mercoledì 31 dicembre 2014

Auguri

Il mio augurio per l'anno nuovo, è che arrivi tanta speranza per chi l'ha perduta, tanto amore a chi non ci crede più, sicurezza in tutti i campi affettivi e professionali e ciò sia di buon auspicio per tutti. Auguri affettuosi. 

sabato 27 dicembre 2014

Il ruolo dei comunicatori (Papa Francesco)

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI DIRIGENTI, DIPENDENTI E OPERATORI DELLA TELEVISIONE TV 2000

Aula Paolo VI Lunedì, 15 dicembre 2014

Cari fratelli e sorelle, Vi do il benvenuto e vi ringrazio per la vostra calorosa accoglienza. Ringrazio il Presidente della Fondazione “Comunicazione e cultura” e il Direttore per i saluti che mi hanno rivolto. E saluto anche Lucio, che è all'ospedale. Voi lavorate per la Televisione della Chiesa italiana e proprio per questo siete chiamati a vivere con maggiore responsabilità il vostro servizio. A questo riguardo, vorrei condividere con voi tre pensieri che mi stanno particolarmente a cuore intorno al ruolo del comunicatore.
1. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale: cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell’economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici – è il “tatticismo” – il nostro parlare sarà artefatto, e poco comunicativo, insipido, un parlare “da laboratorio”. E questo non comunica niente. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ogni parola ha dentro di sé una scintilla di fuoco, di vita. Risvegliare quella scintilla, perché venga fuori. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore.

II. La comunicazione evita sia di “riempire” che di “chiudere”. Si “riempie” quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si “chiude” quando, invece di percorrere la via lunga della comprensione, si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale, è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. Aprire e non chiudere: ecco il secondo compito del comunicatore, che sarà tanto più fecondo quanto più si lascerà condurre dall'azione dello Spirito Santo, il solo capace di costruire unità e armonia.

III. Parlare alla persona tutta intera: ecco il terzo compito del comunicatore. Evitando quelli che, come ho già detto, sono i peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Questi tre sono i peccati dei media. La disinformazione, in particolare, spinge a dire la metà delle cose, e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di “colpire”: l’alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone intere: alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l’immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso. Di questi tre peccati – la disinformazione, la calunnia e la
diffamazione – la calunnia sembra sia il più grave, ma nella comunicazione il più grave è la disinformazione, perché ti porta a sbagliare, all'errore; ti porta a credere soltanto una parte della verità. Risvegliare le parole, aprire e non chiudere, parlare a tutta la persona rende concreta quella cultura dell’incontro, oggi così necessaria in un contesto sempre più plurale. Con gli scontri non andiamo da nessuna parte. Fare una cultura dell’incontro. E questo è un bel lavoro per voi. Ciò richiede di essere disposti non soltanto a dare, ma anche a ricevere dagli altri.
So che siete in una fase di ripensamento e riorganizzazione della vostra professionalità al servizio della Chiesa. Ringrazio tanto per il vostro lavoro, ringrazio voi per avere accettato questo lavoro. Vi incoraggio per questo e vi auguro buoni frutti. So anche che avete uno rapporto stabile con il Centro Televisivo Vaticano – per me è molto importante, questo – che vi permette di raccontare all’Italia il magistero e l’attività del Papa. Vi ringrazio per quello che fate con competenza e amore
al Vangelo. E vi ringrazio per lo sforzo di onestà, onestà professionale e onestà morale, che voi
volete fare nel vostro lavoro. E’ una strada di onestà, quella che volete fare.
Vi affido alla protezione della Madonna e di san Gabriele Arcangelo, il grande comunicatore: è stato il comunicatore più importante: ha comunicato la grande notizia! E, mentre vi chiedo di continuare a pregare per me, che ne ho bisogno, vi auguro un santo e felice Natale. E adesso
preghiamo la Madonna perché ci benedica. Ave o Maria, …


martedì 11 novembre 2014

Letture d'autunno

Erasmo da Rotterdam " Sulla pace", Lorenzo Barbera Editore, Siena 2005.

"Vengano resi i massimi onori a chi ha contribuito a tener lontano la guerra, a chi ha ristabilito la concordia con la sua intelligenza o il suo discernimento, e, per concludere, a chi si è prodigato senza risparmio non per allestire la massima potenza di schiere armate e di macchine belliche, ma per non doverne abbisognare".

Erasmo, Il lamento della pace

Letture d'autunno

Annick de Souzenelle "La lettera, strada di vita" Il simbolismo delle lettere ebraiche, Servitium editrice, Gorle BG 2003.

È un vero tesoro questa ricerca sul valore simbolico delle lettere dell'alfabeto ebraico, chiave essenziale per una penetrazione spirituale delle Scritture alla luce della fede cristiana. Fonte di numerose ispirazioni... anche pittoriche!

Letture d'autunno

Paolo D'Angelo "Ars est celare artem" da Aristotele a Duchamp, Quodlibet Lavis (TN) 2014.

Per tutti coloro che producono arte, discorsi, libri, film. Lezione di estetica magistrale...dall'antichità ai nostri giorni.

mercoledì 15 ottobre 2014

Teresa d'Avila, Ritorno all'essenziale

Riflessioni sul documento
"Ritorno all'essenziale"

 "Vi abbiamo scritto questo brevemente, stabilendo così per voi una formula secondo cui dovete vivere. Se qualcuno dovesse fare di più, il Signore stesso al suo ritorno lo ripagherà; ma usi discernimento, che è moderatore delle virtù". ("Epilogus" tratto dalla Regola primitiva dei Fratelli e delle Sorelle della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo data da S. Alberto, Patriarca di Gerusalemme) 

 Chi ama veramente Dio ama la semplicità e chi ama la semplicità evidentemente non può non tendere alla essenzialità. La maggior parte delle dispute attuali riguardo alle esortazioni del Concilio Vaticano II in materia di vita religiosa sovente si esauriscono solo alla forma esteriore e spesso nella lunghezza dell'abito o la lunghezza del velo per le donne, o sulle grate più o meno doppie o di legno o di ferro o chissà quant'altro. Se si tratta di uomini invece le dispute sono se e quando o dove indossare l'abito. Ma tale mutamento esteriore non sempre è stata la logica conseguenza di un mutamento interiore, infatti è sempre molto più semplice e veloce accorciare o allungare una gonna o rimuovere una grata che sostituire il cuore di pietra con il famoso cuore di carne per usare una espressione biblica arcinota. Sono certa che un discorso che viene intitolato "ritorno all'essenziale" voglia escludere che ci si perda in dettagli.Il titolo completo di questo documento è "ritorno all'essenziale con Teresa di Gesù e Giovanni della Croce per una nuova collocazione del nostro carisma e per delineare la nostra presenza nella Chiesa". Mi pare onesto prima di intraprendere qualsiasi riflessione a riguardo, indagare su quale fosse la "vecchia" collocazione del carisma carmelitano, per poter capire meglio dove e come si innesta questo documento il cui tono somiglia a quello del bambino della nota favola che ad un certo punto nel bel mezzo della parata gridò "papà, ma il re è nudo!" Il documento afferma che "le strutture della vita consacrata elaborate nelle società rurali del Medioevo o nel mondo della rivoluzione industriale degli ultimi secoli non sempre sembrano adatte a esprimere le necessità e i desideri delle donne e degli uomini del nostro tempo. Stiamo assistendo all'esaurirsi di questa figura storica della vita consacrata con la quale si è identificata la sequela Christi.(...) Il suo linguaggio esistenziale o non è comprensibile oppure dice poco al mondo di oggi. (...) Per questo la soluzione non è il rifugio nel passato, volendo a tutti costi mantenere gli schemi della vita tradizionale ". 1. Esplorando il "dna" carmelitano: recupero della dimensione profetica L'ispirazione eliano-mariana fa parte delle radici vitali della famiglia carmelitana. Elia, il profeta di Dio vero, potrà essere incontrato e compreso nella fonte genuina che è la Sacra Scrittura. Legata ad essa e alle tradizioni rabbinico-ebraiche si è formata una caratteristica haggadah eliana che attraverso i tempi si è arricchita con l'apporto dei Padri della Chiesa e del monachesimo. Questa haggadah è passata anche ai carmelitani che l'hanno ulteriormente sviluppata. Elia è l'uomo che vive alla presenza del Signore, attento alla sua Parola, è l'uomo del deserto che abbraccia la solitudine come cammino adeguato all'ascolto e all'accoglienza della Parola. È l'uomo che integra nell'unità del proprio essere le dimensioni trascendenti e terrene, unendo contemplazione e amore fraterno. È l'uomo impegnato a difesa della vita del suo popolo nella lotta contro gli idoli al fine di ricondurlo all'incontro con il vero Dio. È l'uomo difensore di quanti sono vittima dell'ingiustizia. È ancora l'uomo che coltiva l'universalità del Regno di Dio, che sa comunicare con tutti gli esseri umani, re e religiosi, ricchi e poveri, uomini e donne, senza favoritismi. La famiglia carmelitana si appropria di una delle più forti espressioni eliane: "Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti". C'è anche un luogo fisico specifico,: il monte Carmelo e la fonte di Elia dove si stabiliscono i primi eremiti, antenati dei carmelitani. Sin dagli inizi appare anche una forte connotazione mariana; i primi fratelli si chiamavano infatti i "Fratelli della Beata Vergine del Monte Carmelo". Abbiamo così delineato la radice topografico-spirituale delle origini dell'Ordine. Il profeta Elia (o "Nabi el Khader" il verdeggiante), ha una singolare caratteristica che raccontata sia da L. Massignon, sia da Edith Stein: è venerato anche nella tradizione ebraica e musulmana. La grotta di Elia accoglie schiere di pellegrini giudei, maomettani e cristiani di ogni confessione. Scriveva Edith Stein dopo essere divenuta Teresa Benedetta della Croce: "Tutto questo si considera una leggenda di poca importanza. Noi che viviamo nel Carmelo e preghiamo il nostro santo padre Elia sappiamo che non è un ombra che scaturisce dall'antichità. Il suo spirito agisce testimoniando in mezzo a noi e determinando la nostra vita". (1) Questo aspetto profetico-interreligioso delle radici carmelitane può rivelarsi estremamente importante oggi in clima di dialogo e rappresenta un elemento unico nel panorama delle grandi famiglie religiose. Che si tratti si un aspetto "genetico" è dimostrato dal fatto che, nel tempo, dopo l'esodo dei Carmelitani dalla Terrasanta in Europa, ha continuato a riemergere. Come è oramai noto Santa Teresa d'Avila era figlia di un "conversos" ebreo e S. Giovanni della Croce studi risulta avere origine moresche da parte di madre. E che dire della stessa Edith Stein? Ebrea convertita in età adulta alla fede cristiana in possesso quindi di un forte spirito "eliano" e anti-idolatrico che la portò per amore della verità ad una morte atroce nei campi di sterminio. Così si esprimeva a riguardo: "Vivere al cospetto del Dio vivente: questa è la nostra professione. Il santo profeta ce lo ha già testimoniato". (2) Anche il Beato carmelitano Tito Brandsma, giornalista, docente universitario, come sappiamo morì nei lager nazisti per lo stesso amore della verità. Teresa di Lisieux morì dicendo: "[...] solo la verità può nutrirmi [...] sì mi pare di aver cercato sempre la verità sola". Di lei è stato scritto: "E' la verità che muove la santa ed esercita su di lei un fascino irresistibile. Si interessa solo al vero della vita". (3) In un processo di "inculturazione" e di riadattamento ai tempi odierni e ai suoi più importanti problemi si può ignorare questo aspetto? C'è una chiara vocazione che assunta con consapevolezza senza facili sincretismi può dare molti frutti anche nei difficili processi di pace in medio-oriente o nelle nostre terre dove la presenza massiccia di immigrati ci porta sempre più al confronto quotidiano con altre etnie. Ritornando al tempo di Elia, il secolo nono avanti Cristo, bisogna ricordare che era tempo di forte crisi religiosa. Il problema era ciò che si chiama sincretismo religioso, cioè l'assimilazione di elementi estranei alla propria religione con la conseguente confusione sia sul piano teologico che su quello pratico-morale. La religione dei Canazei era una religione della natura, Baal era immaginato come un immenso toro che feconda la madre terra rendendola fertile. Le due religioni, quella jahvista e quella di Baal esistevano l'una accanto all'altra. Credevano infatti di avere bisogno di Baal perchè era il Dio che rendeva feconda la loro terra. Sotto l'influsso di Gezabele, Baal divenne il dio che si venerava nella corte e nelle città.. Il Signore stava diventando semplicemente uno dei tanti dei nel pantheon cananeo. Lo jahvismo stava per essere assimilato e annientato dal baalismo. Ecco il contesto in cui si muove il profeta Elia. (4) "Ancorato alla sua fede yahvistica, Elia non esitò ad applicare al Signore le caratteristiche di Baal, tuttavia non lo fece con spirito di sincretismo religioso, ma mostrando che Baal era nulla. Il Signore, lui solo era Dio. Lungi dall'essere un conservatore che voleva tornare alla vita del deserto per fuggire la tentazione del baalismo, Elia non ebbe paura di guardare al futuro. Contro i recabiti, egli accettò le sfide del presente, aperto anche al cambiamento pur di mantenere in vita i valori del passato e tramandarli al futuro. Se Israele avesse seguito la via del cambiamento tracciato da Acab, non sarebbe rimasto Israele, il popolo che il Signore si era scelto per sé e con cui aveva stretto un'alleanza. Se avesse scelto di seguire la via dei recabiti, rimanendo nostalgicamente chiuso nel suo passato, non sarebbe sopravvissuto, come non sopravvissero i recabiti. Elia aveva un'altra soluzione: adattare le vecchie tradizioni alle nuove situazioni, in modo che Israele potesse essere sì una nazione alla pari dei popoli vicini, ma mantenendo intatto il suo carattere distintivo di popolo dell'Alleanza. Qui sta la vera grandezza di Elia e la natura della sua missione. "Senza Mosè la religione yahvistica non sarebbe nata mai. Senza Elia si sarebbe estinta". (5) In questa riflessione è racchiuso un grande messaggio perfettamente applicabile ai nostri tempi. Ma, nonostante la sua grandezza, anche il profeta Elia vive la sua notte oscura. Egli che agiva sempre secondo la parola di Dio, nel cap. 19 del 1 libro dei Re, intraprende il suo viaggio verso il deserto non su comando di Dio ma di propria iniziativa tanto che Dio lo rimprovera per due volte "Che fai qui Elia?" E' l'ora buia del deserto che è pure cara alla tradizione carmelitana. (6) Continuando ancora questa nostra esplorazione "genetica" come non inserire tra gli elementi distintivi della famiglia carmelitana il fatto che l'Ordine non ha un vero "fondatore" o una "fondatrice"? Se è molto ben delineato da allora ai nostri giorni un carisma carmelitano, manchiamo totalmente di figure di riferimento tra i primi fratelli, tanto che la loro "formula di vita" l'hanno ricevuta da una figura esterna, dal patriarca S. Alberto di Gerusalemme, canonico agostiniano, che inevitabilmente risentì dell' influsso della sua regola e forse altrettanto inevitabilmente risentì della regola Basiliana osservata in quelle terra dai monaci orientali. Anche nelle comunità monastiche dell'oriente non vi sono "fondatori" di ordini, vi sono al massimo fondatori di monasteri. Ora i primi eremiti del Carmelo erano latini trapiantati in oriente e stranamente la loro regola riflette questa comunione ecumenica con le chiese d'oriente sin dai primi passi. Occorre dire quanto questo aspetto possa essere di grande attualità? Curiosando ancora nel dna carmelitano, ritroviamo a circa 200 anni dalla nascita un grande cambiamento che non fu facile ma che si rese inevitabile per le persecuzioni musulmane: la fuga in occidente. Nella relazione di P. Camilo Maccise ocd, dagli atti del Convegno sulla Regola tenuto ad Haifa (ottobre 99) ritrovo alcuni elementi che mi sembrano adatti a queste riflessioni. Nel momento in cui questi eremiti sono costretti a spostarsi dal loro ambiente, è evidente per loro l’obbligo di un certo cambiamento. Proviamo ad immaginare: da eremiti in Terrasanta alla vita delle vivaci città medioevali dove si ritrovarono ad operare come gli ordini mendicanti. Forse, se l'ordine carmelitano non avesse operato quella trasformazione richiesta da quella precisa epoca avrebbe potuto estinguersi così come è accaduto a molte altre famiglie religiose. Ma quale era la realtà sociale dell'epoca? Valga un esempio tra tutti quello di Bernardo Tolomei e dei suoi primi compagni fondatori dell'Ordine Benedettino Olivetano. Si narra che ad un certo punto scesero da Monte Oliveto e morirono curando gli appestati di Siena. Anche oggi si riscontrano alcuni gravi scompensi sociali che opportunamente il documento "Ritorno all'essenziale" prende in analisi: secolarizzazione, liberazione, globalizzazione, ecc. ecc. Inoltre, mentre per lungo tempo il volto del cristianesimo aveva un volto europeo, oggi i tre quarti dei cristiani di tutto il mondo vivono nel Terzo Mondo, con tutti le conseguenti problematiche. Se, come il documento "Vita consacrata" ha messo in rilievo, l'essere umano è unito a Dio, aperto agli altri e in comunione con le realtà terrene" la conclusione non potrà che essere l'esortazione che ritrovo nell'ultima pagina del documento e cioè "si dovranno aprire altre nuove presenze che siano più in consonanza con il nostro carisma e con le sfide di oggi, nei diversi contesti socioculturali ed ecclesiali". "Essere più in consonanza" non significa abbracciare solo tutto ciò che è nuovo e buttare via tutto ciò che sa di vecchio. Non tutto ciò che è nuovo è necessariamente buono e non tutto ciò che è vecchio è necessariamente da scartare e, viceversa, non tutto ciò che è nuovo è necessariamente diabolico mentre non è affatto detto che tutto ciò che è tradizione consolidata possa farci riposare tranquilli! Temo che gran parte della confusione che offusca la vita religiosa (non solo quella carmelitana) oggi si nutra di fraintendimenti di questo genere.

 2. La spiritualità carmelitana in chiave di "antropologia monastica" 

 La Regola carmelitana enuncia in origine questo programma specifico: "meditare giorno e notte la legge del Signore e vegliare in preghiera". Solitudine, silenzio, preghiera sono mezzi per giungere all’intimità divina e immergersi nella luce amorosa della contemplazione; la spiritualità carmelitana viene definita la spiritualità dell'unione con Dio o la spiritualità dell’intimità divina. Comunione con Dio per mezzo dell'amore e della contemplazione, non si accontenta di una unione qualsiasi ma tende alla più alta unione che è quella che si attua per mezzo dell'amore. Nonostante le apparenze contrarie, l'ascesi carmelitana è essenzialmente positiva, se altri ordini possono praticare la penitenza come mezzo espiativo e riparativo al Carmelo piccole mortificazioni e piccole penitenze sono cercate perché dispongono l'anima ad una più intima unione con Dio e ad una penetrazione più profonda della Scrittura. Oppure al contrario, si rendono necessarie per una forma di naturale riequilibrio perché vivere l'intimità divina significa anche gustare le cose interiormente o internamente, come spiegava anche S. Ignazio di Loyola, e ciò rende tutto molto più saporito. Edith Stein scrivendo della via di S. Teresa di Gesù Bambino così si esprimeva: "I muri dei nostri monasteri recingono uno spazio ristretto. Colui che vuole edificare la dimora della santità, deve scavare profondamente dentro di sé per innalzarsi: si tratta di scendere profondamente nella notte buia del proprio nulla per essere innalzato verso la luce del sole dell'amore e della misericordia divini.” I santi, anche i più rigorosi nell'ascesi non erano e non sono affatto né masochisti, né squilibrati, piuttosto dei buongustai dotati soprattutto di grande equilibrio, altrimenti sarebbero stati dei folli e non dei santi! Come oramai anche la scienza medica ha dimostrato, la frequentazione assidua della preghiera (e tanto più dell'orazione!) se praticata ad un buon livello influisce beneficamente su tutto il corpo e il suo metabolismo per cui una vita troppo rilassata si rivela deleteria non solo per l'anima ma per lo stesso organismo. Può essere utile a riguardo ricordare che i termini "salute" e "salvezza" hanno la stessa radice etimologica. S. Teresa di Avila ne ha fatto esperienza su di sé, quando il gesuita Padre Pradanos, dopo aver rassicurato la santa sulle sue grazie mistiche, le dette il seguente consiglio per la sua malferma salute: "Senza dubbio, figlia mia, il Signore ti manda tante malattie per austerità che tu non stati praticando. Non avere paura! La tua mortificazione non ti può nuocere”. E infatti, come è noto, con il nuovo modo di vivere la salute di Teresa migliorò. (7) Il nostro corpo è davvero "l'asino che ci porta a Gerusalemme"! E' lo stesso buon senso a dettarci le conclusioni. Un "asino" denutrito, battuto e maltrattato può crollare prima di arrivare alla meta, ma anche un "asino" sovraccarico di cibo e mollezze rischia di smarrirsi strada facendo! Non può più beneficiare per esempio del nutrimento della Parola che non è un'attività solamente intellettuale, ma che sempre deve essere accompagnata da un costante esercizio ascetico. Per capire la Parola non è sufficiente l'attenzione o la lucidità della mente, ma è indispensabile la purificazione dei costumi: la Parola è vita e solo chi la vive può comprenderla. (8) "La Parola deve essere seminata nel cuore (Mt 13,19; Lc 8,12). Ma il cuore deve essere purificato (Mt 5,8; Eb 10,22) e preparato (Lc 8,15) in vista della Parola. Il nostro cuore è infatti ordinariamente indurito e il nostro spirito bloccato (Mc 6,52; 8,17; Gv 12,40; Ef 4,18). E' insensato e tardo a credere (Lc 24,25) ottenebrato (Rm 1,21) facilmente appesantito dai piaceri e dalle preoccupazioni (Lc 21, 34). Pertanto non è capace di gustare il cibo spirituale della Parola di Dio". (9) L'ascesi del nulla non è basata sulla negazione delle risorse umane, ma sulla loro capacità di giungere con l'aiuto della grazia a gustare le dolcezze divine, non è neppure una rinuncia alla gioia, ma la ricerca di una gioia assolutamente pura e costante, la gioia di Dio. Credo che le danze e i canti di S. Teresa di Gesù ma anche quelle di S. Giovanni della Croce, dovevano essere davvero irresistibili, tanto che lo sono ancora oggi! Il nostro corpo dunque ha un compito centrale nel cammino del nostro ritorno al padre, con Gesù nello Spirito. Ogni preghiera, per quanto segreta e intima, si rifletterà sul corpo. La preghiera non può esistere fuori del corpo, né per i principianti, né per gli esperti. Verso la preghiera e la pienezza dell'amore, il corpo è una via di cui non si può fare a meno. Diceva il monaco Antonio che corpo e anima sono come i due versanti della montagna la cui vetta è la preghiera. Tale costante collaborazione tra cuore e corpo, che i testi monastici di ogni epoca ricordano, è la tecnica cristiana della preghiera. Questa suppone un'antropologia particolare che non intende far scomparire il corporale dinanzi allo spirituale, il materiale dinanzi all'immateriale. In questo caso la preghiera eliminerebbe il corpo e con esso l'uomo stesso. Al contrario, nel cammino della grazia e della preghiera, anche il corpo ritorna al suo stato originale. D'ora in poi non è più "corpo di peccato" (Rm 6,6) o "corpo di abbassamento" (Fil 2,8), né segno di opposizione a Dio e agli altri, né campo di una continua battaglia. Da corpo per la morte che era prima, diventa corpo per la vita. (10) Anche il documento "Ritorno all'essenziale" getta nel capitolo V una squarcio di luce su questo aspetto della vita religiosa quando ricorda che mortificazione ed esercizi ascetici per Teresa erano da intendere "in funzione di una elevata vita teologale e del ministero apostolico". A proposito del digiuno di cibo, oggetti, relazioni ecc. ecc. può essere opportuno differenziare le diverse forme ascetiche, infatti spesso si ritiene erroneamente che siano interscambiabili. Non è così. E' sbagliato pensare che il digiuno possa essere sostituito da qualsiasi altra privazione. Con il digiuno impariamo a conoscere e a moderare i nostri appetiti attraverso la moderazione dell'appetito fondamentale e vitale: la fame, e impariamo a disciplinare le nostre relazioni con gli altri, con la realtà esterna e con Dio, relazioni sempre a rischio di veracità. L'oralità è connessa alle dimensioni del "mangiare" del "parlare" del "baciare", dunque alle dimensioni biologiche, comunicative ed affettive dell'uomo. Il digiuno svolge la funzione di farci sapere qual è la nostra fame, di cosa viviamo e di ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è veramente centrale. L'etimologia di "adorare" contiene il rimando ad os-oris, cioè bocca. Ma questo aspetto va a finire anche nel discorso del processo di inculturazione. Infatti la moderna scienza medica continua a ribadire che qualche privazione di cibo ogni tanto non ha mai ucciso nessuno, molti di più ne uccide l'eccesso alimentare. Lo stesso discorso si può fare per il sonno o per il silenzio. Naturalmente non va dimenticato il contesto socio-culturale a cui la comunità appartiene. (In alcune cliniche specializzate americane curano la depressione con la diminuzione delle ore del sonno!) Fare l'esperienza di Dio, sentirsi veramente parte di un tutto presuppone anche una corretta percezione del proprio corpo. "Aprirsi all'azione della Grazia" dubito che possa accadere a dei corpi "rigidi"; essere donne ed essere spose di Cristo significa anche e forse soprattutto, essere capaci di accogliere come donne e cioè "femminilmente" lo Sposo. Ho l'ardire di aggiungere che la "fecondità" di una vocazione singola o di una comunità religiosa femminile, (o maschile) dipende anche da come si vive o da come non si vive la propria sessualità. Una Sposa innamorata persa dello Sposo è quindi frequentemente "gravida". Lo stesso discorso credo valga per gli uomini. La famosa frase di Giovanni Paolo II in apertura del suo Pontificato "Aprite le porte a Cristo" mi sembra che lui l'abbia pronunziata con tutto se stesso anche con il suo vigore di uomo. Essere spiritualmente fecondi è il grande dono che il Signore fa a coloro che veramente lo amano, donandogli una discendenza. Per riprodursi, anche "spiritualmente" occorre una necessaria dose di "calore amoroso" e non basta il "senso del dovere" o di dedizione o altro. Esiste una specie di "frigidità" spirituale forse proprio per le stesse cause per cui esiste quella che determina il calo demografico. Ricordo il sociologo-semiologo francese J. Baudrillard il quale lamentava in una conferenza che l'eros era ormai dappertutto tranne che dove avrebbe dovuto essere, cioè nel talamo di due sposi. Forse allo stesso modo nella vita spirituale si verificano troppe dispersioni e poi quando si è nell'intimità del "talamo" con il Signore ci rimane sempre troppo poco "calore" per poter "concepire" qualcosa. Mi è piaciuto molto trovare nelle lettere di Chiara d'Assisi ad Agnese di Boemia le seguenti esortazioni: "Dandovi a sposo di nobiltà superiore, il Signore Gesù Cristo ... amandolo siete casta, accarezzandolo sarete pura, lasciandovi da lui possedere, sarete vergine. La sua possanza è la più forte, la sua generosità ineguagliabile, il suo aspetto il più seducente, il suo amore il più soave, la sua grazia la più squisita. Siete già stretta nell'amplesso di Lui, che ornò il vostro petto di pietre preziose e fissò ai vostri orecchi perle inestimabili e tutta vi rivestì di gemme trasparenti e brillanti e vi incoronò con una corona d'oro incisa con il marchio della santità". (...)Unisciti alla dolcissima Madre di lui, la quale generò un figlio tale che i cieli non potevano contenere eppure lei lo raccolse nel piccolo chiostro del suo utero santo e lo portò nel suo grembo di fanciulla". (11) Trovo che sia una immagine bellissima anche dal punto di vista letterario ed esprime alla perfezione parte di quanto ho cercato finora di dire con le mie povere parole. Molto meglio lo esprime l'Abate Andrè Louf, riconosciuto maestro di vita spirituale. quando spiega che per natura la preghiera dell'uomo e quella della donna saranno un po' differenti; poiché il sesso imprime un marchio alla preghiera. Questo non deve meravigliarci se ammettiamo che la preghiera è stimolata dalla solitudine sessuale dell'uomo come della donna. Nella sua mascolinità l'uomo è piuttosto l'immagine del Padre che si dona nel Figlio, nella sua preghiera l'uomo si identifica di preferenza con il Cristo e con la Parola di cui è sacerdote e liturgo nel proprio cuore. La donna, al contrario, nella sua femminilità è l'immagine dello Spirito che è fecondo, che accoglie maternamente, che porta il frutto nel suo seno, lo mette al mondo e se ne prende cura. Essa è la purezza che rende pure tutte le cose. E' in sé stessa interiorità e amore che intuisce la verità di ogni cosa, la svela e la comunica. Anche nella preghiera, la donna, totalmente recettiva, si abbandonerà alla Parola, se ne lascerà pervadere, porterà il suo frutto nell'invisibile e trasmetterà la vita. L'uomo sente la preghiera piuttosto come un’opera, un incarico, quasi un mestiere al quale si lega e dove trova la propria identità, la donna invece, nel più intimo del proprio essere, è già essa stessa preghiera. In questa ritrova la propria profonda personalità, la sorgente zampillante del proprio essere. (E' la stessa conclusione a cui arriva Edith Stein, ma forse è ancora più bello che sia un uomo a scrivere questo!) L'uomo e la donna, attraverso il celibato e la preghiera, ritrovano così l'altra loro metà in Dio, quest'altro pannello del dittico tenerezza - forza che costituisce qui in terra una purissima immagine di Dio; finché Dio non sarà tutto in tutti, nell'uomo come nella donna; finché il loro corpo non sarà spirito, senza mai cessare di essere corpo, ma divenuto ormai tempio dello Spirito e casa di preghiera. (12) 

 3. Agire "contemplativamente": la riforma teresiana 

 "La preghiera è vita, non un'oasi nel deserto della vita" (B. Tito Brandsma). Continuando ancora questo viaggio arriviamo al tempo di Teresa di Gesù. Il recupero della regola primitiva le permise di agire "contemplativamente" esattamente dove era necessario in quel preciso momento storico. Teresa diceva che i suoi conventi quando cadevano non dovevano fare nessun rumore! Voleva in origine solo riunire alcune anime generose che vivessero una vita di preghiera e di immolazione per riparare agli sconvolgimenti e ai danni che operavano gli eretici e per soccorrere spiritualmente quanti hanno la funzione di difendere la Chiesa. I fini che si proponeva erano la conversione dei Luterani e degli infedeli e la santificazione dei sacerdoti. E' sbalorditivo come gli scritti di Teresa trasudino amore per la Chiesa di "Sua Maestà" e dire che non era certamente uno dei periodi migliori considerando i problemi che lei stessa dovette subire a causa dell'Inquisizione! Oggi Teresa viene paradossalmente molto ben considerata dagli stessi protestanti, i motivi sono facilmente intuibili. Allo stesso modo se vogliamo paradossale Teresa è stimata anche dai movimenti femministi, il perché è facile intuirlo. È inutile in questo contesto narrare qual era la condizione della donna nella sua epoca… Niente male per una religiosa che impose alle sue figlie il doppio velo! Questo mi fa venire in mente ancora una bella riflessione del Beato Tito Brandsma:"la persona che desidera conquistare il mondo per degli ideali superiori, deve avere il coraggio di sostenere la lotta col mondo. Alla fine il mondo segue la persona che ha coraggio, a dispetto del mondo, di fare ciò che il mondo non osa fare di sua spontaneità". Mi pare si renda necessario incominciare a guardare la storia e la stessa realtà in un modo maturo e degno dei tempi che viviamo senza lenti deformanti né da una parte che dall'altra. Oggi, dopo la firma della Dichiarazione Congiunta che appiana molte delle dispute storiche con i luterani, è chiaro che sarebbe andare contro i tempi voler continuare a sostenere le stesse intenzioni che animavano Teresa. Oppure voler allo stesso modo ripristinare doppie grate e doppi veli o doppi isolamenti, quando è chiaro che la condizione della donna è radicalmente mutata. Ma siamo sicuri che oggi non ci siano nuovi movimenti ereticali altrettanto temibili di quelli dell'epoca di Teresa? Possiamo dire che nessuno attacca la Chiesa, i sacerdoti e i suoi consacrati? Certamente le persecuzioni odierne sono meno evidenti e spettacolari di quelle di un tempo, sono forse più subdole ma chi si sognerebbe di dire che non esistono? Possiamo allo stesso modo affermare che anche la donna consacrata come la donna secolare non stia correndo qualche rischio di smarrimento della propria identità? La spiritualità carmelitana (e non solo perché sono scritti di carattere antropologico!) possiede un potente antidoto a tutti questi rischi, gli scritti di Edith Stein sullo specifico dell' essere femminile, ancora troppo poco divulgati. E' chiaro che la donna oggi può e deve fare di più di quanto poteva un tempo purché in questo non metta troppo sé stessa al centro e dimentichi il resto del mondo. Proprio come le madri di famiglia, quando si ritrovano anche ad essere lavoratrici e rischiano per la carriera di trascurare il loro ruolo di madri e mogli. Anche in questo caso è indispensabile un buon equilibrio, tra la realizzazione della propria vocazione e il sostegno indispensabile per tutta la Chiesa che è la vita contemplativa. Conclusioni: la via della ristrutturazione/riconciliazione Nei grandi momenti di passaggio si è costretti a tornare all'essenziale, ad una onestà analitica e critica priva di illusioni e di paraocchi ideologici. Un esempio utile è quello dello scoppio di un incendio nella propria casa. In questa circostanza non perderò tempo a portare fuori ninnoli e soprammobili ma ciò che è più prezioso e più utile nell'emergenza. Però ogni crisi se viene riconosciuta come tale e non mascherata in altre cose, può essere il vero luogo del ritorno all'essenziale, cioè un tempo veramente propizio. Ci vengono incontro anche le moderne scienze umane. La psicologia dice che il malato senza speranza è il fariseo, quello che dice di essere a posto e di non aver bisogno del medico e ci raccomanda, in caso avessimo subito un evento doloroso, di non rimuovere il fatto ma di rimanere a contatto con la sofferenza. Siamo posti di fronte alla scelta tra ciò che è vitale in noi, ma ancora oscuro, e ciò che è rassicurante, in quanto noto, ma ormai privo di energie, come una familiare maschera di cera. La conversione, vale a dire: l'abbandono di parti di noi che riconosciamo prive di vita, non significa mettere il belletto al nostro vecchio io, ma viverne il terremoto e il tracollo, altrimenti non facciamo altro che dare un'altra imbiancata ai nostri soliti sepolcri. Convertirci significa immergerci nelle nostre zone d'ombra, nei nostri automatismi psichici, nelle nostre paralisi emotive. Una nuova vita o il rinnovamento di una vita può nascere solo da uno stato di abbandono autentico e dalla consapevolezza del proprio star male. Come dice il salmista "Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito, egli salva gli spiriti affranti" (sal34). Il Signore salva solo chi è affranto in quanto la ferita è la crepa nella calotta della nostra psiche egoica. Solo l'uomo affranto è "franto" cioè aperto davvero all'irruzione di ciò che chiamiamo salvezza e che è la ripresa della vita su un piano più dilatato e gioioso della mente e del cuore. Ecco perché sono beati gli afflitti. Essi saranno consolati, saranno inondati da quello spirito di vita che è perfetta gioia e consolazione. Chi, al contrario, si sente sano, non rotto, integro, non può implorare la salvezza con sincerità e non riceverà lo Spirito della nuova vita. Gesù è venuto per i peccatori e non per i giusti: "Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò" (Mt 11,28). (13) Il poeta-filosofo Marco Guzzi usa un'efficace metafora: il peccato è come un errore di trasmissione che corrompe l'emissione di tutto il programma, di tutta la creazione. Ma una nuova antenna è già in funzione ed è la Croce di Cristo. La Croce, innalzata duemila anni fa sulla terra, è l'antenna antropo-cosmica della nuova trasmissione in cui siamo tutti ritrasmessi bene. Questa è la buona novella, la salvezza attesa da secoli. Se noi non ci affidiamo alla nostra nuova nascita, all'esperienza di una radicale ritrasmissione di tutto il nostro essere, non potremo che fare ulteriori disastri, come tutte le schiere degli uomini che pretesero di fondare la giustizia sulla terra senza mutare il centro del proprio essere. Se il nostro sguardo è cieco è vano qualunque sforzo della vista. Se ci troviamo nello stato psichico ottenebrato della carne, tutto ciò che facciamo sarà comunque carnale e quindi falso, anche se pregassimo continueremmo a mentire. Qual è allora il modo di uscirne? Continuando con la stessa metafora: si tratta ogni volta di spegnere il nostro trasmettitore e di connetterci con l'altra regia; per poter entrare in contatto con questa realtà dello Spirito dobbiamo ogni volta abbandonare la nostra illusione egoica, la nostra pesantezza a volte paralizzante. Dobbiamo toglierci le lenti troppo a contatto dei nostri sensi immediati, cioè vincere una reiterata resistenza: lo spirito/legge della nostra gravità. Il pensiero della carne da superare ogni volta non è dunque solo la lussuria, ma l'intero assetto psichico ego-geo-centrato che vede le cose separate ognuna nel suo destino di morte e di annientamento. In tal senso, conclude l'autore che sto citando, si può benissimo rimanere carnali anche da monaci astinenti, in quanto l'egoità, come ogni maestro spirituale ha insegnato, si nutre abilmente dell'autosufficienza propria di tanti uomini religiosi. Tornando al nostro documento “Ritorno all’essenziale”, nel capitolo IV vengono dedicate diverse pagine all'esperienza e alla dottrina di S. Giovanni della Croce. La conclusione è: "servire Dio seguendo le sue orme (di Cristo) di mortificazione per tutto ciò che impedisce la risurrezione interiore dello spirito". Già il monaco eremita Evagrio Pontico insegnava che nell'unità fra Dio e l'intelletto creato regna una pace indicibile, ma che solo degli intelletti nudi si saziano costantemente dell'insaziabilità di questa pace". Sulla stessa onda Simeone il Nuovo Teologo:"Ognuno di noi si priva di beni indicibili in proporzione alle trasgressioni e alle negligenze commesse". (13a) Oggi, se pur volessimo dare adito a chi vorrebbe cancellare Giovanni della Croce dal panorama agiografico (14), è la scienza empirica stessa che ci insegna a diffidare dei nostri sensi e ci dice che l'invisibile, la dimensione energetica della materia, per esempio, è molto più reale del visibile. Allo stesso modo lo sviluppo delle scienze umane conferma molte antiche "tradizioni", come scrive Andrè Louf, la buona psicologia, per esempio, si incastra bene con la buona direzione spirituale e mai la smentisce. Ma non sto dicendo che sono la stessa cosa né che bisogna farne un idolo! Le scienze umane sono un supporto da cui non si può più prescindere, ma un credente deve necessariamente lasciare del posto anche all'azione dello Spirito, della Grazia e dei Sacramenti che lavorano e trasformano anche aspetti negativi di una personalità. (14a) Nell'introduzione del documento di cui stiamo trattando, nel paragrafo intitolato "Tendenze positive" ritrovo un punto molto importante, la constatazione di "una maggiore sensibilità alle esperienze religiose e mistiche come mezzo per un processo di liberazione e di crescita personale". Se, potenzialmente, ogni creatura umana può fare l'esperienza della vicinanza e dell'amore di Dio, sarebbe terribile che ciò venisse precluso proprio a chi ha scelto la vita religiosa e soprattutto quella carmelitana. "Là mi diede il suo petto / la scienza m'insegnò più saporosa / a lui mi donai / nulla per me serbai / e là promisi a lui d'esser sua sposa./ (...) O anime create per queste grandezze / e ad esse chiamate, che cosa fate?/ In che cosa vi intrattenete? / Le vostre aspirazioni sono bassezze / e i vostri beni miserie./ O misera cecità degli occhi / dell'anima vostra / poiché siete ciechi / dinanzi a tanta luce e sordi / dinanzi a così grandi voci, / e non vi accorgete che mentre andate in cerca di grandezza e di gloria / rimanete miseri e vili, / ignari e indegni di tanto bene." (15) Ritrovo anche nelle pagine più contemporanee di "Cristo e la nuova era", la stessa felice constatazione. Scrive l'autore: "le due grandi censure della modernità, quella scientistica e quella ideologica-materialistica che, fino a una ventina d'anni fa facevano della mistica un residuo antropologico per donnette isteriche o, peggio, per reazionari e fascisti, sembrano cadute. Ormai risulta fuori tempo chi si attardi su posizioni rigidamente atee o legate a una razionalità dogmatica di tipo positivistico". (16) Allora un progetto di ristrutturazione porterà inevitabilmente al recupero di quel pozzo senza fondo che è la mistica carmelitana, della "vera" mistica carmelitana, che agisce attivamente nella storia e nella realtà trasformandola dall'interno (17). Cosa c'è di più adatto dell'orazione carmelitana per "ridare respiro eterno alla storia quotidiana dell'uomo"? In un discorso ai vescovi dell'India nel 1979 Giovanni Paolo II aveva detto: "Lo Spirito Santo agisce e muove l'animo dei fedeli per illuminarli con l'intuizione della sua verità, e il loro cuore per infiammarli del suo amore. Il magistero della Chiesa non è contrario a queste percezioni della fede e a questo senso dei fedeli di cui lo Spirito Santo si serve come d'uno strumento e che sostiene con la sua forza". Dall'orazione noi riceviamo sollecitazioni a portare nel mondo "il piccolo tesoro di miele che andiamo raccogliendo lungo la nostra via". Lo Spirito, se da una parte sembra risucchiarci nella sua quiete, dall'altra sembra alimentare un continuo moto di rinvio nel mondo, nella storia, nel magma dei nostri giorni mortali per sanarli, per trans-figurarli, per divenire seme della terra. Questa è appunto la dinamica spontanea dello Spirito di Dio dopo Cristo: farsi carne temporale dell'uomo.(18) La vita nello Spirito non conduce perciò ad alcun assorbimento estatico. L'uomo che attinge in Cristo allo Spirito di Dio sembra piuttosto rinviato nel proprio mondo con una carica energetica nuova, per diventare una persona autentica, un vero io, l'immagine in cui fummo creati. E per diventare un Vero Io, ciascuno è chiamato a far rilucere nel proprio spazio tempo la luce trasformativa dell'Eterno. (19) Se il documento "ritorno all'essenziale" rischia di creare sconcerto è perché non siamo abituati a questa prospettiva. Qualcuno potrebbe ancora dire, nel nuovo millennio, che ci azzecca S. Giovanni della Croce con i problemi del terzo mondo e la globalizzazione? Cosa c'entra il sociale con la mistica? Io non credo che qualcuno voglia impedire o appesantire ad altri il "volo" ma che si voglia invece autenticizzarlo e proteggerlo da anacronistiche forme di autismo spirituale che stanno distruggendo la vita religiosa. Se il Signore ci concede il "volo" è per servizio non per privilegio, è per vedere meglio, per sentire meglio, per essere autentiche sentinelle nella notte. "In questo volare trascino con me/ tutti coloro che mi hai messo vicino/ tutti coloro che mi hai dato da amare/ non soffro di vertigini, o Signore / ma più sono in alto e più vedo sento e amo / ciò che rimane giù in basso; / è una vertigine d'amore che mi sospinge in questo volo celestiale." (20) Finora la coscienza dello Spirito è stata vissuta quasi sempre come coscienza mistica separata dal mondo oppure come amore caritatevole verso i margini del mondo. Se questo documento può stupirci è perché va contro una tendenza che rischia di farci cadere in una forma di religiosità anestetizzata e trans-genica, per usare un termine in voga, svuotata della croce, ripulita dalle spine, dai chiodi, da ogni rinuncia, da ogni sofferenza, piatta e rasserenante come certi spot pubblicitari, a cui viene impedito il suo compito principale, essere lievito, sale e fermento. Mentre sappiamo (è la prima intuizione dei mistici di tutte le epoche) che tutto è interconnesso: "il buco nero di un'Africa che affonda scava abissi di angoscia anche nelle quiete stanze delle nostre meditazioni". (20a) Se vogliamo veramente cercare Dio e incontrare il Cristo vivente in noi, continuo nel seguire il pensiero di M. Guzzi, non dovremmo protenderci al di là del tempo o della nostra esistenza quotidiana in chissà quali empirei disincarnati, ma dovremmo cercarli proprio nelle profondità degli eventi che viviamo: Cristo è il Senso emergente di questo mio tempo, Cristo è il Senso salvifico di questa precisa fase della mia esperienza. (21) Accettare umilmente la propria condizione di peccato, di fragilità, di piccolezza, di vulnerabilità, nonostante tutte le nostre belle invenzioni, non solo ci innalza agli occhi del Creatore, ma ci mette al riparo da paranoici deliri di onnipotenza. Abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo, in quest'ultimo secolo (e il documento "Ritorno all'essenziale" è perfettamente in linea con questa tendenza) alla caduta delle nette separazioni tra spirito/materia tra corpo/anima, sacro/profano, privato/pubblico, oriente /occidente, uomo/donna, e così via. Nello stesso tempo assistiamo agli sforzi per una nuova riconiugazione delle stesse categorie. Ciò costituisce un passo in avanti verso quel mistero dell'integrazione e della riconciliazione di tutti gli opposti che noi chiamiamo Gesù Cristo e ci rappresentiamo nel segno della croce. "Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia". (22) Stiamo dando vita a un uomo che incomincia a vivere la propria corporeità, la propria cosmicità, la propria storia concreta e quotidiana, come misteri spirituali, senza separazioni, cioè a un uomo che si sente meno separato da Dio, che sente Dio dentro di sé. E non è questo il cuore del mistero di Cristo? Il Dio che si fa uomo per coniugare l'uomo con Dio? E in questi duemila anni di storia cristiana quante separazioni abbiamo ancora costruito e legittimato? Quante mediazioni sacerdotali gestite come strumenti di dominio sulle coscienze e spesso anche sui corpi degli uomini? (23) Questo mondo ci regge, noi esseri tri-dimensionali in "croce" e noi possiamo "reggerlo" meglio solo "in croce". E' anche una legge fisica, la croce è l'asse del mondo, la croce è l'equilibrio tra la nostra natura terrena e quella celeste, siamo mediatori tra due mondi e riappacificati interiormente possiamo (e dobbiamo!) riappacificare l'intero universo. Questa è la nostra grandezza, che persino gli angeli ci invidiarono, guai a dimenticarlo! Il documento "Ritorno all'essenziale" ci mette in guardia da due tipi di pericoli: l'irrigidimento in figurazioni morte del passato e la dissoluzione per mutamenti troppo affrettati. Il primo pericolo consiste in vecchi ruoli stantii, identificazioni personali o etniche o religiose vissute come recinti di difesa, fondamentalismi vari, arroccamenti negli schemi mentali della vecchia scienza materialistica. Il secondo pericolo consiste nelle caratteristiche distruttive di un certo tipo di modernità: immoralismi, avanguardismi e travestitismi vari per cui ogni trasgressione è vista come una liberazione e ogni perdita di identità come una transfigurazione. Ma è giusto in questo contesto passare dal piano più filosofico a quello dello specifico che stiamo trattando, cioè la vita religiosa. Se è triste vedere comunità estinguersi per asfissia dovuta al primo pericolo, cioè irrigidimento e chiusura, è altrettanto triste vedere comunità morire per il motivo opposto, cioè, nella smania del rinnovamento e dell'apertura, buttare alle ortiche tutto, smarrendo la propria identità e dissolvendosi dietro ogni mondana moda. La verifica è la stessa carenza vocazionale che affligge sia le comunità asfittiche che quelle mondane. E' chiaro che un'anima veramente toccata dall'amore di Dio pronta a fargli dono della sua esistenza non si ritrova nel primo modello come nel secondo. Da una parte trova un Dio de-vitalizzato dall'altra può trovare di tutto tranne che Dio Vivo, Vero, Eterno. Ciò che Dio compie quando vuole avvicinare a sé una creatura è un capolavoro di dolcezza, delicatezza e perfezione, è una vera e propria gestazione. Quanto danno si può arrecare alla persona intervenendo in modo inappropriato! Si dovrebbe chiedere in preghiera insieme al dono delle vocazioni anche la capacità di saper accogliere le nuove vocazioni, perché non è affatto scontato che in questa fase di passaggio lo si faccia nel modo corretto. Ma l'aurora nuova è già in atto, non è ancora alba ma è già aurora! Le tenebre si dilegueranno presto. La vigna ricomincerà a dare uva buona, i muti ricominceranno a parlare, si apriranno le orecchie dei sordi, le mani atrofizzate riacquisteranno vigore, i paralitici riprenderanno a camminare. L'umanità, intimamente riconciliata, riconcilierà a sé anche le cose. Tutto diverrà un unico canto, un'unica melodia riempirà l'universo, e nuovi mondo verranno creati da questo smisurato afflato amoroso. "Splendi, sole dell'anima mia, / splendi forte, caccia via tutte le tenebre, / splendi e spenditi interamente, fino in fondo, / attraversa e smembra le putrefazioni del peccato / i bubboni demoniaci, / splendi sempre, / non farti spegnere dai morti viventi, / dai corpi senz'anima, / dalle anime senza corpo, / da chi vive una vita senza sogni,/ da chi sogna senza avere vita, / splendi sole dell'anima mia / non farti intimidire dalla persecuzione / perché come pietra preziosa intarsiata / tu dopo splenderai più forte.” (23) Maria Letizia Azzilonna (14-10-2000) Note 1. S. Teresa Benedetta della Croce "Storia e Spirito del Carmelo - Scritti spirituali" ed. OCD; 2. S. Teresa Benedetta della Croce "Il profeta Elia" - "Scritti spirituali" ed. OCD; 3. J. Sleiman "Teresa di Lisieux o l'intelligenza del cuore" in "Teresa di L. genio e santità", ed. Teresianum; 4. Alessandro Vella O. Carm., in "Spiritualità eliana" Roma 1995; 5. H.H. Rowley, Elijah on Mount Carmel - Men of God - London 1963; 6. Alessandro Vella O. Carm., in "Spiritualità eliana" Roma 1995; 7. S. Teresa Benedetta della Croce "Amore per amore, vita di S. Teresa di Gesù", in Scritti Spirituali, ed. OCD; 8. Origene "Omelie Genesi - Esodo", Ed. Paoline; 9. André Louf "Lo Spirito prega in noi", Ed. Qiqaion, 1995; 10. André Louf "Lo Spirito prega in noi", Ed. Qiqaion, 1995; 11. "Lettere di Chiara d'Assisi ad Agnese di Boemia", Piccola B. Adelphi, 1999. 12. André Louf "Lo Spirito prega in noi", Ed. Qiqaion, 1995; 13. Marco Guzzi "Cristo e la nuova era" Paoline 2000; 13a. Gabriel Bunge su Evagrio P. "Akedia il male oscuro", 1999 Ed.Qiqajon; e Simeone Il Nuovo Teologo "La visione della luce", Ed. Messaggero Padova 1992. 14. In un articolo firmato da Marco Vannini e pubblicato da Avvenire (16-6-99) si legge che Giovanni della Croce poteva benissimo essere una specie di "maestro di yoga per via di alcune coincidenze profonde tra la mistica sanjuanista e quella dell'India" e poi si legge che "in tutta l'opera sanjuanista non si fa gran conto della Chiesa e dei sacramenti". La conclusione di questo "esperto" è che S. Giovanni della Croce era più che altro un poeta "non a caso egli si esprime volentieri assai meglio che nei tentativi sistematici, nella poesia, cantando mirabilmente nell'amore il principio e la fine di tutto". Molto più completa la visione di Jean Baruzi "Jean de la Croix" in "Histoire générale des religions" Aristide Quillet Ed. 1947. "Uno studio approfondito del Cantico Spirituale e della Fiamma viva d'amore mostrerebbe in S. Giovanni della Croce un rigore di ordine poetico e un rigore di ordine logico intimamente collegati. Ogni esposizione delle nozioni e, inversamente, ogni ricostruzione delle immagini che separassero i due ordini di pensiero tradirebbero la pienezza della sua esperienza lirica e simbolica. (...) Il punto è che Giovanni della Croce ha la duplice precisione di un poeta molto sicuro delle sue immagini e di un logico i cui fondamenti non abbandonano mai la solidità". 15. S. Giovanni della Croce, Cantico Spirit. strofa 27 e 39; 16. M. G. "Cristo e la nuova era", Paoline 2000; 17. Il teologo Bruno Forte in "Teologia in dialogo" (Raffaello Cortina Editore, Milano 1999) cita S. Teresa Di Gesù e S. Giovanni della Croce riguardo alla "forza" attiva di trasformazione della storia che loro possedevano. 18. Marco Guzzi "Cristo e la nuova era" Paoline 2000; 19. Ibidem; 20. Maria Letizia Azzilonna, Poesie; 20a M. G. "Cristo e la nuova era", ed. Paoline 2000; 21. Ibidem; 22. S. Paolo agli Efesini 2, 14-17; 23. Maria Letizia Azzilonna "Le trombe di Giosué", Poesie. (scritti sulla vita consacrata 1999-2000).

venerdì 26 settembre 2014

Un racconto inedito, "La candelora"

La piccola pieve di campagna era avvolta da una fitta coltre di nebbia. Non era stato agevole raggiungerla, ma erano entrambi convinti che ne sarebbe valsa la pena. Era la festa della Presentazione al Tempio del Signore, detta anche Candelora, o Festa della luce.
Si benedivano lumini e candele che poi si portavano a casa e si potevano accendere nei momenti di particolare necessità. Una sorta di riserva di luce per i periodi bui.
Amavano pregare in quell'angolo di pace di silenzio e, poiché la festa capitava di sabato, era possibile godersela un poco di più. Appena entrati la suora diede loro una candela ciascuno, dopo che ebbero gettato l’offerta nel cestino, le candele vennero accese e si andò processionalmente verso i banchi per prendere posto a sedere.
I canti del coro erano un po’ stentati, ma la bella austera semplicità dell’antica chiesetta rendeva tutto bello e raccolto grazie anche alla presenza della comunità religiosa che lì viveva.
Nella stessa giornata si festeggiava anche la vita consacrata, da qualche decennio, per volontà di Giovanni Paolo II: il significato era chiaro, chi viveva più strettamente la sequela di Cristo doveva essere come Lui, luce del mondo.
La sacra tradizione voleva in quella memoria liturgica ricordare come Maria e Giuseppe, dopo quaranta giorni dalla nascita del loro primogenito, secondo la Legge mosaica, salirono al tempio per la purificazione rituale di Maria.
Era costume che, una partoriente, avendo perso sangue, doveva purificarsi, e poi bisognava riscattare il primogenito. Per il piccolo Gesù l’offerta era minima, quella dei meno abbienti, una coppia di tortore o di giovani colombi. In quel momento avvenne un altro riconoscimento pubblico del Salvatore, dopo quello degli angeli e dei pastori, da parte di due anziane figure: il giusto Simeone, a cui era stato preannunziato che avrebbe visto il Messia prima del termine della sua vita, e la profetessa Anna che non si allontanava mai dal tempio e serviva Dio con digiuni e preghiere.
Simeone prese in braccio il bambino, lo benedisse e pronunciò il famoso “Nunc Dimittis” in cui il piccolo viene definito luce per illuminare le genti e gloria del popolo d’Israele; ma l’anziano svela anche quale sarà la sua missione,  un segno di contraddizione che svelerà i pensieri di molti cuori e causerà, a seconda dei casi, rovina o salvezza.
La stessa Madre parteciperà del destino del Figlio, una spada trafiggerà la sua anima. Certo, andando in profondità questo era più un mistero doloroso che gaudioso, ma era da tempo immemorabile per i fedeli una liturgia della luce, in cui ricordare Cristo luce del mondo che ci dona vita nuova nel battesimo e illumina la nostra strada verso il cielo.
Dopo i riti penitenziali, una donna si alzò a leggere la prima lettura, tratta dall’ultimo libro della Bibbia, quello del profeta Malachia. Si preannuncia un messaggero, per alcuni Elia, per altri il Battista, a spianare la via al Signore degli eserciti. Costui purificherà i figli di Levi da tutte le loro colpe e solo allora la loro offerta tornerà gradita come nei giorni antichi.
Lui si alzò per la seconda lettura, la lettera agli Ebrei. Appena salito all’ambone si schiarì la voce e si apprestò ad iniziare la lettura della lettera paolina, ma con grande stupore si accorse che le lettere del lezionario erano in una lingua sconosciuta, qualcosa che somigliava all’arabo! Era impossibile leggere quei caratteri, si stropicciò gli occhi e si pulì velocemente gli occhiali speranzoso che, riguardando il lezionario, potesse iniziare la lettura. L’assemblea e il celebrante lo guardavano incuriositi da questo suo indugio. Nulla da fare. Le lettere erano ancora incomprensibili.
Incominciò a sudare per quanto quel santo luogo fosse immerso in una coltre nevosa. Doveva segnalare il problema. Solo allora guardò con un certo sgomento il sacerdote che seduto davanti al tabernacolo lo guardava già di traverso. I loro sguardi si incontrarono e lui allargò le braccia dicendo ad alta voce che c’era il lezionario sbagliato.
Intanto l’assemblea mormorava, non capendo come mai quella seconda lettura non venisse ancora proclamata. Il parroco era un uomo paziente e, con un sorriso sulla bocca, si avvicinò a quel lezionario per controllare cosa fosse successo. Dopo alcuni minuti era lui a stropicciarsi gli occhi. Come era finito quel lezionario in quella lingua sconosciuta nella sua chiesa? Chiese al sacrista di portargliene un altro mentre l’assemblea era a quel punto divenuta tutta un mormorio. Il sacerdote tornò al suo scranno, il secondo lezionario venne aperto e lui si apprestò per la seconda volta e leggere la seconda scrittura, mentre in cuor suo si rasserenava. Era stato un momento terribile, nella sua mente erano risuonate le forti parole  di Apocalisse 5,2-3: “Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli ? Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di guardarlo”.
Solo allora si accorse con una fitta alla tempia che anche questo testo, per altro arricchito con preziose miniature, era anch’esso incomprensibile ai suoi occhi. Di nuovo si volse indietro e di nuovo allargando le braccia guardò desolato il prete. Questa volta il prete si stizzì. Divenne rosso in viso e cercando di contenersi si rialzò nuovamente dallo scranno dirigendosi verso l’ambone. Poi i fedeli lo videro sbiancare e quasi barcollare nella sua casula bianca fregiata di oro. Neanche lui riusciva a leggere quel lezionario.
Il prete si riprese subito e con prontezza pensando ad uno scherzo inopportuno.  Si rivolse alla stupefatta assemblea che non capiva ancora cosa stesse accadendo chiedendo se qualcuno avesse con sé un messalino. Prontamente alcune religiose e alcune signore salirono sull’altare e posarono sull’altare i loro messalini personali. Il parroco ne aprì uno a caso e cercò il segno della memoria liturgica del giorno, mentre alcune gocce di sudore colavano dalle sue tempie. Niente da fare, il primo che aprì era pieno degli stessi geroglifici. Il secondo che sfogliò con mani sempre più nervose era ugualmente incomprensibile. Lo si vide barcollare e sbiancare di nuovo, mentre cercava qualcosa da dire alla stupefatta assemblea. Lui a quel punto scese a sedere al suo posto, la questione oramai non lo riguardava più. Vennero chiamate a leggere le proprietarie dei messalini, una alla volta e le si vide tutte impallidire cercando di decifrare un testo che fino a poco tempo fa era più che leggibile. Nessuna vi riuscì. Il sacerdote allora invitò all’altare una vedova che tutti stimavano molto santa e pia e di cui si diceva che le fosse addirittura apparsa la Madonna. Era povera e non possedeva un messalino suo, così le aprirono davanti il lezionario delle solennità, il prete intanto pregava interiormente il santo martire a cui quella pieve era dedicata affinché quell’incubo avesse fine. Niente da fare. La povera vedova scoppiò in un pianto dirompente, battendosi disperata il magrissimo petto, mentre nella mente di tutti risuonavano le ultime parole che avevano sentito pronunciare nella prima ed ultima lettura di quella strana Messa: “Costoro non mi temono, dice il Signore degli eserciti” (Ml 3,5).
Fu a quel punto che lui aprì gli occhi, madito di sudore, la gola secca come i torrenti in estate. Si alzò di scatto e si precipitò nel salotto dove, in un angolo, era sempre aperta, nel suo leggìo di ciliegio, una Bibbia.
Buttò gli occhi con disperazione sul testo che era aperto alla pagina di una delle letture del giorno, era la stessa ultima lettura dal libro di Malachia che aveva ascoltato in sogno. “Io sono il Signore, non cambio; voi, figli di Giacobbe, non siete ancora al termine” (Ml 3,6). M.L.A.

martedì 16 settembre 2014

L'essenza dell'amore

L'essenza dell'amore consiste nel fatto che chi ama è sempre vicino e lontano dalla persona amata.  È sempre vicino perché ama. La distanza fisica e spaziale, da questo punto di vista non rappresentano un ostacolo.  Chi ama si sente sempre lontano e, per questo, è sempre alla ricerca della persona amata.
(P. Slavko Barbaric', OFM " Digiunate con il cuore")

lunedì 15 settembre 2014

La pace è un frutto dello Spirito

Il desiderio più profondo del cuore dell'uomo è proprio la pace. Tutto quello che facciamo, di buono o cattivo,  mira alla ricerca della pace.  Quando l'uomo ama, cerca e vive la pace, quando odia o vuole vendetta, egli cerca la pace; quando è sobrio e lotta contro la dipendenza, cerca la pace; anche quando si ubriaca cerca la pace; quando bestemmia e dice cose cattive, cerca la pace; quando lotta per la propria vita e per la vita di coloro che ama, crea la pace e, quando alza la mano su se stesso e commette il suicidio oppure quando uccide l'altro, cerca la pace. Pertanto tutte le decisioni umane sono in realtà scelte di pace. È chiaro che, quando si agisce bene, si cerca e di realizza la pace personale e quella degli altri; mentre, quando si commette il male, si cerca soltanto la pace per se stessi senza tener conto del l'inquietudine degli altri.
Tratto da "Digiunate con il cuore" di P. Slavko Barbaric' OFM

sabato 13 settembre 2014

Felicità ed educazione III parte

Il testo che segue è la terza parte di un mio scritto preparato per l'esame di pedagogia generale, lo pubblico qui in anteprima volendo nel mio piccolo contribuire all'attuale dibattito in merito alla riforma della scuola.

3. La felicità è il fine dell’educazione

S. Agostino scriveva che “è beato l’uomo che ama la sua buona volontà, per cui disprezza ogni altro bene, che non dipende dalla sua buona volontà”.
Nella pedagogia classica si fissava la finalità dell’educazione nelle buone forme di vita e di condotta, nella famiglia, nella società, nella Chiesa, oppure le finalità erano considerate preesistenti per volontà di Dio, iscritti nella natura dell’uomo. Nel moderno modo di pensare, nella prassi pedagogica, i fini non sono più valori e idee, ma problemi da risolvere, risultati da conseguire, con l’ausilio delle altre discipline quali biologia, psicologia, arte e cultura, economia: i fini sono diventati competenze operative.
Ciò non esclude che si possa anche pensare ad una sintesi tra i due aspetti. Nelle finalità a lungo termine dell’educazione, si dovrebbe garantire una condizione di vita umanamente degna, l’essere amati, accolti, aiutati a sviluppare la propria personalità, a partecipare alla vita della società, trovandovi significato e senso, superando tutte le forme di condizionamenti.
Allo stesso modo si dovrebbe garantire la valorizzazione della propria identità, la promozione di verità, amore, giustizia, solidarietà, il miglioramento delle condizioni dei beni e dei servizi, l’evoluzione della convivenza civile in vista del bene comune, il superamento di regimi basati sul privilegio e la violenza, la formazione di quadri responsabili civili e politici, dotati di competenza e amore; senza dimenticare di conservare la cultura, fruirne, produrla, coltivare se stessi e la ricerca e lo sviluppo di scienza, arte, tecnica, risolvere i temi delle pluralità delle culture, di ogni cultura, (conservazione, integrazione, transizione critica e innovativa).
Oggi è particolarmente importante formare ad un uso valido dei mezzi della comunicazione e a divenirne operatori in modo critico. Nei fini a medio termine, si vuole l’uomo capace di uso retto della libertà, preparato ad entrare con preparazione ed onestà nei ruoli sociali, politici, economici; con un giusto patrimonio di saper fare, sapere e saper essere. Nei fini a breve termine, le aree educative da tenere a mente sono quelle della crescita organica e funzionale, fisica, corporea, mentale, spirituale, sociale, morale, religiosa, cristiana, sessuale, artistica, relazioni reali ed esistenziali, acquisto degli strumenti del vivere e del convivere, del lavorare, comunicare, virtù morali e sociali.
Ancora riguardo ai fini, un passaggio sovente omesso nel pensiero moderno, è la distinzione tra fini naturali e fini liberi, i primi determinati dalla natura stessa del soggetto, i secondi posti dal soggetto mediante una scelta della volontà; nell’uomo vi sono entrambi, tale dualità può trarre in inganno, non esistono atti guidati solo da fini naturali o atti guidati solo da fini liberi, i due ordini teleologici s’influenzano reciprocamente .
L’essere umano è, infatti, sintesi di natura e libertà. Un’intelligenza straordinaria, non è scontato che sia immune dall’errore, e per conoscere la verità è richiesta anche la rettitudine della volontà. L’autonomia personale ha dunque carattere relativo perché non siamo padroni del nostro essere, non siamo stati noi a darcelo: “l’essere umano è da se stesso, ma non per se stesso”. Tutto ciò è decisivo riguardo all’educazione, si può escludere o sottovalutare nelle varie correnti pedagogiche un fine o l’altro, avremo un orientamento materialista o spiritualista, a seconda che si privilegino i fini naturali o quelli liberi.
L’ambito della finalità naturale non deve essere escluso dall’educazione, per esempio la nutrizione è certo finalità naturale, ma gli alimenti, la quantità, la qualità sono oggetto di libera scelta, quindi l’educazione deve occuparsene. Molti guai in campo educativo derivano dal dimenticare che gli educandi hanno un corpo, oltre che una mente. Si potrebbe anche menzionare la necessità di un’educazione estetica. Questa si differenzia sia da quella morale, che da quella intellettuale, la sensazione è un atto incardinato nell’unità psicofisica dell’uomo, partecipa della dimensione teleologica, è possibile indirizzare la sensazione, orientarla, pur essendo movimenti indipendenti dalla volontà, possono e debbono essere guidati da essa. Quando l’educazione estetica viene trascurata o ignorata siamo di fronte ad un orientamento spiritualista. Una soluzione opposta, con attenzione preferenziale o esclusiva verso i fini naturali, produce una concezione materialista dell’educazione. Sia l’orientamento materialista, come quello spiritualista, dimenticano che l’essere umano “è un’unità essenziale ed operativa, sia in quello che è, sia in quello che fa”. Pur essendo un’unità, ha una pluralità di istanze operative, vi sono cioè movimenti diversi che rispondono a fini diversi, ciò presuppone un ordine interno sia nei fini naturali che in quelli liberi. Rispetto alla finalità il significato del perché si esprime con affinché, in ordine al fine non si domanda perché una cosa è così, ma a che scopo si opera così. Si arriva così al fine ultimo, sia per i fini naturali che per i fini liberi (che apparterrà comunque a quest’ultimo genere). Aristotele parlava del fine ultimo come il culmine dell’aspirazione umana, come perfetto e come autosufficiente (cioè deve fare in modo che non si continui a desiderare all’infinito).
C’è una gerarchia nella teologia umana, i fini naturali sono subordinati ai fini liberi e, tra questi, c’è quello che è anche il riferimento ultimo dell’agire umano, tutto quello che si fa è per qualcosa di unico e permanente, sempre uguale a se stesso, di cui partecipano tutti gli altri fini, questo è il fine ultimo.
Riguardo al concetto di finalità, sono necessarie ancora alcune precisazioni su termini come il fine e la fine, in greco due parole distinte: compimento, pieno sviluppo, risultato e fine, confine, limite, estremità. Alla questione su quale sia il fine della vita umana si può rispondere in due modi, la felicità e la morte, la felicità è il fine, il compimento, il senso supremo della vita umana, mentre la morte è il termine, il limite dell’operare, ma nulla si fa per morire, mentre tutto faremmo per essere felici!
Nel concetto di fine abbiamo due significati: fine-causa e fine-effetto. Il fine ultimo ha carattere di principio e causa dell’agire umano. Questa riflessione, trascurata o addirittura omessa, ha influenzato notevolmente la teleologia pedagogica, dove la nozione di finalità è ambigua, creando confusione nel lavoro educativo e si utilizzano a caso termini come obiettivi, ideali, propositi, mète, fini, perdendo di vista la necessaria relazione gerarchica tra fini particolari e il fine ultimo.
L’essere umano è libero, di una libertà assoluta soprattutto nella scelta dei fini, allora si confondono gli ordini teleologici e si sconvolgono le implicazioni e le conseguenze pratiche, l’uomo diviene un essere che può tutto e al quale tutto è permesso, gli effetti sono perplessità e insicurezza davanti all’azione e la perdita di una rotta precisa nella vita.
Si può porre il piacere come fine ultimo, ma se arriva la malattia? Oppure il lavoro e la carriera, ma se lo si perde ?
Il fine ultimo dell’educazione deve essere la sintesi di tutti i suoi fini particolari, si tratta di cercare l’unità in tanta diversità, Whitehead diceva che il problema educazione consiste nel riuscire a mostrare all’allievo la foresta per mezzo degli alberi, Maritain invitava a nutrire l’intera unità dell’uomo.
Si arriva così alla postulazione del concetto di persona come un tutto integrale, diversa cosa dal tutto di ordine, che è una somma, un’aggregazione. I fini particolari dell’apprendimento formano un tutto di ordine ed è ciò di cui s’intende quando si parla di obiettivi dell’educazione.
La teoria degli obiettivi operativi “ha reso inutile la pedagogia per la metà delle sue funzioni”, recentemente è decaduta, mentre l’attività docente continua ad essere programmata con la formulazione di un certo numero di obiettivi, considerati indicatori, indizi, mai segno della finalità educativa. L’unità della formazione umana non viene fuori dalla somma degli obiettivi particolari dell’educazione, quando gli elementi del composto vengono separati, si perde il composto come tale, perché il suo principio unificatore non è un elemento tra gli altri, ma una loro relazione.
C’è ancora una conseguenza nell’impostare la finalità educativa mediante obiettivi particolari, è la perdita della dimensione immanente di praxis che non può ridursi a semplice poìesis, cioè si riduce l’agire umano ad un’attività produttiva, gli obiettivi possono sì essere raggiunti, ma il loro senso ultimo sfugge, quanto più numerosi sono i fini particolari. “La disgregazione teleologica porta alla dispersione operativa, da questo al non senso esistenziale il passo è breve”.
Occorrerà configurare e modulare le attività in base al significato dell’azione immanente e formativa che attualizza direttamente il fine ultimo. “Per poter comprendere e realizzare il fine ultimo si richiede una conoscenza adeguata del suo contenuto, che è la felicità”.

Conclusioni

Per quanto riguarda fini e finalità educative, possiamo contare al massimo su una normatività teleologica, non tecnica, cioè possiamo indicare i traguardi da raggiungere, ma per il come, il quando, il dove, non vi è scienza, ma solo confronto ragionato, azione prudente, tatto. Il sapere educativo si sviluppa differenziandosi dall’etica filosofica, in altri termini ogni uomo, soprattutto, desidera essere felice; se l’educazione deve essere preparazione alla vita, si dovrà riflettere sulla felicità, fine della vita umana e fine ultimo dell’educazione. Sapere in che cosa consiste la felicità però non spiega cosa fare per essere felici, allora “nell’educazione si tratta proprio di questo, conoscere l’indole delle azioni umane che devono essere promosse o stimolate per favorire un’agire felice.”
S. Tommaso riteneva la felicità il più grande dei beni umani, perché tutti gli altri si ordinano ad essa come al loro fine. C’è un’evidente priorità anche sulla libertà, visto che “non spetta al libero arbitrio, ma all’istinto naturale il voler essere felice”. La felicità è qualcosa che la volontà non può non volere. Il fine ultimo è il fine supremo, che consisterà nel Bene supremo e Assoluto, cioè Dio, e l’ultimo fine non può essere altro che l’unione con Dio.
L’agire felice è la contemplazione, integrazione di conoscenza e di amore, anche Aristotele ne parlava come un atto proprio dell’agire felice.
La contemplazione è l’agire felice che realizza il fine ultimo, ma è necessario imparare a contemplare, e qui entrano in gioco volontà e immaginazione, due grandi dimenticanze in campo educativo. Contemplare è la fusione del conoscere e del volere in uno stesso atto. L’apprendere si realizza orientandosi grazie alla contemplazione, si trasforma nella gioia diretta e riflessa del lavoro e si proietta nella tensione verso il futuro sotto forma di speranza.
Quando si contempla non si ragiona, non si discorre, non si pensa, ma si vede con gli occhi della mente. Contemplare è puro atto, avviene una silenziosa percezione della realtà. Per contemplare è necessaria l’immaginazione, l’indispensabile facoltà mediatrice tra i sensi e l’intelligenza, senza di essa si fa più fatica ad affrontare presente e futuro. Tutto dipende, infatti, dal colore della lente con cui si guarda.
Oggi s’insegna poco ad immaginare, occorre un ritorno ai saperi narrativi che servono alla contemplazione, anticamente si educava con i racconti, nella modernità abbiamo il cinema. Se accettiamo la contemplazione come agire felice, fine ultimo dell’educazione, sarà necessario modificare fini e obiettivi dell’educazione.
Contemplare, ricordava Maritain, non è solo vedere ma anche “godere di vedere”. Andando per questa strada esiste un termometro dell’efficacia educativa, la gioia, che è risposta alla felicità. Se tutto ha funzionato, assisteremo alla gioia d’imparare. L’apprendimento diviene gioioso se l’educatore riesce a trasmettere l’idea che ogni uomo non fruisce solo di una vocazione individuale, è anche un essere sociale e cosmico, esiste nel mondo per realizzarsi e trasformarlo creativamente, possiede una missione terrena secondo le qualità personali ricevute dal Creatore, ma, soprattutto, che ogni vita è una missione”. M.L.A.

NOTE e BIBLIOGRAFIA

Status et conditio eius cui omnes res secundae fluunt, bona fortuna, prosperitas, beatitudo. Felicitas, deriv. felix-icis, "felice", la cui radice "fe-" significa abbondanza, ricchezza, prosperità. Def. Enciclopedia Pedagogica. M. LAENG (Ed), Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992: "felicità".

In questo contesto già la maieutica socratica è fortemente significativa! Così pure tra i moderni educatori : “Il generare e l’educare sono inseparabili, stanno insieme come fatti e significati, come dono della vita e senso della vita”, in A. BOZZOLO,R. CARELLI, Evangelizzazione e educazione, LAS ROMA 2011, p.381.

Cfr. H. VON BALTHASAR, Se non diventerete come questo bambino, Piemme, Casale, 1995. Nel verbo latino sapio, vi è il doppio significato del gustare e del conoscere.

P. WATZLAWICK Il codino del barone di Munchhausen, Ovvero psicoterapia e realtà, Feltrinelli, Mi,1991.

Cfr. La psicologia del profondo ha messo in luce come il mito dell’autonomia consegni l’adulto ad una cronica immaturità. Paradossalmente, in riferimento a certe tendenze teorizzanti modelli di società senza padri, più si è figli e più si è liberi. In A.BOZZOLO-R. CARELLI, Evangelizzazione e educazione, LAS Roma, 2011, pp.388 e 395.

J. MARITAIN, Per una filosofia dell’educazione, La Scuola, Brescia 2001, p.124.

Cfr. F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p.23.

DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Inf. Canto XXVI, 116-120, Paravia Torino, 1966, p.340.

La sezione è nota come: La professione di fede del Vicario Savoiardo e contiene i principi che l’educatore dovrà seguire perché il giovane pervenga alla conoscenza di Dio. “La pedagogia, saturata di metodologismo, per carenza di finalismo, è in realtà una scienza che proprio a motivo dei suoi fini deve alleggerire la pressione dei suoi metodi”, in C. XODO, L’adolescenza e la fragile costruzione dell’identità, in L’arte di educare, p.93, Ed. Messaggero, Padova 2008.

A. BOZZOLO - R. CARELLI, Evangelizzazione e educazione, LAS ROMA 2011, p. 375. Ibidem p. 373. Ibidem p.374

M. BUBER, Discorsi sull’educazione, Armando Roma, 2009, 81.61.65.74.

Cfr G. GIUSSANI, Il rischio educativo, Rizzoli Milano 2006, p.15.

R.S. PETERS, Education as initiation, The University of London, Institute of Education, London, 1962, p.47.

F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p.29.

G. PENATI, in M. LAENG (Ed), Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992: "felicità". p. 4824.

Si studiavano le tre relazioni fondamentali dell’uomo, con Dio, con il prossimo, con il creato, ma veniva proposta anche una sapienza di tipo popolare con i proverbi, per norme etiche spicciole; ricordiamo le figure all’interno del libro dei Proverbi, al cap. 7, di “signora sapienza” e “signora stoltezza” o anche la stessa teoria della retribuzione.

ARISTOTELE, Etica Nicomachea, libro VII, in Opere, Bari Laterza, 1973,vol.VII, pp. 63 e 185. Anche se la sua giustizia etica non è fondata né voluta in funzione della felicità.

G. PENATI, in M. LAENG (Ed), Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992: "felicità", p. 4825.

L. A. SENECA, Dialoghi, VII, De Vita beata 5,2.

S. GREGORIO DI NISSA, Vita di Mosè, I,5 a cura di M. Simonetti, Vicenza 1984, in M. BELDA, Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009, p.456.

S. AGOSTINO, De Trinitate, cit. in M. BELDA, Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009, p.94. “Cognitio enim Trinitatis in unitate est fructus et finis totius vitae nostrae”, in M. BELDA, Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009, p.94.

S. NATOLI, Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, Rai Educational, http://www.emsf.rai.it S. AGOSTINO, Libero Arbitrio, cap. XIII, libro I, Signorelli Roma 1965, p.112. Cfr , Fine dell’educazione, in Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992, p.429.

Alcuni modelli di maturità sono quello spirituale idealista di Gentile, materiale marxista, personale sociale di Dewey, umanistico integrale di Maritain, sociologico di Durkheim e Weber, psicoanalista di Freud, psicologico evolutivo di Piaget.

Cfr F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p.77-78.

Cfr F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p. 80

Il fine ultimo e i fini particolari si differenziano per la relazione di ordine tra loro. Molto didattica in questo contesto è la vicenda di Des Esseint, protagonista del romanzo Controcorrente, di J. K. Huysmans.

L’unità dinamica della personalità è una delle affermazioni base della psicologia umanistico-transpersonale che ha come concetto di fondo quello di un organismo umano unitario nei suoi momenti biologici, psicologici, relazionali, spirituali. L’organismo è una realtà simmetrica con delle funzioni collegate e interagenti tra loro, l’individuo adulto è considerato come un’entità organica, integrata, coerente, in tutta la sua esistenza. B. GOYA, Vita spirituale tra psicologia e grazia, EDB, Bologna, 2002, p.217.

Nata negli anni ’70-’80, metodologia didattica contenente una concezione completa dell’educazione. F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p. 90. Ibidem B. GOYA, Vita spirituale tra psicologia e grazia, EDB, Bologna, 2002, p.217.

Cfr X. ZUBIRI , Natura, storia, Dio, Augustinus, Palermo 1985, p.255.

Bibliografia

ALTAREJOS MASOTA F., C.  NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Ed. La Scuola, Brescia 2003

BELDA, M. Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009

BOZZOLO A. CARELLI R. , Evangelizzazione e educazione, LAS ROMA 2011

CHIOSSO G., Elementi di pedagogia, Brescia, La scuola, 2002

GOYA B., Vita spirituale tra psicologia e grazia, EDB, Bologna, 2002

LAENG M., Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992

SCURATI C., Pedagogia della scuola, La scuola Brescia, 2003.

Felicità ed educazione (II parte)

2. La felicità

La felicità è condizione di equilibrio e corrispondenza fra desideri, aspirazioni della volontà e loro attuazione, generante un sentimento di appagamento nel soggetto.
Secondo la definizione di altri dizionari, la felicità è lo stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti propri desideri. Lo stesso concetto di felicità, così come quello di educazione, sembrerebbe variare attraverso le diverse Weltanschauung.
Ma, con un po’ di attenzione, si nota una costante in tutti gli sviluppi del pensiero umano, nel mondo biblico, quello romano, quello filosofico classico: legare al concetto di felicità quello di virtù, verità, bontà, bellezza, senza contare il campo semantico altamente significativo dei termini di alcune antiche lingue, ad esempio l’ebraico dove tov sta per bello/buono, così come il greco kalo,j.
Nel contesto biblico, il Cantico dei Cantici, massimo emblema dell’amore e della felicità legata al più potente dei sentimenti umani, è inserito nella sezione dei libri sapienziali, che erano raccolte di massime per l’educazione degli intellettuali dell’epoca e per le nuove leve del potere politico-giudiziario.
Nella lingua ebraica può essere significativo ricordare l’utilizzo del verbo conoscere per indicare l’azione dell’amare. Nel pensiero greco solo chi segue la virtù può essere felice. Nel Protagora, chi è ingiusto è anche infelice, si arriva a dire che è meglio subire l’ingiustizia che commetterla. Si distingueva, inoltre, tra edonismo ed eudemonismo.
La felicità per Socrate, non poteva avere carattere istintuale -sensibile, ma doveva implicare e consistere in una conoscenza, nella consapevolezza di sé e dei fini del proprio agire. Epicuro, nella celebre Lettera sulla felicità a Meneceo, sosteneva che non c'è età per conoscere la felicità, per occuparsi del benessere dell'anima, cioè per filosofare; ed è la conoscenza delle cose che dona lo stato di felicità. Platone, nel Filebo, scriveva che la vita migliore per l'uomo consiste in una miscela proporzionata di intelligenza e piacere; con l'educazione l'uomo imparerà a distinguere i veri piaceri e le cose che danno l’autentica felicità. Nonostante le apparenze, i giusti vivono meglio e sono più felici degli ingiusti; consapevole che la felicità non potrà essere perfetta sulla terra, alla vita terrena contrapponeva il mondo delle Idee, con i valori imperituri e il Bene, il valore più alto.
Nella concezione aristotelica della felicità abbiamo tre aspetti: la felicità come giusta misura; la felicità come realizzazione della propria natura; la felicità come conseguenza di un modo di essere.
Aristotele distingueva tra virtù etiche e dianoetiche: le prime riguardano la disciplina delle passioni, le seconde il sapere e la ragione. Egli non escludeva un rapporto tra felicità e piacere, a patto che le passioni fossero regolate dalla ragione. La virtù sta nel giusto mezzo, che è l’atteggiamento per conseguire la felicità. Il piacere non s’identifica con il sommo bene, quindi non può dare la felicità in senso proprio. “Diciamo poi più perfetto, ciò che è perseguito per sé stesso in confronto a ciò che è perseguito per altro […] di tale natura è la felicità, perché la scegliamo sempre per se stessa e mai in vista di altro”.
Per gli Stoici le passioni disturbavano la contemplazione della verità. La difficoltà nel distinguere felicità e piacere per l’aspetto soggettivo della questione, portava a ricondurre tutto alla legge del dovere, la vita autentica era contemplazione della verità del logos, conoscere la verità e condurre la propria vita in funzione di essa. Rimosse le passioni, il saggio, seguendo la propria ragione, si poneva in armonia con il tutto e non poteva non essere anche felice.
Nel mondo romano, il saggio Seneca scriveva che tutti vogliono vivere felici, “sed ad peruidendum quid sit quod beatam ultam efficiat caligant” e alla fine “beatus nemo dici potest extra veritatem proiectus”. Nella visione cristiana, con il celebre discorso della montagna (Mt 5,5-12) in cui Gesù proclama le beatitudini, viene proposto un ribaltamento della visione convenzionale del mondo per un nuovo ordine di valori e per la felicità. Il termine greco da noi tradotto con "beati" propriamente sta per felici. S. Gregorio di Nissa scriveva: “la felicità non consiste nel conoscere qualche verità su Dio, ma nell’avere Dio in se stessi, ‘beati i puri di cuore, perché vedranno di Dio’ (Mt 5,8)”. Nella visione cristiana la felicità s’identifica con la visione-unione con Dio, come l’immersione in un mare d’amore che non termina mai, l’apice della vita spirituale, la Gerusalemme celeste: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! […] asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento, né affanno” (Ap 21,3-4).
Per questo siamo stati creati, diceva Agostino, per raggiungere la piena conoscenza e il perfetto amore della S. Trinità, l’eterna contemplazione di Dio Uno e Trino in Paradiso. “La nostra gioia perfetta della quale nulla c’è di più alto, è godere di Dio Trinità che ci ha fatti a sua immagine”.
Ma, nella visione cristiana non troviamo l’idea di una felicità solo escatologica, ultraterrena, nelle testimonianze evangeliche sono numerose le immagini gioiose, quella descritta da Luca nella Magnificat o l’intero libro degli Atti, tutto pervaso dalla gioia.
Lo stesso Gesù non ci viene presentato come un maestro musone, ma gode delle amicizie degli uomini, della bellezza del creato e giubila nel suo cuore.
Tommaso d’Aquino diceva che, per l’inabitazione, “Dio, in tutta la pienezza del suo mistero, entra nell’intimo dell’uomo. Le divine Persone si donano realmente per lasciarsi possedere e per possedere, nella più meravigliosa comunione […] trasformando tutto in pienezza di vita divina”.
Tutto ciò possiamo raggiungerlo quaggiù, anche se imperfettamente, perché Dio si è donato personalmente all’essere umano per santificarlo. Ma, la conoscenza della Trinità, ammoniva, è anche il frutto della nostra vita e quindi delle nostre azioni. Più avanti nel tempo, Kant, opponendosi alle morali illuministiche del sentimento e del piacere e a quelle teologiche-intellettualistiche, dovette far coincidere virtù e felicità.
Spinoza affermava: “poiché in variatione vivimus, ci sentiamo più o meno felici a secondo che cresciamo o diminuiamo. Ne segue che il tempo, di per sé, non produce infelicità, ma può cambiare la natura dell'essere felici”.
Fin anche Nietzsche riconosceva che "l'uomo è felice, non quando è sazio, ma quando è capace di vittoria". Secondo voci filosofiche più contemporanee, “La filosofia moderna ha lavorato più sulle condizioni di felicità, ossia sulla rottura dei vincoli, che possono gravare sulla capacità soggettiva di conquistarsi la felicità […] alla fine della modernità, dopo che tanto abbiamo lavorato sulle condizioni di felicità, sulla libertà del bisogno, per trovare la felicità si torna agli antichi. Perché non è nell'esterno che c'è la felicità, ma nella capacità di fare lievitare infinitamente la propria vita come una buona pasta, come una sana pasta ”.
Va detto, per spezzare una lancia in favore della modernità, che il concetto di felicità è un valore sancito in alcune costituzioni, come in quella americana, ma anche nella Costituzione italiana si parla di “pieno sviluppo della persona umana” all'art.3. Qui la felicità ha a che fare con la privacy, più che con la virtù, essenziale per garantire la tutela della dignità della persona in ogni suo aspetto e dunque garantire la sua felicità. Realizzare i propri sogni è sviluppare in pieno se stessi, trovare l’equilibrio necessario per raggiungere la propria felicità.
Si parla dunque di diritto alla felicità, alla privacy e all'identità personale (tra i diritti inviolabili ex art. 2 Cost., sent. Corte Cost. n. 13/1994). Si ribadisce come ciascun essere umano sia unico e, come tale, irripetibile, artefice dei suoi progetti, non standardizzabile. M.L.A   (Continua )