giovedì 29 ottobre 2009

Teologia monastica & Teologia scolastica, Benedetto XVI

Oggi mi soffermo su un’interessante pagina di storia, relativa alla fioritura della teologia latina nel secolo XII, avvenuta per una serie provvidenziale di coincidenze. Nei Paesi dell’Europa occidentale regnava allora una relativa pace, che assicurava alla società sviluppo economico e consolidamento delle strutture politiche, e favoriva una vivace attività culturale grazie pure ai contatti con l’Oriente. All’interno della Chiesa si avvertivano i benefici della vasta azione nota come "riforma gregoriana", che, promossa vigorosamente nel secolo precedente, aveva apportato una maggiore purezza evangelica nella vita della comunità ecclesiale, soprattutto nel clero, e aveva restituito alla Chiesa e al Papato un’autentica libertà di azione. Inoltre si andava diffondendo un vasto rinnovamento spirituale, sostenuto dal rigoglioso sviluppo della vita consacrata: nascevano e si espandevano nuovi Ordini religiosi, mentre quelli già esistenti conoscevano una promettente ripresa.

Rifiorì anche la teologia acquisendo una più grande consapevolezza della propria natura: affinò il metodo, affrontò problemi nuovi, avanzò nella contemplazione dei Misteri di Dio, produsse opere fondamentali, ispirò iniziative importanti della cultura, dall’arte alla letteratura, e preparò i capolavori del secolo successivo, il secolo di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio. Due furono gli ambienti nei quali ebbe a svolgersi questa fervida attività teologica: i monasteri e le scuole cittadine, le scholae, alcune delle quali ben presto avrebbero dato vita alle Università, che costituiscono una delle tipiche "invenzioni" del Medioevo cristiano. Proprio a partire da questi due ambienti, i monasteri e le scholae, si può parlare di due differenti modelli di teologia: la "teologia monastica" e la "teologia scolastica". I rappresentanti della teologia monastica erano monaci, in genere Abati, dotati di saggezza e di fervore evangelico, dediti essenzialmente a suscitare e ad alimentare il desiderio amoroso di Dio. I rappresentanti della teologia scolastica erano uomini colti, appassionati della ricerca; dei magistri desiderosi di mostrare la ragionevolezza e la fondatezza dei Misteri di Dio e dell’uomo, creduti con la fede, certo, ma compresi pure dalla ragione. La diversa finalità spiega la differenza del loro metodo e del loro modo di fare teologia.

Nei monasteri del XII secolo il metodo teologico era legato principalmente alla spiegazione della Sacra Scrittura, della sacra pagina per esprimerci come gli autori di quel periodo; si praticava specialmente la teologia biblica. I monaci, cioè, erano tutti devoti ascoltatori e lettori delle Sacre Scritture, e una delle principali loro occupazioni consisteva nella lectio divina, cioè nella lettura pregata della Bibbia. Per loro la semplice lettura del Testo sacro non bastava per percepirne il senso profondo, l’unità interiore e il messaggio trascendente. Occorreva, pertanto, praticare una "lettura spirituale", condotta in docilità allo Spirito Santo. Alla scuola dei Padri, la Bibbia veniva così interpretata allegoricamente, per scoprire in ogni pagina, dell’Antico come del Nuovo Testamento, quanto dice di Cristo e della sua opera di salvezza.

Il Sinodo dei Vescovi dell’anno scorso sulla "Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa" ha richiamato l’importanza dell’approccio spirituale alle Sacre Scritture. A tale scopo, è utile far tesoro della teologia monastica, un’ininterrotta esegesi biblica, come pure delle opere composte dai suoi rappresentanti, preziosi commentari ascetici ai libri della Bibbia. Alla preparazione letteraria la teologia monastica univa dunque quella spirituale. Era cioè consapevole che una lettura puramente teorica e profana non basta: per entrare nel cuore della Sacra Scrittura, la si deve leggere nello spirito in cui è stata scritta e creata. La preparazione letteraria era necessaria per conoscere l’esatto significato delle parole e facilitare la comprensione del testo, affinando la sensibilità grammaticale e filologica. Lo studioso benedettino del secolo scorso Jean Leclercq ha così intitolato il saggio con cui presenta le caratteristiche della teologia monastica: L’amour des lettres et le désir de Dieu (L’amore delle parole e il desiderio di Dio). In effetti, il desiderio di conoscere e di amare Dio, che ci viene incontro attraverso la sua Parola da accogliere, meditare e praticare, conduce a cercare di approfondire i testi biblici in tutte le loro dimensioni. Vi è poi un’altra attitudine sulla quale insistono coloro che praticano la teologia monastica, e cioè un intimo atteggiamento orante, che deve precedere, accompagnare e completare lo studio della Sacra Scrittura. Poiché, in ultima analisi, la teologia monastica è ascolto della Parola di Dio, non si può non purificare il cuore per accoglierla e, soprattutto, non si può non accenderlo di fervore per incontrare il Signore. La teologia diventa pertanto meditazione, preghiera, canto di lode e spinge a una sincera conversione. Non pochi rappresentanti della teologia monastica sono giunti, per questa via, ai più alti traguardi dell’esperienza mistica, e costituiscono un invito anche per noi a nutrire la nostra esistenza della Parola di Dio, ad esempio, mediante un ascolto più attento delle letture e del Vangelo specialmente nella Messa domenicale. E’ importante inoltre riservare un certo tempo ogni giorno alla meditazione della Bibbia, perché la Parola di Dio sia lampada che illumina il nostro cammino quotidiano sulla terra.

La teologia scolastica, invece, - come dicevo - era praticata nelle scholae, sorte accanto alle grandi cattedrali dell’epoca, per la preparazione del clero, o attorno a un maestro di teologia e ai suoi discepoli, per formare dei professionisti della cultura, in un’epoca in cui il sapere era sempre più apprezzato. Nel metodo degli scolastici era centrale la quaestio, cioè il problema che si pone al lettore nell’affrontare le parole della Scrittura e della Tradizione. Davanti al problema che questi testi autorevoli pongono, si sollevano questioni e nasce il dibattito tra il maestro e gli studenti. In tale dibattito appaiono da una parte gli argomenti dell’autorità, dall’altra quelli della ragione e il dibattito si sviluppa nel senso di trovare, alla fine, una sintesi tra autorità e ragione per giungere a una comprensione più profonda della parola di Dio. Al riguardo, san Bonaventura dice che la teologia è "per additionem" (cfr Commentaria in quatuor libros sententiarum, I, proem., q. 1, concl.), cioè la teologia aggiunge la dimensione della ragione alla parola di Dio e così crea una fede più profonda, più personale e quindi anche più concreta nella vita dell’uomo. In questo senso, si trovavano diverse soluzioni e si formavano conclusioni che cominciavano a costruire un sistema di teologia. L’organizzazione delle quaestiones conduceva alla compilazione di sintesi sempre più estese, cioè si componevano le diverse quaestiones con le risposte scaturite, creando così una sintesi, le cosiddette summae, che erano, in realtà, ampi trattati teologico-dogmatici nati dal confronto della ragione umana con la parola di Dio. La teologia scolastica mirava a presentare l’unità e l’armonia della Rivelazione cristiana con un metodo, detto appunto "scolastico", della scuola, che concede fiducia alla ragione umana: la grammatica e la filologia sono al servizio del sapere teologico, ma lo è ancora di più la logica, cioè quella disciplina che studia il "funzionamento" del ragionamento umano, in modo che appaia evidente la verità di una proposizione. Ancora oggi, leggendo le summae scolastiche si rimane colpiti dall’ordine, dalla chiarezza, dalla concatenazione logica degli argomenti, e dalla profondità di alcune intuizioni. Con linguaggio tecnico, viene attribuito ad ogni parola un preciso significato e, tra il credere e il comprendere, viene a stabilirsi un reciproco movimento di chiarificazione.

Cari fratelli e sorelle, facendo eco all’invito della Prima Lettera di Pietro, la teologia scolastica ci stimola ad essere sempre pronti a rispondere a chiunque domandi ragione della speranza che è in noi (cfr 3,15). Sentire le domande come nostre e così essere capaci anche di dare una risposta. Ci ricorda che tra fede e ragione esiste una naturale amicizia, fondata nell’ordine stesso della creazione. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, nell’incipit dell’Enciclica Fides et ratio scrive: "La fede e la ragione sono come le due ali, con le quali lo spirito umano s'innalza verso la contemplazione della verità". La fede è aperta allo sforzo di comprensione da parte della ragione; la ragione, a sua volta, riconosce che la fede non la mortifica, anzi la sospinge verso orizzonti più ampi ed elevati. Si inserisce qui la perenne lezione della teologia monastica. Fede e ragione, in reciproco dialogo, vibrano di gioia quando sono entrambe animate dalla ricerca dell’intima unione con Dio. Quando l’amore vivifica la dimensione orante della teologia, la conoscenza, acquisita dalla ragione, si allarga. La verità è ricercata con umiltà, accolta con stupore e gratitudine: in una parola, la conoscenza cresce solo se ama la verità. L’amore diventa intelligenza e la teologia autentica sapienza del cuore, che orienta e sostiene la fede e la vita dei credenti. Preghiamo dunque perché il cammino della conoscenza e dell’approfondimento dei Misteri di Dio sia sempre illuminato dall’amore divino.

(Catechesi mercoledì 28-10-09)

mercoledì 28 ottobre 2009

Teologia della Scrittura

TEOLOGIA DALLA SCRITTURA: SU MT 1,1-17 (XXI Congresso Nazionale ATI, Castel del Monte, 8 Settembre 2009) Omelia di Mons.Bruno Forte
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“Una disputa di pipistrelli e civette con le aquile sulla realtà dei raggi del sole a
mezzogiorno” : tale sarebbe - secondo Karl Barth - un parlare su Dio che volesse prescindere dall’ascolto della Sua Parola. Per sua natura, la teologia cristiana è parola su Dio (“lógos del Dio”, nel senso del genitivo oggettivo), che rimanda alla parola di Dio, quella che Lui ha detto di sé nella storia d’Israele e nella pienezza del tempo in Gesù Cristo (“parola del Dio”, nel senso del genitivo soggettivo). È parola di domanda ed insieme parola di risposta. Nella Parola essa ascolta il Silenzio; dal Silenzio riceve la Parola; fra Parola e Silenzio muove i suoi passi, linguaggio di frontiera. La teologia sta al confine, continuamente rinviando all’una e all’altra sponda, fra la fragile terra dove poggiano i nostri piedi e l’abisso insondabile, che è la regione dell’Altro. Due movimenti l’attraversano, fra di loro asimmetrici: quello del pellegrino, assetato di una patria verso cui orientare il cammino per combattere la sua lotta con la morte; e quello, senza il quale neanche l’altro esisterebbe, dell’Inizio, presupposto e fondamento di tutto ciò che esiste, che viene a noi dall’ insondabile Silenzio. Il ponte che percorre questa asimmetria è riconosciuto dal Nuovo Testamento in Gesù, il Cristo, la Parola venuta nella carne.
Il testo di Matteo 1,1-17, la genealogia di Gesù, ci aiuta ad accostarci alle arcate
fondamentali di questo ponte. La genealogia è introdotta dal titolo “libro delle origini (della genesi) di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio d’Abramo”(v. 1), che riprende l’indicazione del libro della Genesi 5,1, dove si parla del “sefer toledoth” di Adamo, del libro della genesi di Adamo. In tal modo Gesù ci è presentato come il nuovo Adamo, che inaugura una nuova creazione: c’è, tuttavia, una differenza fondamentale, perché nella Genesi è presentata la discendenza di Adamo, mentre qui è proposta l’ascendenza di Gesù, per mostrare come il Cristo si innesti nella storia del popolo eletto e ne sia il ricapitolatore, e che proprio così la sua è la storia della Parola venuta dall’eternità nel tempo.
Quest’idea è confermata dalla struttura della genealogia, annunciata dal versetto 1: i tre nomi qui segnalati, “Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio d’Abramo”, sono ripresi alla conclusione della genealogia, al versetto 17: “La somma di tutte le generazioni, da Abramo a Davide, è così di quattordici; da Davide fino alla deportazione in Babilonia è ancora di quattordici; dalla deportazione in Babilonia a Cristo è, infine, di quattordici”. L’intenzione teologica di Matteo, che ha sacrificato a essa i nomi di tre re, è evidente: egli vuole mostrare l’ordine della storia della salvezza, articolata intorno alle svolte rappresentate da Abramo, Davide e Gesù, e sottolineare che nel Cristo si realizza la svolta decisiva. Si potrebbe anche evidenziare una struttura ebdomadaria - tre volte quattordici significa sei volte sette -, che introdurrebbe così la settima settimana, quella del compimento realizzato in Gesù. In ogni caso, è evidente che Matteo presenta qui una teologia
della storia alla luce della Parola di Dio, che può aiutarci a discernere la maniera d’agire del Dio salvatore nel tempo. È possibile allora riconoscere tre arcate del ponte disegnato dalla genealogia, il ponte della Parola fra il tempo e l’eterno, ponendo al testo le domande soggiacenti a ogni teologia che venga dalla Scrittura:
1. Chi è il Dio di questa storia, il protagonista divino del racconto che è la Bibbia?
2. Chi è l’uomo chiamato da questo Dio a fare alleanza con Lui?
3. Quale risposta questo Dio chiede al protagonista umano dell’“historia salutis”?


1. Il Dio della Parola: “Deus loquens”

La genealogia di Matteo è composta dai personaggi più vari: uomini e donne, peccatori e peccatrici, persone che hanno svolto un ruolo decisivo nella storia d’Israele e figure del tutto ordinarie. Il Dio vivo scrive la storia della salvezza con tutti: fa le sue scelte, ma non esclude nessuno. È un Dio che parla, che si compromette e sceglie, ma il cui piano abbraccia tutti i figli di Adamo, ricapitolati dalla prima e dalla nuova Genesi. È un Dio che fa spazio a ognuno: Egli rende l’uomo “capax Dei”, in quando è un Dio “capax finiti”, capace di auto-limitarsi. I mistici ebrei
hanno espresso questo atteggiamento divino con l’espressione “zim-zum“, che dice che Dio “si contrae” perché la creatura abbia tutto il suo spazio. L’immagine esprime un messaggio, che è alla base della stessa idea ebraico-cristiana di Parola di Dio: l’Eterno dà spazio alla dignità e alla libertà delle sue creature. Perché noi possiamo esistere come esseri liberi, Dio consente ad autolimitarsi.
L’Infinito abita il finito: “Non coerceri maximo contineri a minimo, divinum est” – “Non esser costretto da ciò ch'è più grande, essere contenuto in ciò ch'è più piccolo, questo è divino!”(motto sulla tomba di Ignazio di Loiola, posto in esergo da Friedrich Hölderlin al suo Hypérion).
In questo senso Taulero può affermare che “l’umiltà è la virtù nascosta nel più profondo di Dio”. Il “Deus loquens” è il “Deus humilis”!
Una seconda caratteristica del Dio della Parola è quella di accettare il tempo: egli sa attendere; sa perfino “divenire” in corrispondenza al divenire degli esseri umani, fedele e immutabile nei cambiamenti richiesti dalla sua stessa fedeltà. È un Dio “che ha tempo per l’uomo” (Karl Barth), che attende e spera il ritorno dei suoi figli. La Sua speranza consiste nel proiettarsi verso l’altro, nel desiderare ch’egli sia se stesso, in una risposta d’amore libera e gratuita. Il Dio della genealogia è il Dio delle “tre volte quattordici generazioni”, e cioè il Dio della promessa, che
si realizzerà nella storia della salvezza fino al suo compimento in Gesù Cristo. È dunque il Dio che nella Parola si propone all’uomo, in attesa della risposta all’alleanza offerta: è il Dio del desiderio,che sa farsi mendicante del libero assenso della Sua creatura. Il “Deus loquens” è il “Deus temporis”!
Terza caratteristica del Dio della Parola è la misericordia, l’amore materno. È un amore più forte di tutto il non-amore che possa essergli reso in cambio! “Dio non ci ama perché siamo buoni e belli, ci rende buoni e belli perché ci ama”, come afferma San Bernardo in una frase folgorante che tanto colpiva il giovane Lutero. Egli ama d’un amore irradiante tenerezza: “rachamim”, “viscere materne”, è il volto della Sua misericordia. Dio ama i peccatori e li abbraccia nel suo disegno di salvezza, come la genealogia di Matteo dimostra! Perciò la Sua Parola è destinata a tutti: accoglierla è mettersi al servizio del suo cammino verso il cuore di ogni uomo. Il “Deus loquens” è il “Deus amans”! Tutto questo ci porta a indicare un’ultima caratteristica del Dio della Scrittura: il mistero della sofferenza divina. Il “Deus loquens” - compromesso nella storia - non è indifferente alle vicende umane. “In tutte le loro sofferenze egli ha sofferto con loro” (Is 63,9, secondo il testo ebraico). È un Dio che soffre per amore alle creature: “Dio, il Padre, non è impassibile”, diceva Origene. “Egli soffre per amore”. E aggiungeva: “Dio soffre persino per Nabucodonosor!”. Dio
soffre perché suo Figlio soffre: non d’una sofferenza passiva, segno di limite o d’imperfezione, ma della sofferenza attiva dell’amore. È il mistero della sofferenza divina, di cui Giovanni Paolo II ha parlato nella sua Enciclica sullo Spirito Santo (cf. Dominum et vivificantem, nn. 39 e 41). Il Dio della storia della salvezza, il Dio d’Abramo, di Davide e di Gesù, soffre perché ama. È un Dio che non resta estraneo, chiuso in se stesso, prigioniero del suo divino egoismo: rivolgendoci la Sua Parola, egli partecipa alla nostra storia, la fa sua. Il “Deus loquens” è il “Deus patiens”!

2. Il protagonista umano, “capax Verbi”

Chi è il protagonista umano della storia, presentata nella genealogia, l’uomo “uditore dellaParola”? La varietà delle figure umane evocate non impedisce di riconoscere una condizione comune, che segna le donne e gli uomini convocati dalla Parola.
La prima caratteristica dell’essere umano qui presentato è la libertà: il Dio che ci ha creati senza di noi, non ci salverà senza di noi. Il semplice fatto che nella genealogia del Cristo vi siano santi e peccatori ci dice che il dono della Parola venuta dall’eterno non elimina le scelte della libertà umana. Ciascuno è chiamato a dare la sua risposta, ad accogliere o rifiutare il Dio che si rivela. È la libertà la dimensione che corrisponde nell’essere umano all’umiltà divina: lo “zimzum” creatore fa spazio ai giochi delle decisioni libere degli esseri umani, che possono
corrispondere all’umiltà di Dio, o possono chiudersi nella pretesa di gestire la loro vita senza Dio. Il peccato non è che la Parola inascoltata: una leggenda rabbinica afferma che l’Eterno piange tre volte al giorno. La prima volta lo fa per chi potrebbe ascoltare la Sua Parola e non lo fa; la seconda, per chi non potrebbe ascoltare la Sua Parola e lo fa; infine, Dio piange di fronte ai superbi che pensano di poter fare a meno di Lui e del Suo Verbo. L’Eterno piange, insomma, quando la Sua Parola è trascurata, abusata o disprezzata dalla libertà umana. La Parola di Dio è un
appello di libertà, che esige di essere accolto per quello che è, senza manipolazioni o arbitri, rispettando la libertà assoluta dell’interlocutore divino: “Chi non ama la Torah più di Dio, non ama Dio”, dicono i saggi d’Israele. L’“uditore della Parola” è l’uomo, “capax libertatis” e perciò “capax oboedientiae”!
La seconda caratteristica del protagonista umano nella storia della Parola è di essere chiamato alla trascendenza: l’uomo è fatto per uscire da sé e andare verso Dio. È l’“essere dell’auto-trascendenza” (Karl Rahner), la creatura chiamata a vivere l’esodo senza ritorno dell’amore, che ci fa liberi da noi stessi e ci apre all’accoglienza del dono che salva. Volersi autenticamente umani significa mettersi alla scuola del Dio che viene, per fare del nostro cuore un cuore di misericordia, dove l’altro, ogni altro - a cominciare da Dio e dalla Sua Parola - possa
abitare e sentirsi accolto. L’“uditore della Parola” è l’uomo, “capax infiniti”!
Questo movimento di trascendenza non si compie mai nella solitudine di un essere chiuso in se stesso, ma nella solidarietà creata dall’ascolto della Parola divina: l’uomo della genealogia è un essere solidale, chiamato alla comunione del popolo della salvezza. Come Gesù, Verbo incarnato, è radicato nella storia del popolo eletto, così la Chiesa non è comprensibile senza questa inserzione profonda di tutto il suo essere nella storia della Parola, venuta dall’eterno. Amare e servire la Parola è inseparabile dall’amare e servire la Chiesa: una teologia dalla Scrittura è
ecclesiale nella sua più profonda identità e nella sua missione. La genealogia di Gesù ci insegna che non esiste salvezza senza solidarietà “sub Verbo Dei”, e che la piena solidarietà si realizza nella comunione accogliente della Chiesa, “creatura Verbi”. L’“uditore della Parola” è l’uomo,“capax communionis”!

3. Dove Dio e l’uomo si corrispondono nella Parola

La conclusione di questa meditazione sulla storia della Parola contenuta nella genealogia di Gesù può solamente indicare qualcuna delle prospettive d’impegno che scaturiscono dalle cose dette. Dov’è che l’uomo vivente dovrà corrispondere al Dio che parla per fare della sua storia la storia della salvezza? Quattro piste si lasciano discernere, in modo particolare alla luce della figura di Colei in cui culmina la genealogia per far spazio al Messia, la Vergine dell’ascolto, la Figlia di
Sion, Maria. Innanzi tutto, la corrispondenza dell’uomo vivente al Dio vivente vuol dire ascolto: la nuova creazione inaugurata dal nuovo Adamo, Gesù, si costruirà attraverso l’ascolto accogliente della Parola di Dio: “Eccomi, si compia in me secondo quello che hai detto”. Questo ascolto - di cui la teologia “auditus Verbi” è forma e voce riflessa - esige di fare memoria delle meraviglie di Dio, dei gesti salvifici che egli ha operato per i nostri padri e per noi. Occorre, però, anche fare
memoria delle nostre colpe e delle colpe del popolo di cui facciamo parte, per riconoscere le nostre responsabilità e cambiare il cuore e la vita. Questa purificazione della memoria è forma pura dell’ascolto della Parola e abbraccia tutti e ciascuno nella Chiesa voluta da Gesù.
La memoria suscita l’apertura all’avvenire che il Signore ci domanda di edificare: radicato nella solidarietà del passato della storia della salvezza, quest’avvenire dovrà essere costruito nell’accoglienza reciproca e nell’apertura agli altri. L’altro è il fratello nella fede, con cui l’ascolto della Parola fa nascere legami necessari e profondi, condizione di interpretazione autentica della stessa rivelazione di Dio: l’“auditus Verbi” si compie “in Ecclesia” e “cum Ecclesia”! L’altro, però, è anche il cristiano di un’altra confessione, il credente di un’altra religione, e in generale l’altro che bussa alla porta delle nostre convivenze umane. La vocazione di un popolo aperto all’universale disegno di Dio non potrà non misurarsi sull’accoglienza dell’altro: chiudersi in se stessi è tentazione e malattia che tutti dobbiamo evitare. Senza accoglienza dell’altro non c’è storia di salvezza né potrà esserci alcun processo di autentica riconciliazione fra popoli e culture. Maria che, abitata dal Verbo, si fa presenza amorosa a Elisabetta ci mostra come l’accoglienza dell’altro sia il segno di autenticità di qualunque cammino che nasca dall’ascolto della Parola di Dio. La vocazione di una teologia dalla Scrittura non potrà mai prescindere dalla responsabilità verso gli altri. L’“auditus Verbi” è sempre “propter nos homines et nostram salutem”!
Infine, la storia della salvezza ci chiama a essere responsabili in rapporto all’avvenire della terra: la responsabilità verso la giustizia e la pace e quella di natura ecologica sono componenti indispensabili dei nostri cammini di custodi del giardino, chiamati a essere tali dalla Parola dell’inizio e da quella del compimento (cf. Gen 2,15 e Gv 18,20). Il rispetto della natura e l’impegno per la giustizia sono espressione della riverenza dovuta al Dio vivente, che con la Sua Parola si è fatto partner dell’alleanza che costruisce nel tempo la storia della salvezza: il
Magnificat di Maria è il canto della vittoria pasquale estesa a tutto l’uomo in ogni uomo, ma anche all’intera creazione di Dio. Una teologia dalla Scrittura canta il Magnificat se non si sottrae alla sua responsabilità verso la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato. L’“auditus Verbi in Ecclesia et cum Ecclesia” è sempre “pro mundi vita”! Davanti all’urgenza di questi cammini, la teologia dalla Scrittura presente nella genealogia di Matteo ci aiuta a riporre tutta la nostra fiducia nel Dio vivente, che attraverso la Sua Parola e il nostro ascolto credente scrive con noi la storia della salvezza. Vorrei allora terminare con una preghiera rivolta a Colei che è totalmente creatura della Parola, la Madre del Verbo incarnato:
Maria, Vergine dell’ascolto,
silenzio in cui la Parola è venuta ad abitare fra noi,
a Te ci affidiamo, perché alla Tua scuola e col Tuo aiuto
diveniamo silenzio e ascolto nella fedeltà delle opere e dei giorni,
e come Te siamo deserto fiorito, tenda dell’incontro,
santuario irradiante della Parola della vita.
Con Te, Madre del Bell’Amore,
vorremmo dire il nostro sì alla Parola dell’avvento,
per essere come Te Arca dell’Alleanza,
e portare a quanti incontreremo la gioia della presenza dell’Amato.
A Te, Sposa delle nozze eterne,
che canti le meraviglie compiute dallo Sposo
nell’umiltà della Tua storia e della nostra,
affidiamo i pensieri, le parole e le opere di ogni nostro giorno,
perché nella fedeltà al dono dell’Amore
siano tutti pensieri di pace, cantico di lode,
parole di speranza, opere di giustizia e carità dolcissima.
Vergine, Madre e Sposa,
intercedi per noi adesso e nell’ora della nostra morte,
perché veniamo a cantare con Te e tutti i Santi,
insieme a chi ci fu affidato nella fede,
il cantico nuovo dell’Agnello nella Gerusalemme celeste,
splendente della bellezza del giorno che non muore.
Amen. Alleluia!

Libertà religiosa

La libertà religiosa continua ad essere ampiamente violata nel mondo: la denuncia di mons. Celestino Migliore, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, intervenuto all’Assemblea generale dell’Onu, in corso nel Palazzo di Vetro a New York.
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A dispetto di quanto “ripetutamente proclamato dalla comunità internazionale e specificato negli strumenti legislativi internazionali, così come nella Costituzione di molti Stati”, il diritto alla libertà religiosa “continua oggi ad essere ampiamente violato”, si è rammaricato l’arcivescovo Migliore. Non c’è religione sul Pianeta “che sia libera da discriminazione”. Atti d’intolleranza religiosa, sono “perpetratri in molte forme” e innumerevoli sono i casi portati all’attenzione delle Corti e degli organismi che si occupano di diritti umani. E se l’intolleranza religiosa aumenta nel mondo, i cristiani sono il gruppo religioso maggiormente colpito – ha riferito il rappresentante vaticano - tanto che sarebbero più di 200 milioni le persone, di diverse confessioni cristiane, che subiscono discriminazioni sul piano legale e culturale.

Ha ricordato l’arcivescovo Migliore, i ripetuti attacchi registrati nei mesi scorsi in alcuni Paesi asiatici e del Medio Oriente contro le comunità cristiane, che hanno provocato morti e feriti, e visto bruciare chiese e case. Azioni “commesse – ha spiegato il presule – da estremisti “in risposta ad accuse contro individui ritenuti - secondo le leggi antiblasfemia - in qualche modo irrispettosi del credo altrui”. E, in questo contesto la Santa Sede accoglie con favore “la promessa del governo del Pakistan di rivedere ed emendare tali leggi”, che troppo facilmente danno opportunità agli estremisti di perseguitare chi liberamente sceglie di seguire una diversa tradizione di fede. Leggi che hanno favorito “ingiustizia, violenza settaria e violenza tra religioni”. I Governi – ha chiesto l’osservatore vaticano - devono abrogare queste “leggi che servono come strumenti di abuso.” Così anche “gli Stati dovrebbero astenersi dall’adottare restrizioni alla libertà d’espressione”, che hanno spesso condotto le autorità a tacitare “le voci dissidenti, specie quelle di individui appartenenti a minoranze etniche e religiose”. Al contrario “l’autentica libertà d’espressione può contribuire ad un più grande rispetto per tutti i popoli, così anche dare l’opportunità di denunciare violazioni come intolleranza religiosa o razzismo e promuovere eguale dignità di tutte le persone”. “Per questa ragione è imperativo – ha concluso il presule – che i popoli di varie fedi religiose lavorino insieme per crescere nella mutua comprensione”. E, qui ci vuole “un autentico cambiamento delle menti e dei cuori”.

Commento:

Esistono oggi dietro la parata ufficiale (a volte in buona fede) del rispetto e della libertà, manifestazioni subdole di discriminazione, ancora più pericolose perché non immediatamente visibili. Il moderno "Erode" agisce in questi tempi su un campo inter-confessionale ed inter-religioso, utilizza conoscenze scientifiche all'avanguardia, come ad esempio la genetica, ed opera in tutti i campi dell'agire umano, con un occhio speciale agli ambienti della sanità e dell'istruzione. Della serie: se ci sono dei probabili futuri, autentici santi, facciamoli fuori da piccoli! Oppure se proprio non possiamo farli fuori, trasformiamoli in poveri mentecatti o mutilatini, allora il mondo futuro sarà senz'altro migliore! Nessuno voce si leverà più contro la prepotenza e l'ingiustizia, nessuna forma di "buonismo" turberà più quelle coscienze che conservano ancora un barlume di umana sensibilità e di empatia, nessuno sguardo pulito metterà in crisi la nostra perfida condotta. Sì allora il mondo sarà senz'altro migliore!

martedì 27 ottobre 2009

L'io è molto di più delle sue pulsioni

"Nell’affettività né censure né paure",

articolo tratto da "Paulus".
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Troppo spesso i media si occupano, in modo non sempre corretto e opportuno, dell’affettività del sacerdote, dipingendola perlopiù come necessariamente frustrata (o deviata), senza mai però il coraggio di un’indagine scientificamente seria e antropologicamente fondata. In realtà, la sfera affettiva è la più delicata e complessa per ogni essere umano e, probabilmente, anche quella nella quale il peccato delle origini, con la sua concupiscenza di agostiniana memoria, ha reso più complesso utilizzare un linguaggio, come quello affettivo, di per sé splendido ed eloquente. L’esperienza umana risulta essere particolarmente generosa nell’evidenza che non v’è corrispondenza tra la radicale domanda umana di pienezza e totalità, e l’esperienza possibile di essa. Anche nel caso di assenza di particolari problematiche in ordine alla relazione psico-affettiva, l’io si ritrova costantemente di fronte all’esperienza del proprio limite e della non commensurabilità tra la propria domanda di felicità e la realizzabile risposta. Tale sproporzione può essere risolta in differenti modi: può diventare frustrazione generativa di disagio, può essere censurata e divenire comunque origine di disorientamento, o può essere accolta come una dimensione irrinunciabile dell’uomo, perché legata alla sua struttura naturale. In quest’ultimo caso la sproporzione è occasione di domanda su di sé, sull’altro e sulla realtà.

Integrità della persona

Il realismo a cui la frequentazione di Cristo e della Chiesa ci ha abituati impone di riconoscere come il cammino verso l’integrità – maturità, compiutezza, equilibrio – dell’uomo sia un percorso fatto di tappe, non necessariamente in ordine crescente e, comunque, dipendente da fondamentali facoltà quali l’intelligenza, la volontà e la libertà; e nondimeno anche dalle differenti circostanze socioculturali in cui la persona si trova a vivere. L’integrità è dunque sempre una conquista e un cammino da rinnovare ogni giorno, facendo leva sul meglio di se stessi e guardando a chi in questo cammino ha compiuto passi che possono essere ripercorsi con profitto. Tale consapevolezza non ci lascia sgomenti di fronte alla frequente esperienza dell’«uomo in frantumi», secondo un’espressione di Lewis, esperienza che non di rado si presenta in tutta la sua drammaticità e che non trova facilmente spazi di ascolto, confronto, comprensione in un ambito socioculturale fondato prevalentemente su un’idea astratta di uomo, ma che censura l’uomo reale, imperfetto e limitato. Tra gli uomini, nella fatica dell’equilibrio affettivo, c’è anche il sacerdote che – fedele alle promesse battesimali e sacerdotali – è impegnato nell’imitazione di Colui nel cui nome è stato battezzato e in persona del quale agisce. La virtù della castità è intimamente legata a quella della temperanza, che mira a far condurre dalla ragione le passioni e gli appetiti della sensibilità umana (cfr. CCC n. 2341). Il sacerdote avrà cura di trovare tutti i mezzi necessari per giungere alla pratica della virtù della castità, in particolare: la conoscenza di sé, l’obbedienza ai comandamenti divini, l’esercizio delle virtù morali e la fedeltà alla preghiera come luogo primario di custodia del proprio io. Nel proprio rapporto con Dio, il sacerdote rimane stabilmente ancorato alla certezza che la castità rimane un dono di grazia (cfr. CCC n. 2345), frutto dello Spirito Santo: è lo Spirito Santo che dona di imitare la purezza di Cristo, Signore e Maestro. Esiste dunque uno spazio tra la volontà del singolo e la realizzazione di essa: è lo spazio dell’azione divina che ciascuno di noi è chiamato a riconoscere con semplicità di cuore.

Integralità del dono

C’è un’evidenza primaria con cui ogni uomo è chiamato a misurarsi: l’esistenza del proprio io. Contemporaneamente ciascuno sperimenta come tale esistenza non sia dipesa dalla propria personale volontà, ma abbia origine al di fuori di sé. Qualunque tipo di risposta si possa dare a questa duplice evidenza, resta inoppugnabile il fatto che l’uomo si scopra come dono che ha in altro (o Altro) la propria origine. La memoria di essere la “conseguenza” di un atto gratuito, sostiene considerevolmente la libertà umana nel tentativo vero, anche se talora impacciato, di evitare di impossessarsi di sé e dell’altro. Siamo consapevoli che l’oggettività di tale gratuità è esistenzialmente sperimentabile solo a determinate condizioni di rapporti parentali educativi psico-affettivi, nei quali la persona abbia l’esplicita testimonianza (che diviene certezza) di essere voluta, amata e sostenuta. Tuttavia le condizioni perché una verità diventi ragionevolmente sperimentabile per il soggetto, dipendono appunto dall’esperienza e non dalla verità stessa. In altre parole, la fatica nello sperimentare all’origine della propria esistenza una gratuità donata, non postula necessariamente l’inesistenza di tale gratuità, ma ne indica solo la laboriosità del riconoscimento. L’uomo, capace di guardare se stesso e gli altri in questa maniera, si scopre carico di stupore per la grandezza di ciò che egli è e di ciò che gli altri sono. Tale stupore lo colloca in un atteggiamento di profondo rispetto della propria persona e degli altri, che esige uno spazio di contemplazione.

Ragionevolezza della castità

Allora risulta evidente come la castità non sia un’esperienza avulsa dalla comune esperienza dell’uomo, ma sia il nome autentico di quello spazio di libertà e rispetto indispensabile tra gli individui. Non è “anormale” non creare corrispondenza univoca tra le proprie pulsioni e il proprio comportamento, dunque non è “anormale” vivere la castità. Non misconosciamo talune correnti di pensiero che sostengono l’inevitabile frustrazione nascente dall’impossibilità di soddisfare tutte le pulsioni umane, né misconosciamo la parzialità della loro idea di uomo: non è secondo ragione ridurre la persona a un fascio di pulsioni, per di più di ordine psicosessuale. Ci pare di poter affermare che l’io sia molto di più delle sue pulsioni e che l’eventuale non corrispondenza tra i propri desideri e ciò che è dato di vivere non possa essere ridotta alla sfera psicosessuale, ma sia un elemento inevitabile e dunque costitutivo dell’esperienza umana. Il cristianesimo chiama questa non corrispondenza piena “limite” o “peccato”, evidenziando la strutturale fragilità della condizione umana e contemporaneamente tracciando percorsi di reale e appagante riscatto che chiama misericordia. Per chi ha incontrato Cristo e ha scoperto la propria esistenza amata e salvata da un Dio che si è fatto uomo, la castità non è un frustrante obbligo morale, ma piuttosto la gioiosa risposta a una vocazione di vita piena, realmente umana, in cui i rapporti tra le persone sono riverbero, pallido ma autentico, dell’unico rapporto con il Mistero.

Salvatore Vitello

Commento:

Purtroppo talvolta è diventato difficile per le persone consacrate vivere con naturalezza la propria dimensione affettiva. C'è una atmosfera di caccia alle streghe e di totale sfiducia in questo tipo di discorsi, diciamolo francamente, pochi ci credono... Se ne parli risatine e battutacce, o, il che è peggio, riferimenti a tristi casi di cronaca! Le persone coniugate, si dice, sono più equilibrate, serene, ed ecco che se apparentemente c'è libertà di scelta in questa materia, nella realtà chi ha ricevuto il dono e la vocazione di appartenere solo al Signore rischia di subire una sorta di "castrazione chimica spirituale". Chi ha scelto questa via e la vive autenticamente è come un "vulcano" d'amore disinteressato, che non butta il suo calore solo in una direzione (i propri cari) e poi se ne rimane anche agli altri, ma riversa il suo affetto e le sue attenzioni a 360 gradi, e non solo, a volte (è il caso delle claustrali, o dei contemplativi in generale)anche a persone che non vedranno mai nella loro vita! Diventano il cuore non solo della Chiesa, ma del mondo, e, come diceva in una felice immagine il Santo Padre Benedetto XVI, sono come un parco verde all'interno di una città.

domenica 25 ottobre 2009

XXX Domenica


Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 10,46-52.

E giunsero a Gerico. E mentre partiva da Gerico insieme ai discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Costui, al sentire che c'era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Allora Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». E chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama!». Egli, gettato via il mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che vuoi che io ti faccia?». E il cieco a lui: «Rabbunì, che io riabbia la vista!». E Gesù gli disse: «Và, la tua fede ti ha salvato». E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada.



Meditazione del giorno:

Giovanni Taulero (circa 1300-1361)
Omelia 10

« Subito l'uomo riacquistò la vista e prese a seguirlo per la strada »


« Io sono la luce del mondo » (Gv 8,12). E' da questa luce che ricevono la propria luminosità tutte le luci delle terra: quelle materiali come il sole, la luna, le stelle e i sensi corporei dell'uomo, e anche quella spirituale, l'intelligenza dell'uomo, per cui tutte le creature rifluiscono alla loro origine. E se non vi rifluiscono, esse sono vere e proprie tenebre, di fronte a questa vera luce essenziale, che è la luce di tutto il mondo.

Ora, il nostro amato Signore dice: « Abbandona la tua luce, che è in verità tenebra a confronto con la mia luce, e mi è contraria; poiché io sono la vera luce, voglio darti, al posto delle tue tenebre, la mia luce eterna, affinché essa ti appartenga come appartiene a me, e tu abbia, quanto me, il mio essere, la mia vita, la mia felicità e la mia gioia ».

Qual è dunque la via più breve per giungere alla vera luce? Rinunciare veramente a se stesso, amare e non avere in vista null'altro se non Dio solo..., non cercare in nessun modo i propri interessi, ma desiderare e ricercare soltanto l'onore e la gloria di Dio, attendere tutto in ogni istante da Dio, e riferire immediatamente a Dio tutte le cose, da qualunque parte esse provengano, e a lui riportarle senza alcun rigiro e mediazione, in modo che vi sia un completo e immediato flusso e riflusso: questa è la vera e retta via.

venerdì 23 ottobre 2009

Taser 2

Taser : attention risque de crise cardiaque:
le fabricant de ce pistolet électrique qui équipe des brigades de police reconnaît sa dangerosité.

DDMLe Taser, arme conçue pour neutraliser un suspect à l'aide d'une décharge électrique, comporterait un risque cardiaque « minime ». C'est ce qu'a reconnu pour la première fois le fabricant américain de ces pistolets dans un « guide de visée du Taser », publié mi-octobre à l'intention de ses usagers.

La société Taser International conseille désormais aux policiers de ne pas viser le thorax, mais plutôt l'abdomen. L'entreprise relève néanmoins que les accidents cardio-vasculaires sont de toute façon une des premières causes de décès aux États-Unis, et que « ce genre de décès arrive aussi sur un cours de golf ».

Cette arme serait utilisée par 2000 policiers et 2600 gendarmes en France. Elle est présentée comme une alternative, moins dangereuse, aux armes à feu. « On ne peut pas aller contre la modernité, si on a une arme moins léthale, il faut l'utiliser », analyse l'un de ses partisans.

Olivier Besancenot avait été assigné en diffamation en 2008 pour avoir affirmé que le Taser avait provoqué des décès aux États-Unis. Il critiquait, hier, le « cynisme » du fabriquant. Le leader du NPA a une nouvelle fois dénoncé la « dangerosité de ce pistolet ».

Jean-Michel Baylet, président du Parti radical de gauche, a également réagi hier, demandant au ministre de l'Intérieur Brice Hortefeux d'« ordonner une évaluation indépendante de la dangerosité » du Taser.

Selon Amnesty international, entre 2001 et décembre 2008, 351 personnes ont trouvé la mort après avoir subi une décharge de Taser.

LADEPECHE.FR

Come avevo già commentato in un altro post, è opportuno che questo tipo di arma, come pure quelle dello stesso genere, ma meno evidenti, siano usate davvero per provata necessità e non in modo subdolo e a scopo discriminatorio. Eventualmente ciò possa essere accaduto le persone colpite hanno diritto ad un risarcimento danni
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Intervento della Santa Sede alla 35ª sessione della Conferenza generale dell'Unesco: “La cultura si trova là dove gli uomini si preoccupano della verità e la cercano”.

(ZENIT.org).Intervento pronunciato il 10 ottobre a Parigi da monsignor Francesco Follo, Osservatore permanente della Santa Sede presso l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura (Unesco), sul tema “La cultura si trova là dove gli uomini si preoccupano della verità e la cercano”, nell'ambito del dibattito di politica generale della 35ª sessione della Conferenza generale dell'Unesco.

* * *

Signor Presidente della Conferenza Generale,

Signor Direttore Generale,

Eccellenze,

È per me un grande onore prendere la parola davanti a questa prestigiosa Assemblea e presentarle le felicitazioni più vive di Sua Santità Papa Benedetto xvi per la sua elezione.

Desidero altresì esprimere i ringraziamenti e l'apprezzamento della Santa Sede per i lavori della Segreteria dell'Unesco. I documenti elaborati, soprattutto i 35 C/3, C/5 e C/6, hanno richiamato la sua attenzione. Essi mostrano le realizzazioni e le sfide principali che l'Unesco deve esaminare nell'esercizio di ognuna delle sue cinque funzioni. Pongono inoltre l'accento sullo sviluppo sostenibile, come sottolineano, per esempio, alcuni temi delle Conferenze sull'educazione, al fine di cercare di dare una risposta alla gravità della crisi finanziaria, economica e sociale che il nostro mondo sta vivendo. La preoccupazione di rispondere alle domande relative alla gestione del pianeta, vale a dire della «città», si estende anche al governo degli oceani.

A tale proposito, nella sua ultima enciclica Caritas in veritate, il Santo Padre insiste sull'importanza dei valori morali che devono sottendere un'analisi della globalizzazione. Egli ritiene che «la globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in modo sussidiario e poliarchico, sia per non ledere la libertà sia per risultare concretamente efficace» (n. 57).

Permettetemi dunque di sottoporvi una riflessione sui principi fondamentali che sostengono tutto il progetto dell'Unesco. Se ne possono individuare tre: la verità, la cultura e la «città». Una simile riflessione può essere utile per tutte le iniziative di cui l'Unesco è promotrice o parte attiva.

Quale relazione hanno fra di loro queste tre dimensioni, ossia la verità, la cultura e la «città»? La cultura serve da termine intermedio, da legame fra la verità e la «città». Da un lato essa permette agli uomini di vivere insieme e cementa questo stesso «vivere insieme». In effetti, non c'è comunità umana senza cultura, né cultura senza comunità umana, ossia senza «città». D'altro canto, le culture meriterebbero solo l'attenzione degli etnologi se non fossero portatrici di quelli che vengono chiamati «valori» o, per meglio dire, verità. Si tratta di fatto di verità sull'uomo, sull'insieme degli uomini, e dunque sulla «città».

«La complessità e la gravità dell'attuale situazione economica» ha scritto Benedetto xvi nella stessa enciclica, «giustamente ci preoccupa, ma dobbiamo assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui ci chiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore» (n. 21).

È importante prendere coscienza del fatto che l'economia è al servizio dell'uomo. L'uomo è un cittadino e la «città» è il luogo in cui gli uomini discutono della verità, il luogo in cui a volte la trovano, il luogo in cui spesso viene insegnata loro. Per favorire questo dibattito è necessaria la stabilità economica, ma la cultura — quella che i greci chiamavano paideia, dunque l'accesso dell'uomo alla sua piena umanità — non è un lusso riservato solo alle economie prospere. L'economia deve servire l'uomo e la cultura. E uno dei nobili obiettivi dell'Unesco è di proclamare e di promuovere ciò.

La cultura si trova dunque là dove gli uomini si preoccupano della verità e la cercano. È possibile ricordarne due forme. La prima sembra evidente: è quella dell'insegnamento, o dell'educazione, che la «città» deve prodigare a quanti la costituiscono. La «città» non può riposare su approssimazioni o su errori collettivi. Se vuole essere educatrice, deve necessariamente trattare i cittadini come uomini, come persone ragionevoli e rispettabili. La seconda forma che deve suscitare l'interesse della «città» per la verità è l'apertura della mente, che è una forma dell'umiltà poiché accetta, attraverso la sua disponibilità, la ricchezza dell'altro e delle altre culture.

La Chiesa, da parte sua, si è interessata molto rapidamente e in maniera particolare allo sviluppo delle scienze. La teologia medievale aveva individuato il terreno che dovevano occupare le scienze. La prima accademia scientifica ad essere fondata è stata la Pontificia Accademia delle Scienze. È stata creata nel 1603. Fra «scienza» e «umanità» non può essere scavato un fossato, ma indubbiamente lo è stato. Noi parliamo correntemente e troppo spesso della cultura in generale e della cultura scientifica in particoalre come di due realtà separate o indifferenti l'una all'altra, anzi persino opposte. Converrebbe dunque colmare poco a poco questo fossato.

La «città» è una realtà naturale e spetta a essa emanare culture. Queste ultime tuttavia meritano di essere chiamate così solo quando accettano di essere ispirate dal rispetto dell'uomo e fondate su di esso.

Cos'è l'uomo? È una domanda vasta e complessa con la quale ogni cultura veramente umana deve confrontarsi e alla quale deve rispondere. La risposta a tale domanda sarà degna di nota solo se supererà le barriere culturali senza ignorarle. La risposta vera non può che trovarsi nell'uomo, nella sua verità. Questa verità, sempre da riscoprire, è una realtà possibile. Per esempio, noi siamo esseri umani poiché abbiamo avuto il diritto di nascere. Questa realtà genera di per sé altri diritti. Evitiamo dunque di parlare di questi diritti senza avere coscienza e senza fare riferimento al fatto che sono radicati nel profondo rispetto per l'uomo totale, dal suo concepimento fino alla sua morte naturali. Una cultura non si può dire nobile se non in funzione della sua attitudine a cogliere l'uomo nella sua verità e a riconoscergli i diritti legati alla verità del suo essere. Senza dimenticare che, come dice Papa Benedetto xvi, «l'uomo va sempre al di là di quello che di lui si vede o si percepisce attraverso l'esperienza. Trascurare l'interrogativo sull'essere dell'uomo porta inevitabilmente a rifiutare di ricercare la verità obiettiva sull'essere nella sua integrità e, in tal modo, a non essere più capaci di riconoscere il fondamento sul quale riposa la dignità dell'uomo, di ogni uomo» (Discorso ai partecipanti al convegno inter-accademico promosso dalla Académie des Sciences di Parigi e dalla Pontificia Accademia delle Scienze, Sala dei Papi, 28 gennaio 2008).

Cerchiamo dunque di non rinchiudere ogni cultura in se stessa, come se avessimo a che fare con un'entità autonoma e autosufficiente. Se la nostra istituzione, l'Unesco, ha un senso, è proprio quello di mostrare non solo che gli uomini istruiti possono conversare insieme — cosa che noi sicuramente facciamo —, ma anche e soprattutto di far comprendere che una cultura vive sempre in interazione con altre culture, e che «la» cultura è un evento più che un fatto stabilito e acquisito.

Siamo consapevoli che le grandi culture non solo hanno un valore universale, ma che dialogano anche fra loro nei diversi ambiti in cui s'incontrano e si completano. Le culture si ravvivano, poco a poco, quando accettano una interpenetrazione reciproca basata sul rispetto l'una dell'altra, e soprattutto sul rispetto dell'uomo che è padrone e soggetto della cultura. Andando oltre, è possibile dire che l'inter-culturalità esiste già, ma ha anche un dovere da realizzare maggiormente. L'interculturalità è autentica solo se permette al futuro di essere fedele al passato, in ciò che esso ha di meglio, per cercare di costruire un futuro positivo per l'uomo e per la «città».

L'Unesco potrà, forse, puntare maggiormente sul suo ruolo di agenzia «pensante» all'interno del sistema delle Nazioni Unite e rafforzare così i mezzi e gli strumenti che ha per essere un vero «laboratorio d'idee», aperto al contributo di tutti. In tal senso, è necessario riconoscere, anzi persino riscoprire, l'utilità e la necessità della riflessione filosofica, purtroppo considerata troppo spesso come la più inutile delle discipline poiché è la più libera dagli interessi particolari e di parte. È invece una disciplina utile e indispensabile perché è particolarmente al servizio dell'uomo, e dunque del bene dell'umanità intera, della «città». Promuovendo tutto ciò che contribuisce ad accrescere la dignità dell'uomo, della sua mente e della sua intelligenza, l'Unesco sarà fedele alla sua vocazione e alla sua alta missione.

Grazie per la vostra attenzione!

[Traduzione del testo in francese a cura de “L'Osservatore Romano”]

giovedì 22 ottobre 2009

L'identità del presbitero

L'identità del sacerdote deve essere meditata nell'ambito della divina volontà di salvezza, perché frutto dell'azione sacramentale dello Spirito Santo, partecipazione dell'azione salvifica di Cristo e perché orientata pienamente al servizio di tale azione nella Chiesa, nel suo continuo sviluppo lungo la storia. Si tratta di una identità tridimensionale, pneumatologica, cristologica ed ecclesiologica. Non bisogna perdere di vista questa architettura teologica primordiale del mistero del sacerdote, chiamato ad essere ministro della salvezza, per poter chiarire poi, in modo adeguato, il significato del suo ministero pastorale concreto in parrocchia. Egli è il servo di Cristo per essere a partire da lui, per lui e con lui, servo degli uomini. Il suo essere ontologicamente assimilato a Cristo costituisce il fondamento dell'essere ordinato per il servizio della comunità. La totale appartenenza a Cristo, così convenientemente potenziata ed evidenziata dal sacro celibato, fa sì che il sacerdote sia al servizio di tutti. Il dono mirabile del celibato, infatti riceve luce e motivazione dall'assimilazione alla donazione nuziale del Figlio di Dio crocifisso e risorto all'umanità redenta e rinnovata. L'essere e l'agire del sacerdote, la sua persona consacrata e il suo ministero, sono realtà teologicamente inseparabili ed hanno come finalità il servizio allo sviluppo della missione nella della Chiesa: la salvezza eterna di tutti gli uomini. Nel mistero della Chiesa, rivelata come Corpo mistico di Cristo e Popolo di Dio che cammina nella storia, stabilita come sacramento universale di salvezza, si trova e si scopre la ragione profonda del sacerdozio ministeriale.

Tratto da: Congregazione per il clero, Il presbitero, pastore e guida della comunità parrocchiale, 2002, Lev.

Atto di Amore del Santo Curato d'Ars

Vi amo mio Dio, e il mio solo desiderio è di amarVi fino all'ultimo sospiro della mia vita.
Vi amo o Dio infinitamente amabile e preferisco morire amandovi che vivere un solo istante senza amarVi.
Vi amo, o mio Dio, e non desidero il cielo che per avere la gioia di amarVi perfettamente.
Vi amo o mio Dio e temo l'inferno perché non vi sarà mai la dolce consolazione di amarVi.
O mio Dio, se la lingua mia non può dire in ogni momento che Vi amo, voglio almeno che il mio cuore ve lo ripeta ad ogni respiro.
Fatemi la grazie di soffrire amandoVi, di amarVi soffrendo, e di spirare un giorno amandoVi e sentendo che Vi amo.
E più mi avvicino alla mia fine, più Vi scongiuro d'accrescere il mio amore e di perfezionarlo.

Un cavallo di Troia

lunedì 19 ottobre 2009

El entramado biblico del castillo interior

Los dos simbolismos màs notables por su referencia evangélica y porque aparecen en el primer capìtulos son los de la presencia de Dios y de su Reino en nosotros. Las dos alusiones son certeras: es como el tesoro escondido y la perla preciosa del Evangelio, que hay que comprar vendiéndolo todo, porque Dios lo exige todo (Mt 13, 44-45; V, 1,2).
[...] Vuelve de nuevo el tema de la esposa y el ingreso en la interior bodega, segùn el Cantar de los Cantares (Ct 2,4 y 3,2; V 1,12; 2,8.12).
Aquì habrìa que colocar el sugestivo simbolismo del sello que deja marcada la imagen en la cera blanda, tan importante en la teologìa de los Padres, y aplicado a la perfecciòn de la imagen y semeyanza de Dios en el hombre en su dinamismo hacia la perfection. Teresa lo recuerda en Moradas V, 2,12, y es un tema de resonancias paulinas en San Pablo y su teologìa bautismal (2 Cor 1,22; ef 1,13; Ap 7,3;9,4).

En Moradas V, 4,3 la Santa introduce el simbolismo global bìblico del matrimonio espiritual de amplias resonancias en toda la revelaciòn del Antiguo y del Nuevo Testamento. Por ùltimo hay que recordar la graciosa alusiòn teresiana al amor proprio que es como un gusano que recome por dentro las virtudes, como "el que rojò la yedra a Jonàs" y que de repente se secò por el gusanillo roedor que Dios mandò (Jon 4,6-7; V 3,6).

Llegamos a la sextas moradas que marcan el momento de la fuerte experiencia mìstica del encuentro, de las visiones, revelaciones,heridas de amor, éxtasis.
Aquì los simbolismo son globales, especialmente en su referencia a Dios, en una serie impresionante de simbolismos bìblicos que entrecruzan las pàginas de la Biblia. Dios es como un Sol(VI, 3.5.16) y especìficamente como un Sol de justizia. El es lluz, sol y diamante, fuego devorador; Dios es como fuego que consume y renueva. El es sobre todo en estas moradas el Esposo en la fase del desponsorio espiritual, en la preparaciòn de la esposa para el matrimonio espiritual.
Completa esta visiòn, como hemos notado ya anteriormente, toda la serie de tipologìas alusivas a las teofanìas de Dios o sus milagros y manifestaciones en el Antiguo Testamento: la escala de Jacob, la zarza ardiente, el paso del Mar Rojo, el paso del Jordan; los fruto de la tierra prometida.
Las experiencia del amor tiene el encanto de las referencias bìblicas a las heridas de amor del Cantar de los Cantares o de Pablo que presenta sus heridas a los Gàlatas (Ct 4,9; Gal 6,17; VI, 1,1; 2,2.4;11,2).
Y cmo efecto de la renovaciòn interior, la Santa alude al Ave Fénix que renace de sus cenisaz, sìmbolo dela resurrecciòn que encontramos no el la literatura bìblica però sì en la literatura llamada subapostòlica, en la Carta de Clemente Romano a los Corintios n.25.

En las séptimas moradas se adensa el misterio, prevalece la dificultad de expresar de manera adecuada la experiencia de Dios, se intensifica el recurso a los simbolismos teresianos tienen una referencia genereral en textos y conceptos de la Escritura, aunque no de todos ellos la Santa dé una cabal referencia.
Por ejemplo, la realidad de Dios para la persona a quien se le abre la morada celestial (VII, 1, 2.3.4.5; 2 1-6) tiene referencias al matrimonio espiritual, el agua viva, a los symbolos del sol y de la luz. La Santa habla de "los pechos de Dios", que es el seno del Padre (V. 38,17). Se entra entra en la morada de Dios (VII, 1,3.5.5.6) y en la habitaciòn del Rey (VII, 3,11).
La primera experiencia del mistero trinitario està envuelta, como en la teofanìa del Sinaì, en una nube y en el fuego (Ex 24,16-18; VII. 1,6). En otros momentos se experimenta la soledad en Dios en el mas absoluto silencio, condiciòn para las màs suaves comunicaciones divinas (Os 2,14; VII, 3,11).
La experiencia del encuentro de Dios Trinidad con la persona se reviste de reminiscencias bìblicas muy curiosas, aquì sì recordas por la persona se reviste de reminiscencias bìblicas muy curiosas, aquì sì recordadas por la Santa con su referencia al texto sagrado: el silencio que reinaba mientras se contruìa el templo de Jerusalén (1 Re, 6-7; VII, 3,11). Tenemos la acumulaciòn de symbolos ya citados (VII 3,13) para indicar la comuniòn con Dìos: la delicia del beso de la Esposa (Ct 1,1) la imagen de la cierva herida y sedienta (Sal 41,2), el tabernàculo de Dios (Ap 21,3) la paloma con el signo de la paz (Gen 8, 8-9). Y mas adelante el sìmbolo del vino sabroso de la interior bodega (VII, 4,11).
La imagen del Crucificado y la configuraciòn a Cristo que hace al cristiano participe de la vruz gloriosa del Senor (VII, 4,8) pueden aludir, aunque la Santa no lo expresa cabalmente, al cristiano que sellado con el sello de la cruz, como propriedad de Cristo ha recibido su sello o "sfraggìs" del que hablan Pablo y el Apocalipsis (2 Cor 1,22; Ef 1,13; Ap 7,3 y 9,12).

sabato 17 ottobre 2009

Messaggio per la festa di Diwali - Nuovo libro Card.Kasper

MESSAGGIO DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER IL DIALOGO INTERRELIGIOSO AGLI INDÙ IN OCCASIONE DELLA FESTA DI DIWALI 2009

La festa di Diwali è celebrata da tutti gli indù ed è conosciuta come Deepavali ossia "fila di lampade ad olio". Simbolicamente fondata su un’antica mitologia, essa rappresenta la vittoria della verità sulla menzogna, della luce sulle tenebre, della vita sulla morte, del bene sul male. La celebrazione vera e propria dura tre giorni segnando l’inizio di un nuovo anno, la riconciliazione familiare, specialmente tra fratelli e sorelle, e l’adorazione a Dio.

Quest’anno la festa sarà celebrata da molti indù il 17 ottobre.Per l’occasione il Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-religioso ha inviato agli indù il messaggio sul tema: "Indù e Cristiani: impegnati per lo sviluppo umano integrale". Questo il testo del Messaggio, a firma del Presidente del Pontificio Consiglio, Em.mo Card. Jean-Louis Tauran, e del Segretario, S.E. Mons. Pier Luigi Celata:

"Indù e cristiani: impegnati per lo sviluppo umano integrale"

Cari amici indù,
1. È per me una gioia presentarvi ancora una volta, a nome del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, l’augurio di un felice Deepavali! Le feste religiose ci offrono l’opportunità di ravvivare il nostro rapporto con Dio e tra noi. Mentre eleviamo le nostre menti ed i nostri cuori verso Dio, la Luce Suprema, questa festa delle luci possa rafforzare l’amicizia fra di noi e donare a tutti la benedizione della gioia e della pace.

2. Facendo onore alla tradizione di questo Pontificio Consiglio di condividere una riflessione su un argomento di comune interesse, vorrei proporre quest’anno alla nostra considerazione la necessità di lavorare insieme per lo sviluppo umano integrale.

3. Lo sviluppo umano integrale comporta un progresso nella direzione del vero bene di ciascun individuo, comunità e società, in ogni dimensione della vita umana: sociale, economica, politica, intellettuale, emozionale, spirituale e religiosa. Il Papa Paolo VI l’ha descritto come: "lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini" (Populorum Progressio, 1967, n. 42) "da condizioni meno umane a condizioni più umane" (ibid., n. 20). Ed il Papa Benedetto XVI ha scritto recentemente che: "lo sviluppo umano integrale suppone la libertà responsabile della persona e dei popoli" (Caritas in veritate, n. 17).

4. Tale autentico sviluppo umano si può raggiungere solo attraverso l’assunzione di una responsabilità condivisa gli uni per gli altri ed impegnandosi seriamente in azioni di collaborazione. Ciò scaturisce dalla nostra stessa natura di esseri umani e dalla nostra appartenenza all’unica famiglia umana.

5. Nel processo dello sviluppo integrale, la protezione della vita umana ed il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali della persona, sono responsabilità di ciascuno, sia individualmente che collettivamente.

6. Il rispetto per gli altri implica, dunque, il riconoscimento della loro libertà: libertà di coscienza, di pensiero e di religione. Quando le persone si sentono rispettate nelle loro scelte di fondo come esseri religiosi, solo allora esse sono in grado di incontrare gli altri e di cooperare per il progresso dell’umanità. Ciò forma un ordine sociale più pacifico che contribuisce allo sviluppo.

7. Lo sviluppo umano integrale richiede anche la volontà politica di lavorare per garantire una maggiore protezione dei diritti umani ed una coesistenza pacifica. Sviluppo, libertà e pace sono indissolubilmente legati e si completano reciprocamente. Una pace duratura e relazioni armoniose emergono in un’atmosfera di libertà; allo stesso modo, lo sviluppo umano integrale si realizza in un ambiente pacifico.

Tutti insieme, come persone di buona volontà, uniamoci per dissipare ogni tenebra che nasconde una vera visione di coesistenza, l’armonia religiosa e lo sviluppo integrale per ogni singola persona. Possa essere il Deepavali un’occasione per celebrare la nostra amicizia e proclamare fermamente la vittoria del bene sul male, della luce sulle tenebre e per lavorare insieme al fine di conseguire un’era di vera libertà ‘per tutti’ e di un integrale sviluppo umano ‘di tutti’. Ancora una volta, vi porgo i migliori auguri per uno splendido e gioioso Deepavali.

Jean-Louis Cardinal Tauran
Presidente
Arcivescovo Pier Luigi Celata

***

PRESENTAZIONE VOLUME ECUMENISMO CARDINALE KASPER
 
 Il Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, ha presentato presso la Sala Stampa della Santa Sede, il volume "Harvesting the fruits. Basic aspects of Christian Faith  in Ecumenical Dialogue. Ecumenical Consensus Convergences and Differences" (Raccolta dei frutti. Aspetti fondamentali della fede cristiana nel dialogo ecumenico. Consensi, convergenze e differenze)", edito dalla Editrice "Continuum" di Londra.
 
  "Il libro" - ha detto il Cardinale - "è il frutto di due anni  di lavoro intenso che ho intrapreso insieme agli Officiali del Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani (PCPUC), ed in collaborazione con i nostri Consultori ed i nostri  partner ecumenici" ed analizza "le principali comunità protestanti che sono state le prime ad allacciare con noi un dialogo dopo il Concilio" e traccia un bilancio di questo incontro "guardando sia al passato che al futuro".
 
  Nel corso della presentazione il Cardinale Kasper ha annunciato la celebrazione  di "un Simposio nel febbraio 2010", dove tenendo come testo di base il volume, "si discuterà del futuro dell'ecumenismo occidentale".

venerdì 16 ottobre 2009

Los simbolismos bìblicos

El Castillo interior es un libro simbòlico. Lo es en su sìmbolo estructural, con sus mchos significados y referencias, lo es en los otros simbolismos que estructuran las diversas moradas, como el simbolismo da las dos fuentes en las IV moradas, el del gusano de seda en las dos fuentes en las IV moradas, el de gusano de seda en las V moradas, el matrimonio espiritual con sus tres etapas (venir a vistas, desponsorio espiritual y matrimonio espiritual) en las ùltimas moradas. El esquema de sìmbolos que ofrecemos a continuaciòn nos ayuda todavìa a percibir otras simbologìas menores, con sus connotaciones bìblicas, que van trenzando las exposiciòn del itinerario interior de las moradas.
En la primeras moradas la Santa plantea desde su visiòn mìstica de las séptimas moradas la antìtesis entre la gracia y el pecado. Son simbolismos de la gracia (I, 1,1; 2,1) la visiòn luminosa della persona como morada de Dios (Jn 14,23) piedra preciosa y jaspe cristalino (Ap 21,11), paraìso de Dios (Prov. 8,1) fuente clara (Ap 22,1, àrbol de vida (Ap 22,2; Sal 1,1), la ciudad y morada santa, trasparente como el cristal (Ap 21,21). Sin embargo la persona en pecado la describe con esos simbolismos fundamentales que abundan en la Biblia: un cuerpo paralìtico, tiniebla y oscuridad. Dios a su vez, que mora dentro del alma es como fuente de luz (Ap 22,5; I, 2,1-3) manatial de agua viva (I, 2-1-3) sol (I 2, 1-3). El demonio se transfigura en àngel de luz (2 Cor 11,14; I, 2,15). Un simbolismo que repite en otras ocasiones (V, 1,1; V 1,5).
En las segundas moradas no abundan los simbolismos, pero se revelan algunas pinceladas importantes de caràcter pedagògico, concentrado en el tema de la lucha y de la perseverancia [...] semejantes imàgenes podemos encontrar en el moment de la prueba que es caracterìstico de las terceras moradas: la vida de la gracia es como casa que hay que guardaar (Mt 24,43;III 1,2).
En la quarta moradas [...] he aquì un breve panorama de sìmbolos con sus posibles reminisciencias bìblicas: la oraciòn de la quarta moradas como manantial y surtidor interior de agua viva o como brasero de fuego en el que se echan perfumes olorosos. La figura del nino amantados a los pechos de su madre (sal 131,2; Is 66,10-14a; IV 3,10) el silbo del Rey Pastor (Sal 22; Zac, 10,8; Ez 34,13-14; IV 2,6). Tambien ilustra la interiorizatiòn del l'alma que se retira a su interior como el movimiento del erizo o de la tortuga (IV, 3,3).
Las quintas moradas se caracterizan por los simbolismos de la uniòn y de la trasformaciòn de la persona. (Continua)

giovedì 15 ottobre 2009

Dios es comunicaciòn

Dios es comunicaciòn. La palabra tiene amplias resonancias en la experiencia teresiana. Indica en ella la amistad y el trato que tenìa con las personas. Nos ofrece la clave para comprender lo que es Dios que se comunica con el hombre; y lo que es el hombre con quien Dios establece amistad y comunicaciòn. El concepto bìblico de "koinonia", propio del lenguaje Hechos, enunciado por Pablo y recogido en la 1.a Carta de Juan 1,3, forma parte del vocabulario mìstico teresiano. Pero con la esa flexiòn linguìstica que le confiere realismo humano, el de la misma experiencia humana y divina de Teresa: comunicar, comunicarse. Como los otros conceptos, también éste està enunciado al principio del libro de las Moradas y repetido en los momentos culminantes:"ver que es posible en este destierro comunicarse un tan gran Dios con unos gusanos tan llenos de mal oror" (I, 1,3).
En las pàginas cimeras de las VI y VII moradas repite el concepto: "Alabemos mucho (al Senor) ... de que se quiera asì comunicar con una criatura"(VI, 8,1;9,18;10,1). "Mienras màs supièramos que se comunica Dios con las criaturas, màs alabaremos su grandeza" (VII, 1,1); "Dios tiene particular cuidado de comunicarse con nosostros..." (VII,3,9). El libro de las Moradas cubre la informaciòn de esta aventura de comunicaciòn de Dios con la persona humana; desde aquélla, casi imperceptible, que se tiene cuando el hombre vive en pecado, hasta la que puede gozarse allì donde Dios se hace don total al hombre hasta comunicarse trasformando en sì la criatura, a la altura de las VII moradas. Esta es la gran dignidad del hombre que Teresa enuncia con palabras certeras al principio del libro: "El hombre puede tener su conversaciòn no menos que con Dios" (I, 1-6; Fil 3,20).

(continua)

mercoledì 14 ottobre 2009

El entramado biblico del castillo interior

Teresa se sitùa asì dentro de la interpretaciòn y de la experiencia de la Escritura en la Iglesia, bajo la acciòn del Espìritu Santo, que hace crecer el conocimiento de las reallidades y de la palabras transmitidas con la profunda experiencia espiritual de los misterios, como enssena la Dei Verbum n.8.
El estudio sistemàtico de la presencia de la Palabra de Dios en el Castillo interior se puede hacer en torno a cinco temas principales:
1. Los tres conceptos bìblicos fundamentales: imagen y semejanza, presencia, comunicaciòn.
2. La serie de tipologìas bìblicas presentes en cada una de las moradas.
3. Los simbolismos bìblicos de cada morada.
4. Algunos textos bìblicos màs importantes, con su exègesis teresiana.
5. Las màximas bìblicas.

Pero a estas pistas axiales que constituyen el entramado doctrinal del libro, hay que anadir esas curiosidades teresianos, en su modo de abordar y citar el texto bìblico y los textos teresianos, en la medida que se puede intentar una lectura de las diversas moradas con una referencia a la Palabra de Dios.

Jesus Castellano Cervera, (publicado en Revista de Espiritualidad n. 222-223 1997, 119-142)

(continua)

lunedì 12 ottobre 2009

San Paolo soffrì persecuzioni e conobbe la propria debolezza mentre
predicava la fede nel Risuscitato. In cambio, non volle nient’altro che la
misericordia di Cristo. Come si dice in quest’articolo, l’amore di Dio, lo
Spirito Santo, è il dono che riceve chi, come l’Apostolo, si identifica
con Gesù.

La Città Eterna, la Roma di Pietro e di Paolo, bagnata dal sangue dei
martiri, centro da cui sono partiti per propagare nel mondo intero la
parola salvifica di Cristo [1], si può considerare veramente privilegiata,
perché è stata "tantorum principum purpurata pretioso sanguine", bagnata
dal sangue dei Principi degli Apostoli [2].

Durante questo periodo si commemorano i duemila anni dalla nascita
dell’Apostolo delle Genti. Per collocare correttamente questa data gli
studiosi della cronologia Paolina tengono in conto il dato storico che
offrono i suoi scritti: nella lettera ai Galati afferma che, dopo la sua
conversione, s’incontrò con Pietro a Gerusalemme, tre anni dopo la sua
fuga da Damasco [3], dove il re dei nabatei, Areta IV, esercitava un
certo potere [4]. Ciò permette di datare la fuga verso l’anno 37 e la sua
conversione verso il 34-35.

D’altra parte, negli Atti degli Apostoli, nella narrazione del martirio di
Stefano si definisce Saulo come “giovane”, poco prima della sua vocazione
[5]. Benché questo sia un dato generico, permette in modo approssimato di
situare la sua nascita verso l’anno 8.

L’Anno Paolino vuole promuovere una riflessione più profonda sull’eredità
teologica e spirituale che San Paolo ha lasciato alla Chiesa, con la sua
vasta opera di evangelizzazione. Come segni esterni che ci invitano a
meditare la fede e la verità sotto la guida dell’Apostolo, il Papa ha
acceso la “Fiamma Paolina”, in un braciere collocato nel portico della
Basilica di San Paolo e ha aperto anche nello stesso tempio, la “Porta
Paolina”, che ha attraversato il 28 giugno, accompagnato dal Patriarca di
Costantinopoli.

L’APOSTOLO DELLE GENTI

Chi era Paolo di Tarso? Nacque nella capitale della provincia romana di
Cilicia, oggi Turchia. Quando fu catturato alle porte del tempio di
Gerusalemme, si diresse con queste parole alla moltitudine che voleva
ucciderlo: io sono giudeo, nato a Tarso di Cilicia, educato in questa
città e istruito ai piedi di Gamaliele secondo l’osservanza della legge
dei padri [6].

Alla fine della sua esistenza, in una visione retrospettiva della sua vita
e della sua missione, dirà di se stesso: sono stato costituito messaggero,
apostolo e maestro [7]. Allo stesso tempo la sua figura si apre al
futuro, a tutti i popoli e generazioni, perché Paolo non è solo un
personaggio del passato: il suo messaggio e la sua vita sono sempre
attuali, poiché contengono l’essenza del messaggio cristiano, perenne e
attuale.

Paolo è stato nominato il tredicesimo Apostolo perché, anche se non
formava parte del gruppo dei Dodici, fu chiamato da Gesù risuscitato, che
gli apparve sulla strada di Damasco [8]. Inoltre, considerando quanto ha
lavorato per Cristo, non ha nulla per cui invidiare gli altri. Sono Ebrei?
Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! Sono
ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più d loro: molto
di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più
nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho
ricevuto i quaranta colpi meno uno, tre volte sono stato battuto con le
verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho
trascorso un giorno e una notte in balia delle onde. Viaggi innumerevoli,
pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali,
pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli
sul mare, pericoli da parte di falsi, fratelli, disagi e fatiche, veglie
senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità [9].

Come si vede non gli mancarono difficoltà né tribolazioni, che sopportò
per amore di Cristo. Tuttavia, tutto lo sforzo e tutti gli eventi per cui
passò, non lo portarono alla vanagloria. Paolo capì a fondo e sperimentò
nella sua persona quello che insegnava anche san Josemaría: «che la nostra
logica umana non serve per spiegare le realtà della grazia. Dio ama
scegliere strumenti deboli perché appaia con maggiore evidenza che l’opera
è sua. San Paolo ricorda con trepidazione la sua vocazione: ultimo fra
tutti apparve anche a me, come a un aborto. Io infatti sono il più piccolo
tra gli apostoli e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo,
perché ho perseguitato la Chiesa di Dio (1 Cor 15, 8-9)» [10]. «Come non
ammirare un uomo così? – dice Benedetto XVI –. Come non ringraziare il
Signore per averci dato un Apostolo di questa statura?» [11].

Tra i diversi aspetti che costituiscono l’insegnamento teologico di San
Paolo, si deve segnalare innanzitutto, la figura di Gesù Cristo.
Certamente nelle sue lettere non appaiono i dati storici di Gesù di
Nazaret, come ce li presentano i Vangeli. L’interesse per i numerosi
aspetti della vita terrena di Gesù passa in un secondo piano: viene
sottolineato specialmente il mistero della passione e morte sulla Croce.
Allo stesso tempo, si nota che Paolo non fu testimone del passaggio
terreno di Gesù, ma che lo conosce mediante la tradizione apostolica che
lo precede, cui si riferisce esplicitamente: a voi infatti ho trasmesso,
anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto [12].



Allo stesso modo, si possono scoprire nell’epistolario paolino inni,
professioni ed enunciati di fede, e affermazioni dottrinali che
probabilmente si usavano nella liturgia, nella catechesi o nella
predicazione della Chiesa primitiva. Gesù Cristo costituisce il centro e
il fondamento del suo annuncio e della sua predicazione: nei suoi scritti
il nome di Cristo appare 380 volte, superato solo dal nome di Dio,
menzionato 500 volte. Questo ci fa capire che Gesù Cristo incise
profondamente nella sua vita: in Cristo troviamo il culmine della storia
della Salvezza.

L’INCONTRO CON CRISTO

Osservando San Paolo ci possiamo domandare come si realizza l’incontro
personale con Cristo e quale rapporto nasce tra Lui e il credente. La
risposta di Paolo si riassume in due momenti. Da una parte si pone
l'accento sul valore assolutamente fondante e insostituibile della fede
[13]. Così scrive ai Romani: l’uomo è giustificato per la fede
indipendentemente dalle opere della Legge [14]; l’idea appare più
esplicita nella lettera ai Galati: l’uomo non è giustificato per le opere
della Legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo [15]. Ossia,
si entra in comunione con Dio esclusivamente per opera della grazia; Egli
ci viene incontro e ci accoglie con la sua misericordia, perdonando i
nostri peccati e permettendoci di stabilire un rapporto d’amore con Lui e
con i nostri fratelli [16].

In questa dottrina della giustificazione, Paolo riflette il processo della
sua stessa vocazione. Egli era uno stretto osservante della legge mosaica,
che compiva fin nei più piccoli particolari. Ma questo lo portò a sentirsi
sicuro di se stesso e a cercare la salvezza solo con le sue forze. E in
questa situazione si scopre peccatore, poiché perseguita la Chiesa del
Figlio di Dio. La coscienza del peccato sarà allora il punto di partenza
per abbandonarsi alla grazia di Dio che ci viene data in Gesù Cristo.

Qui comincia il secondo momento, l’incontro con il Signore stesso. La
donazione infinita di Cristo sulla Croce costituisce l’invito più forte a
uscire dal proprio io, a non riempirsi di vanagloria, mettendo allo stesso
tempo ogni fiducia nella morte salvatrice e nella risurrezione del Signore:
chi si vanta, si vanti nel Signore [17]. Questa conversione spirituale
comporta, pertanto, di non cercare se stesso, ma di rivestirsi di Cristo e
donarsi con Cristo, per partecipare così personalmente alla vita di Cristo
fino a immergersi in Lui e a condividere sia la sua morte che la sua vita.
Così dice l’Apostolo mediante l’immagine del Battesimo: O non sapete che
quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella
sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme con
lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo
della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita
nuova [18].

Paolo – e con lui ogni cristiano – contempla il Figlio di Dio non solo
come Colui che morì per amore nostro, ottenendoci la salvezza per i nostri
peccati – dilexit me et tradidit semetipsum pro me, mi amò e ha dato se
stesso per me –, ma anche come Colui che si fa presente nella sua vita:
vivo autem iam non ego, vivit vero in me Christus, non vivo più io, ma
Cristo vive in me [19]. Al fondatore dell’Opus Dei piaceva ripetere
queste parole dell’Apostolo, perché vedeva in Gesù Cristo morto e risorto
la ragion d’essere di tutta la vita del cristiano e della sua missione.

VIVERE NELLO SPIRITO

Identificarsi con Cristo significa vivere nello Spirito. San Luca
sottolinea nel suo secondo libro il ruolo dinamico e operativo dello
Spirito Santo; commenta San Josemaría: «quasi non c’è pagina degli Atti
degli Apostoli in cui non si parli di Lui e dell’azione con cui Egli
informa, dirige e vivifica la vita e le opere della comunità cristiana
primitiva. E’Lui che ispira la predicazione di San Pietro (cfr At 4, 8),
che conferma nella fede tutti i discepoli (cfr At 4, 31), che sigilla con
la sua presenza la vocazione dei gentili (cfr At 10, 44-47), che manda
Saulo e Barnaba in terre lontane per aprire strade nuove all’insegnamento
di Gesù (cfr At 13, 2-4). La sua presenza e il suo intervento, insomma,
presiedono ogni cosa» [20].

Nei suoi scritti San Paolo mette in rilievo la presenza della Terza
Persona della Santissima Trinità nella vita del cristiano. Lo Spirito
abita nei nostri cuori [21]; è stato inviato da Dio perché ricevessimo
l’adozione a figli e potessimo esclamare: Abbà, Padre! [22]. Lasciarsi
condurre dalla Spirito, che ci dà la vita in Cristo Gesù, libera dalla
legge del peccato e della morte; fa sì che si manifestino nella vita dei
credenti le opere – i frutti – dello Spirito Santo: amore, gioia, pace,
magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro
queste cose non c’è legge. Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso
la carne con le sue passioni e i suoi desideri. Perciò se viviamo dello
Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito [23].

L’Apostolo ci dice che l’orazione autentica esiste solo quando è presente
lo Spirito: così anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza:
non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito
stesso intercede con gemiti inesprimibili [24]. Con parole di Benedetto
XVI, lo Spirito Santo « ormai come l'anima della nostra anima, la parte
più segreta del nostro essere, da dove sale incessantemente verso Dio un
moto di preghiera, di cui non possiamo nemmeno precisare i termini »
[25]. Paolo ci invita a essere sempre più sensibili, a essere più attenti
alla presenza dello Spirito in noi e a imparare a trasformarla in
orazione.

Il primo dei frutti dello Spirito Santo nell’anima del cristiano è
l’amore. Infatti, l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato [26]. Se, per definizione,
l’amore unisce, lo Spirito è colui che genera la comunione nella Chiesa: è
la forza di coesione che mantiene uniti i fedeli al Padre per Cristo, e
attrae coloro che ancora non godono della piena comunione. Lo Spirito
Santo guida la Chiesa verso l’unità.

VERSO L’UNITÀ

Questo è un altro aspetto, tra i molti che tratta l’Apostolo nelle sue
lettere, che vale la pena considerare all’inizio di questo Anno Paolino:
l’unità dei cristiani. È motivo di consolazione, e di stimolo per chiedere
insistentemente al Signore questa grazia – tanto grande quanto difficile da
raggiungere –, che il Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, seguendo le orme
del Vicario di Cristo, abbia pure convocato per la Chiesa Ortodossa un
Anno Paolino.

«San Paolo ci ricorda che la piena comunione tra tutti i cristiani trova
il suo fondamento in un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo»
[27]. Dobbiamo pregare «perché la fede comune, l’unico battesimo per il
perdono dei peccati e l’obbedienza all’unico Signore e Salvatore si
manifestino pienamente nella dimensione comunitaria ed ecclesiale» [28].

San Paolo ci mostra il cammino più efficace verso l’unità, con alcune
parole che pure proponeva il Concilio Ecumenico Vaticano II nel suo
decreto sull’ecumenismo. Io dunque, prigioniero a motivo del Signore, vi
esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto,
con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda
nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo
del vincolo della pace [29].

L’Apostolo si è impegnato sempre a conservare questa immensa grazia
dell’unità. Invita i cristiani di Corinto, fin dall’inizio della prima
lettera a evitare le divisioni tra di loro [30]. Le sue esortazioni e i
suoi richiami possono servirci anche oggi. Davanti all’umanità del terzo
millennio, sempre più globalizzata, e, paradossalmente, più divisa,
frammentata dalla «cultura edonista e relativistica, che pone in dubbio
l’esistenza stessa della verità» [31], l’orazione del Signore – ut omnes
unum sint , perché tutti siano una sola cosa [32] – è per noi la migliore
promessa di unione con Dio e di unità tra gli uomini.

Don Bernardo Estrada, Professore Ordinario di Nuovo Testamento, Pontificia
Università della Santa Croce







1. Omelia “Lealtà alla Chiesa”, 4-VI-1972.



2. Cfr. Inno dei Primi Vespri della Solennità di San Pietro e San Paolo.



3. Cfr. Gal 1, 15-18.



4. Cfr. 2 Cor 11, 32.



5. Cfr. At 7, 58.



6. At 22, 3.



7. 2 Tm 1, 11.



8. Cfr. 1 Cor 15, 8.



9. 2 Cor 11, 22-27.



10. E’ Gesù che passa, n. 3.



11. Benedetto XVI, Udienza generale, 25-X-2006.



12. 1 Cor 15, 3; cfr. 11, 23ss.



13. Cfr. Benedetto XVI, Udienza generale, 8-XI-2006.



14. Rm 3, 28.



15. Gal 2, 16.



16. Cfr. Rm 3, 24.



17. 1 Cor 1, 31.



18. Rm 6, 3s.



19. Gal 2, 20.



20. E’ Gesù che passa, n. 127.



21. Cfr. Rm 8, 9.



22. Gal 4, 6.

Auguri Presidente


Caro Presidente,
questo prestigioso riconoscimento sarà per lei anche una spinta ed un incoraggiamento a continuare ad agire come questi nostri tempi difficili richiedono: guidare con spirito di servizio, dare buoni esempi di semplicità e di umiltà, ma anche di fermezza, certo il Signore sa sempre quello che fa se ha voluto chiamarla in questo preciso momento a questo ruolo di grande responsabilità...possa essere sempre come sta già facendo, esempio di una libertà che non è "libertinismo", di una cura per la propria forma che non è ossessione, di una attenzione verso i paesi tecnologicamente più svantaggiati che è sì "imperialismo", ma "imperialismo" dell'amore, non del profitto e della prepotenza, nel rispetto delle minoranze e con un occhio particolarmente attento alle tante nuove (e antiche) forme di discriminazioni che intossicano l'atmosfera del nostro pianeta. La pace vera sia nel suo cuore e in quello delle persone a lei care, così che possiate trasmetterla a tutti coloro che incontrerà nella sua missione,
Buon Lavoro Presidente!

***

Dear President,
this prestigious acknowledgment will be for she also a push and an encouragement to continue to act like these our difficult times demands: to guide with service spirit, to give to bonds humility and semplicità examples, but also of firmness, certainly the Gentleman knows always what ago if he has intentional to call it in this precise moment to this role of great responsibility… he can be always as he is already making, example of a freedom that is not libertinismo, of a cure for own form that is not obsession, of an attention towards the countries technologically more "svantaggiati" that he is yes " imperialismo" , but " imperialismo" of "love", not of the profit and the overbearingness, in the respect of the minorities and with a particularly careful eye to the many new (and ancient) forms of discriminations that "intossicano" l' atmosphere of our planet. The true peace is in its heart and that one of the persons to she beloveds, thus that can transmit it to those who will meet in its mission,
Good Job President!

***