetto XVI 



[...] La consegna del premio può offrire l’occasione di dedicarci per un momento alla questione fondamentale di che cosa sia veramente “teologia”. La teologia è scienza della fede, ci dice la tradizione. Ma qui sorge subito la domanda: è davvero possibile questo? O non è in sé una contraddizione? Scienza non è forse il contrario di fede? Non cessa la fede di essere fede, quando diventa scienza? E non cessa la scienza di essere scienza quando è ordinata o addirittura subordinata alla fede?

Tali questioni, che già per la teologia medievale rappresentavano un serio problema, con il moderno concetto di scienza sono diventate ancora più impellenti, a prima vista addirittura senza soluzione. Si comprende così perché, nell’età moderna, la teologia in vasti ambiti si sia ritirata primariamente nel campo della storia, al fine di dimostrare qui la sua seria scientificità. Bisogna riconoscere, con gratitudine, che con ciò sono state realizzate opere grandiose, e il messaggio cristiano ha ricevuto nuova luce, capace di renderne visibile l’intima ricchezza. 

Tuttavia, se la teologia si ritira totalmente nel passato, lascia oggi la fede nel buio.
In una seconda fase ci si è poi concentrati sulla prassi, per mostrare come la teologia, in collegamento con la psicologia e la sociologia, sia una scienza utile che dona indicazioni concrete per la vita. Anche questo è importante, ma se il fondamento della teologia, la fede, non diviene contemporaneamente oggetto del pensiero, se la prassi sarebbe riferita solo a se stessa, oppure vive unicamente dei prestiti delle scienze umane, allora la prassi diventa vuota e priva di fondamento.

Queste vie, quindi, non sono sufficienti. Per quanto siano utili ed importanti, esse diventerebbero sotterfugi, se restasse senza risposta la vera domanda. Essa suona: è vero ciò in cui crediamo oppure no? Nella teologia è in gioco la questione circa la verità; essa è il suo fondamento ultimo ed essenziale.

Un’espressione di Tertulliano può qui farci fare un passo avanti; egli scrive che Cristo non ha detto: “Io sono la consuetudine, ma: Io sono la verità – Non consuetudo sed veritas” (Virg. 1,1). Christian Gnilka ha mostrato che il concetto “consuetudo” può significare le religioni pagane che, secondo la loro natura, non erano fede, ma erano “consuetudine”: si fa ciò che si è fatto sempre; si osservano le tradizionali forme cultuali e si spera di rimanere così nel giusto rapporto con l’ambito misterioso del divino. L’aspetto rivoluzionario del cristianesimo nell’antichità fu proprio la rottura con la “consuetudine” per amore della verità.

Tertulliano parla qui soprattutto in base al Vangelo di san Giovanni, in cui si trova anche l’altra interpretazione fondamentale della fede cristiana, che s’esprime nella designazione di Cristo come Logos. Se Cristo è il Logos, la verità, l’uomo deve corrispondere a lui con il suo proprio logos, con la sua ragione. Per arrivare fino a Cristo, egli deve essere sulla via della verità. Deve aprirsi al Logos, alla Ragione creatrice, da cui deriva la sua stessa ragione e a cui essa lo rimanda. Da qui si capisce che la fede cristiana, per la sua stessa natura, deve suscitare la teologia, doveva interrogarsi sulla ragionevolezza della fede, anche se naturalmente il concetto di ragione e quello di scienza abbracciano molte dimensioni, e così la natura concreta del nesso tra fede e ragione doveva e deve sempre nuovamente essere scandagliata.

Per quanto si presenti dunque chiaro nel cristianesimo il nesso fondamentale tra Logos, verità e fede, la forma concreta di tale nesso ha suscitato e suscita sempre nuove domande. È chiaro che in questo momento tale domanda, che ha occupato e occuperà tutte le generazioni, non può essere trattata in dettaglio, e neppure a grandi linee. Vorrei tentare soltanto di proporre una piccolissima nota.

San Bonaventura, nel prologo al suo “Commento alle Sentenze” ha parlato di un duplice uso della ragione, di un uso che è inconciliabile con la natura della fede e di uno che invece appartiene proprio alla natura della fede. Esiste, così si dice, la “violentia rationis”, il dispotismo della ragione, che si fa giudice supremo e ultimo di tutto. Questo genere di uso della ragione è certamente impossibile nell’ambito della fede. Cosa intende Bonaventura con ciò? Un’espressione dal Salmo 95, 9 può mostrarci di che cosa si tratta. Qui Dio dice al suo popolo: “Nel deserto… mi tentarono i vostri padri: mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere”. Qui si accenna ad un duplice incontro con Dio: essi hanno “visto”. Questo però a loro non basta. Essi mettono Dio “alla prova”. Vogliono sottoporlo all’esperimento. Egli viene, per così dire, sottoposto ad un interrogatorio e deve sottomettersi ad un procedimento di prova sperimentale.

Questa modalità di uso della ragione, nell’età moderna, ha raggiunto il culmine del suo sviluppo nell’ambito delle scienze naturali. La ragione sperimentale appare oggi ampiamente come l’unica forma di razionalità dichiarata scientifica. Ciò che non può essere scientificamente verificato o falsificato cade fuori dell’ambito scientifico. Con questa impostazione sono state realizzate opere grandiose, come sappiamo; che essa sia giusta e necessaria nell’ambito della conoscenza della natura e delle sue leggi nessuno vorrà seriamente porlo in dubbio. Esiste tuttavia un limite a tale uso della ragione: Dio non è un oggetto della sperimentazione umana. Egli è Soggetto e si manifesta soltanto nel rapporto da persona a persona: ciò fa parte dell’essenza della persona.

In questa prospettiva Bonaventura fa cenno ad un secondo uso della ragione, che vale per l’ambito del “personale”, per le grandi questioni dello stesso essere uomini. L’amore vuole conoscere meglio colui che ama. L’amore, l’amore vero, non rende ciechi, ma vedenti. Di esso fa parte proprio la sete di conoscenza, di una vera conoscenza dell’altro. Per questo, i Padri della Chiesa hanno trovato i precursori e gli antesignani del cristianesimo – al di fuori del mondo della rivelazione di Israele – non nell’ambito della religione consuetudinaria, bensì negli uomini in ricerca di Dio, in cerca della verità, nei “filosofi”: in persone che erano assetate di verità ed erano quindi sulla strada verso Dio. Quando non c’è questo uso della ragione, allora le grandi questioni dell’umanità cadono fuori dell’ambito della ragione e vengono lasciate all’irrazionalità.

Per questo un’autentica teologia è così importante. La fede retta orienta la ragione ad aprirsi al divino, affinché essa, guidata dall’amore per la verità, possa conoscere Dio più da vicino. L’iniziativa per questo cammino sta presso Dio, che ha posto nel cuore dell’uomo la ricerca del suo Volto. Fa quindi parte della teologia, da un lato l’umiltà che si lascia “toccare” da Dio, dall’altro la disciplina che si lega all’ordine della ragione, che preserva l’amore dalla cecità e che aiuta a sviluppare la sua forza visiva.

Sono ben consapevole che con tutto ciò non è stata data una risposta alla questione circa la possibilità e il compito della retta teologia, ma è soltanto stata messa in luce la grandezza della sfida insita nella natura della teologia. Tuttavia è proprio di questa sfida che l’uomo ha bisogno, perché essa ci spinge ad aprire la nostra ragione interrogandoci circa la verità stessa, circa il volto di Dio. [...] La ragione, camminando sulla pista tracciata dalla fede, non è una ragione alienata, ma è la ragione che risponde alla sua altissima vocazione.

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venerdì 20 luglio 2012


THE CHURCH UP CLOSE


Covering Catholicism in the Age of Benedict XVI (September 10-16, 2012)

SEMINAR IN ROME FOR JOURNALISTS COVERING THE CATHOLIC CHURCH
Organized by the Pontifical University of the Holy Cross

In September 2012, the School of Church Communications at Rome’s Pontifical University
of the Holy Cross will be offering, for the third time, a one-week seminar designed to provide religion journalists with an array of tools to strengthen their coverage of today’s Roman Catholic Church.The seminar, entitled “The Church Up Close: Covering Catholicism in the Age of Benedict XVI,” will take place in Rome from September 10 to September 16, 2012. It will be conducted in English and is open to all working journalists, but the number of participants is limited. Registration deadline is June 24. Previous seminars have included reporters from media outlets like The New York Times, The Guardian, The Times, Il Corriere della Sera, El País, the BBC and Le Monde.
This year, speakers will include: Msgr. Peter Wells, Assessor for the Secretariat of State's Section for
General Affairs; Archbishop Rino Fisichella, President of the Pontifical Council for the Promotion of
the New Evangelization; Cardinal Raymond Burke, Prefect of the Supreme Tribunal of the Apostolic
Signatura; Nigel Baker, British Ambassador to the Holy See; Msgr. Fortunatus Nwachukwu, Head of
Protocol of the Vatican Secretariat of State; Debrah Mason, Executive Director of the Religion
Newswriters Association, and María-Paz López, president of the International Association of Religion Journalists. Along with general presentations describing the nature of the Church and how the Vatican functions, a number of more specific topics, including the following, will also be addressed at the seminar: bioethics and sexual morality; the legacy of the Second Vatican Council; economics and Catholic social doctrine; the role of canon law in the Church’s life; the “New Evangelization.” The seminar has been made possible by a generous grant from the U.S.-based Our Sunday Visitor Institute. According to the president of the organizing committee, Rev. Prof. John Wauck, “The Church Up Close seminar is a condensed version of a series of classes that our school already offers – once a month, in Italian - during the academic year for Rome-based ‘vaticanisti.’ The success of that series inspired us to offer a similar program  - all in one week, and in English - for journalists who are not permanently based in Rome.” In addition to classroom sessions, the fall seminar also features on-site visits and personal meetings with curial officials and veteran Vatican correspondents. The goal is to provide both a basic sense of the lay of the land at the Vatican and a serious, in-depth analysis of specific hot-button issues facing the Church today. Coming on the eve of the official “Year of Faith”, which begins in October 2012, the seminar will offer key insights into the Benedict XVI’s thinking and his leadership of the world’s largest church. Fr. Wauck observes, “Covering an institution as old and as large as the Catholic Church has always been a huge challenge, and in today’s shrinking world, it’s becoming ever more necessary to tell even local stories about the Church from a global perspective”.


Piazza di Sant’Apollinare, 49 – 00186 ROMA – Tel. +39 06 68164399 – Fax +39 06 68164400
1© 2012 - PONTIFICIA UNIVERSITÀ DELLA SANTA CROCE

Ufficio Comunicazione stampa@pusc.it


“The seminar should help reporters do that. What’s more, Rome is an ideal setting for reflecting on
religion and the media with journalists from around the world.” The full program and detailed information about “The Church Up Close” seminar is available on its website (http://www.church-communication.net/). Applications must be submitted online, through the website.
For more information please contact: Ashley Noronha or Daniel Arasa
churchupclose@pusc.i

sabato 23 giugno 2012

Al Card. Giuseppe Versaldi la diaconia della Basilica del Sacro Cuore

Nella classica cornice della basilica del Sacro Cuore di Gesù in Roma a Castro Pretorio, a pochi passi dalla stazione internazionale di Termini, venerdì scorso 15 giugno il cardinale Giuseppe Versaldi ha preso possesso della diaconia a lui assegnata dal Santo Padre Benedetto XVI.
Ogni porporato ha una chiesa romana a lui incardinata come espressione anche visibile, della sua unione con il Capo della cattolicità e Successore di Pietro, ecco perché al nostro arcivescovo è stato conferito il titolo della parrocchia dell’Urbe dedicata al Sacro Cuore di Gesù, promossa e costruita grazie all’impegno di don Giovanni Bosco e retta dai sacerdoti della congregazione salesiana voluta dal Santo piemontese negli ultimi anni della sua vita terrena.
La basilica suggerita dalla paterna sensibilità spirituale del papa Pio IX che volle far innalzare sul colle più altro di Roma, l’Esquilino, a partire dal 1870, avrebbe inizialmente dovuto essere dedicata a San Giuseppe, Sposo di Maria Vergine che proprio in quegli anni, siamo al terzo quarto del XIX secolo, il Pontefice aveva indicato come Patrono della Chiesa universale ma che grazie all’incremento notevole della devozione al Sacro Cuore di Gesù sparsa nell’intera Europa, papa Mastai aveva convertito all’amore di Cristo per l’umanità.
Tuttavia i lavori si svolgono con snervante rilento anche in ragione delle mutate condizioni politiche della nuova capitale del regno d’Italia ed alla morte di Pio IX, nel febbraio 1878, non sono che gettate le fondamenta del tempio.
Leone XIII che viene eletto nello stesso mese, decide di continuare l’opera del suo predecessore ma i problemi sembrano moltiplicarsi tanto che papa Pecci anche su suggerimento dell’arcivescovo di Torino Alimonda, affida al sacerdote Giovanni Bosco del quale conosce lo spirito, la santità e la sconfinata fiducia nella Provvidenza, l’incarico di portare a compimento la costruzione del santuario che sarebbe poi stato affidato ai suoi figli spirituali.
Don Bosco giunge a Roma, dopo un viaggio non privo di difficoltà nel 1880 ed accetta senza condizioni il gravoso impegno sottolineando che “Ogni desiderio del Vicario di Cristo è per me un comando preciso” e che i debiti sottoscritti per edificare le cose del Signore sono ampiamente da Lui pagati con opportuno interesse e perfino con una “mancia” finale.
Il fondatore dei Salesiani non si limita a metter mano alla chiesa ma domanda al Pontefice di costruirvi accanto un ricovero per i giovani sbandati della nuova capitale dello stato ottenendone il consenso.
Nei successivi sette anni si trasforma in pellegrino questuante e tocca gran parte degli stati europei pur di recuperare il denaro necessario per coprire il sacro edificio compromettendo irrimediabilmente la propria salute.
A don Bosco, a Roma dal 30 aprile al successivo 18 maggio, rimarrà l’umana soddisfazione di essere presente alla solenne inaugurazione del santuario avvenuta esattamente 125 anni or sono il 14 maggio 1887 e ad essa aggiunge una spropositata soddisfazione spirituale potendo, due giorni dopo, celebrare la Santa Messa all’altare di Maria Ausiliatrice che aveva voluto al transetto di sinistra della chiesa, proprio di fronte alla cappella di San Giuseppe che del santuario avrebbe dovuto essere l’originale titolare.
In quella straordinaria occasione don Giovanni interrompe per ben quindici volte la celebrazione per lasciare sfogo al pianto ed al termine del sacrificio Eucaristico rivelerà di aver rivissuto il sogno fatto a nove anni, ma soprattutto di aver compreso il significato di quanto la Madonna gli aveva preannunciato quando gli disse: “A suo tempo tutto capirai…”.
Il sogno si era dunque avverato ed al servo buono e fedele non rimaneva che l’eterna ricompensa; morirà a Torino solo pochi mesi dopo, alla fine di gennaio del 1888: a coronamento della sua missione fra gli uomini la Chiesa ne farà un grande Santo la cui devozione si spargerà nel mondo intero.
La basilica è edificata su tre navate, transetto, presbiterio ed ampio coro, in linea sobria e decorosa completata da un elegante campanile anch’esso come la chiesa, su progetto dell’architetto Francesco Vespignani, la cui sommità è sormontata da una monumentale statua del Sacro Cuore di Gesù in rame dorato alta ben 6,5 metri e donata dagli ex allievi salesiani dell’Argentina.
L’interno del santuario è ricco di decorazioni, dalla cassonettatura della volta della navata centrale intagliata in legno e dorata da Andrea Bevilacqua che incorniciano quattro affreschi di Virginio Monti riproducenti episodi legati alla misericordia divina tratti dal testo evangelico, alla sottostante raffigurazione di 12 Profeti eseguita da Cesare Caroselli; tutte quante opere di ispirato realismo spirituale e ben adeguate alla solennità dell’edificio.
La volta del transetto è arricchita dallo stemma intagliato della Congregazione fondata da San Giovanni Bosco e da lui voluto nel 1885 quando lo fece collocare fra la “promessa” ed il “compimento”, vale a dire fra gli affreschi dell’Annunciazione e quello della nascita di Gesù, opere dello stesso Monti. 
Nelle pareti laterali sempre del transetto il Caroselli dipinse le figure a corpo intero degli Apostoli.
L’altare maggiore che domina con l’ancona il presbiterio e realizzato in marmo senese, accoglie la tela di Francesco de Rhoden che raffigura la terza apparizione del Sacro Cuore di Gesù come descritta da Santa Margherita Maria Alacoque.
Il coro è spazioso poiché San Giovanni Bosco lo volle di quelle dimensioni per accogliervi e far pregare tutti i giovani, ed ancor oggi è ben illuminato ed armonioso.
Gli altri altari del tempio sono dedicati a Santa Maria Mazzarello cofondatrice con don Bosco delle Figlie di Maria Ausiliatrice, San Francesco di Sales ispiratore della Congregazione salesiana, Sant’Anna e San Gioacchino genitori della Madonna, e San Domenico Savio raffigurato sulla tela con lo stesso suo padre spirituale.
Molti arredi lignei sono stati eseguiti e scolpiti nelle scuole salesiane di Valdocco a Torino e San Benigno Canavese ideati da docenti di quei centri e rivisti dallo stesso Fondatore e di notevole pregio è il grande organo che armonizza ed accompagna i canti liturgici durante le funzioni. 
Occorre inoltre far notare che per la prima volta nella più che centenaria storia del santuario, un cardinale assume il possesso del titolo nel giorno della festa patronale dedicata al Sacro Cuore di Gesù, un evento senza dubbio ben augurante per il nostro cardinale arcivescovo che nell’omelia pronunciata nella celebrazione Eucaristica della solennità, si è detto disponibile ad essere presente nella basilica ogni qual volta che quella porzione del popolo di Dio avrà bisogno di lui.
Diac. prof. Luciano Orsini
Delegato vescovile per i Beni Culturali

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Omelia
Presa di possesso Basilica S. Cuore
15 giugno 2012
La provvidenziale coincidenza della solennità del sacratissimo Cuore di Gesù con la mia presa di possesso della Diaconia di questa veneranda Basilica fondata dallo stesso S. Giovanni Bosco e zelantemente officiata dai suoi figli, è solo l’ultima squisitezza dell’amore del Signore e della sua misericordia che voglio con voi cantare per leggere nella storia di tutti i tempi le meraviglie operate da Dio. Insieme con il Signore voglio ringraziare ancora il Santo Padre per avermi chiamato a far parte del Collegio cardinalizio per servirlo nel suo universale ministero petrino e mi ha affidato questa Diaconia; come pure ringrazio la comunità salesiana, a cominciare dal Parroco don Valerio Baresi, che mi ha già dimostrato affetto e generosa accoglienza che cercherò di onorare per la maggior gloria di Dio.
L’icona del Cuore di Gesù che oggi celebriamo vuole esprimere null’altro se non l’incarnazione nella storia umana dell’eterno amore di Dio come si è manifestato pienamente e visibilmente nella divina persona di Cristo nostro Salvatore. Nel linguaggio umano, antico come moderno, il cuore esprime simbolicamente il centro e l’interiorità dell’essere umano da cui scaturisce l’amore inteso nel suo pieno significato agapico, che comprende non solamente il sentimento, ma anche l’intelletto e la volontà che si esprime nel dono di sé (Deus caritas est, n.17).
Abbiamo, dunque, in questa immagine del Cuore di Gesù l’espressione del mistero dell’amore divino incarnato nella natura umana del Signore Gesù: quello che era invisibile si è reso visibile proprio nel rivelarsi storico della persona di Cristo che manifesta in forma umana l’amore divino. Attraverso quanto i Vangeli ci narrano possiamo così contemplare nella realtà umana “quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità “ (Ef. 3, 16) dell’amore di Dio verso l’umanità. In questa manifestazione possiamo cogliere tutte le sfumature dell’amore come si esprime nella natura umana, ma non dobbiamo dimenticare che le componenti umane di questo amore sono superate dal fatto che sono l’espressione dell’amore dell’unica persona divina del Verbo di Dio. In altre parole, nel Cuore di Gesù ci è dato di contemplare le espressioni umane dell’amore, e dunque una realtà a noi vicina e comprensibile, ma queste manifestazioni vengono
dall’unica Persona del Verbo in cui coesistono sia la natura umana sia quella divina.
In questa contemplazione abbiamo più facile accesso al mistero dell’Incarnazione che è il vertice dell’amore divino, ma anche modello della perfezione della natura umana in quanto l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di quel Dio che è amore. Possiamo così dire che la manifestazione umana dell’amore di Dio nel Cuore di Gesù è la via privilegiata della conoscenza del mistero di Dio da parte dell’uomo e nello stesso tempo il modello da imitare per raggiungere la piena realizzazione della natura umana.
Per tutti questi motivi Gesù esercitava una irresistibile attrattiva sulle folle quando ha iniziato a manifestarsi come l’Inviato del Padre: la sua predicazione provocava l’ammirazione della gente perché “mai un uomo ha parlato come parla quest’uomo” (Gv, 7,45) e le sue opere di bene a favore dei poveri e bisognosi conquistavano la simpatia del popolo che numeroso accorreva a lui.
Fermiamoci, dunque, un istante a contemplare questo Sacratissimo Cuore secondo quanto ci è stato fedelmente trasmesso da coloro che furono i diretti testimoni della sua storica manifestazione. E per non sbagliare ascoltiamo le stesse parole con cui Gesù si è definito quando si proponeva come modello da imitare: “Imparate da me, che sono mite ed umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime” (Mt 11, 29-30). Per spingerci all’imitazione di sé, cioè a seguirlo come suoi discepoli, Gesù, dunque, si è presentato con il suo cuore mite ed umile così da indicarci la via della vera consolazione dalle nostre fatiche umane. E appena ci fermiamo a contemplare la vita e le opere di Gesù non possiamo che trovare conferma di queste sue parole.
Sì, veramente umile sei stato, o Signore Gesù, nel volerti abissare nell’annichilimento della nostra debole e corrotta natura umana quando non considerasti come tesoro geloso la tua uguaglianza con Dio, ma spogliasti te stesso assumendo la condizione di servo, umiliando te stesso e facendoti obbediente fino alla morte e alla morte di Croce (Fil 2, 6-8). In tutto simile a noi, eccetto il peccato, hai voluto vivere quasi tutta la tua vita nel nascondimento di Nazaret, celando la tua potenza divina nella insignificanza di una vita ordinaria, accettando le leggi umane della gradualità della crescita, della necessità dell’apprendimento nell’obbedienza a creature umane fino al paradosso che i tuoi compaesani
si stupirono quando iniziasti a rivelarti come il Messia atteso (“Non è il figlio di Giuseppe? Lc 4,22).
Ed anche in tutta la missione pubblica non possiamo non ammirare la tua umiltà fin dall’inizio, quando ti mettesti in fila per farti battezzare al Giordano suscitando la giusta protesta del Precursore che non capiva come quel gesto voleva anticipare la tua decisione di prenderti sulle spalle i nostri peccati per inchiodarli sul legno della Croce.
Così rimaniamo ancora stupiti di fronte al tuo sottometterti alle tentazioni nel deserto per condividere in tutto, eccetto il peccato, la fragilità della nostra condizione umana. Ma tutta la tua vita non è stata che la conferma del tuo proposito di esser venuto in questo mondo “non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). E quando le folle, attratte da questa umile disponibilità accorrevano sempre più numerose a te, dimostravi una disponibilità che non ti lasciava neppur più il tempo per mangiare e riposarti, evitando però di volere trarre profitto da questo successo fino a ritirarti tutto solo sulla montagna quando vennero per farti re (Gv 6, 15). Ma è durante l’ultima cena che noi possiamo cogliere il momento più significativo del tuo cuore umile quando ti cingesti del grembiule per lavare i piedi agli apostoli, smarriti e pronti ad abbandonarti, per insegnare loro con l’esempio, tu il Maestro,che l’amore per essere vero deve essere umile fino a servire i fratelli.
Se con l’umiltà il Signore Gesù ha voluto abbassarsi fino a noi per farsi nostro fratello, con la mitezza ha voluto conquistare il nostro cuore per provocarci ad una risposta di amore al suo amore. Il suo Cuore mite infatti, ha reso evidente il suo desiderio di volere il nostro bene al di là di ogni nostro merito ed aspettativa. Nel contesto di una religione che si era ridotta ad amministrare una giustizia sovente misurata sull’esteriorità dei comportamenti e che prevedeva una implacabile punizione contro quei peccatori che non riuscivano a nascondere le loro colpe, la mitezza di Gesù è apparsa come una fresca rugiada in un deserto assetato.
E noi siamo qui per contemplare, o Signore Gesù, questo tuo cuore mite verso tutti, ma specialmente verso i poveri peccatori. Come non ammirare la tua bontà e pazienza verso la donna samaritana piena di boria religiosa, alla quale chiedesti da bere per darle in dono la grazia della conversione perché conquistata da chi, pur conoscendo i suoi peccati, la trattava con amore? E come non ricordare la mitezza con cui hai conquistato il capo dei pubblicani, quel Zaccheo tutt’altro che intenzionato a cambiare vita, ma che crollò di fronte a quel tuo amorevole imperativo”Zaccheo, scendi
subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5)? E ad un peccatore di non minor calibro come Matteo rivolgesti pure la chiamata a seguirlo tra i tuoi più stretti discepoli. Per non dimenticare la tua delicatezza e stima verso le donne nel contesto di una società che le svalutava. Così hai espresso pubblicamente la tua ammirazione per l’obolo della povera vedova che aveva offerto al Signore tutto quanto aveva per vivere (Mc, 12, 43-44). E quanta squisita accondiscendenza anche verso la pagana Cananea che si accontentava delle briciole del tuo amore e alla quale rivolgesti il tuo elogio e concedesti il tuo favore: “Donna, davvero grande è la tua fede. Ti sia fatto come desideri” ( Mt, 15,28). Per non parlare del coraggio e dell’astuzia con cui, o Signore, hai sottratto l’adultera alla furia del drappello di spietati giudici che non hanno potuto resistere al tuo sguardo che svelava i loro peccati occulti. Fino all’elogio della superiorità dell’amore su ogni peccato di fronte al fariseo che si scandalizzava perché ti lasciavi lavare e profumare i piedi da una pubblica peccatrice: “Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato” (Lc 7, 47). E sulla Croce hai ancora avuto il fiato per invocare dal Padre il perdono per coloro che ti avevano crocifisso: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 24).
Cari fratelli e sorelle, ripercorrendo anche solo questi pochi cenni della vita di Gesù ci sentiamo riscaldare il cuore, come accadde ai discepoli di Emmaus. Tuttavia non possiamo fermarci al passato senza far torto proprio a questo Cuore il quale continua ancora oggi qui e per ciascuno di noi ad essere mite ed umile per conquistarci al suo amore. Solamente una colpevole ed ingrata dimenticanza e superficialità può impedirci di leggere nella nostra vita questa presenza consolante e ristoratrice. Si, anche a noi qui e oggi il Cuore di Gesù ripete “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. Ed è paradossale che in questi nostri tempi in cui la fatica e l’oppressione si vanno globalizzando l’umanità rimanga in gran parte sorda a questo invito ed, anzi, come sottolinea Benedetto XVI, sembra disprezzare la voce di Dio e cercare altrove il rimedio alla crisi. Almeno noi credenti troviamo tempo e modo per accorgerci di questo appello del Cuore Sacratissimo di Gesù, rinunciando agli idoli della nostra autosufficienza come pure evitando i vittimismi delle delusioni che ci andiamo a creare.
Ecco allora il primo e fondamentale passo per una vera soluzione delle nostre difficoltà: torniamo ad abbeverarci a questa fonte dell’amore divino che si è manifestato nel Cuore di Cristo mite ed umile. Benedetto XVI ha scritto nella sua prima enciclica, “Chi vuole donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono. Certo, l’uomo può diventare sorgente dalla quale sgorgano fiumi di acqua viva. Ma per diventare una tale sorgente, egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria sorgente che è Gesù Cristo, dal cui cuore scaturisce l’amore di Dio” (Deus caritas est, n.7).
Sacratissimo Cuore di Gesù donaci la grazia di vivere la nostra fede come abbandono al tuo amore; lo stesso abbandono che ebbe S. Giovanni Bosco quando accettò la proposta di Leone XIII di costruire questo Tempio in tuo onore( ai suoi perplessi consiglieri il Santo disse: “Vi assicuro che il S. Cuore manderà i mezzi per fabbricare la sua Chiesa, pagherà i nostri debiti e ci darà una bella mancia”).
Donaci la capacità di contemplare il tuo Cuore mite ed umile per riceverne la forza di imitarlo così da scrivere nella storia del nostro tempo, seppure come immagine, povera ma autentica, la traccia indelebile del tuo amore incarnato. Solo così il mondo potrà ancora riconoscere la tua presenza e l’evangelizzazione sarà rinnovata e resa credibile dalla nostra testimonianza di carità che scaturisce dal tuo Sacratissimo Cuore. Amen
Card. Giuseppe Versaldi


(Dal sito della Diocesi di Alessandria)

venerdì 1 giugno 2012

La famiglia tra antropologia e fede (di B.C. de Cortàzar)


FamilyDay 2012 - La famiglia tra antropologia e fede
L'intervento integrale della docente del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II di Madrid tenuto la mattina di venerdì 1 giugno al Congresso internazionale teologico pastorale
Desidererei incominciare con quelle parole che il libro dei Proverbi mette sulle labbra della Saggezza quando accompagna Jahvé  nella Creazione dell’Universo: “Allora io stavo lavorando con lui come architetto ed ero la sua delizia ogni giorno, dilettandomi davanti a lui in ogni istante; dilettandomi sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo.” (Prov. 8,30-31).
Come si capisce, il Dio dell’Antico Testamento non è un Dio solitario, lo accompagna la Saggezza, in cui la tradizione di Antiochia insieme con il resto della tradizione orientale riconosce lo Spirito Santo come diverso dal Logos, mentre invece la tradizione occidentale non la differenzia dal Verbo, in ogni caso si tratta di un’altra Persona co-eterna.
Questo testo dei Proverbi permette di esprimere con parole umane qualcosa dell’intimità dell’Amore di Dio, che intreccia lavoro e gioco, tenerezza, novità e sorpresa, così la Saggezza lavora insieme a Lui nella Creazione – come appare nella Sistina, dipinta da Michelangelo – facendogli compiacere, essendo la sua  allegria ogni giorno un gioco per tutto il tempo con il globo e con i figli di Adamo, che sono anche le sue delizie. Queste relazioni personali ricordano il modo suggestivo e originale in cui Giovanni Paolo II parla dell’intimità divina, parole che ha ricordato pure il Card. Ravasi: “Nel suo mistero più profondo, dice il Papa, Dio non è solitudine, ma una famiglia, dal momento che ha in sé la paternità, la filiazione e l'essenza stessa della famiglia che è amore. Questo amore, nella famiglia divina – afferma – è lo Spirito Santo”[1]
Da parte sua, il Messia che mangiava e beveva alle nozze come quella di Cana e accettava con piacere di mangiare nelle case di coloro che lo invitavano – Zaccheo, Simone il Fariseo, Matteo, Pietro ei suoi amici di Betania -, descrive in diverse occasioni il Regno dei Cieli come una casa di Famiglia, la casa del Padre nella quale ci sono diverse dimore e nella quale si celebra una gran festa con banchetti, dove si partecipa vestiti a festa e, in compagnia di famigliari e amici, condividendo la buona tavola e il migliore dei vini.
In definitiva, l’incontrarsi e lo stare con i propri cari, il giocare e il gioire con loro, sono gli ingredienti rivelati per parlare oggi della Famiglia e della festa, guardando alla Famiglia di Nazareth che – definita da Gerson “trinità della terra” – è la migliore immagine dell’Intimità divina.

I. La GIOIA DI FESTEGGIARE
è stato notato negli ultimi decenni, che l’uomo moderno ha guadagnato “il tempo libero”, però ha perso il senso della festa. Alcuni romanzi (“Momo”) descrivono la fretta interiore ed esteriore dell’uomo delle grandi città, intrappolato dallo stress, correndo sempre e guardando l’orologio. Nessuno mai disponibile, con cui si possa parlare – sempre attaccato al cellulare – a mala pena guarda ciò che lo circonda se non è per comprarlo. Imprigionato da questo modo di vivere, l’essere umano solo trova vuoto, lavora - forse molto – ha tante cose da fare, però non sa sognare, né godere, nè perché nè per chi lavora se non per sé stesso, corre però non sa verso dove e se i suoi progetti falliscono il suo crollo è totale.
Pensando alla Festa, mi sono ricordato la risposta di uno dei miei insegnati quando ringraziandolo – terminati i miei studi – per quanto ero stata bene durante le sue lezioni, di come avevo assaporato le cose che capivo, mi disse: “Signorina, è che conoscere è una festa.”

Festeggiare, quindi, è stare dove uno si sente bene, lì dove si condivide in abbondanza ciò che piace a tutti. È una festa stare con il Papa, forse proprio per questo siamo qui. Sarà una Festa il Cielo, per questo vogliamo essere salvati, e veniamo qui per imparare che pure la nostra famiglia può essere una festa, più quotidiana e accessibile, che ci allieta i giorni e ci prepara per le grandi feste che ci aspettano, come quella che vivremo – o  stiamo vivendo – qui.


II. PresUPPOSTI ANTROPOLOGICI DELLA FAMIGLIA
Viviamo in un momento in cui sembra conveniente “ripensare” la famiglia per riscoprire con nuove luci il dono di essere strutturalmente esseri famigliari, di essere parte di una genealogia e di poter costruire ogni giorno la propria famiglia. Ricordiamo, allora, alcuni dei suoi fondamenti:

1.      La Persona “un dono”, “capace di donare”

Ogni persona è un dono, in primo luogo per se stessa. È ovvio che nessuno decide di venire al mondo, sebbene non sia vero che è gettato in essa. Dopo l’esistenzialismo una antropologia realista riconosce che ciascun essere umano nasce e si fa ed è così tanto quello che riceve che ciascuno è molto di più di quello che sa di sé stesso – “se conoscessi il dono di Dio”, diceva Gesù alla Samaritana -, da allora non ha perso validità né difficoltà la millenaria leggenda del Tempio di Delfi: “Conosci te stesso”[2]

La persona è un dono per sé stessa e un dono perché sia SUO. Quindi l’essere auto-proprietaria della propria realtà sia una profonda e certa descrizione di quello che è essere una persona (Zubiri) *.  Questa auto-proprietaria porta al fatto che nessuno – tranne Dio -, ha diritti su un’altra persona tranne nel caso in cui non sia essa a donarsi. Come nessuno ha “diritto” ad avere un figlio, per esempio, perché il figlio pure è un dono per i genitori.

Ciascuna persona riceve e riceve molto: riceve dal Creatore il suo essere personale, che la rende unica e irripetibile, i suoi genitori gli trasmettono la natura umana – corpo e mente -, con l’eredità genetica, e al nascere prematuramente si delinea dal punto di vista culturale attraverso l’attenzione dei famigliari, l’educazione e le possibilità al suo contorno, che pure gli sono date. Tutte le possibilità vengono prima del proprio agire liberamente. 

A differenza degli animali, l’essere umano è capace di avere. La natura umana, a differenza degli altri esseri del Cosmo è capace di abitudini, e sebbene abbia proprie leggi non è completamente programmata. Per questa ragione le loro strutture universali, come il bisogno di cibo o riposo, o la capacità di parlare o di famiglia - come dice Levi Strauss, si sviluppano culturalmente. Zubiri ha detto che l'uomo ha un'essenza aperta, molte delle sue qualità le acquisisce per autodeterminazione, che si caratterizza per la capacità di AVERE. L'uomo ha nel suo corpo e nella sua mente, non solo vestiti e beni materiali, ma anche abilità fisiche, manuali, atletiche, ecc., che diventano più profonde nella psiche, con le abitudini intellettuali e morali.

Ma c’è di più, in quanto PERSONA l’essere umano è capace di DARE (Polo) e di darsi. La persona, essere libero e intelligente a radice, è fatta per amare liberamente - "perchè sí" dicono da dove vengo io; per questo può DARE gratuitamente rendendo come proprio il bene di un altro.

2. La Persona  “centro” e “incontro”

Questa capacità a DARE pone in evidenzia due dimensioni inseparabili, sebbene differenti della struttura della sua intimità. Da un lato la persona, ciascuna, è un essere con valore in sé, l'unico essere dell'universo, - dice il Concilio Vaticano II -, che Dio abbia amato per se stesso (GS, 22). In secondo luogo, la persona è un essere relazionale, aperto, non solo nella sua essenza, abbiamo detto, ma nel suo stesso ESSERE, con una relazione di origine – la filiazione – e con una di apertura ad essere sposa, che la costituiscono. Il Concilio esprime ciò affermando che "solo raggiunge la sua pienezza nel dono sincero di sé agli altri" (GS, 22).

Lungo tutta la storia del pensiero, fino al XX secolo, la nozione di persona forgiata nel siglo IV - ha dato vita a animati dibattiti accademici, ma ha avuto poco peso antropologico: basterebbe ricordare che ogni teoria politica della modernità si basa sull'individuo, non si tratta della persona. E essere un individuo non è esattamente la stessa cosa che essere una persona. Un individuo può essere isolato e una persona è un essere strutturalmente relazionale.

Prendendo alcune preziose intuizioni, Kant sostiene che la persona è un Fine in sé, di conseguenza mai deve essere trattata come un mezzo ma sempre come Fine.  Ma essendo ogni persona un Fine in sé, - e entriamo già nella seconda caratteristica della struttura personale che, dall’altra parte, non implica una limitazione, - tuttavia non è un fine per sè; il fine di una persona sta sempre in un'altra persona: alla quale va incontro o alla quale apre la porta. Questo perché la persona è fatta per la donazione, per l’amore. Solo quando si vive per un altro è quando si raggiunge la pienezza, che consiste esattamente nell'aver imparato ad amare.

Questo vivere per un altro non è un segno di limitazione, diceva, perché è parte dell'immagine di Dio dal momento che anche le Persone divine vivono ciascuna per le altre due. Certamente, una persona da sola sarebbe una disgrazia, come affermava Leonardo Polo, perché non avrebbe con chi comunicare, a chi donarsi. Quindi la persona può essere descritta anche come "incontro" (Rof Carvallo) con un'altra persona che si rende presente, che si può amare e da cui si può essere corrisposti.

Tuttavia, né in Dio né nell’uomo, la persona è solo relazione. In Dio, la Teologia descrive la persona divina come un rapporto sussistente, cioè una relazione con un valore in sé, sebbene la caratteristica propria di una relazione sia quella di essere rivolta verso gli altri. Qualcosa di simile si può dire della persona umana, perché la sua capacità di relazione è intrinsecamente legata al suo essere, in cui si trova il suo "centro". L’Essere della persona non è un Essere a se stante, come quello del Cosmo, ma un ESSERE-CON (Heidegger) o un ESSERE-PER (Levinas) o una co-esistenza (Polo). L'apertura relazionale si trova nel fatto stesso di ESSERE persona.

E seppure ogni uomo nasce prematuramente, indifeso e dipendente in tutto, il processo verso la maturità consiste nel raggiungimento dell'indipendenza a tutti i livelli: fisico, mentale, professionale, economico e sociale. Questa capacità di dare valore a se stesso, è la condizione per poter vivere in maniera inter-dipendente (Covey), formando e costruendo la propria famiglia.

Potremmo riassumere, quindi, queste due dimensioni della persona come "centro" e "incontro". Centro sussistente e relazionalmente aperto all'incontro con l'altro.
                

3. L’“unità dei due” e l’apertura al “tre”

La persona è figlio e, fosse anche solo per questo, già ha una struttura familiare nella sua costituzione intrinseca. Ma essere persona ed essere famiglia è molto più di essere figlio (altrimenti saremmo dei viziati). La persona, oltre a essere figlio ha anche una struttura coniugale - è un uomo o una donna, e può amare come un padre o come una madre. Ed è ovvio che la famiglia, oltre che il figlio ha bisogno di un padre e di una madre. La famiglia ha una struttura triangolare, composta da relazioni costitutive in cui ciascuna persona si plasma rispetto alle altre due: quindi, non ci può essere un figlio senza un padre e una madre, né una madre senza un padre e un figlio, né un padre senza un figlio e una madre.

Tuttavia, le cose non sono così semplici, perché sia l'essere uomo sia l’essere donna viene prima del loro essere padre o madre. Dall’altro lato, la famiglia è costituita in modo triadico in un altro senso, così come lo descrive il cardinale Scola - pastore di questa diocesi -, che l’ha rappresentata come "mistero nuziale", distinguendo tre momenti: 1. La differenza sessuale uomo - donna, 2. L’Amore personale tra di loro, e 3. La fecondità.

La verità è che gli esseri umani sono creati a sua immagine e somiglianza di Dio. Racconta la Genesi (1:26-27) che Dio creò l'uomo, li creò uomo e donna. È importante considerare questo singolare e plurale allo stesso tempo, - lo creò, li creò - e da notare che nel plasmare a sua immagine non fa l’uomo trio, come è Egli stesso nella sua intimità, ma come due. Due che in se stessi si completano mutualmente diventando uno. Questa "unione dei due", accoglie la pluralità e rispetta la differenza. È di più ognuna nella propria differenza è l'affermazione dell'altra. Lo dice il libro dell’Ecclesiastico lodando le opere di Dio: "Io faccio le mie opere perfette. Tutte sono doppie, una di fronte all'altra. Lui non ha fatto nulla di imperfetto. Una conferma la bontà dell’altra." (Eclo 42, 24-25) Questo stare faccia a faccia, come il testo ebraico della Genesi (2,18) afferma, significa tra le altre cose che la condizione sessuata è espressa nel corpo, la mascolinità di per sé richiama la femminilità e la femminilità di per sé fa riferimento alla mascolinità.

Dall'antropologia Julián Marías, un altro filosofo spagnolo, dice che la differenza tra uomo e donna è relazionale, come ad esempio le mani, che trovandosi una di fronte all'altra si possono legare come in un abbraccio.

Pertanto, nel creare l'essere umano, uno e plurale al tempo stesso si potrebbe dire che Dio sta plasmando un’immagine della sua Unità plurale. Giovanni Paolo II ha messo in rilievo, al di là delle celebri negazioni del passato *, che la pienezza dell’imago Dei non si trova tanto in ogni persona isolata - uomo o donna -, ma nell’"unione dei due", nella comunione di persone che vivono tra loro, in modo che questa "unione dei due" sia un’immagine dell'unità della trinità divina.

La donazione disinteressata che forma parte dell’unione dal momento che è corrisposta diventa reciprocità. Tuttavia, l'amore reciproco è possibile tra due persone, indipendentemente dal loro sesso, però, nell'amore e nell'unione tra un uomo e una donna c'è anche una complementarietà particolare. Secondo la sua nuova antropologia, Papa Wojtyla dice nel 1995, dando una nuova svolta a questo problema, che tra l'uomo e la donna ciò che è reciproco è la complementarietà, allora "la donna è il completamento dell’uomo, come l’uomo è il completamento della donna: uomo e donna sono tra loro complementari "(n.7). Continua indicando che questa complementarietà non si riferisce solo all’ambito dell’AGIRE, ma soprattutto all'ESSERE, concludendo uomo e donna "sono complementari non solo biologicamente e psicologicamente, ma, soprattutto, dal punto di vista ontologico" essendo l'”Unione dei due” una "uni-dualità relazionale complementare" (n.8).

Con queste espressioni, che richiedono uno sviluppo successivo, Karol Wojtyla sta dando una forma filosofica a questioni che conosce bene come poeta. I poeti, infatti, indagano meglio di chiunque altro l’essere e il suo significato. Un poeta spagnolo, scrittore di canzoni, descrive l'amore tra l'uomo e la donna come qualcosa di intangibile e profondo tra TU e IO, come un luogo dove sentire la voce, un perdonarmi TU e un comprenderti IO. Inoltre, e soprattutto, canta “all’unità dei due”. Descrive l'Amore dicendo che è un frutto per DUE, un ombrello per DUE o una storia scritta per DUE o creare un mondo tra i DUE (Buber). E in una canzone alla tentazione confessa: "Non c'è menzogna in una cosa trasparente, bella e fragile come è l'amore. Non la chiami viltà. Ci sono cose nella vita che sono solo per DUE, solo DUE. "

In ogni caso nemmeno il Due è sufficiente per essere famiglia. L'unità del due si esplica nel tempo, aprendosi al "tre", vale a dire, alla fecondità, all’abbondanza. La mascolinità e la femminilità, quando mettono insieme le loro risorse in un obiettivo comune, si potenziano e insieme sono in grado di ottenere ciò che non possono fare ciascuno di essi separatamente. Nell’arte, nello sport, nella cultura, nel lavoro, nella costruzione della storia, in famiglia.

È plastico e visivo, per esempio, nel pattinaggio artistico a coppie, che - oltre al fatto di fare la stessa cosa in maniera sincronizzata -, quando ciascuno mette in campo la propria caratteristica peculiare, lui la forza, lei la flessibilità, sono capaci di sorprendere con le loro possibilità.

La reciprocità e la complementarità insieme conferiscono una forza espansiva, capace di novità come nel caso della vita. Ciascuna persona è il nuovo (Polo), qualcuno che prima non c’era e ne tornerà ad avere qualcuno come lui, una nuova libertà che irrompe e potrebbe cambiare il corso della storia (Arendt). Per cui bene, nella famiglia, i genitori - con l'aiuto di Dio, come riconosce Eva quando ha il suo primo figlio * - sono procreatori, creatori della vita. La famiglia, che ha la sua origine nell’unione dei due ed è in maniera costitutiva aperta AL TRE, ha la forza di irradiare dall'interno, essendo culla e fonte di vita.
Questa feconda apertura al “tre” è narrata anche nel primo capitolo della Genesi quando Dio, benedice i nostri progenitori, Adamo ed Eva, dicendo: "Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela". Interessante notare in questo versetto che sappiamo a  memoria, che Dio affida ad entrambi un duplice compito comune: la famiglia e il dominio del mondo, creare e curare la vita e costruire la storia. In questi due compiti, inseparabili, l'uomo e la donna sono co-protagonisti, sia nella sfera privata e sia in quella pubblica.

L'esperienza storica mostra che nel corso dei secoli quando è stato separato l’ambito pubblico da quella privato, assegnandone uno a ciascuno dei sessi: "Public man, private woman” riassume Elshtain, entrambi gli spazi risultano unilaterali e squilibrati. Nella famiglia è frequente l'assenza del padre – “Fatherless America” si intitola un suo recente saggio, allorché l'ambiente lavorativo risulta eccessivamente competitivo e gerarchizzato, diceva il relatore Bruni, aspettando il "genio" della donna – come avrebbe detto Karol Wojtyla -* per renderlo abitabile.

L'uomo e la donna sono due modi diversi di fare lo stesso, così l'attività umana in ogni campo, in qualsiasi ambito, affinché risulti completa ha bisogno della collaborazione delle risorse di entrambi, per questo sono così fecondi i gruppi dove lavorano insieme uomini e donne. D'altra parte, sia la maternità che la paternità sono fondamentalmente un'attività dello spirito che ha ora un compito in sospeso e necessario per costruire una "famiglia con un padre e una cultura con una madre" *.






III. ESPERIENZA DELLA FESTA
Passiamo ora a descrivere alcuni aspetti della Festa. In primo luogo, vivere la Fesra richiede di sviluppare la forsa dello spirito – ristabilirla lì dove si è persa -, imparando a esercitare l’intelligenza e la libertà nell’amore della verità e del bene.

1. L‘amore della verità e del bene

La Festa suppone l’esercizio dell’intelligenza nella sua dinamica della ricerca della verità. “Conoscere è una festa”, diceva il mio professore. E richiede anche l’esercizio della libertà nel raggiungimento del bene. Nell’errore e nella menzogna la festa dura poco. Se la festa non è vera, ritorna odio, amarezza o rivalsa. Uno finisce per sentirsi male, sentendosi a disagio, invece di godere e vivvere bene.

L’ambiente delle società opulente, con il loro eccesso di beni materiali provoca malattie – obesità, diabete tipo 2, malattie cardiovascolari -, abitudini non sane – cattiva alimentazione, sedentarietà,...-, e rende difficile il vero senso della Festa, fomentando la passività, l’individualismo, consumismo, la noia, la tendenza al facile e ai piaceri con effetti collaterali. E’ indicativo che se si cercano in Internet informazioni sulla Festa la possibilità che offre, oltre al ballo, è l’alcool nelle sua distinte varietà: birra, champagne, coktail, margarita, vino o vodka – letteralmente -.
L’abbondanza, che è buona, i soldi, i beni materiali e la tecnica, strumenti per raggiungere il fine, se si trasformano nel fine debilitano la persona, la corrompono. Se i bambini vedono solamente molte ore di Tv, che è passiva e invade i sensi, frena la loro immaginazione, annulla la loro creatività, fomenta la la sedentarietà e non poche volte ruba loro l’infanzia, impedendo loro di spaventarsi con ammirazione davanti alla scoperta dell’origine della vita, imponendo loro rozzamente una informazione decontestualizzata e a volte perversa.
               La tecnologia, che suppone progresso, a secondo come si utilizza, - TV, cellulari, videogiochi, computers, internet, chat, ...-, fomenta l’isolamento provocando, per esempio, che i giovani abbiano poche conversazioni e che si generino dipendenze malsane.
               La ricerca della verità, tuttavia, l’educazione del desiderio, la scelta dei beni più elevati sebbene sia arduo conseguirli, richiede abitudini positive che diano forma alla capacità di bene e di verità. Potremmo dire che non solo apprendere è una Festa ma che essere in Festa anche si apprende.

2. Le emozioni della Festa.

In quel apprendimento, appaiono come in cascata sentimenti insospettati emozioni più profonde – di altro livello, di altra generazione -, che i puramente psicosomatici, che ratificano e incrementano a loro volta l’amore delle verità: è l’affettività che manifesta le possibilità del cuore umano.

Va osservato, in primo luogo, la capacità dell’ammirazione, che ha le sue radici nell’intelligenza e nella libertà, e che unisce verità e bellezza. Ammirare – l’arma dei poeti e dei filosofi attenti alla realtà -, è il miglior modo di apprendere. L’ammirazione tra i sessi opposti, per esempio, è il miglior antidoto al maschilismo e al femminismo egualitario che manipola il genere.
Ammirare la bellezza della Natura è una festa, e chiedere alle persone, contemplarle, porta all’amore personale: un atto della volontà che si bea della verità dell’altro, che è la sua realtà personale. La persona si ammira e si ama per se stessa.

Da parte sua, l’amore personale porta con sè la gioia. La gioia è più che un piacere, è un affetto spirituale che non conosce l’edonista, il quale sente piacere a cui però risulta impossibile godere nella contemplazione “di un bottiglione di birra”. La birra, in ogni caso, accompagna alla gioia però in alcun modo ne è una causa.

La gioia che suppone l’amore verso una persona, che si ammira è accompagnata da un altro sentimento positivo, sicuramente uno dei più importanti, che si sappia: il rispetto. Si rispetta quando si vede dentro a ciascuna persona quello per cui è superiore a noi, quando si avverte non solo quello che è ma anche quello che potrebbe essere. Questo risprtto genera fiducia.

Potremmo parlare anche di gratitudine di che riconosce di essere in debito per tutti i doni ricevuti. L’attitudine alla gratitudine si manifesta nel rendere proprio quanto ricevuto, coltivere questi talenti e farli corrispondere al ricevuto.

Infine, l’ammirazione, punto di partenza di tutte queste insospettate emozioni, si apre all’esperienza più nobile dell’essere umano: l’adorazione – ammirazione che si dirige verso la Verità, al bene più ammirabile -. L’adorazione viene ad essere, quindi. Il punto culminante della Festa.


3. Tempo della Festa

Parte dell’emozione della Festa è desiderarla, aspettarla e prepararla. Diciamo che essere in Festa si apprende, in altre parole la Festa non si improvvisa come non si improvvisa avere amici. L’amicizia devi crearla, così la Festa, per la quale è imprescindibile l’incontro con l’altro. Lz Quintàs, altro pensatore spagnolo, afferma che “dove c’è incontro c’è allegria e c’è festa”.

Una descrizione della creazione dei legamo personali la fa Saint-Exupéry nel sostanzioso tra il Piccolo Principe, che viene sulla Terra a cercare amici e la solitaria volpe che anche li desidera avere e chiede che la “addomestichi”: “ se mi addomestichi avremo bisogno l’uno dell’altro – gli dice – . Sarai per me unico nel mondo. E io sarò per te unico nel mondo (...). Mi annoio un poco, però se mi addomestichi, la mia vita si riempirà di sole. Conoscerò il runore dei tuoi passi che sarà diverso da quello degli altri, chiamandomi fuori dalla tana, come una musica. Solo si conoscono le cose che si addomesticano – chiarisce la volpe -. Gli uomini non hanno più il tempo di conoscere nulla. Comprano cose fatte dai mercanti. Però non esistono mercanti di amici. Se vuoi un amico, addomesticami!”.

Quando il Piccolo Principe chiede istruzioni, la volpe gli dice di essere paziente facendo riferimento al luogo ad al tempo. “Ti sentirai all’inizio un pò lontano da me (...). Ti guarderò do sbieco e non dirai nulla (...)  Però ogni giorno potrai sederti sempre più vicino (...).

Preparare la festa è fissare il luogo , la data e l’ora. Conoscere il momento e aspettarlo è fonte di emozioni. E’ un ingrediente per creare legami che uniscono le persone che diventano parte della nostra vita. Nel Piccolo Principe, si parla in questo senso della necessità dei riti per preparare il cuore. I rirti fanno riferimento al tempo: “se vieni, per esempio, alle quattro del pomeriggio – gli dice -, comincerò ad essere felice dalle tre. Quanto più avanza l’ora, più felice mi sentirò. Alle quattro sarò agitato e inquieto; scoprirò il prezzo della felicità! Però se venissi a qualsiasi ora, mai saprò a che ora preparare il mio cuore.... I riti sono necessari”.

“E cos’è un rito?”, domanda il Piccolo Principe. “E’ qualcosa troppo dimenticato – disse la volpe -. E’ quello che rende un giorno differente dagli altri; un’ora dalle altre ore”. E racconta come esempi: “Tra i cacciatori c’è un rito. Il giovedì ballano con le ragazze del popolo. Il giovedì è, quindi, un giorno meraviglioso. Vado a passeggiare fino alla vigna. Se i cacciatori non ballassero in un giorno fisso, tutti i giorni apparirebbero ed io non avrei vacanze”. (c. XXI).

La Festa è un momento, un giorno speciale. Prepararla suppone sforzo, che è ricompensato dall’allegria gioiosa o serena, a seconda dei momenti che riempie il cuore di pace.


IV. LA FAMIGLIA, LUOGO PER LA FESTA

Il focolare della famiglia è il luogo dove si nasce, dove si sta, dove si gioca, dove si torna, dove si muore, però per andare alla Casa dove si vive e si ama per sempre. La famiglia trasmette l’aria della famiglia, un modo di vivere, qualcosa intangibile che per essere atria – spirito -, si respira e si impara senza rendersi conto.

Vorrei soffermarmi ora su alcuni modi di come vivere in famiglia, caratteristiche dell’Amore descritte nel libro deo Proverbi: la Saggezza ha i suoi piaceri nello stare con i figli degli uomini e gioca con l’orbe, sempre in presenza di Jhavè.

  1. L’importanza dell’essere

Prima di tutto la Saggezza “è”, quello che mette in rilievo è che “l’incontro” con l’altro necessita cura. E come il tempo sembra un bene scarso nell’agitato mondo nel quale viviamo, è preciso delimitare momenti per l’incontro, tempo per stare insieme, tempo per la convivenza.

               Condividere la tavola –almeno una volta al giorno-, è un momento importante che ha benefici persino per la salute, in quanto i bambini apprendono a nutrirsi sanamente. La tavola e la tovaglia permettono di cambiare impressione del giorno e conoscere uno dell’altro. In una pellicola di Bruce Willis “Storia di noi” – racconto di una crisi matrimoniale e dell’iter fino al suo superamento-, genitori e figli cenano insieme ogni giorno e ciascuno racconta – con più o meno sincerità -, il meglio e il peggio della sua giornata condividendo così gioie e dolori.

Essere suppone anche –ne abbianmo già parlato-, condividere i lavori domestrici, gli incarichi, portare insieme il peso del focolare. Essere è cogliere le necessità reali di ciascuno per risolverle o almeno accompagnarle. E parlando del tempo l’importante è la qualità più che la quantità. Non è perchè si sta molto tempo vicini che ci si fa compagnia. Si può stare vicini, sebbene fisicamente si sia lontani, se si sta pensando nell’altro e condividendo gli stessi interessi e sogni.

Se si sente il bisogno della quotidianità, nei giorno festivi è tempo di allargare la tavola e stare insieme, non è sufficiente parlare, si può anche cantare. Provengo da una terra – i Paesi Baschi -, dove la gente è famosa per il buon palato, per il cibo, il bere e la buona voce per cantare. E’ certo che con l’allegria che il vino porta al cuore è tradizione lì cantare a tavola, sempre le stesse canzoni. E questo lascia un riposo indimenticabile.

  1. Condividere hobbies

Si rendono felice gli altri conoscendone i loro gusti, fomentando i loro hobbies, cercando per ciascuno l’hobby più adeguato alle sue capacità o necessità (ricordo una madre che a un figlio inquieto e rissoso, che aveva buon orecchio -, lo mise a suonare il clarinetto affinchè sfogasse lì le sue energie restanti invece di litigare e picchiare i suoi fratelli. E un altro che era anche un pò passivo fisicamente, lo incoraggiò a montare a cavallo per renderlo dinamico. Tuttavia, per rendere più agile l’adolescenza ad un altro, decise di condividere con lui la musica e decisi di imparare anche lei a suonare il piano).

Se unisci le forze, condividere le passioni è un buon modo di compenetrarsi e potersi aiutare nei momenti duri della vita. 


  1. Giocare con gli altri e praticare il buon umore

Vicino alla Saggezza non c’è la noia, perchè il suo ingegno sorprende, fa ridere, rompe la monotonia se ci fosse, al suo lato c’è felicità, diversione e riposo. La Saggezza diletta Dio e gli uomini, sta bene tra loro perchè li vuole, tutti come sono. E tutti stanno bene vicino a Lei, perchè si sanno conosciuti e voluti.

Prima di tutto la Saggezza sa giocare. Il gioco, come tutta l’attività ludica, è un’attività libera, non necessaria, nella quale non si cerca nienete di più che star bene, però mediante esso si impara a vivere, a relativizzare i successi e gli insuccessi, perchè nel gioco non si vince nè si perde niente di vitale. Nel gioco ogni successo è incoraggiato e allo stesso tempo prematuro.

Essendoci molti modi di giocare, uno importante è raccontare favole ai piccoli, sebbene siano sempre le stesse.

E insieme al gioco e al buon umore, quello di cui faceva grazia Tommaso Moro quando chiedeva al Signore:
Dammi una buona digestione e naturalmente qualcosa da digerire.
Dammi un anima che non conosce tristezza, non permettere che prenda troppo sul serio quella cosa tanto invadente che si chiama “io”.
Dammi il senso dell’umore. Concedimi il dono di comprendere uno scherzo, di capire una barzelletta per trarre un pò di felictà dalla vita e poterla regalare agli altri.


V. LA FESTA, DOVE IL TEMPO SI UNISCE ALL’ETERNITA’

La Festa è un giorno speciale, diceva Saint Exupery, o forse ciò che fa di ogni giorno una Festa. Però ci sono giorni speciali in cui uno si ferma a dedicarsi di più a  quello che da senso agli altri. Un giorno dove c’è posto per la contemplazione, l’adorazione, la gratitudine, come è la Domenica che è prpriamente un “rito”.  

Un giorno per andare a Messa, tempo nel quale si ferma il tempo per unirsi con l’eternità. Milano ha esempi per illustrare il detto della mia terra: “La Festa si riconosce per la Messa e per la Mensa”, come l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci, famosa in tutto il mondo.
Tante grazie

Blanca Castilla de Cortázar




[1] JUAN PABLO II, Homilía, 28‑I‑79.
[2] "Nosce te ipsum". “Conosci te stesso e conoscerai l’universo e gli dei.” (Traduzione latina della massima greca scritta sul Tempio di Apollo (Delfi). Questa scritta, messa dai sette saggi sul frontespizio del tempio di Delfi, è un classico del pensiero greco.