domenica 28 marzo 2010

Lettera ai sacerdoti


«Il Signore Gesù Cristo, che il Padre ha consacrato il Spirito Santo e potenza sia sempre con te per la santificazione del Suo popolo e per l’offerta del sacrificio eucaristico»; «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, vivi il mistero che è posto nelle tue mani e sii imitatore di Cristo immolato per noi».

 (Pontificale Romanum. De Ordinatione Episcopi, presbyterorum et diaconorum,
editio typica altera , Typis Polyglottis Vaticanis 1990)

Carissimi Confratelli nel Sacerdozio,

In questi giorni pasquali rivivremo il Mistero della nostra Redenzione e compiremo gesti e pronunceremo parole che si collocano davvero al cuore della nostra esistenza sacerdotale. Rivivremo, il Venerdì Santo, il gesto umile e profetico della prostrazione, identico a quello vissuto il giorno della nostra Ordinazione; avremo l’occasione, così, di accogliere, nel Santo Triduo, i doni di grazia rinnovati, mendicando dalla Provvidenza Divina di poter portare frutti abbondanti per noi e per la Salvezza del mondo.
Come ci ricorda la formula dell’unzione crismale, siamo investiti della medesima potenza di Cristo, di quella potestas con la quale il Padre ha consacrato il Suo unico Figlio nello Spirito Santo, e che ci è data con l’esplicito fine di santificare il Suo Popolo e di offrire il Sacrificio Eucaristico. Ogni altro utilizzo della potestà sacramentale ricevuta dall’Ordine Sacro è illegittimo e pericoloso, sia per la nostra salvezza personale, sia per il bene stesso della Chiesa.
Non a caso il rito, quasi nella coscienza della sproporzione assoluta tra la grandezza del Mistero e la piccolezza dell’uomo, richiama: «Renditi conto di ciò che farai». Non ci renderemo mai pienamente conto del grande Mistero che è posto nelle nostre mani, tuttavia siamo chiamati ad una continua tensione di perfezione morale, per vivere «il Mistero che è posto nelle nostre mani» ed essere «imitatori di Cristo».
È questa la straordinaria ed irriducibile novità quotidiana del Sacerdozio: il Mistero si è posto nelle nostre mani! Il Signore del tempo e della storia, Colui che ha fatto tutte le cose, dal Quale veniamo e verso il Quale andiamo, l’Autore della vita, rende alcune Sue povere creature, partecipi della propria potestà salvifica, consegnandosi totalmente, come inerme Agnello immolato, nelle loro mani. Questa consegna non diventi mai un tradimento! Mantenga desta la consapevolezza dell’abbraccio di predilezione di cui siamo stati fatti oggetto e ci conduca, anche e soprattutto nel tempo della prova, a ridire il nostro totale “sì”: un “sì” consapevole dei propri limiti, ma non bloccato da essi; un “sì” libero da ogni complesso di inferiorità; un “sì” cosciente della storia, ma mai intimidito di fronte ad essa; un “sì” che, da quello pronunciato dalla Beata Vergine Maria, nella casa di Nazareth, ha attraversato i secoli, divenendo attuale nei Santi e nell’oggi della nostra esistenza.
Un sacerdote che si renda conto di ciò che compie, conformando a Cristo la propria esistenza, vince il mondo! E tale vittoria è il vero “documento” della Risurrezione di Cristo.



 Mauro Piacenza
Arciv. tit. di Vittoriana
Segretario

sabato 27 marzo 2010

L'adultera

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato la Domenica passata abbiamo ascoltato il brano in cui i farisei propongono a Gesù di costituirsi giudice di una donna sorpresa in adulterio. Con ciò pretendevano di metterlo in un duplice imbarazzo, infatti al tempo di Gesù esistevano due diverse leggi sull'adulterio. Gesù taceva e scriveva per terra. Che cosa scriveva? Tutti gli studiosi a cui ho rivolto questa domanda sono stati abbastanza vaghi nella risposta. Ho sempre avuto l'idea che questo particolare dell'episodio non fosse senza importanza. Finalmente trovo alcune soddisfacenti risposte in un testo finito in modo oltretutto piuttosto singolare tra le mie mani, si tratta di una Vita di Gesù, edita dalla Queriniana-Brescia nel 1934, scritta da Mons. E. Le Camus, Vescovo di La Rochelle e Saintes, che ha addirittura in prefazione una bella lettera di Papa Leone XIII. Il Pontefice si augurava che qualcuno presto lo traducesse in italiano "E' la miglior carità che si possa fare al mondo che muore di fame" diceva all'abate Le Camus, autore dell'opera (La Civiltà Cattolica n.1155, del 9-8-1898, pag. 345).
Dunque vediamo come si interpreta questo passo: Gesù invece di rispondere a quella domanda-trappola si accontentò di chinarsi e col dito si pose a scrivere per terra. Nell'Antico Testamento, in Geremia 27,13, Dio scrive per terra i nomi di quelli che l'abbandonano. Ma Gesù forse vuol manifestare la sua noncuranza verso i suoi interlocutori e la ferma risoluzione di non rispondere. Aveva fatto così il filosofo di cui parla Eliano (Hist. Var. XIV,19), che invece di rispondere al quesito propostogli, si era messo a scrivere sulla parete, così facevano qualche volta anche i rabbini ebrei, quando non volevano pronunciare sentenza sopra materie delicate. A quell'atteggiamento duro e orgoglioso degli accusatori, Gesù volle fare giustizia della loro ipocrisia. Secondo la legge romana, prima di ogni giudizio, si doveva presentare al giudice l'atto di accusa con il nome degli accusatori. Ma nulla di simile aveva avuto luogo in quel caso. Inoltre la stessa legislazione esigeva che il cittadino, quando si costituiva accusatore davanti al giudice, non fosse reo egli stesso, né di più gravi, né dei medesimi delitti che attribuiva agli altri: nel qual caso si metteva a rischio di venir accusato per primo. Gesù avendo cominciato a stendere con l'atto di accusa anche la lista degli accusatori, levò la testa e disse: Chi tra voi è senza peccato getti la prima pietra contro questa donna. La legge ebraica autorizzava infatti a requisire l'accusatore o il testimonio per l'ufficio di carnefice. I farisei restarono impassibili.
Gesù allora si inchinò una seconda volta per scrivere e per aggiungere, secondo alcuni manoscritti, (manoscritto U ed altri, dopo "scriveva" hanno "le colpe di ciascuno di loro") al nome degli accusatori, la lista delle loro debolezze. Il terreno diveniva scottante e la prova si faceva intollerabile. Una rivelazione pubblica dei falli più nascosti in simili circostanze era una misura che a nessuno garbava. Di tutti quelli che si erano fatti accusatori della disgraziata, vedendosi su quella lista smascherati e qualificati secondo i loro vizi personali, a uno a uno si eclissarono. Così senza distruggere o menomare l'autorità divina della legge mosaica, Gesù riusciva a salvar l'accusata con il solo negare la competenza dei giudici e la validità dei testimoni rei non meno di essa. Quindi, conclude l'autore, con una destrezza ammirabile Egli aveva fatto passare la questione dal terreno giuridico, su cui l'avevano messa i farisei e sul quale non essendo giudice costituito non voleva trattarla, al terreno morale, sul quale si poteva umiliare gli accusatori e far perdere loro coraggio. Quando si giudica in nome della legge e della missione che essa conferisce, non si ha bisogno di essere santi per condannare il vizio denunciato dall'onestà pubblica. Ma quando ci costituiamo giudici da noi stessi bisognerebbe avere almeno la superiorità morale sopra chiunque si voglia giudicare.

Archeologia

Tell Mar Elias. Sul monte del profeta delle tre religioni


In Giordania, nela foresta di Ajloun, gli archeologi hanno scoperto una grande chiesa bizantina del VII secolo dedicata al profeta Elia.

C'è un monte nel cuore della foresta giordana di Ajloun che ancora oggi richiama i fedeli delle religioni abramitiche: Tell Mar Elias. Qui ebrei, musulmani e cristiani si sentono uniti nella memoria di un personaggio biblico particolarmente amato e venerato: il profeta Elia.
Il profeta che difese con decisione il monoteismo è infatti ancora oggi una figura centrale nella liturgia ebraica del giorno di Pesach (un posto a tavola viene lasciato vuoto per richiamare la sua presenza) e al tempo stesso gli è riconosciuto massimo onore dai musulmani, che lo chiamano il Verdeggiante e celebrano la sua memoria nella sura XXXVII del Corano («Perpetuammo il ricordo di lui nei posteri. Pace su Elia! Così ricompensiamo coloro che fanno il bene. In verità era uno dei nostri servi credenti.»)

Sulla collina che domina la verde distesa di ulivi e di pini, ci sono i resti di un culto antichissimo sul luogo dove Elia sarebbe nato, Tisbe o, nella dizione moderna, Listib. Grazie al ritrovamento di parecchi mosaici nelle case disseminate sulla collina, gli archeologi negli anni Novanta del secolo scorso hanno ipotizzato che la collina racchiudesse una particolare memoria e nel 1999 sono iniziati gli scavi sulla sommità del Tell: è venuta così alla luce una chiesta bizantina di oltre 1.300 metri quadrati risalente al VII secolo e, poco distante, un'altra chiesa ancora più antica.

I lavori di restauro hanno consentito di recuperare le mura esterne della chiesa, le absidi, l'ambiente del fonte battesimale e in parte la struttura della chiesa più piccola. Il pavimento a mosaico è ora conservato sotto uno strato di sabbia e si sta lavorando alla scoperta delle tombe sotterranee.

Anche se il progetto di restauro è stato rallentato a causa di fondi limitati, Tell Mar Elias offre uno spettacolo particolarmente suggestivo: mentre lo sguardo spazia su una vista incantevole su tutta la regione circostante, il pellegrino può contemplare i segni di una devozione millenaria che invita alla fratellanza tra i figli di Abramo. A testimonianza del culto condiviso si notano i numerosi nastri portati dai fedeli delle tre religioni appesi agli alberi che circondano il luogo sacro. Decisamente emozionante trovarsi qui il 21 giugno, quando i cristiani e i musulmani di Giordania salgono al Tell per commemorare il profeta Elia con una celebrazione comune e fraterna.

(Chiara Tamagno da www.terrasanta.net))

giovedì 25 marzo 2010

Annunciazione

Maria, stella del dialogo tra cristiani e musulmani
(editoriale da www.terrasanta.net)


La presidenza del Consiglio del ministri del Libano ha approvato il 17 febbraio scorso un decreto secondo cui la festa dell'Annunciazione del 25 marzo diventerà «festa nazionale» sia per la componente cristiana che per quella musulmana del Paese. L'annuncio della nuova festività è caduto a ridosso dell'incontro che il primo ministro libanese Saad Rafic Hariri ha avuto con Papa Benedetto XVI, in Vaticano il 20 febbraio, durante il quale ci si è soffermati - come recita il comunicato della Santa Sede - sulla situazione in Libano, «auspicando tramite l'esemplare convivenza delle diverse comunità religiose che lo compongono (che il Paese) rimanga un "messaggio" per la Regione mediorientale e per tutto il mondo».
La notizia della nuova festa mariana è di quelle che fanno ben sperare e che ci piace segnalare, perché si prefigge lo scopo di sottolineare gli elementi di unità tra islam e cristianesimo, valorizzando la figura della Vergine Maria, e incoraggiare l'immagine di un Libano «Paese simbolo» di pluralismo e tolleranza.

La proposta della nuova festa nazionale non nasce per caso. È il frutto di un lungo lavoro portato avanti da un comitato islamo-cristiano che propone da tre anni celebrazioni comuni in Libano in occasione della festa dell'Annunciazione. Il tema di questi incontri verte sempre sul ruolo di Maria nelle due religioni. All'evento partecipano anche delegazioni straniere, in particolare quella della moschea di Al-Azhar dall'Egitto. La municipalità di Beirut ha pensato anche di promuovere l'erezione di un monumento a Maria in una delle piazze della capitale, come segno di unità delle due maggiori componenti del Paese.

domenica 21 marzo 2010

Magisteri paralleli

Gli antipapi e i pericoli del magistero parallelo

di mons. Giampaolo Crepaldi*


ROMA, domenica, 21 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il tentativo della stampa di coinvolgere Benedetto XVI nella questione pedofilia è solo il più recente tra i segni di avversione che tanti nutrono per il Papa. Bisogna chiedersi come mai questo Pontefice, nonostante la sua mitezza evangelica e l’onestà, la chiarezza delle sue parole unitamente alla profondità del suo pensiero e dei suoi insegnamenti, susciti da alcune parti sentimenti di astio e forme di anticlericalismo che si pensavano superate. E questo, è bene dirlo, suscita ancora maggiore stupore e addirittura dolore, quando a non seguire il Papa e a denunciarne presunti errori sono uomini di Chiesa, siano essi teologi, sacerdoti o laici.

Le inusitate e palesemente forzate accuse del teologo Hans Küng contro la persona di Jopeph Ratzinger teologo, vescovo, Prefetto della Congregazione della Fede e ora Pontefice per aver causato, a suo dire, la pedofilia di alcuni ecclesiastici mediante la sua teologia e il suo magistero sul celibato ci amareggiano nel profondo. Non era forse mai accaduto che la Chiesa fosse attaccata in questo modo. Alle persecuzioni nei confronti di tanti cristiani, crocefissi in senso letterale in varie parti del mondo, ai molteplici tentativi per sradicare il cristianesimo nelle società un tempo cristiane con una violenza devastatrice sul piano legislativo, educativo e del costume che non può trovare spiegazioni nel normale buon senso si aggiunge ormai da tempo un accanimento contro questo Papa, la cui grandezza provvidenziale è davanti agli occhi di tutti.

A questi attacchi fanno tristemente eco quanti non ascoltano il Papa, anche tra ecclesiastici, professori di teologia nei seminari, sacerdoti e laici. Quanti non accusano apertamente il Pontefice, ma mettono la sordina ai suoi insegnamenti, non leggono i documenti del suo magistero, scrivono e parlano sostenendo esattamente il contrario di quanto egli dice, danno vita ad iniziative pastorali e culturali, per esempio sul terreno delle bioetica oppure del dialogo ecumenico, in aperta divergenza con quanto egli insegna. Il fenomeno è molto grave in quanto anche molto diffuso.

Benedetto XVI ha dato degli insegnamenti sul Vaticano II che moltissimi cattolici apertamente contrastano, promuovendo forme di controformazione e di sistematico magistero parallelo guidati da molti “antipapi”; ha dato degli insegnamenti sui “valori non negoziabili” che moltissimi cattolici minimizzano o reinterpretano e questo avviene anche da parte di teologi e commentatori di fama ospitati sulla stampa cattolica oltre che in quella laica; ha dato degli insegnamenti sul primato della fede apostolica nella lettura sapienziale degli avvenimenti e moltissimi continuano a parlare di primato della situazione, o della prassi o dei dati delle scienze umane; ha dato degli insegnamenti sulla coscienza o sulla dittatura del relativismo ma moltissimi antepongono la democrazia o la Costituzione al Vangelo. Per molti la Dominus Iesus, la Nota sui cattolici in politica del 2002, il discorso di Regensburg del 2006, la Caritas in veritate è come se non fossero mai state scritte.

La situazione è grave, perché questa divaricazione tra i fedeli che ascoltano il Papa e quelli che non lo ascoltano si diffonde ovunque, fino ai settimanali diocesani e agli Istituti di scienze religiose e anima due pastorali molto diverse tra loro, che non si comprendono ormai quasi più, come se fossero espressione di due Chiese diverse e procurando incertezza e smarrimento in molti fedeli.

In questi momenti molto difficili, il nostro Osservatorio si sente di esprimere la nostra filiale vicinanza a Benedetto XVI. Preghiamo per lui e restiamo fedelmente al suo seguito.

------------

Mons. Giampaolo Crepaldi è Arcivescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuân”.

Medjugorie

Costituita una Commissione di inchiesta vaticana su Medjugorje

Presso la Congregazione per la Dottrina della Fede

CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 17 marzo 2010 (ZENIT.org).- “È stata costituita presso la Congregazione per la Dottrina della Fede, sotto la presidenza del Cardinale Camillo Ruini, una Commissione internazionale di inchiesta su Medjugorje”. E' quanto ha annunciato questo mercoledì la Sala Stampa vaticana.

La Commissione vaticana studierà i fatti legati a Medjugorje, un piccolo villaggio della Bosnia-Erzegovina, situato a circa trenta chilometri dal capoluogo di Mostar, che dal 1981 è meta di pellegrinaggio di milioni di persone.

“Detta Commissione – continua la nota vaticana –, composta da Cardinali, Vescovi, periti ed esperti, lavorerà in maniera riservata, sottoponendo l’esito del proprio studio alle istanze del Dicastero”, guidato dal Cardinale statunitense William Levada.

“Il lavoro è molto discreto, data la delicatezza dell'argomento, e durerà un bel po' di tempo”, ha precisato il direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi, S.I.

Interpellato dai giornalisti, il portavoce vaticano ha ricordato che, in passato, esisteva una Commissione diocesana che, in ragione della vastità del fenomeno, decise di affidare l'indagine alla Conferenza episcopale della Jugoslavia, che in seguito alla dissoluzione del Paese balcanico, non potè concludere i propri lavori.

In una sua dichiarazione su Medjugorje del 10 aprile del 1991, l'episcopato affermò di non poter constatare nulla di soprannaturale in quanto accadeva e sottolineò la necessità di assistere a livello pastorale, sotto la responsabilità del parroco e del Vescovo locale, tutti coloro che si recavano a pregare in quel luogo.

“Per questo motivo – ha ricordato padre Lombardi - i Vescovi della Bosnia ed Erzegovina hanno chiesto alla Congregazione per la Dottrina della Fede di prendere in mano la questione”.

La Commissione sarà quindi presieduta dal Presidente emerito della Conferenza Episcopale Italiana e sarà composta da una ventina circa di membri.

A novembre dello scorso anno, l'Arcivescovo di Sarajevo e Presidente della Conferenza Episcopale Bosniaca, il Cardinale Vinko Puljić, in una intervista a ZENIT aveva espresso il desiderio di poter avere indicazioni dalla Santa Sede “sulla costituzione di una commissione che segua il fenomeno, registrando i contenuti delle apparizioni e dei messaggi tenuto conto che ad oggi sono più di trentamila”.

Le apparizioni di Medjugorje avrebbero avuto inizio il 24 giugno del 1981, Solennità di san Giovanni Battista, quando la Madonna sarebbe apparsa su una collina chiamata in croato Podbrdo ad alcuni ragazzi dai 12 ai 20 anni, presentandosi loro come Regina della Pace.

Secondo quanto si racconta, da quel 1981 le apparizioni continuerebbero fino ad oggi. Si dice, inoltre, che ci siano stati solo cinque giorni senza apparizioni nel 1981-1982. I nomi dei sei veggenti sono: Vicka Ivankovic, Marija Pavlovic, Mirjana Dragicevic, Ivan Dragicevic, Ivanka Ivankovic e Jakov Colo.

Attualmente tre dei sei veggenti avrebbero ancora le apparizioni quotidiane (Vicka, Marija e Ivan), mentre agli altri la Madonna apparirebbe solo una volta all'anno.

La veggente Mirjana riceverebbe le apparizioni il due di ogni mese, durante le quali la Madonna prega con lei per i non credenti.

La Madonna lascerebbe ai veggenti molti messaggi che hanno come tema: la preghiera, il digiuno, la conversione, la riconciliazione e la confessione.

Stando ai dati raccolti, dal 1984 al 1987 la Madonna dà alla parrocchia di Medjugorje un messaggio ogni giovedì. Dal 1987 tramite la veggente Marija, la Madonna continua a dare i suoi messaggi il 25 di ogni mese, dalla parrocchia a tutto il mondo.

Ai sei veggenti la Madonna avrebbe rivelato anche dieci segreti. A tre di loro che non hanno più le apparizioni quotidiane (Ivanka, Mirjana, Jakov), la Madonna avrebbe rivelato tutti e dieci i segreti; agli altri tre (Vicka, Marija e Ivan), solo nove.

Il contenuto dei segreti è conosciuto solo dai veggenti. Si conosce solo il terzo segreto: un segno indelebile, visibile da tutti, indistruttibile e bellissimo, che la Madonna promette di lasciare sulla collina delle apparizioni, come conferma della loro veridicità.

Questi segreti verranno rivelati al mondo da un sacerdote francescano, padre Petar Ljubicic, scelto dalla veggente Mirjana, la quale comunicherà i segreti al francescano quando arriverà il tempo stabilito.

giovedì 18 marzo 2010

Testo dell'omelia di Benedetto XVI alla comunità luterana di Roma

Traduzione italiana dell'omelia pronunciata in tedesco da Benedetto XVI durante la sua visita alla comunità luterana di Roma, domenica scorsa. Ecco il testo integrale:

Care Sorelle e cari Fratelli,
desidero ringraziare di cuore tutta la comunità, i vostri responsabili, in particolare il parroco Kruse, per avermi invitato a celebrare con voi questa domenica Laetare, questo giorno in cui l’elemento determinante è speranza, che guarda alla luce che dalla resurrezione di Cristo irrompe nelle tenebre della nostra quotidianità, nelle questioni irrisolte della nostra vita. Ella, caro parroco Kruse, ci ha esposto il messaggio di speranza di san Paolo. Il Vangelo, dal dodicesimo capitolo di Giovanni, che io vorrei cercare di spiegare, è anche un Vangelo della speranza e, nello stesso tempo, è un Vangelo della Croce. Queste due dimensioni vanno insieme: poiché il Vangelo si riferisce alla Croce, parla della speranza, e poiché dona speranza, deve parlare della Croce.

Giovanni ci narra che Gesù era salito a Gerusalemme per celebrare la Pasqua e poi dice: “C'erano anche alcuni greci che erano saliti per il culto”. Erano sicuramente uomini del gruppo dei cosiddetti phoboumenoi ton Theon, i “timorati di Dio”, che, al di là del politeismo del loro mondo, erano alla ricerca del Dio autentico che è veramente Dio, alla ricerca dell’unico Dio, al quale appartiene il mondo intero e che è il Dio di tutti gli uomini. E avevano trovato quel Dio, che chiedevano e cercavano, al quale ogni uomo anela in silenzio, nella Bibbia di Israele, riconoscendovi quel Dio che ha creato il mondo. Egli è il Dio di tutti gli uomini e, allo stesso tempo, ha scelto un popolo concreto e un luogo per essere da lì presente tra noi. Sono cercatori di Dio, e sono venuti a Gerusalemme per adorare l'unico Dio, per sapere qualcosa del suo mistero. Inoltre, l'evangelista ci narra che queste persone sentono parlare di Gesù, vanno da Filippo, l'apostolo proveniente da Betsaida, in cui per metà si parlava in greco, e dicono: “Vogliamo vedere Gesù”. Il loro desiderio di conoscere Dio li spinge a voler vedere Gesù e attraverso di lui conoscere più da vicino Dio. “Vogliamo vedere Gesù”: un’espressione che ci commuove, poiché noi tutti vorremmo sempre più veramente vederlo e conoscerlo. Penso che quei greci ci interessano per due motivi: da una parte, la loro situazione è anche la nostra, anche noi siamo pellegrini con la domanda su Dio, alla ricerca di Dio. E anche noi vorremmo conoscere Gesù più da vicino, vederlo veramente. Tuttavia è anche vero che, come Filippo e Andrea, dovremmo essere amici di Gesù, amici che lo conoscono e possono aprire agli altri il cammino che porta a lui. E perciò penso che in quest’ora dovremmo pregare così: Signore, aiutaci a essere uomini in cammino verso di te. Signore, donaci di poterti vedere sempre di più. Aiutaci a essere tuoi amici, che aprono agli altri la porta verso di te. Se ciò portò effettivamente ad un incontro fra Gesù e quei greci, san Giovanni non lo narra. La risposta di Gesù, che egli ci riferisce, va molto al di là di quel momento contingente. Si tratta di una doppia risposta: parla della glorificazione di Gesù che ora iniziava: “È venuta l’ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato” (Gv 12,23). Il Signore spiega questo concetto della glorificazione con la parabola del chicco di grano: “In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto” (v. 24). In effetti, il chicco di grano deve morire, in certo qual modo spezzarsi nel terreno, per assorbire in sé le forze della terra e così divenire stelo e frutto. Per quanto riguarda il Signore, questa è la parabola del suo proprio mistero. Egli stesso è il chicco di grano venuto da Dio, il chicco di grano divino, che si lascia cadere sulla terra, che si lascia spezzare, rompere nella morte e, proprio attraverso questo, si apre e può così portare frutto nella vastità del mondo. Non si tratta più solo di un incontro con questa o quella persona per un momento. Ora, in quanto risorto, è “nuovo” e oltrepassa i limiti spaziali e temporali. Adesso raggiunge veramente i greci. Ora si mostra a loro e parla con loro, ed essi parlano con lui e in tal modo nasce la fede, cresce la Chiesa a partire da tutti i popoli, la comunità di Gesù Cristo risorto, che diventerà il suo corpo vivo, frutto del chicco di grano. In questa parabola possiamo trovare anche un riferimento al mistero dell'Eucaristia: Egli, che è il chicco di grano, cade nella terra e muore.

Così nasce la santa moltiplicazione del pane dell'Eucaristia, nella quale egli diviene pane per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

Ciò, che qui, in questa parabola cristologica, il Signore dice di sé, lo applica a noi in due altri versetti: “Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (v. 25). Penso che quando ascoltiamo ciò, in un primo momento, non ci piace. Vorremmo dire al Signore: Ma cosa ci stai dicendo, Signore? Dobbiamo odiare la nostra vita, noi stessi? La nostra vita non è forse un dono di Dio? Non siamo stati creati a tua immagine? Non dovremmo essere grati e lieti perché ci ha donato la vita? Ma la parola di Gesù ha un altro significato. Naturalmente il Signore ci ha donato la vita, e di questo siamo grati. Gratitudine e gioia sono atteggiamenti fondamentali dell’esistenza cristiana. Sì, possiamo essere lieti perché sappiamo che questa mia vita è da Dio. Non è un caso privo di senso. Io sono voluto e sono amato. Quando Gesù dice che dovremmo odiare la nostra propria vita, intende dire tutt’altro. Pensa qui a due atteggiamenti fondamentali. Uno è quello per cui io vorrei tenere per me la mia vita, per cui considero la mia vita come mia proprietà, considero me stesso come mia proprietà, per cui vorrei sfruttare il più possibile questa vita presente, così da aver vissuto molto vivendo per me stesso. Chi lo fa, chi vive per se stesso e considera e vuole solo se stesso, non si trova, si perde. È proprio il contrario: non prendere la vita, ma darla. Questo ci dice il Signore. E non è che prendendo la vita per noi, noi la riceviamo, ma è donandola, andando oltre noi stessi, non guardando a noi, ma dandosi all’altro nell’umiltà dell’amore, donando la nostra vita a lui e agli altri. Così diveniamo ricchi allontanandoci da noi stessi, liberandoci da noi stessi. Donando la vita, e non prendendola, riceviamo veramente vita.

Il Signore prosegue e afferma, in un secondo versetto: “Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà” (v. 26). Questo donarsi, che in realtà è l’essenza dell’amore, è identico alla Croce. Infatti, la Croce non è altro che questa legge fondamentale del chicco di grano morto, la legge fondamentale dell’amore: che noi diveniamo noi stessi solo quando ci doniamo. Ma il Signore aggiunge che questo donarsi, questo accettare la Croce, questo allontanarsi da sé, è un andare con lui, in quanto noi, andando dietro a lui e seguendo la via del chicco di grano, troviamo la via dell’amore, che subito sembra una via di tribolazione e di fatica, ma proprio per questo è la via della salvezza. Della via della Croce, che è la via dell’amore, del perdersi e del donarsi, fa parte la sequela, l’andare con lui, che è, Egli stesso, la via, la verità e la vita. Questo concetto include anche il fatto che questa sequela si realizza nel “noi”, che nessuno di noi ha il proprio Cristo, il proprio Gesù, che lo possiamo seguire soltanto se camminiamo tutti insieme con lui, entrando in questo “noi” e imparando con lui il suo amore che dona. La sequela si realizza in questo “noi”. Fa parte dell’essere cristiani l’ “essere noi” nella comunità dei suoi discepoli. E questo ci pone la questione dell’ecumenismo: la tristezza per aver spezzato questo “noi”, per aver suddiviso l’unica via in tante vie, e così viene offuscata la testimonianza che dovremmo dare in tal modo, e l’amore non può trovare la sua piena espressione. Che cosa dovremmo dire al riguardo? Oggi ascoltiamo molte lamentele sul fatto che l’ecumenismo sarebbe giunto a un punto di stallo, accuse vicendevoli; tuttavia penso che dovremmo anzitutto essere grati che vi sia già tanta unità. È bello che oggi, domenica Laetare, noi possiamo pregare insieme, intonare gli stessi inni, ascoltare la stessa parola di Dio, insieme spiegarla e cercare di capirla; che noi guardiamo all’unico Cristo che vediamo e al quale vogliamo appartenere, e che, in questo modo, già rendiamo testimonianza che Egli è l’Unico, colui che ci ha chiamati tutti e al quale, nel più profondo, noi tutti apparteniamo. Credo che dovremmo mostrare al mondo soprattutto questo: non liti e conflitti di ogni sorta, ma gioia e gratitudine per il fatto che il Signore ci dona questo e perché esiste una reale unità, che può diventare sempre più profonda e che deve divenire sempre più una testimonianza della parola di Cristo, della via di Cristo in questo mondo. Naturalmente non ci dobbiamo accontentare di ciò, anche se dobbiamo essere pieni di gratitudine per questa comunanza. Tuttavia, il fatto che in cose essenziali, nella celebrazione della santa Eucaristia non possiamo bere allo stesso calice, non possiamo stare intorno allo stesso altare, ci deve riempire di tristezza perché portiamo questa colpa, perché offuschiamo questa testimonianza. Ci deve rendere interiormente inquieti, nel cammino verso una maggiore unità, nella consapevolezza che, in fondo, solo il Signore può donarcela perché un’unità concordata da noi sarebbe opera umana e quindi fragile, come tutto ciò che gli uomini realizzano. Noi ci doniamo a lui, cerchiamo sempre più di conoscerlo e di amarlo, di vederlo, e lasciamo a lui che ci conduca così, veramente, all’unità piena, per la quale lo preghiamo con ogni urgenza in questo momento.

Cari amici, ancora una volta desidero ringraziarvi per questo invito, che mi avete rivolto, per la cordialità, con la quale mi avete accolto – anche per le sue parole, gentile signora Esch. Ringraziamo per aver potuto pregare e cantare insieme. Preghiamo gli uni per gli altri, preghiamo insieme affinché il Signore ci doni l’unità e aiuti il mondo affinché creda. Amen

mercoledì 17 marzo 2010

ora di religione

14:10 - ORA DI RELIGIONE: MONS. ZANI (SANTA SEDE), PIÙ “COLLABORAZIONE” TRA RELIGIONI E SFERA PUBBLICA

“In Europa gli Stati e la società civile, se da una parte manifestano la coscienza del’esigenza del dialogo interreligioso per una società democratica, libera da razzismo, dall’altra assumono comportamenti contraddittori nei riguardi delle religioni, come la marginalizzazione dell’esperienza religiosa a fatto individuale o la considerazione della confessionalità come un ostacolo al dialogo se non addirittura come causa di scontro di civiltà”. A lanciare il grido d’allarme è stato oggi mons. Vincenzo Zani, sottosegretario della Congregazione per l’Educazione cattolica, intervenendo oggi al seminario Cei sull’Irc. Secondo il relatore, “la negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative a vari livelli”, poiché “l’esclusione della religione dall’ambito pubblico come, per altro verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l’incontro tra le persone e la loro collaborazione per il progresso dell’umanità”. Oggi, secondo l’esponente vaticano, c’è “un forte consenso sulla responsabilità delle comunità religiose, circa il compito di contribuire, attraverso il dialogo interreligioso, al rafforzamento della comprensione tra culture diverse”. Di qui la necessità di “maggiori sforzi di collaborazione tra queste e le autorità pubbliche”.

15:00 - ORA DI RELIGIONE: IN EUROPA IL “MODELLO” E’ “CONFESSIONALE”

“L’insegnamento della religione a contenuto confessionale rappresenta il modello largamente prevalente a livello europeo”. E’ quanto risulta da una ricerca Ccee-Cei sull’Insegnamento della religione in Europa, curata da Alberto Campoleoni e da lui presentata nel corso del seminario Cei sull’Irc, in svolgimento a Roma. Dal punto di vista istituzionale, ha spiegato il relatore citando il documento conclusivo della ricerca, il “modello” di Irc “confessionale” si caratterizza per il fatto che lo Stato si dichiara “non competente” in materia religiosa, ma ritiene che essa “faccia parte del patrimonio storico e culturale di cui è necessario offrire le ‘chiavi’ di accesso ai cittadini, nel rispetto delle scelte personali di ciascuno e delle famiglie”. “Il fatto che le finalità dell’insegnamento siano più o meno orientate verso un versante di tipo culturale o di tipo catechistico – ha puntualizzato il relatore – non modifica la sostanza del modello, in cui lo Stato, nel chiedere alle chiese e alle diverse denominazioni religiose di curare tale offerta formativa, non dichiara solo la propria non competenza, ma anche il valore aggiunto rappresentato dal fatto che tale offerta viene da comunità vive e vitali, portatrici certamente di una cultura e di una tradizione che affonda le radici nel passato, ma anche di una testimonianza resa nel presente e proiettata verso il futuro”.
comunità religiose, circa il compito di contribuire, attraverso il dialogo interreligioso, al rafforzamento della comprensione tra culture diverse”. Di qui la necessità di “maggiori sforzi di collaborazione tra queste e le autorità pubbliche”.

Medjugorie

14:37 - MEDJUGORIE: SANTA SEDE, ISTITUITA COMMISSIONE INTERNAZIONALE DI INCHIESTA
È stata costituita presso la Congregazione per la Dottrina della Fede, sotto la presidenza del Cardinale Camillo Ruini, una Commissione internazionale di inchiesta su Medjugorje. Ne dà notizia oggi la Sala Stampa della Santa Sede. La Commissione, composta da cardinali, vescovi, periti ed esperti, lavorerà in maniera riservata, sottoponendo l’esito del proprio studio alle istanze del Dicastero.

***

Rome crée une commission d'enquête sur Medjugorje

Le Saint-Siège a confirmé mercredi 17 mars la création d'une commission, présidée par le cardinal Ruini, pour enquêter sur le phénomène de Medjugorje

C'est par un très court communiqué que le Saint-Siège a confirmé, mercredi 17 mars, la création d’une commission d’enquête sur les apparitions de Medjugorje. Selon le P. Federico Lombardi, directeur de la Salle de presse du Saint-Siège, cette commission entend répondre à une demande émise par les évêques de Bosnie-Herzégovine.

Composée d’une vingtaine de membres (cardinaux, évêques et experts), cette commission présidée par le cardinal Camillo Ruini, ancien vicaire de Rome, est placée sous la houlette de la Congrégation pour la doctrine de la foi. Elle travaillera dans la discrétion «en raison de la délicatesse du sujet», a précisé le P. Lombardi, et ce travail «prendra du temps».

Elle «ne prendra pas elle-même les décisions, mais présentera les résultats de son travail à la Congrégation pour la doctrine de la foi».
La visite du cardinal Schonborn avait créé la polémique

Plusieurs fois évoquée ces derniers mois, la création de cette commission intervient alors que la récente visite à Medjugorje du cardinal autrichien Christoph Schönborn, fin décembre 2009, a provoqué la colère de l’évêque des lieux.

L’archevêque de Vienne, après son séjour «privé» sur le lieu des apparitions, s’était dit «fasciné». Immédiatement après une rencontre avec Benoît XVI, il avait cependant envoyé une lettre d’excuses à l’évêque de Mostar.

La petite localité de Medjugorje, située à 25 kilomètres au sud-ouest de Mostar, serait depuis presque 30 ans le théâtre d’apparitions de la Gospa, la Vierge Marie. Les différents évêques de Mostar, dont le diocèse abrite le sanctuaire marial, n’ont jamais reconnu les apparitions, pas plus que les instances romaines de l’Eglise catholique, sans pour autant y interdire les pèlerinages lucratifs.

martedì 16 marzo 2010

Essere sacerdote: profili pastorali e giuridici

«Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote»

Conferenza di S.E.R. Mons. Raymond Leo Burke
Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica


DALL’ESSERE ALLA FUNZIONE: PROFILI PASTORALI E GIURIDICI

Introduzione
Trattando dei profili pastorali e giuridici dell’essere sacerdotale è essenziale ricordare il servizio umile ma insostituibile prestato dalla disciplina canonica nella Chiesa. Il Venerabile Papa Giovanni Paolo II, nella Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, con la quale egli ha promulgato l’attuale Codice di Diritto Canonico, il 25 gennaio 1983, descrisse in modo lapidario questo servizio, dichiarando:
«E in realtà il Codice di Diritto Canonico è estremamente necessario alla Chiesa. Poiché infatti è costituita come una compagine sociale e visibile, essa ha bisogno di norme: sia perché la sua struttura gerarchica ed organica sia visibile; sia perché l’esercizio delle funzioni a lei divinamente affidate, specialmente quella della sacra potestà e dell’amministrazione dei sacramenti, possa essere adeguatamente organizzato; sia perché le scambievoli relazioni dei fedeli possano essere regolate secondo giustizia, basata sulla carità, garantiti e ben definiti i diritti dei singoli; sia, finalmente, perché le iniziative comuni, intraprese per una vita cristiana sempre più perfetta, attraverso le leggi canoniche vengano sostenute, rafforzate e promosse»[1].
Trattando allora dei profili pastorali e giuridici dell’essere sacerdotale, è necessario tenere sempre in vista la sacra realtà del sacerdozio ordinato, che la disciplina canonica rende visibile, salvaguarda e promuove.

L’essere del sacerdote ordinato
L’essere del sacerdote, in favore del quale la disciplina canonica è al servizio, è stato descritto con queste parole dal Venerabile Papa Giovanni Paolo II:
«Mediante la consacrazione sacramentale, il sacerdote è configurato a Gesù Cristo in quanto Capo e Pastore della Chiesa e riceve in dono un “potere spirituale” che è partecipazione all’autorità con la quale Gesù Cristo mediante il suo Spirito guida la Chiesa»[2].
L’essere del sacerdote è una vera partecipazione alla vita di Gesù, Capo e Pastore del gregge del Padre in ogni luogo e ogni tempo, e così, nelle parole del Venerabile Papa Giovanni Paolo II, «la vita spirituale del sacerdote viene improntata, plasmata, connotata da quegli atteggiamenti e comportamenti che sono propri di Gesù Cristo capo e pastore della Chiesa e che si compendiamo nella sua carità pastorale»[3].
È importante ricordare che il sacerdozio è una vocazione divina, una chiamata ricevuta da Dio, alla quale il chiamato risponde offrendo la sua vita, attraverso la consacrazione o ordinazione. La vocazione è inseparabilmente connessa con la missione sacerdotale, cioè la carità pastorale, quel compendio «degli atteggiamenti e comportamenti che sono propri di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa»[4]. Il sacerdote non sceglie una posizione con certe funzioni in una organizzazione che si chiama la Chiesa, ma egli risponde ad una chiamata, una grazia, e con la consacrazione o ordinazione sacerdotale egli è costituito un vero capo e pastore nella Chiesa, il Corpo di Cristo, nel quale Gesù Cristo stesso, nei suoi sacerdoti, è il Capo e Pastore. Il sacerdote non è un funzionario in una organizzazione, ma un membro insostituibile dell’unità organica che è il Corpo vivente di Cristo.

L’esercizio dell’essere sacerdotale
È opportuno notare subito che la traduzione del testo dalla Costituzione Apostolica Sacrae disciplinae leges, che ho citato all’inizio di questa presentazione, mi sembra alquanto difettoso, perché traduce le parole latine “exercitium munerum” con “l’esercizio delle funzioni”, e l’espressione latina “rite ordinare” con la locuzione “possa essere adeguatamente organizzato”. Il senso ecclesiale e perciò canonico non è organizzare qualche funzione, ma di rispettare l’ordine degli uffici inerenti alla vita organica della Chiesa.
In questo senso, sarebbe più giusto parlare dei profili pastorali e giuridici in termini non di funzione dell’essere sacerdotale, ma in termini di esercizio di una grazia conferita, di manifestazione del “carattere indelebile” impresso nell’anima del sacerdote per la consacrazione conferita. Secondo le parole del Catechismo della Chiesa Cattolica, «è ciò che la Chiesa esprime dicendo che il sacerdote, in virtù dell’Ordine, agisce “in persona Christi capitis” – in persona di Cristo Capo»[5]. Egli non esercita una funzione, ma la vivente “carità pastorale” che viene dal Cuore glorioso di Cristo, seduto alla destra del Padre. Questo è il profondo senso della dichiarazione del Santo Curato d’Ars, «Il sacerdozio è l’amore del Cuore di Gesù»[6]. Così si evita una falsa concezione della disciplina della Chiesa come qualcosa di artificiale e esteriore alla vita profonda della Chiesa, e, in particolare, l’astrazione delle norme canoniche riguardo al sacerdozio dall’essere stesso del sacerdote, il che induce ad un formalismo che porta grave danno alla vita dei singoli sacerdoti e perciò alla vita della Chiesa stessa.
Parlando dei profili pastorali e giuridici, dobbiamo essere chiari fin dall’inizio che la disciplina è al servizio della realtà teologica del sacerdozio ordinato e non c’è un modo giusto canonico di procedere se non rispetta pienamente la realtà che la disciplina esiste per servire, salvaguardare e promuovere.
Vista la grande realtà del sacerdozio ordinato in tutta la vita della Chiesa, la disciplina della Chiesa al servizio della vocazione, ordinazione e missione sacerdotale è ampia e molto ricca. Sarebbe impossibile trattare tutta l’ampiezza della disciplina. Oggi vorrei soltanto parlare di alcuni punti riguardanti la vocazione sacerdotale, l’ordinazione sacerdotale, e l’esercizio della missione sacerdotale, che dimostrano il plurisecolare servizio canonico del grande e insostituibile dono del sacerdozio ordinato nella Chiesa. Parlerò della disciplina della Chiesa latina, ma sempre tenendo conto della disciplina delle Chiese Orientali e annotando, con l’occasione, i canoni delle loro Codice.

L’apostolato della vocazione sacerdotale e il seminario
L’attuale Codice di Diritto Canonico, nei primi canoni del capitolo sulla formazione dei chierici sottolinea il dovere di tutta la Chiesa di promuovere la vocazione di quanti sono chiamati al sacro ministero. La disciplina canonica enuncia la particolare responsabilità della famiglia, degli educatori e dei sacerdoti, specialmente i parroci, nell’apostolato delle vocazioni al ministero sacro, e la somma responsabilità del Vescovo diocesano per la cura di questo apostolato. Can. 233, § 1 dichiara:
«È dovere di tutta la comunità cristiana promuovere le vocazioni affinché si possa convenientemente provvedere alla necessità del sacro ministero in tutta la Chiesa; hanno questo dovere specialmente le famiglie cristiane, gli educatori, e in modo particolare i sacerdoti, soprattutto i parroci. I Vescovi diocesani, ai quali spetta in sommo grado curare la promozione delle vocazioni, rendano consapevole il popolo loro affidato dell’importanza del ministero sacro e della necessità di ministri nella Chiesa, suscitino e sostengano le iniziative atte a favorire le vocazioni, soprattutto mediante le opere istituite a tale scopo»[7].
Il secondo paragrafo dello stesso canone mette in chiaro il dovere dei sacerdoti e dei Vescovi diocesani di dare in modo più impegnativo, «con la parola e con l’opera», aiuto e anche preparazione a chi in età più matura sente la chiamata del Signore al sacro ministero[8] (cf. can. 233, § 2).
La responsabilità particolare della famiglia, della parrocchia e della diocesi per la vocazione di chi è chiamato al sacerdozio trova la sua fonte e ispirazione nell’insostituibile ministero del sacerdote in favore di ciascun fedele e di tutti i fedeli, soprattutto nella celebrazione della Santa Messa. L’attenzione particolare data alle vocazioni sacerdotali non diminuisce la dignità delle altre vocazioni, per esempio, la chiamata al matrimonio o alla vita consacrata, ma riconosce l’essenziale servizio del sacro ministero nella risposta a tutte le vocazioni.
Intimamente connessa con la preghiera e altri modi di sostegno di chi è chiamato al sacerdozio è la responsabilità dei Vescovi diocesani di provvedere seminari ben ordinati per la formazione umana, morale, intellettuale e spirituale dei seminaristi. La disciplina canonica favorisce il seminario diocesano, minore e maggiore, per la formazione dei seminaristi nella comunità ecclesiale, nella quale, Deo volente, serviranno come veri pastori. Giustamente, poi, la disciplina canonica insiste che la formazione dei seminaristi «sia impostata in modo che sentano la sollecitudine non solo della Chiesa particolare al servizio della quale sono incardinati, ma anche della Chiesa universale e in modo che si dimostrino pronti a dedicarsi alle Chiese particolari in cui urgano gravi necessità»[9].
I canoni da 234 a 264 trattano di tutta la disciplina essenziale che regge la formazione sacerdotale nel seminario. Non è possibile in questa sede fare l’esame dettagliato di singoli canoni, tutti quanti di somma importanza per una retta cura di quelli che stanno rispondendo alla vocazione sacerdotale. Può essere, però, di aiuto annotare qualche norma fondamentale.
Il can. 242, § 1 richiede che ogni nazione abbia una Ratio per la formazione sacerdotale, «emanata dalla Conferenza Episcopale sulla base delle norme fissate dalla suprema autorità della Chiesa e approvata dalla Santa Sede»[10]. Per mezzo della Ratio la saggezza della disciplina canonica, sviluppata lungo i secoli cristiani, si applica alle situazioni particolari di ogni luogo. Questa Ratio deve essere osservata in tutti i seminari del territorio[11]. Per esempio, la Ratio deve stabilire delle disposizioni riguardo all’ammissione dei seminaristi. Qui si deve notare la disciplina particolare da osservare nel caso dell’ammissione di qualcuno che è stato dimesso «da un altro seminario o da un istituto religioso»[12].
Al centro della disciplina, a partire dall’origine divina della vocazione e in vista dell’identità nuova che l’ordinazione sacerdotale conferisce sul chiamato, vi sono tutte le disposizioni che riguardano la formazione e la vita spirituale dei seminaristi. C’è il rispetto assoluto del foro interno stabilito per il rapporto del seminarista con il confessore e il direttore spirituale. Per esempio, nel prendere la decisione di ammettere un candidato per il seminario o dimettere un seminarista «non può mai essere richiesto il parere del direttore spirituale e dei confessori»[13].
Il Sacramento dell’Eucaristia è necessariamente il cuore della vita spirituale del seminarista e «il centro di tutta la vita del seminario»[14]. Il luogo principale per la scoperta della vocazione sacerdotale si trova nel rapporto con il Signore Gesù, realmente presente nel Santissimo Sacramento. Unita alla devozione eucaristica è la fedeltà alla celebrazione della Liturgia delle Ore, «mediante la quale i ministri di Dio lo invocano a nome della Chiesa per tutto il popolo loro affidato, anzi per tutto il mondo»[15].
La disciplina canonica, rispettando la natura stessa della vocazione sacerdotale, provvede anche che il seminarista coltivi la devozione alla Beata Vergine Maria, specialmente con la preghiera del Santo Rosario, utilizzi altre forme di preghiera e devozione, e si formi alla confessione regolare dei suoi peccati[16]. Gli annuali esercizi spirituali devono diventare una parte essenziale della formazione spirituale del futuro sacerdote[17].
La formazione ad accogliere e vivere il sacro celibato è anche essenziale alla preparazione del seminarista per l’ordinazione. La disciplina canonica sottolinea l’importanza dell’educazione a ricevere il dono del celibato[18]. Questa educazione è posta nel contesto dello sviluppo della consapevolezza «dei doni e degli oneri che sono propri dei ministri sacri della Chiesa, senza alcuna reticenza sulle difficoltà della vita sacerdotale»[19].

Gli impedimenti e le irregolarità
Oltre ai requisiti per l’ordinazione sacerdotale, la Chiesa lungo i secoli ha definito delle condizioni del candidato che gli impediscono di ricevere il Sacramento dell’Ordine o lo rendono irregolare a riceverlo, affinché si verifichi prima dell’ordinazione che il candidato è degno e adatto allo stato sacerdotale, sia all’ordinazione stessa sia all’esercizio della grazia conferita per l’ordinazione. Le irregolarità sono infatti impedimenti che sono per loro natura perpetui[20], per esempio un’infermità psichica che rende la persona incapace dell’esercizio dell’Ordine, o la commissione del delitto di apostasia, eresia o scisma[21]. È importante nel discernimento della vocazione sacerdotale che il candidato sia conscio degli impedimenti e delle irregolarità, e anche i fedeli, in genere, devono conoscere gli impedimenti affinché possano adempire il loro obbligo di rivelarli «se ne sono a conoscenza, all’Ordinario o al parroco, prima dell’ordinazione»[22].
In un mondo secolarizzato e tra fedeli con una scarsa educazione nella fede e nella sua prassi, è importante più che mai dichiarare e spiegare gli impedimenti e le irregolarità, specialmente a quelli che vogliono entrare in seminario o hanno cominciato i loro studi seminaristici. Nel mondo odierno, purtroppo, non è del tutto raro, per esempio, che un candidato abbia avuto qualche positiva cooperazione in un aborto procurato[23]. Due lettere circolari della Congregazione per l’Educazione Cattolica hanno infatti insistito sul dovere dei Vescovi e di altri organismi della Chiesa di informare i candidati al più presto possibile della disciplina canonica sugli impedimenti e le irregolarità[24].
Ci sono anche irregolarità e impedimenti riguardo all’esercizio dell’Ordine già ricevuto[25]. Per quanto riguarda la dispensa dalle irregolarità e dagli impedimenti, si deve osservare la disciplina enunciata nei cann. 1047-1049[26].

L’incardinazione
L’istituto canonico dell’incardinazione esprime e salvaguarda la comunione del singolo sacerdote con tutta la Chiesa, la comunione garantita dal ministero del Successore di San Pietro e i Vescovi in comunione con lui. La disciplina dell’incardinazione, come anche dichiara il can. 265, non prevede l’esistenza di un chierico acefalo o girovago[27]. Allo stesso tempo, l’istituto dell’incardinazione dà forma alla paternità del Vescovo o superiore religioso, che è essenziale per l’esercizio efficace del ministero sacerdotale. Il Venerabile Papa Giovanni Paolo II, nell’Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis, scrisse del più profondo senso dell’istituto canonico dell’incardinazione con queste parole:
«In questa prospettiva [l’essenziale e irrinunciabile dimensione ecclesiale della vita spirituale del sacerdote] occorre considerare come valore spirituale del presbitero la sua appartenenza e la sua dedicazione alla Chiesa particolare. Queste, in realtà, non sono motivate soltanto da ragioni organizzative e disciplinari. Al contrario, il rapporto con il Vescovo nell’unico presbiterio, la condivisione della sua sollecitudine ecclesiale, la dedicazione alla cura evangelica del popolo di Dio nelle concrete condizioni storiche e ambientali della Chiesa particolare sono elementi dai quali non si può prescindere nel delineare la configurazione propria del sacerdote e della sua vita spirituale. In questo senso l’incardinazione non si esaurisce in un vincolo puramente giuridico, ma comporta anche una serie di atteggiamenti e di scelte spirituali e pastorali, che contribuiscono a conferire una fisionomia specifica alla figura vocazionale del presbitero»[28].
L’incardinazione non è uno strumento organizzativo di un’associazione, ma una disciplina che serve l’unità organica del Corpo di Cristo nel ministero sacerdotale che è al suo cuore.
Le singole norme riguardanti l’incardinazione e l’escardinazione sono tutte indirizzate al bene del sacerdote e della Chiesa, particolare e universale, per il servizio della quale egli è stato consacrato. Il tempo non ci consente di trattare delle norme contenute nei canoni dal 265 al 272[29], ma la loro accurata conoscenza è certamente necessaria per la retta disciplina della vita sacerdotale.
Si deve indicare una certa lacuna nella disciplina attuale della Chiesa Latina nella materia dell’incardinazione, della quale vale la pena di prendere nota. Nel caso di un sacerdote dimesso da un istituto religioso, l’attuale disciplina permette l’esercizio del Sacro Ordine senza incardinazione, se il sacerdote trova un vescovo che permetta un tale esercizio del ministero sacerdotale. Il can. 701 recita:
«Con la legittima dimissione cessano, per il fatto stesso, i voti e insieme gli obblighi derivanti dalla professione. Tuttavia se il religioso è chierico, non può esercitare gli ordini sacri se prima non ha trovato un Vescovo il quale, dopo un conveniente periodo di prova nella diocesi a norma del can. 693, lo accolga o almeno gli consenta l’esercizio degli ordini sacri»[30].
Non essendo incardinato né in un istituto religioso né in una diocesi, il sacerdote di fatto manca di una paternità nel suo ministero, cioè è acefalo. Finché questa lacuna nella disciplina canonica non sarà colmata, si deve aiutare un sacerdote in tale condizione a conseguire l’incardinazione o almeno cominciare il processo per essere incardinato in una diocesi.
Il can. 494, § 1 del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali colma questa lacuna, prescrivendo che:
«Il monaco di voti perpetui e costituito nell’ordine sacro, se ha ottenuto l’indulto di separarsi dal monastero e di ritornare al secolo, non può esercitare gli ordini sacri finché non abbia trovato un Vescovo eparchiale benevolo che lo accolga»[31].
Nel secondo paragrafo dello stesso canone è stabilito che il Vescovo eparchiale può accogliere il sacerdote senza un periodo di esperimento o per un periodo di sperimento di cinque anni. La norma specifica che «nel primo caso il monaco è ascritto all’eparchia per il diritto stesso, nel secondo invece lo è quando sono passati cinque anni, a meno che non sia stato prima espressamente dimesso»[32]. Nella disciplina delle Chiese Orientali un Vescovo non può acconsentire all’esercizio dell’Ordine Sacro di un sacerdote acefalo senza aver almeno messo in movimento il processo di incardinazione per lo stesso sacerdote.

L’ufficio pastorale
Fra i diritti del chierico, e specificamente, del sacerdote, vi è il diritto di «ottenere uffici il cui esercizio richieda la potestà di ordine o la potestà di governo ecclesiastico»[33]. Questo diritto è, infatti, allo stesso tempo, un obbligo per il sacerdote che è consacrato per esercitare l’ufficio pastorale che comprende nella sua integrità il governo ecclesiastico. Il secondo paragrafo del canone 274 sottolinea l’essenziale rapporto fra diritto e obbligo, dichiarando:
«I chierici, se non sono scusati da un impedimento legittimo, sono tenuti ad accettare e adempiere fedelmente l’incarico loro affidato dal proprio Ordinario»[34].
Allo stesso tempo, è consentito nominare un solo parroco o sacerdote moderatore in ciascuna parrocchia[35]. In questa disciplina vediamo riflessa la visione canonica dell’essere sacerdotale, cioè agire nella persona di Gesù Cristo Capo e Pastore della Chiesa.
Lasciando da parte i singoli diritti e doveri del sacerdote, enunciati nei cann. 273-289[36], vorrei soffermarmi in una breve considerazione della disciplina canonica sull’officio del parroco, per illustrare ancora di più come il diritto canonico serve la realtà teologica della vita organica della Chiesa.
La parrocchia per definizione gode del suo proprio pastore, il parroco[37]. Anche nel caso della parrocchia sotto la cura pastorale esercitata da più sacerdoti in solido e nel caso della parrocchia nella quale una persona che non è sacerdote ordinato partecipa nell’esercizio della cura pastorale, la disciplina richiede che un sacerdote serva come moderatore dell’esercizio della cura pastorale[38]. In ogni caso, la norma è la presenza del sacerdote che in virtù della grazia dell’Ordine, non di un principio di organizzazione, agisce nella persona di Cristo, l’unico e vero Pastore e Capo di ogni parrocchia nella Chiesa. Questa verità si esprime nella descrizione dell’ufficio del parroco nel can. 519, che recita:
«Il parroco è il pastore proprio della parrocchia affidatagli, esercitando la cura pastorale di quella comunità sotto l’autorità del Vescovo diocesano, con il quale è chiamato a partecipare al ministero di Cristo, per compiere al servizio della comunità le funzioni di insegnare, santificare e governare, anche con la collaborazione di altri presbiteri o diaconi e con l’apporto dei fedeli laici, a norma del diritto»[39].
Data la natura stessa dell’ufficio di parroco, la disciplina canonica indica i requisiti essenziali di cui il Vescovo deve tener conto nella nomina del parroco[40] e sottolinea l’importanza della stabilità del sacerdote nell’ufficio[41].
Qui è bene notare la responsabilità del parroco per l’amministrazione dei beni temporali della parrocchia. Talvolta per una falsa nozione di pastorale, l’amministrazione dei beni temporali è vista come estranea al ministero pastorale. Il can. 532, al contrario, recita:
«Il parroco rappresenta la parrocchia, a norma del diritto, in tutti i negozi giuridici; curi che i beni della parrocchia siano amministrati a norma dei cann. 1281-1288»[42].
Certamente, il parroco ha bisogno dell’aiuto dei fedeli nella retta amministrazione dei beni temporali della parrocchia. Si pensi, per esempio, ai membri del consiglio parrocchiale per gli affari economici, che è obbligatorio in ogni parrocchia secondo la legislazione universale; è, però, lui che alla fine ha la responsabilità di provvedere che i beni temporali servano nel modo più efficace possibile la missione spirituale della parrocchia[43].
La disciplina canonica indica i doveri principali del parroco, cioè l’annuncio della Parola di Dio, trasmessa nella sua integrità dal Magistero della Chiesa[44], e il concentrare la vita parrocchiale nella celebrazione della Santissima Eucaristia e dei Sacramenti, in genere, e specialmente del Sacramento della Penitenza[45]. Intimamente connessa con i suoi sforzi a fare del Sacratissimo Sacramento e degli altri Sacramenti «il centro dell’assemblea parrocchiale dei fedeli», è la promozione della vita di preghiera e della devozione fra i parrocchiani[46]. Egli ha la responsabilità di moderare le celebrazioni della Sacra Liturgia nella parrocchia «sotto l’autorità del Vescovo diocesano e sulla quale è tenuto a vigilare perché non si insinuino abusi»[47]. Ricordando la massima di Prospero di Aquitania, “La legge del pregare stabilisce la legge del credere”, si capisce quanto è importante la cura del parroco e dei sacerdoti in genere per la celebrazione degna della Sacra Liturgia, secondo le norme contenute nei libri liturgici approvati[48].
Il Codice di Diritto Canonico indica anche i modi essenziali con i quali il parroco adempie le sue responsabilità, cioè la conoscenza personale dei fedeli e la loro cura pastorale nelle varie circostanze, liete e tristi, della loro vita. Il can. 529, § 1 recita:
«Per adempiere diligentemente l’ufficio di pastore, il parroco cerchi di conoscere i fedeli affidati alle sue cure; perciò visiti le famiglie, partecipando alle sollecitudini dei fedeli, soprattutto alle loro angosce e ai loro lutti, confortandoli nel Signore e, se hanno mancato in qualche cosa, correggendoli con prudenza; assista con traboccante carità gli ammalati, soprattutto quelli vicini alla morte, nutrendoli con sollecitudine dei sacramenti e raccomandandone l’anima a Dio; con speciale diligenza sia vicino ai poveri, agli afflitti, a coloro che sono soli, agli esuli e così pure a tutti coloro che attraversano particolari difficoltà; si impegni anche perché gli sposi e i genitori siano sostenuti nell’adempimento dei doveri e favorisca l’incremento della vita cristiana nella famiglia»[49].
Affinché i fedeli adempiano le loro responsabilità per la missione della Chiesa, specialmente nei vari settori del loro impegno nel mondo, il parroco riconosca e promuova la loro distinta identità come laici, anche attraverso il sostegno delle loro proprie associazioni[50].
Il parroco ha anche la responsabilità di promuovere la sana coscienza ecclesiale fra i fedeli, «impegnandosi anche perché i fedeli si prendano cura di favorire la comunione parrocchiale, perché si sentano membri e della diocesi e della Chiesa universale e perché partecipino e sostengano le opere finalizzate a promuovere tale comunione»[51]. Così i fedeli si formeranno, secondo l’esempio dato dal parroco, una coscienza della natura cattolica della Chiesa.
Ci sono altre indicazioni importanti che riguardano l’ufficio insostituibile del parroco nella comunità parrocchiale dei fedeli, quali, per esempio, le norme riguardanti le celebrazioni principali liturgiche affidate al parroco[52], l’applicazione della Messa per il popolo ogni domenica e giorno di precetto[53], la cura dei registri parrocchiali e dell’archivio nel quale gli stessi devono essere conservati[54] nonché la residenza e la presenza costante del parroco in parrocchia[55]. In tutte queste norme troviamo il tesoro della saggezza pastorale della Chiesa e perciò un riflesso della carità pastorale di Cristo, Capo del Suo Corpo Mistico. In questo contesto, sarebbe di grande utilità il rinnovato studio del Direttorio per il Ministero e la Vita dei Presbiteri pubblicato il 31 gennaio 1994 dalla Congregazione del Clero, un documento che sembra troppo poco conosciuto e considerato[56].

La cessazione dall’ufficio del parroco
Data la dignità sacramentale dell’ufficio sacerdotale, l’importanza dell’ufficio del parroco nella vita di tutti i fedeli e la sua nativa stabilità, la disciplina ecclesiale ha sviluppato norme particolari che governano la cessazione da questo ufficio. Il can. 538, § 1 elenca i modi con i quali un parroco cessa dall’ufficio:
«Il parroco cessa dall’ufficio con la rimozione o il trasferimento deciso da parte del Vescovo diocesano a norma del diritto, con la rinuncia fatta dal parroco stesso per giusta causa, la quale, per essere valida, deve essere accettata dal Vescovo, e inoltre cessa allo scadere del tempo se fu costituito a tempo determinato, secondo le disposizioni del diritto particolare di cui nel can. 522»[57].
Le norme particolari sui vari modi di perdita dell’ufficio ecclesiastico si trovano nei cann. 184-196[58]. L’attenta osservanza di queste norme protegge e salvaguarda i diritti di tutti quanti sono coinvolti, il parroco, i parrocchiani e la Chiesa stessa.
Per rispettare il significato dell’ufficio del parroco per il sacerdote stesso e per i fedeli affidati alla sua cura pastorale, la Chiesa ha sviluppato una procedura ben articolata sia per la rimozione sia per il trasferimento di un parroco. La procedura per la rimozione è articolata nei cann. 1740-1747[59] e quella per il trasferimento nei cann. 1748-1752[60]. Non è il caso in questa sede di rivedere i singoli canoni, ma almeno di sottolineare la figura diversa delle due procedure e consigliare la limpidezza nella loro applicazione: non si deve, per esempio, utilizzare la procedura per il trasferimento quando è prescritta la procedura per la rimozione perché «il ministero di un parroco per qualche causa, anche senza sua colpa grave, risulti dannoso o almeno inefficace»[61]. La procedura per il trasferimento invece è indicata per «il bene delle anime oppure la necessità o l’utilità della Chiesa» e per sé presuppone che il parroco da essere trasferito sta governando bene la parrocchia dalla quale sarà trasferito[62].

L’applicazione delle pene per delitti commessi da un sacerdote

È necessario, infine, trattare la questione delle pene inflitte ad un sacerdote per i delitti commessi. Come tutta la disciplina canonica, così anche la disciplina penale da applicare nel caso di un delitto commesso da un sacerdote deve rispettare il carattere distinto e indelebile impresso nell’anima sacerdotale e l’ufficio distinto e insostituibile del sacerdote nel Corpo di Cristo. Non si può entrare in questa sede in tutti i dettagli del diritto penale e disciplinare.
È importante però sottolineare la distinzione tra la censura o pena medicinale, per esempio, la sospensione, nel caso di un sacerdote[63]; la pena espiatoria, per esempio, la dimissione dallo stato clericale per un sacerdote[64]; i rimedi penali e penitenze che hanno lo scopo di prevenire un delitto[65]; la procedura da seguire nell’applicazione di ciascuna forma di pena, rimedio o penitenza, anche attraverso un incremento nel caso di un sacerdote che non si pente[66], e finalmente la distinzione tra l’applicazione di una pena per via amministrativa e per via giudiziaria[67].
In questi ultimi anni, la Chiesa, specialmente negli Stati Uniti, ha sofferto lo scandalo dell’abuso sessuale dei minori da parte di sacerdoti. La situazione oggettiva di un sacerdote che ha abusato di un minore è gravissima in sé stessa. È una violazione della sacra fiducia del gregge nel pastore, che infligge le più gravi ferite al Corpo di Cristo.
Un certo forte coinvolgimento dei mezzi di comunicazione e degli avvocati ha aumentato fortemente il livello dello scandalo e ha reso molto difficile il giudizio oggettivo sulla situazione in se stessa e dei singoli casi di accusa. Lo sforzo di rispondere agli interventi dei mezzi di comunicazione e degli avvocati ha creato facilmente anche un certo pregiudizio contro la adeguatezza della disciplina ecclesiastica nei confronti della predetta situazione.
La Chiesa ha subito la ripetuta accusa di non esser in grado di applicare la giusta disciplina in questa gravissima fattispecie. Molti Vescovi hanno insistito sulla necessità di proteggere i fedeli da un sacerdote propenso all’abuso dei minori e di prevenire l’aumento dello scandalo.
Sarebbe auspicabile la preparazione di un’istruzione da seguire nella trattazione delle cause penali da parte dei Vescovi e dei loro tribunali, come si è fatto nella Chiesa latina con la Istruzione Dignitas connubii per le cause di nullità matrimoniali. Non si può non osservare, per esempio, che già una norma del diritto universale, ossia il can. 1722, contribuisce alla prevenzione degli scandali e di altri pericoli nello svolgimento di un processo penale[68].
La Chiesa, specialmente nei suoi membri più piccoli e meno difesi, ha sofferto una ferita gravissima per gli atti di abuso di minori, commessi dai sacerdoti, ma il giusto rimedio, il rimedio della situazione, che proteggerà e salvaguarderà la Chiesa, si deve cercare nella prassi canonica, sviluppata lungo i secoli e articolata nell’attuale legislazione universale. Nella celebrazione del grande dono del sacerdote ordinato nella Chiesa, «l’amore del Cuore di Gesù»[69], non sembra giusto prescindere da una accurata e completa considerazione dell’attuale situazione dell’applicazione delle pene ecclesiastiche nei casi di sacerdoti accusati dei menzionati delitti.

Conclusione
In conclusione, la considerazione di alcuni istituti della disciplina canonica per quanto riguarda il sacerdozio ordinato illustra l’importante servizio del diritto canonico nella Chiesa, a protezione e salvaguardia della realtà sacra del sacerdozio ordinato nella Chiesa. Tale studio ispira un rispetto più profondo per la disciplina canonica della Chiesa, come veicolo insostituibile di rispetto per il grande dono del sacerdote ordinato.
Il Santo Padre, Papa Benedetto XVI, nell’indizione dell’Anno Sacerdotale, ha proposto lo scopo di tale osservanza, dichiarando «che vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte e incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi»[70]. Ci si augura che la più completa attenzione alla disciplina canonica, specialmente a quelle norme che toccano più direttamente la vocazione, ordinazione e missione del sacerdote ordinato, fornirà il suo essenziale contributo all’interiore rinnovamento dei sacerdoti ordinati e così alla loro più forte testimonianza al Vangelo nel mondo odierno.



[1] «Ac revera Codex Iuris Canonici Ecclesiae omnino necessarius est. Cum ad modum etiam socialis visibilisque compaginis sit constituta, ipsa normis indiget ut eius hierarchica et organica structura adspectabilis fiat, ut exercitium munerum ipsi divinitus creditorum, sacrae praesertim potestatis et administrationis sacramentorum rite ordinetur, ut secundum iustitiam in caritate innixam mutuae christifidelium necessitudines componantur, singulorum iuribus in tuto positis atque definitis, ut denique communia incepta, quae ad christianam vitam perfectius usque vivendam suscipiuntur, per leges canonicas fulciantur, muniantur ac promoveantur». Ioannes Paulus PP. II, Constitutio Apostolica Sacrae disciplinae leges, 25 ianuarii 1983, in Acta Apostolicae Sedis 75 (1983) pars II, xii-xiii. Versione italiana: Codice di diritto canonico commentato [= CDCC] a cura della Redazione di Quaderni di diritto ecclesiale, 3ª edizione, Milano: Àncora Editrice, 2009, p. 65.
[2] «Presbyter, per sacramentalem hanc consecrationem, configuratur Christo Iesu quatenus Capiti et Pastori Ecclesiae, atque exinde, donationis instar, recipit eam “spiritualem potestatem” quae participatio est auctoritatis summae qua Christus, per Spiritum suum, ducit Ecclesiam». Ioannes Paulus PP. II, Adhortatio Apostolica Postsynodalis Pastores dabo vobis de sacerdotum formatione in aetatis nostrae rerum condicione, 25 martii 1992, in Acta Apostolicae Sedis 84 (1992) 689, n. 21 [= PDV]. Versione italiana: Enchiridion Vaticanum [= EV], vol. 13, Bologna: Edizioni Dehoniane Bologna, 1995, p. 629, n. 21.
[3] «Spiritualis presbyteri vita instruitur, confingitur, signatur quodammodo iis habitibus, gestibus, placitis, quae Ipsius Christi Iesu, Capitis et Pastoris Ecclesiae, propria sunt, et quae compendio efficiunt caritatem quam dicimus pastoralem». Ibid., 690. Versione italiana: ibid., p. 629.
[4] «iis habitibus, gestibus, placitis, quae Ipsius Christi Iesu, Capitis est Pastoris Ecclesiae, propria sunt». Ibid., 690. Versione italiana: ibid., p. 629.
[5] «Hoc est quod Ecclesia exprimit affirmans sacerdotem, virtute sacramenti Ordinis, in persona Christi Capitis agere». Catechismus Catholicae Ecclesiae, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1997, n. 1548. Versione italiana: Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1992, n. 1548.
[6] «Le sacerdoce, c’est l’amour du Coeur de Jésus». A. Monnin, Esprit du Curé d’Ars, Paris: Pierre Téqui Éditeur, 2007, p. 90. Versione italiana: Alfred Monnin, Spirito del Curato d’Ars, tr. Maria Belardetti Maraschini, Milano: Edizioni Ares, 2009, p. 79.
[7] «Universae communitati christianae officium incumbit fovendarum vocationum, ut necessitatibus ministerii sacri in tota Ecclesia sufficienter provideatur; speciatim hoc officio tenentur familiae christianae, educatores atque peculiari ratione sacerdotes, praesertim parochi. Episcopi dioecesani, quorum maxime est de vocationibus provehendis curam habere, populum sibi commissum de momento ministerii sacri deque ministrorum in Ecclesia necessitate edoceant, atque incepta ad vocationes fovendas, operibus praesertim ad hoc institutis, suscitent ac sustentent» (can. 233, § 1). Versione italiana: CDCC. Cf. Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium [= CCEO], cann. 329 e 380.
[8] «verbo opereque» (can. 233, § 2). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, cann. 329, §1, nn. 2-3 e 380.
[9] «Ita provideatur, ut non tantum Ecclesiae particularis in cuius servitio incardinentur, sed universae quoque Ecclesiae sollicitudinem habeant, atque paratos se exhibeant Ecclesiis particularibus, quarum gravis urgeat necessitas, sese devovere» (can. 257, § 1). Versione italiana: CDCC. Non c’è un canone corrispondente nel CCEO.
[10] «Ab Episcoporum conferentia, attentis quidem normis a suprema Ecclesiae auctoritate latis, statuenda et a Sancta Sede approbanda» (can. 242, § 1). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 330, §§ 1-3.
[11] Cf. can. 242, § 2. Non c’è un canone corrispondente nel CCEO.
[12] «Ex alieno seminario vel instituto religioso dimissi fuerint» (can. 241, § 3). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 342, § 3.
[13] «Numquam directoris spiritus et confessariorum votum exquiri potest» (can. 240, § 2). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 339, § 3.
[14] «centrum … totius vitae seminarii» (can. 246, § 1). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 346, § 2, n. 2.
[15] «Qua Dei ministri, nomine Ecclesiae pro toto populo sibi commisso, immo pro universo mundo, Deum deprecantur» (can. 246, § 2). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 346, § 2, n. 3.
[16] Cf. can. 246, §§ 2-4 e CCEO, can. 346, § 2, nn. 4-6, senza la menzione del Santo Rosario.
[17] Cf. can. 246, § 5 e CCEO, can. 346, § 2, n. 6.
[18] Cf. can. 247, § 1. Nel can. 355 del CCEO si tratta dell’educazione riguardante gli obblighi dei chierici, senza menzione specifica del sacro celibato.
[19] «De officiis et oneribus quae ministris sacris propria sunt … nulla vitae sacerdotalis difficultate reticita» (can. 247, § 2). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 355.
[20] Cf. can. 1040. Non c’è un canone corrispondente nel CCEO.
[21] Cf. can. 1041, nn. 1-2. Cf. CCEO, can. 762, § 1, nn. 1-2.
[22] «Si qua norint, Ordinario vel parocho ante ordinationem» (can. 1043). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 771, § 2.
[23] Cf. can. 1041, nn. 4 e CCEO, can. 762, § 1, n. 4.
[24] Cf. Lettera circolare del 27 luglio 1992 (Prot. n. 1560/90/18) e Lettera circolare del 2 febbraio 1999 (Prot. n. 1560/90/33).
[25] Cf. can. 1044, §§1-2. Cf. CCEO, can. 763.
[26] Cf. CCEO, cann. 767-768.
[27] Cf. CCEO, can. 357, § 1.
[28] «Rebus ita perspectis [essentiales et non renuntiabiles peculiaritates ecclesiales vitae spiritualis sacerdotalis] valor spiritalis evadit pro presbytero ipsa eius inscriptio ac dedicatio in servitium cuiusdam Ecclesiae particularis. In eo enim vinculo non organizationis dumtaxat et disciplinae normae sunt perpendendae: potiora e contra habeantur tum vinculum ipsum quo singuli ad Episcopum in uno Presbyterio uniuntur, tum participatio in sollicitudinibus ecclesialibus, tum denique dedicatio ad curas evangelicas Populi Dei in concretis adiunctis historicis et temporalibus cuiuscumque Ecclesiae particularis; haec enim talia sunt ut per ea vel maxime designetur quodammodo propria sacerdotis eiusque vitae spiritualis imago, atque eo sensu illa quae “incardinatio” dici solet, non vinculum dumtaxat iuridicum constituit, sed habitudines et optiones, spirituales et pastorales, secum fert, quae non parum conferunt in conficiendum concretum archetypum presbyteri». PDV, n. 31. Versione italiana: EV, vol. 13, p. 667.
[29] Cf. CCEO, cann. 357-366.
[30] «Legitima dimissione ipso facto cessant vota necnon iura et obligationes ex professione promanantia. Si tamen sodalis sit clericus, sacros ordines exercere nequit, donec Episcopum inveniat qui eum post congruam probationem in dioecesi, ad normam can. 693, recipiat vel saltem exercitium sacrorum ordinum permittat» (can. 701). Versione italiana: CDCC.
[31] «Monachus a votis perpetuis et in ordine sacro constitutus, si indultum discedendi a monasterio et redeundi ad saeculum obtinuit, non potest ordines sacros exercere, donec Episcopum eparchialem benevolum receptorem invenerit» (CCEO, can. 494, § 1). Versione italiana: EV, vol. 12.
[32] «In primo casu monachus est ipso iure eparchiae ascriptus, in altero vero exacto quinquennio, nisi antea expresse dimissus est». (CCEO, can. 494, § 2)
[33] «Obtinere … officia ad quorum exercitium requiritur potestas ordinis aut potestas regiminis ecclesiastici» (can. 274, § 1). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 371, § 1.
[34] «Clerici, nisi legitimo impedimento excusentur, munus, quod ipsis a suo Ordinario commissum fuerit, suscipere ac fideliter adimplere tenentur» (can. 274, § 2). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 371, § 2.
[35] Cf. can. 526, § 2. Cf. CCEO, can. 287, § 2.
[36] Cf. CCEO, cann. 368-374; 376-379; 381-386 e 392.
[37] Cf. can. 515, § 1. Cf. CCEO, can. 279.
[38] Cf. can. 517, §§ 1-2. Cf. CCEO, can. 287, § 2.
[39] «Parochus est pastor proprius paroeciae sibi commissae, cura pastorali communitatis sibi concreditae fungens sub auctoritate Episcopi dioecesani, cuius in partem ministerii Christi vocatus est, ut pro eadem communitate munera exsequatur docendi, sanctificandi et regendi, cooperantibus etiam aliis presbyteris vel diaconis, atque operam conferentibus christifidelibus laicis, ad normam iuris» (can. 519). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 281, § 1. La norma orientale non esplicita la natura cristologica dell’ufficio del parroco.
[40] Cf. cann. 521, §§ 1-3 e 524. Cf. CCEO, cann. 281, § 1 e 285, § 1.
[41] Cf. can. 522. Cf. CCEO, can. 284, § 3.
[42] «In omnibus negotiis iuridicis parochus personam gerit paroeciae, ad normam iuris; curet ut bona paroeciae administrentur ad normam cann. 1281-1288» (can. 532). Versione Italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 290, § 1.
[43] Cf. can. 537 e CCEO, can. 295.
[44] Cf. can. 528, § 1 e CCEO, can. 289, § 1.
[45] Cf. can. 528, § 2 e CCEO, can. 289, § 2.
[46] «Centrum … congregationis fidelium paroecialis» (can. 528, § 2). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 289, § 2.
[47] «Sub auctoritate Episcopi dioecesani … ne abusus irrepant, invigilare tenetur» (can. 528, § 2). Versione italiana: CDCC.
[48] «Legem credendi lex statuat supplicandi», citato in A. G. Martimort, L’Église en prière: Introduction à la Liturgie, ed. 3ª, Paris: Desclée, 1965, p. 231.
[49] «Officium pastoris sedulo ut adimpleat, parochus fideles suae curae commissos cognoscere satagat; ideo familias visitet, fidelium sollicitudines, angores et luctus praesertim participans eosque in Domino confortans necnon, si in quibusdam defecerint, prudenter corrigens; aegrotos, praesertim morti proximos, effusa caritate adiuvet, eos sollicite sacramentis reficiendo eorumque animas Deo commendando; peculiari diligentia prosequatur pauperes, afflictos, solitarios, e patria exsules itemque peculiaribus difficultatibus gravatos; allaboret etiam ut coniuges et parentes ad officia propria implenda sustineantur et in familia vitae christianae incrementum foveat» (can. 529, § 1). Versione italiana: CDCC. Cf. CCEO, can. 289, § 3.
[50] Cf. can. 529, § 2. Cf. CCEO, can. 289, § 3.
[51] «Allaborans etiam ut fideles communionis paroecialis curam habeant, iidemque tum dioecesis tum Ecclesiae universae membra se sentiant operaque ad eandem communionem promovendam participent vel sustineant» (can. 529, § 2). Non c’è una norma corrispondente nel CCEO.
[52] Cf. can. 530 e CCEO, can. 290, § 2.
[53] Cf. can. 534, §§ 1-3 e CCEO, can. 295.
[54] Cf. can. 535, §§ 1-5 e CCEO, can. 296, §§ 1-5.
[55] Cf. can. 533, §§ 1-3 e CCEO, can. 292, §§ 1-3.
[56] Congregatio pro Clericis, Directorium pro Presbyterorum Ministerio et Vita, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1994. Versione italiana: Congregazione per il Clero, Direttorio per il Ministero e la Vita dei Presbiteri, Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 1994.
[57] «Parochus ab officio cessat amotione aut translatione ab Episcopo dioecesano ad normam iuris peracta, renuntiatione iusta de causa ab ipso parocho facta et, ut valeat, ab eodem Episcopo acceptata, necnon lapsu temporis si, iuxta iuris particularis de quo in can. 533 praescripta, ad tempus determinatum constitutus fuerit» (can. 538, § 1).
[58] Cf. CCEO, cann. 965-978.
[59] Cf. CCEO, cann. 1389-1396.
[60] Cf. CCEO, cann. 1397-1400.
[61] «Alicuius parochi ministerium ob aliquam causam, etiam citra gravem ipsius culpam, noxium aut saltem inefficax evadat» (can. 1740). Cf. CCEO, can. 1389.
[62] «Bonum animarum vel Ecclesiae necessitas seu utilitas» (can. 1748). Cf. CCEO, can. 1397.
[63] Cf. cann. 1312, § 1, n. 1; 1331-1333; CCEO, cann. 1401 e 1431-1434.
[64] Cf. cann. 1313, § 1, n. 2; 1336; CCEO, cann. 1429-1430 e 1433, §§ 1- 2
[65] Cf. cann. 1312, § 3; 1339-1340; CCEO, can. 1427, §§ 1-2.
[66] Cf. cann. 1341-1353; 1717-1731; CCEO, cann. 1402, § 2; 1407, 1409-1410; 1412; 1435; 1471, § 1; 1468-1487. Riguardo all’incremento nell’applicazione delle pene in caso di contumacia cf, per esempio: cann. 1315, § 3; 1326, § 2; 1348, § 3; 1364, § 2; 1370, § 1; 1378, § 3; 1395, § 1; CCEO, cann.1405, §§ 1-2; 1416; 1436, § 1; 1443; 1445, § 1; 1453, § 1.
[67] Cf. cann. 1341-1342; CCEO, can. 1402, § 2.
[68] Cf. CCEO, can. 1473.
[69] Cf. nota n. 6 supra.
[70] Benedictus PP. XVI, Litterae apostolicae Nella prossima solennità ad Presbyteros Ecclesiae Catholicae, 16 giugno 2009, in Acta Apostolicae Sedis 101 (2009) 569.

celibato sacerdotale

CONVEGNO TEOLOGICO
«Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote»

Comunicazione dell’Em.mo Card. Julián Herranz,
Membro della Congregazione per il Clero


CELIBATO SACERDOTALE, CARISMA ISTITUZIONALE


Le intuizioni del sensus fidei

Meditando sul celibato sacerdotale a nessuno sfugge l’esistenza di un problema che, se visto alla luce della fede, commuove veramente, perché fa capire bene come la totalità di questo corpo profondamente vivo che è il Popolo profetico di Cristo si sconvolge a volte e trema per lo stesso profondo dramma della limitatezza umana che ha segnato la vita dei profeti e dei santi, nel vedere con quale tremenda insufficienza della parola l’uomo deve comunicare all’uomo la forza del messaggio e la ricchezza del dono ricevuti da Dio. Forse non è ancora nato l’artista, il poeta, il regista cinematografico capaci di cogliere nella vastità del suo significato questa specie tanto poco conosciuta di incomunicabilità umana: sicuramente la più drammatica forma di incomunicabilità, anche se al tempo stesso la più serena, perché profondamente pervasa di umile certezza. La storia della teologia non è altro, se ben si guarda, che la storia di questo dramma della Chiesa. E la teologia ha vissuto e vive ancora questo stesso problema a proposito del celibato sacerdotale, nel desiderio di tradurre in ragioni e argomenti espliciti questa profonda certezza che la Sposa dl Cristo ha avuto sempre sul valore del dono ricevuto dallo Sposo: « Non è da oggi — ricorda Paolo VI — che si riflette sulla molteplice convenienza del celibato per i ministri di Dio, e anche se le ragioni esplicite sono state varie per le varie mentalità e le varie situazioni, esse furono sempre ispirate a considerazioni specificamente cristiane, al fondo delle quali è la intuizione dei motivi più profondi »[1].
Ecco i due termini del problema a cui abbiamo accennato:

a) da una parte il sensus fidei del Popolo di Dio — l’istinto soprannaturale della comunità profetica consacrata dallo Spirito (cfr. 1 Gv. 2, 20) — ha presentito, intuito sin dai primi secoli della Chiesa, con intensità sempre crescente, l’intima tensione, i vicendevoli legami che vincolavano tra loro, in un modo meraviglioso, la verginità e il sacerdozio ministeriale istituito da Cristo;

b) d’altra parte i Padri, i Dottori della Chiesa, i santi percepivano la realtà di tale fenomeno carismatico: lo attestano la stima in cui è sempre stata tenuta l’esistenza di questo vincolo e la testimonianza vissuta di una legione senza numero di ministri di Dio che del sacro celibato facevano oggetto della loro totale donazione al mistero di Cristo. Nasceva pertanto la necessità di spiegare perché, non essendo la perfetta continenza una esigenza della natura stessa del sacerdozio (cfr. 1 Tim. 3, 2-5; Tt. 1, 5-6), ma piuttosto uno speciale carisma (cfr. Mt 19, 11-12), c’era nondimeno in seno al Popolo di Dio l’intuita certezza che un intimo e reale rapporto intercorreva tra la sacra verginità e la vocazione al sacerdozio ministeriale. Rapporto che è stato progressivamente istituzionalizzato.

Cominciò così lo sforzo del linguaggio umano per spiegare con motivi di convenienza la radice teologica di questa vincolazione carismatica tra il sacerdozio e la perfetta continenza per il Regno. Ma si noti bene che si è sempre trattato di motivazioni teologiche, cioè di ragioni per tradurre in logica umana il significato di un dono divino. Tutto ciò significa che da una parte non si devono identificare le motivazioni di una verità con la stessa verità motivata; e, d’altra parte, queste motivazioni — appunto perché sono logica umana elaborata da uomini e per uomini di un determinato tempo e mentalità — possono cambiare di valore, soffrire cioè il logorio della storia. Il Concilio Vaticano II ha tenuto buon conto di questo fatto, a proposito del celibato sacerdotale. Parecchie, infatti, delle motivazioni addotte a suo favore in altre epoche e culture non avevano più lo stesso valore: non erano più — si potrebbe dire — veicolo di comunicabilità. Anzi, alcune di queste motivazioni — per esempio l’invocata necessità di purezza nei ministri del culto, o il maggior grado di santità richiesto ai sacerdoti — potevano sembrare in contrasto con la dottrina della perfetta castità coniugale e con il carattere sacro del matrimonio cristiano, e perfino con la dottrina della vocazione universale alla santità, uno dei capisaldi del Magistero conciliare.
D’altra parte, la perfetta e perpetua continenza propter Regnum cœlorum, la vocazione cioè al celibato apostolico è uno speciale dono di Dio, un carisma, una gratia gratis data, non necessariamente né esclusivamente unito al sacerdozio ministeriale, ma distribuito dal Signore a fedeli di tutti i vari stati canonici (candidati al sacerdozio, membri degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica, fedeli laici uomini e donne con o senza qualche speciale consacrazione), tutti però resi dallo Spirito Santo capaci di capire le divine ricchezze che in questo dono si contengono (cfr. Mt. 19, 11).
È stato necessario approfondire la spiegazione razionale, le motivazioni espressive cioè di quella realtà carismatica, sbocciata spontaneamente nel Popolo di Dio e tramandata attraverso tante generazioni; di quella realtà che il Concilio Vaticano II ha formulato così: « La perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli, raccomandata da Cristo Signore (cfr. Mt. 19, 12), nel corso dei secoli e anche ai nostri giorni gioiosamente abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, è sempre stata considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale »[2].

I motivi della « molteplice convenienza »

Alla domanda circa quale sia la vera, profonda radice su cui poggiano tutte le motivazioni teologiche del celibato sacerdotale, il Magistero ecclesiastico — sia nel Concilio Vaticano II che nel successivo Magistero pontificio, soprattutto nell’Enciclica Sacerdotalis cœlibatus — ha risposto con una riflessione, ricca di suggerimenti e spunti dottrinali, sul mistero di Cristo e sulla natura stessa del sacerdozio ministeriale da Cristo inaugurato. Poi, attraverso la successiva considerazione della figura di Cristo come unico Mediatore, come Pastore del suo Popolo, e finalmente come Pontefice dei beni futuri, ha esposto le diverse ragioni per le quali appare sommamente conveniente che il ministro di Cristo — sacramentalmente configurato a Lui riproduca in se stesso le intime vincolazioni tra sacerdozio e verginità, che appaiono così evidenti nella figura del Sacerdote eterno. Questo aspetto cristologico del celibato sacerdotale è onnipresente e non poteva essere altrimenti, se si considera che pure gli altri due aspetti che si sono voluti distinguere — l’aspetto cioè ecclesiologico e l’aspetto escatologico — non sono in ultima istanza che conseguenze o derivazioni della speciale configurazione dell’uomo-sacerdote alla stessa persona di Cristo.
Una prima e fondamentale considerazione sulla natura del sacerdozio ministeriale cristiano è questa: esso — a differenza di qualsiasi altro tipo di sacerdozio — non è una funzione al cui adempimento un uomo è destinato dagli altri pèrché interceda in favore di essi davanti alla divinità: è invece una missione divina, per la quale un uomo è sacramentalmente assunto dallo stesso Dio. Il sacerdote cristiano non è, davanti a Dio, un delegato del Popolo; e non è, davanti agli uomini, una specie di funzionario o impiegato di Dio. Egli è — non per una vocazione qualsiasi, ma per la grazia trasfigurante del sacramento dell’Ordine; e non con una qualsiasi potestà, ma con la medesima potestà « con la quale Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio Corpo »[3] —, il segno vivo della costante presenza di Cristo in mezzo al suo Popolo. Infatti il sacerdote cristiano è l’alter ego dell’Unigenito del Padre: un uomo cioè che agisce non soltanto nel nome ma anche in persona ipsius Christi Capitis[4], Pastore della nuova umanità rigenerata dal suo Sacrificio.
Ma se questa è la grandezza del sacerdozio ministeriale del Nuovo Testamento, inaugurato dall’Unigenito del Padre nel tempio del suo corpo (Gv. 2, 21), se sono tanti e così intimi i vincoli che uniscono il sacerdote alla persona e alla missione di Cristo, si capisce bene quanto sia conveniente che il sacerdote abbracci nella propria vita la perfetta e perpetua continenza di cui è prototipo la verginità di Cristo, l’Amore incarnato fra gli uomini. Per la verginità infatti il sacerdote « nova et eximia ratione Christo consecratur »[5], e così si conferma e irrobustisce in maniera mirabile la unione mistica del ministro di Cristo con la stessa Persona da cui è stato assunto e in cui è stato sacramentalmente trasfigurato.
Cristo, vissuto in stato di verginità, consacrò in pienezza d’amore la totalità del suo essere alla volontà del Padre (cfr. Gv. 4, 34; 17, 4) e si dedicò per intero anima e corpo, per tutta la durata della sua vita — ai servizio del ministero di riconciliazione (cfr. Rm. 5, 11) per il quale era stato inviato. É evidente, perciò, che tanto più perfetta sarà — o, meglio, tanto più perfettamente potrà essere attuata — la partecipazione nel sacerdozio ministeriale di Cristo, « quanto più il sacro ministro sarà libero da vincoli di carne e di sangue »[6]. Per la perfetta continenza, infatti, più facilmente il sacerdote aderisce a Cristo con un cuore non diviso (cfr. Mt. 19, 12; 1 Cor. 7, 32-34), e più liberamente può dedicare l’integrità della sua persona, delle sue forze e capacità, e del suo tempo all’amorosa intimità con Dio e al servizio degli uomini.
Così facendo, poi, il sacerdote non solo rende ossequio all’esempio offerto dal Sacerdote vergine, ma viene anche incontro a un suo esplicito consiglio, quello di rinunciare a tutto, anche a cose buone e sante — famiglia, moglie, figli — propter me et propter Regnum cælorum (Mc. 10, 23-30; cfr. Mt. 19, 23-29; Lc. 18, 24-30). Cristo consigliò con parole dense di mistero una consacrazione ancora più perfetta al Regno dei cieli con la verginità, in conseguenza di un particolare dono (Mt. 19, 11-12), che il Padre non nega a chi lo sa chiedere con umile perseveranza (cfr. Lc. 11, 9-13). É un consiglio — lo abbiamo già ricordato prima — che il Signore ha dato a tutti i fedeli, perché tutti, in una forma o in un’altra, ha reso partecipi del suo sacerdozio, ma che evidentemente acquista un particolare significato e una particolare forza persuasiva nel caso di quei fedeli elettissimi, i sacerdoti, i quali Gesù ha specialmente introdotto all’intelligenza dei misteri del Regno dei cieli (cfr. Mt. 13, 11; Mc. 4, 11; Lc. 8-10), affinché essi siano dispensatori di questi misteri (cfr. 1 Cor. 4, 1) in mezzo a tutti gli altri membri del Popolo sacerdotale di Dio e al cospetto dell’intera umanità da Cristo convocata. Il seguire questo consiglio pare, soprattutto, oltremodo conveniente per il sacerdote, se si considera che Cristo lo ha scelto, consacrato a sé, e destinato non perché generi in altri la vita della carne continuando così l’opera della prima creazione (cfr. Gn. 2, 18), ma perché comunichi una forma nuova — divina — di vita, attuando nel tempo la nuova creazione operata da Cristo (cfr. 2 Cor. 5, 17; Gal. 6, 15). Perciò è attraverso il celibato apostolico che il sacerdote meglio acquista e più ampiamente partecipa della paternità spirituale di Cristo, della pienezza di amore di Cristo, generatrice della nuova umanità: la cui origine, insegna San Giovanni, proviene non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis [...] sed ex Deo (Gv. 1, 13).
Così il sacerdote adegua meglio l’intimità dei suoi sentimenti non soltanto all’amore con cui Cristo lo ha amato, ma anche all’amore col quale Cristo, Sacerdote vergine, ama la Chiesa, sua sposa verginale (cfr. Ap. 19, 7; 21, 2-9; 22, 7; 2 Cor. 11, 2). Il sacerdote — che come Cristo è il padre, il fratello, il servo universale — fa donazione della sua vita e della sua capacità d’amore non a una propria famiglia, ma alla famiglia universale di Cristo. Il sacerdote passa ad essere — nella pienezza della sua esistenza — possesso della Sposa di Cristo. Allo stesso tempo lui, l’uomo-sacerdote, si rende conto e sperimenta esistenzialmente nell’esercizio del ministero pastorale che la sua capacità umana di generare, di educare e di portare alla maturità i frutti del suo amore non è stata distrutta ma elevata, sublimata e allargata oltre ogni limite. Il celibato, infatti, « consente al sacerdote, com’è evidente, anche nel campo pratico, la massima efficienza e la migliore attitudine psicologica ed affettiva per l’esercizio continuo di quella carità perfetta che gli permetterà in maniera più ampia e concreta di spendersi tutto a vantaggio di tutti (2 Cor. 12, 15) », nell’impegno pastorale e paterno (cfr. Gal. 4, 19) di generare il Popolo di Dio nella fede, e nutrirlo con i sacramenti della vita nuova fino a condurlo alla pienezza della vita di Cristo[7]. Perciò il Magistero insegna che tale celibato può essere dovutamente capito soltanto « nella sua logica luminosa ed eroica d’amore unico e illimitato a Cristo Signore e alla sua Chiesa », perché la ragione ultima di esso è appunto « la scelta di una relazione personale più intima e completa con il mistero di Cristo e della Chiesa ». È anzi la realtà di questa più intima relazione personale che introduce la dimensione escatologica del celibato, perché fa anche apparire il sacerdote, davanti ai suoi figli in Cristo, come « segno e pegno delle sublimi realtà del Regno di Dio, di cui è dispensatore »[8].
Mi pare che da questa esposizione sintetica delle motivazioni istituzionali, cioè magisteriali, sul vincolo sacerdozio ministeriale-sacro celibato, si possa così concludere:

1) Questo vincolo nasce non da fattori o influenze estranei al sacerdozio ministeriale — come sarebbe, per esempio, una equiparazione allo stato religioso — ma da motivazioni che scaturiscono dalla stessa teologia del sacerdozio ministeriale. La natura di esso non esige per se il celibato, ma lo richiama fortemente.

2) La chiave di questo profondo vincolo è lo spirito di fede, e la sua ultima ragione la logica luminosa ed eroica dell’amore unico e illimitato a Cristo Signore e alla sua Chiesa.

3) Sono motivazioni che, da una parte, appaiono esplicite e chiarissime, ma d’altra parte, sono allo stesso tempo incoate, intuitive di più profondi motivi ancora da formulare. Una elegante sfida ai teologi e agli educatori, per quel rilancio del sacerdozio ministeriale di cui la Chiesa e il mondo hanno tanto bisogno.




[1] Enciclica Sacerdotalis cælibatus, del 24 giugno 1967, n. 18
[2] Decr. Presbyterorum Ordinis, n. 16.
[3] Decr. Presbyterorum Ordinis, n. 2
[4] Cfr. Cost. dogm. Lumen gentium, nn. 10 e 28; Decr. Presbyterorum Ordinis, n. 2.
[5] Decr. Presbyterorum Ordinis, n. 16.
[6] Enciclica Sacerdotalis cœlibatus, n. 21.
[7] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lettera ai sacerdoti In Cenaculum, 25 marzo 1988.
[8] Enciclica Sacerdotalis cœlibatus, n. 31.