lunedì 30 novembre 2009

Ritiro di Avvento

In occasione della I Domenica di Avvento, il Card. Severino Poletto ha proposto a tutte le religiose e le consacrate della diocesi di Torino una bella e forte meditazione sottolineando come la venuta di Gesù esiga stupore adorante. Per vivere questo atteggiamento del cuore si rende necessario evitare l'”abitudine” nel fare e nel pregare, coltivare una forma di attesa “vigilante”. Gesù viene a dirci Talità Kum, “fanciulla alzati” cioè a rivitalizzare tutta la nostra esistenza per essere davvero specchio visibile di una amore invisibile. Chi vive questa speciale scelta di vita deve essere in modo speciale portatrice o portatore di quella luce che emana dall'essere fortemente radicati in Cristo; una fede che non è una “vernicetta” un pio “sentimento”, ma che come S. Paolo urla: “Io so a chi ho creduto !” Amare fortemente il Signore con tutto il nostro essere, altrimenti non si è fedeli neanche al nostro Battesimo oltre che a questa vocazione. Cosa vuol dire essere consacrate se non “non appartenersi” più, non è impoverimento essere di Gesù Cristo, essere a sua completa disposizione, soprattutto amare senza mediocrità, la mediocre è senza gioia, la gioia è per chi si comporta come la povera vedova che getta tutto il suo avere nel tesoro del tempio.
Allora per primo ascoltare ed accogliere nella fede l'annunci che Gesù è veramente venuto ed è qui con noi, poi mettersi in cammino, come i pastori, poi ancora prostrarsi per adorarlo, come i Magi, con una adorazione non solo di preghiera ma di vita, infine comunicare agli altri la grazia del nostro incontro con Lui, non tanto con le parole, ma con l'irradiazione silenziosa di quella speciale gioia che abbiamo nel cuore.

giovedì 26 novembre 2009

Discorso di Benedetto XVI agli artisti

Discorso di Benedetto XVI agli artisti di nella Cappella Sistina.
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Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,
illustri Artisti,
Signore e Signori!

Con grande gioia vi accolgo in questo luogo solenne e ricco di arte e di memorie. Rivolgo a tutti e a ciascuno il mio cordiale saluto, e vi ringrazio per aver accolto il mio invito. Con questo incontro desidero esprimere e rinnovare l'amicizia della Chiesa con il mondo dell'arte, un'amicizia consolidata nel tempo, poiché il Cristianesimo, fin dalle sue origini, ha ben compreso il valore delle arti e ne ha utilizzato sapientemente i multiformi linguaggi per comunicare il suo immutabile messaggio di salvezza. Questa amicizia va continuamente promossa e sostenuta, affinché sia autentica e feconda, adeguata ai tempi e tenga conto delle situazioni e dei cambiamenti sociali e culturali. Ecco il motivo di questo nostro appuntamento. Ringrazio di cuore Mons. Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, per averlo promosso e preparato, con i suoi collaboratori, come pure per le parole che mi ha poc'anzi rivolto. Saluto i Signori Cardinali, i Vescovi, i Sacerdoti e le distinte Personalità presenti. Ringrazio anche la Cappella Musicale Pontificia Sistina che accompagna questo significativo momento. Protagonisti di questo incontro siete voi, cari e illustri Artisti, appartenenti a Paesi, culture e religioni diverse, forse anche lontani da esperienze religiose, ma desiderosi di mantenere viva una comunicazione con la Chiesa cattolica e di non restringere gli orizzonti dell'esistenza alla mera materialità, ad una visione riduttiva e banalizzante. Voi rappresentate il variegato mondo delle arti e, proprio per questo, attraverso di voi vorrei far giungere a tutti gli artisti il mio invito all'amicizia, al dialogo, alla collaborazione.

Alcune significative circostanze arricchiscono questo momento. Ricordiamo il decennale della Lettera agli Artisti del mio venerato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II. Per la prima volta, alla vigilia del Grande Giubileo dell'Anno 2000, questo Pontefice, anch'egli artista, scrisse direttamente agli artisti con la solennità di un documento papale e il tono amichevole di una conversazione tra "quanti - come recita l'indirizzo -, con appassionata dedizione, cercano nuove «epifanie» della bellezza". Lo stesso Papa, venticinque anni or sono, aveva proclamato patrono degli artisti il Beato Angelico, indicando in lui un modello di perfetta sintonia tra fede e arte. Il mio pensiero va, poi, al 7 maggio del 1964, quarantacinque anni fa, quando, in questo stesso luogo, si realizzava uno storico evento, fortemente voluto dal Papa Paolo VI per riaffermare l'amicizia tra la Chiesa e le arti. Le parole che ebbe a pronunciare in quella circostanza risuonano ancor oggi sotto la volta di questa Cappella Sistina, toccando il cuore e l'intelletto. "Noi abbiamo bisogno di voi - egli disse -. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell'invisibile, dell'ineffabile, di Dio. E in questa operazione... voi siete maestri. E' il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità" (Insegnamenti II, [1964], 313). Tanta era la stima di Paolo VI per gli artisti, da spingerlo a formulare espressioni davvero ardite: "E se Noi mancassimo del vostro ausilio - proseguiva -, il ministero diventerebbe balbettante ed incerto e avrebbe bisogno di fare uno sforzo, diremmo, di diventare esso stesso artistico, anzi di diventare profetico. Per assurgere alla forza di espressione lirica della bellezza intuitiva, avrebbe bisogno di far coincidere il sacerdozio con l'arte" (Ibid., 314). In quella circostanza, Paolo VI assunse l' impegno di "ristabilire l'amicizia tra la Chiesa e gli artisti", e chiese loro di farlo proprio e di condividerlo, analizzando con serietà e obiettività i motivi che avevano turbato tale rapporto e assumendosi ciascuno con coraggio e passione la responsabilità di un rinnovato, approfondito itinerario di conoscenza e di dialogo, in vista di un'autentica "rinascita" dell'arte, nel contesto di un nuovo umanesimo.

Quello storico incontro, come dicevo, avvenne qui, in questo santuario di fede e di creatività umana. Non è dunque casuale il nostro ritrovarci proprio in questo luogo, prezioso per la sua architettura e per le sue simboliche dimensioni, ma ancora di più per gli affreschi che lo rendono inconfondibile, ad iniziare dai capolavori di Perugino e Botticelli, Ghirlandaio e Cosimo Rosselli, Luca Signorelli ed altri, per giungere alle Storie della Genesi e al Giudizio Universale, opere eccelse di Michelangelo Buonarroti, che qui ha lasciato una delle creazioni più straordinarie di tutta la storia dell'arte. Qui è anche risuonato spesso il linguaggio universale della musica, grazie al genio di grandi musicisti, che hanno posto la loro arte al servizio della liturgia, aiutando l'anima ad elevarsi a Dio. Al tempo stesso, la Cappella Sistina è uno scrigno singolare di memorie, giacché costituisce lo scenario, solenne ed austero, di eventi che segnano la storia della Chiesa e dell'umanità. Qui, come sapete, il Collegio dei Cardinali elegge il Papa; qui ho vissuto anch'io, con trepidazione e assoluta fiducia nel Signore, il momento indimenticabile della mia elezione a Successore dell'apostolo Pietro.

Cari amici, lasciamo che questi affreschi ci parlino oggi, attirandoci verso la méta ultima della storia umana. Il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell'umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa. Nella sua drammaticità, però, questo affresco pone davanti ai nostri occhi anche il pericolo della caduta definitiva dell'uomo, minaccia che incombe sull'umanità quando si lascia sedurre dalle forze del male. L'affresco lancia perciò un forte grido profetico contro il male; contro ogni forma di ingiustizia. Ma per i credenti il Cristo risorto è la Via, la Verità e la Vita. Per chi fedelmente lo segue è la Porta che introduce in quel "faccia a faccia", in quella visione di Dio da cui scaturisce senza più limitazioni la felicità piena e definitiva. Michelangelo offre così alla nostra visione l'Alfa e l'Omega, il Principio e la Fine della storia, e ci invita a percorrere con gioia, coraggio e speranza l'itinerario della vita. La drammatica bellezza della pittura michelangiolesca, con i suoi colori e le sue forme, si fa dunque annuncio di speranza, invito potente ad elevare lo sguardo verso l'orizzonte ultimo. Il legame profondo tra bellezza e speranza costituiva anche il nucleo essenziale del suggestivo Messaggio che Paolo VI indirizzò agli artisti alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, l'8 dicembre 1965: "A voi tutti - egli proclamò solennemente - la Chiesa del Concilio dice con la nostra voce: se voi siete gli amici della vera arte, voi siete nostri amici!" (Enchiridion Vaticanum, 1, p. 305). Ed aggiunse: "Questo mondo nel quale viviamo ha bisogno di bellezza per non sprofondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che infonde gioia al cuore degli uomini, è quel frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell'ammirazione. E questo grazie alle vostre mani... Ricordatevi che siete i custodi della bellezza nel mondo" (Ibid.).

Il momento attuale è purtroppo segnato, oltre che da fenomeni negativi a livello sociale ed economico, anche da un affievolirsi della speranza, da una certa sfiducia nelle relazioni umane, per cui crescono i segni di rassegnazione, di aggressività, di disperazione. Il mondo in cui viviamo, poi, rischia di cambiare il suo volto a causa dell'opera non sempre saggia dell'uomo il quale, anziché coltivarne la bellezza, sfrutta senza coscienza le risorse del pianeta a vantaggio di pochi e non di rado ne sfregia le meraviglie naturali. Che cosa può ridare entusiasmo e fiducia, che cosa può incoraggiare l'animo umano a ritrovare il cammino, ad alzare lo sguardo sull'orizzonte, a sognare una vita degna della sua vocazione se non la bellezza? Voi sapete bene, cari artisti, che l'esperienza del bello, del bello autentico, non effimero né superficiale, non è qualcosa di accessorio o di secondario nella ricerca del senso e della felicità, perché tale esperienza non allontana dalla realtà, ma, al contrario, porta ad un confronto serrato con il vissuto quotidiano, per liberarlo dall'oscurità e trasfigurarlo, per renderlo luminoso, bello.

Una funzione essenziale della vera bellezza, infatti, già evidenziata da Platone, consiste nel comunicare all'uomo una salutare "scossa", che lo fa uscire da se stesso, lo strappa alla rassegnazione, all'accomodamento del quotidiano, lo fa anche soffrire, come un dardo che lo ferisce, ma proprio in questo modo lo "risveglia" aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l'alto. L'espressione di Dostoevskij che sto per citare è senz'altro ardita e paradossale, ma invita a riflettere: "L'umanità può vivere - egli dice - senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui". Gli fa eco il pittore Georges Braque: "L'arte è fatta per turbare, mentre la scienza rassicura". La bellezza colpisce, ma proprio così richiama l'uomo al suo destino ultimo, lo rimette in marcia, lo riempie di nuova speranza, gli dona il coraggio di vivere fino in fondo il dono unico dell'esistenza. La ricerca della bellezza di cui parlo, evidentemente, non consiste in alcuna fuga nell'irrazionale o nel mero estetismo.

Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l'alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull'altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell'oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L'autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l'Altro, verso l'Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell'impegno quotidiano. Giovanni Paolo II, nella Lettera agli Artisti, cita, a tale proposito, questo verso di un poeta polacco, Cyprian Norwid: "La bellezza è per entusiasmare al lavoro, / il lavoro è per risorgere" (n. 3). E più avanti aggiunge: "In quanto ricerca del bello, frutto di un'immaginazione che va al di là del quotidiano, l'arte è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell'anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l'artista si fa in qualche modo voce dell'universale attesa di redenzione" (n. 10). E nella conclusione afferma: "La bellezza è cifra del mistero e richiamo al trascendente" (n. 16).

Queste ultime espressioni ci spingono a fare un passo in avanti nella nostra riflessione. La bellezza, da quella che si manifesta nel cosmo e nella natura a quella che si esprime attraverso le creazioni artistiche, proprio per la sua caratteristica di aprire e allargare gli orizzonti della coscienza umana, di rimandarla oltre se stessa, di affacciarla sull'abisso dell'Infinito, può diventare una via verso il Trascendente, verso il Mistero ultimo, verso Dio. L'arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell'esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità. Questa affinità, questa sintonia tra percorso di fede e itinerario artistico, l'attesta un incalcolabile numero di opere d'arte che hanno come protagonisti i personaggi, le storie, i simboli di quell'immenso deposito di "figure" - in senso lato - che è la Bibbia, la Sacra Scrittura. Le grandi narrazioni bibliche, i temi, le immagini, le parabole hanno ispirato innumerevoli capolavori in ogni settore delle arti, come pure hanno parlato al cuore di ogni generazione di credenti mediante le opere dell'artigianato e dell'arte locale, non meno eloquenti e coinvolgenti.

Si parla, in proposito, di una via pulchritudinis, una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica. Il teologo Hans Urs von Balthasar apre la sua grande opera intitolata Gloria. Un'estetica teologica con queste suggestive espressioni: "La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l'ultima parola che l'intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quale aureola di splendore inafferrabile, il duplice astro del vero e del bene e il loro indissolubile rapporto". Osserva poi: "Essa è la bellezza disinteressata senza la quale il vecchio mondo era incapace di intendersi, ma che ha preso congedo in punta di piedi dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza. Essa è la bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione". E conclude: "Chi, al suo nome, increspa al sorriso le labbra, giudicandola come il ninnolo esotico di un passato borghese, di costui si può essere sicuri che - segretamente o apertamente - non è più capace di pregare e, presto, nemmeno di amare". La via della bellezza ci conduce, dunque, a cogliere il Tutto nel frammento, l'Infinito nel finito, Dio nella storia dell'umanità. Simone Weil scriveva a tal proposito: "In tutto quel che suscita in noi il sentimento puro ed autentico del bello, c'è realmente la presenza di Dio. C'è quasi una specie di incarnazione di Dio nel mondo, di cui la bellezza è il segno. Il bello è la prova sperimentale che l'incarnazione è possibile. Per questo ogni arte di prim'ordine è, per sua essenza, religiosa". Ancora più icastica l'affermazione di Hermann Hesse: "Arte significa: dentro a ogni cosa mostrare Dio". Facendo eco alle parole del Papa Paolo VI, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riaffermato il desiderio della Chiesa di rinnovare il dialogo e la collaborazione con gli artisti: "Per trasmettere il messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha bisogno dell'arte" (Lettera agli Artisti, n. 12); ma domandava subito dopo: "L'arte ha bisogno della Chiesa?", sollecitando così gli artisti a ritrovare nella esperienza religiosa, nella rivelazione cristiana e nel "grande codice" che è la Bibbia una sorgente di rinnovata e motivata ispirazione.

Cari Artisti, avviandomi alla conclusione, vorrei rivolgervi anch'io, come già fece il mio Predecessore, un cordiale, amichevole ed appassionato appello. Voi siete custodi della bellezza; voi avete, grazie al vostro talento, la possibilità di parlare al cuore dell'umanità, di toccare la sensibilità individuale e collettiva, di suscitare sogni e speranze, di ampliare gli orizzonti della conoscenza e dell'impegno umano. Siate perciò grati dei doni ricevuti e pienamente consapevoli della grande responsabilità di comunicare la bellezza, di far comunicare nella bellezza e attraverso la bellezza! Siate anche voi, attraverso la vostra arte, annunciatori e testimoni di speranza per l'umanità! E non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare con i credenti, con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita! La fede non toglie nulla al vostro genio, alla vostra arte, anzi li esalta e li nutre, li incoraggia a varcare la soglia e a contemplare con occhi affascinati e commossi la méta ultima e definitiva, il sole senza tramonto che illumina e fa bello il presente.

Sant'Agostino, cantore innamorato della bellezza, riflettendo sul destino ultimo dell'uomo e quasi commentando ante litteram la scena del Giudizio che avete oggi davanti ai vostri occhi, così scriveva: "Godremo, dunque di una visione, o fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dalle orecchie, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supera tutte le bellezze terrene, quella dell'oro, dell'argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa: che essa è la fonte di ogni altra bellezza" (In Ep. Jo. Tr. 4,5: PL 35, 2008). Auguro a tutti voi, cari Artisti, di portare nei vostri occhi, nelle vostre mani, nel vostro cuore questa visione, perché vi dia gioia e ispiri sempre le vostre opere belle. Mentre di cuore vi benedico, vi saluto, come già fece Paolo VI, con una sola parola: arrivederci!

mercoledì 25 novembre 2009

Conférence de Herman Rompuy sur Caritas in Veritate

Conférence de Herman Rompuy sur Caritas in Veritate
Liège, le lundi 19 octobre 2009
Source : Cercle Gustave-Thibon

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Conférence de Herman Rompuy sur Caritas in Veritate


Je m’exprime en tant que chrétien à titre personnel. Je ne ferai pas toujours le distinction entre l’encyclique et mes propres opinions. La ‘doctrine’ n’est pas un dogme.

La nouvelle encyclique du pape Benoît XVI s’inscrit dans une longue tradition, commencée avec Léon XIII en 1891. L’originalité de Caritas in veritate est que le pape déploie une réflexion qui lui tient à cœur en insistant sur la nécessité pour la foi et la raison de s’éclaire mutuellement sur le point de la question sociale dans un contexte de mondialisation. Cette recherche donne à l’ensemble de l’encyclique une vigueur anthropologique originale. Elle rappelle combien la question sociale aujourd’hui – celle du développement et de la mondialisation, celle du bouleversement des anciennes solidarités et des effets de crises – ne touche pas seulement la surface des procédures et des règles mais engage aussi une vision de l’homme. Là se situe la raison pourquoi l’Eglise s’intéresse aux questions économico-sociales.

Pourquoi l’Eglise s’intéresse-t-elle aux questions économiques ? Parce qu'elle s’intéresse à l’homme, à l’homme dans son intégralité, et ne sépare donc pas le matériel de l’immatériel. Contrairement à ce que l’on pense souvent, la vision du christianisme n’est pas dualiste : le dualisme qui sépare le corps de l’âme, cette dernière étant la seule qui compte, n’apparaît pas dans la Bible mais émane de la philosophie grecque. Dans la Doctrine sociale de l’Eglise, l’homme dans sa totalité, corps et âme, cœur et conscience, ainsi que sa place dans la société et la nature constituent l’axe de la pensée. Dans sa dernière encyclique, Caritas in veritate, Benoît XVI écrit : « Le développement authentique de l’homme concerne unitairement la totalité de la personne dans chacune de ses dimensions. »

Cela implique que la Doctrine sociale s’occupe de tout ce qui est en rapport avec l’homme, la société et la création : justice, travail, émancipation, pauvreté, santé, logement, relations sociales, paix, droits de l’homme, économie et écologie… Cette approche trouve son fondement dans la constitution pastorale Gaudium et Spes (23 § 5), selon laquelle « La Révélation chrétienne nous conduit à une intelligence plus pénétrante des lois de la vie sociale ».
 
Mais, avec Benoît XVI, l’Eglise affiche une qualification supplémentaire: elle se dit non seulement compétente pour une contribution à une meilleure compréhension et à l’amélioration de la condition humaine, mais détenant le seule bonne clé de lecture pour cela : la « Vérité ». L’homme n’est pas sa propre référence. Sa vie a un sens profond qui lui dépasse, qui est révélé par la Vérité (pas le vérité du comment mais la vérité du pourquoi). La Vérité c’est l’Amour incarné dans le Christ et dans la Trinité. L’homme est voulu par Dieu et créé par amour. Il doit rendre l’amour à Dieu en ses prochains. L’homme n’est donc pas le produit du hasard ou de la nécessité. Il est le fruit de l’amour.

L’homme est responsable (pas de fatalité envers la technologie ou la globalisation), mais l’homme est aussi dépendant. Il obéit à cette loi de l’amour. L’homme responsable mais faible est un pécheur : il doit s’efforcer pour être bon. L’amour (et donc la vérité) est une découverte, un effort constant. L’amour n’est pas un laisser-aller. Parce que l’homme est faible, la perfection ne sera jamais de ce monde. Le monde est donc perfectible. La recherche de l’ultime organisation sociale est même dangereuse. Elle veut contraindre l’homme à devenir ce qu’il n’est pas ou ne pourra jamais devenir. « L’homme n’est ni ange ni bête, et qui veut faire l’ange fait la bête » (Blaise Pascal). L’amour est un commandement.

En d’autres termes, en portant un regard éthique, la foi chrétienne rappelle ses présupposés et perçoit les erreurs d’une pensée purement économique et confronte la conformité aux lois communément acceptée de la vie économique à l’objectif ultime de l’économie : le bonheur de l’homme et le bien-être de la société. Pour le chrétien, l’économie ne peut donc jamais être une fin en soi et le profit ne peut jamais être le bien suprême. C’est l’économie qui est au service de l’homme et non l’inverse. Le Pape tient à le rappeler par ces mots : « l’homme, la personne, dans son intégrité, est le premier capital à sauvegarder et à valoriser. En effet, c’est l’homme qui est l’auteur, le centre et la fin de toute la vie économico-sociale. »

Toutes les constructions humaines sont passagères ; elles ne peuvent donc avoir des revendications à l’égard de l’homme. Aucun régime politique, aucune organisation sociale et aucun système économique ne peut revendiquer la réalisation du salut ultime. Dans sa lettre encyclique Centesimus annus (1991), Jean-Paul II dénonce le danger de cette revendication : «  Quand les hommes croient posséder le secret d'une organisation sociale parfaite qui rend le mal impossible, ils pensent aussi pouvoir utiliser tous les moyens, même la violence ou le mensonge, pour la réaliser. La politique devient alors une religion séculière qui croit bâtir le paradis en ce monde. »

Dans sa nouvelle encyclique, le pape actuel complète ces propos : « Sans la perspective d’une vie éternelle, le progrès humain demeure en ce monde privé de souffle. Enfermé à l’intérieur de l’histoire, il risque de se réduire à la seule croissance de l’avoir. L’humanité perd ainsi le courage d’être disponible pour les biens plus élevés, pour les grandes initiatives désintéressées qui exigent la charité universelle. L’homme ne se développe pas seulement par ses propres forces, et le développement ne peut pas lui être simplement offert. »

« Les messianismes prometteurs, qui sont des bâtisseurs d’illusions », selon les termes de Benoît XVI, privent, en outre, l’homme de ses responsabilités (et ce faisant de sa dignité). « Le développement humain intégral suppose la liberté responsable de la personne en des peuples : aucune structure ne peut garantir ce développement en dehors et au-dessus de la responsabilité humaine. »

C’est selon sa fonction de service que l’économie est évaluée. Les critères de mesure de cette évaluation religieuse sont la dignité humaine, la vocation de l’homme à la fraternité et les exigences de justice et de paix. Partant de ces mesures, l’Eglise formule un jugement moral dans les matières économiques et sociales. Et elle s’y résout « quand les droits fondamentaux de la personne ou le salut des âmes l'exigent », d’après la constitution pastorale Gaudium et Spes (76 § 5). Telle est la raison d’être de la succession d’encycliques.

L’Eglise perçoit la Doctrine sociale comme partie intégrante de sa mission d’évangélisation. « Sa doctrine sociale est un aspect particulier de la mission de vérité de l’Eglise », écrit Benoît XVI. A la lumière du message « humaniste » de l’Evangile, l’Eglise s’estime compétente en la matière. Toutefois, cette compétence se borne au plan moral. L’Eglise n’intervient pas dans les problèmes techniques pas plus qu’elle ne se prononce sur des modèles d’organisation sociale. En témoignent les propos de Benoît XVI : « L’Église n’a pas de solutions techniques à offrir et ne prétend aucunement s’immiscer dans la politique des Etats ». En effet, la Doctrine sociale n’a rien d’une idéologie mais relève davantage de la théologie (la théologie morale plus particulièrement).

Si Benoît XVI porte l’attention sur un certain nombre de points concrets, il les inscrit dans une perspective théologique qui nous interroge sur le sens de l’homme et sur nos solidarités. Conformément à ses habitudes, le pape se place en réalité au-dessus de la mêlée. Benoît XVI traite de l’économie comme un théologien, son encyclique est comparable à un texte de morale économique.

En revanche, la Doctrine sociale de l’Eglise entretient bel et bien un dialogue avec la philosophie et les sciences sociales. La Doctrine sociale est née – ou, pour être plus précis, a entamé le début de son développement – à la fin du 19e siècle, en confrontation d’une part avec la réalité économique et surtout, les conséquences sociales désastreuses de l’industrialisation et, d’autre part, avec les réponses radicales données en la matière par le marxisme. Fondée sur le respect de la dignité humaine, laquelle sous-entend un même degré de liberté et de justice, et sur la nécessité de solidarité et de réconciliation sociale, la Doctrine sociale de l’Eglise rejeta tant la vision « libérale » du marché libre que l’option « socialiste » pour la lutte des classes. La première néglige la justice sociale, la seconde bouleverse les relations sociales. Ces deux « excès » constituent, par ailleurs, une atteinte à la dignité humaine : le motif du profit à l’état pur réduit l’homme (en l’espèce, l’ouvrier) à un moyen de production, la théorie des classes ôte à l’homme son caractère individuel (sa personnalité).

L’évolution de la Doctrine sociale de l’Eglise durant les 118 dernières années peut être considérée comme une actualisation permanente des postulats de départ, lesquels ont été adaptés aux « circonstances sans cesse nouvelles » de la réalité économique, sociale et politique.

Le titre Rerum novarum de la première encyclique sociale datant de 1891 s’inscrit, aujourd’hui encore et plus que toute autre encyclique sociale, dans la droite ligne de cette signification : en effet, il s’agit toujours de « choses nouvelles » : l’industrialisation en 1891, la mondialisation en 2009. A l’instar de Léon XIII qui, dans Rerum novarum, ne rejette pas l’industrialisation comme telle, Benoît XVI ne rejette pas, dans Caritas in veritate, la mondialisation : « La mondialisation, a priori, n’est ni bonne ni mauvaise. Elle sera ce que les personnes en feront. »

Chaque nouvelle encyclique sociale est, en quelque sorte, une lecture des signes du temps. Chaque encyclique sociale actualise les concepts de la réflexion religieuse à la lumière des nouvelles circonstances dans lesquelles évoluent la société et le monde. Aussi assistons-nous à la résurgence systématique des mêmes concepts : solidarité, personnalisme, subsidiarité, justice sociale …

Benoît XVI se réfère, lui aussi, à ces principes, en particulier à celui de la subsidiarité. Ce n’est pas un hasard puisque la subsidiarité a fait sa première apparition après la grande crise financière de 1929, le krach de Wall Street, dans l’encyclique sociale Quadragesimo anno (1931). Avec comme toile de fond la crise financière actuelle, Benoît XVI écrit : « Le principe de subsidiarité doit être étroitement relié au principe de solidarité et vice-versa, car si la subsidiarité sans la solidarité tombe dans le particularisme, il est également vrai que la solidarité sans la subsidiarité tombe dans l’assistanat qui humilie celui qui est dans le besoin. »

Le principe de subsidiarité est contraignant, chaque homme devant avoir la chance d’apporter sa contribution à la construction du bien-être et de la prospérité. La question difficile est cependant de savoir comment nous pouvons, aujourd’hui, réaliser ce principe au sein d’une Europe unifiée et dans un monde globalisé, où de plus en plus de décisions sont prises à un haut niveau inaccessible pour l’homme concret, sachant que, pourtant, elles sont déterminantes pour le bien-être et la prospérité de son environnement, de son travail et de sa responsabilité.

Le pape n’a pas de réponse mais il affirme que « la gouvernance de la mondialisation doit être de nature subsidiaire, articulée à de multiples niveaux et sur divers plans qui collaborent entre eux. La mondialisation réclame certainement une autorité, puisque est en jeu le problème du bien commun qu’il faut poursuivre ensemble ; cependant cette autorité devra être exercée de manière subsidiaire et polyarchique pour, d’une part, ne pas porter atteinte à la liberté et, d’autre part, pour être concrètement efficace ».

L’objectif à atteindre est un humanisme qui satisfait aux préceptes du dessein d’amour de Dieu, un humanisme intégral et solidaire, capable de créer un nouvel ordre social, économique et politique, lequel doit se fonder sur la dignité et la liberté de l’être humain et se réaliser dans la paix, la justice et la solidarité.

Benoît XVI écrit : « L’augmentation massive de la pauvreté au sens relatif, non seulement tend à saper la cohésion sociale et met ainsi en danger la démocratie, mais a aussi un impact négatif sur le plan économique à travers l’érosion progressive du capital social, c’est-à-dire de cet ensemble de relations de confiance, de fiabilité, de respect des règles, indispensables à toute coexistence civile. »

Dans cette optique, la Doctrine sociale voit en la Déclaration universelle des Droits de l’Homme « un jalon sur la voie du progrès moral » (Jean-Paul II). En outre, les Droits de l’Homme trouvent leurs fondements dans la dignité humaine en tant que personne unique dotée de responsabilités, une dignité qui revient à tous les hommes, de manière universelle et dans une même mesure. Cela implique que ces droits soient également assortis de devoirs.

C’est pourquoi Benoît XVI a dénoncé, le 4 mai 2009, lors de sa rencontre avec l’Académie Pontificale des Sciences sociales, le contraste scandaleux « entre l'attribution égale (théorique) des droits et l'accès inégal aux moyens de jouir de ces droits. », sachant qu’un cinquième de l’humanité souffre aujourd’hui de la faim.

Ces devoirs peuvent être résumés en un seul mot : la solidarité. Un devoir qui trouve sa source dans le droit à l’égale dignité de tous les êtres humains, une dignité partagée donc. Outre la liberté, emblème du principe individuel, la solidarité représente le principe social de notre organisation sociale. La Doctrine sociale de l’Eglise place la solidarité au cœur de sa pensée, cette solidarité qui est une expression de la nature sociale de l’homme et doit être transformée en une structure de solidarité.

C’est ici que le monde politique, qu’il relève de l’échelon national ou international, a un rôle important à jouer. En effet, il existe un lien intense entre la solidarité et le bien-être général, entre la solidarité et la destination universelle des biens, entre la solidarité et la paix.

Par conséquent, le bien-être général, la raison et le but qui justifient le fait que l’homme dispose non seulement de droits mais aussi de devoirs, représente pour la Doctrine sociale de l’Eglise plus que la somme de tous les bien-être particuliers. « C’est le bien de nous tous », avance le pape. Le bien-être général ne se concrétise pas spontanément si chacun poursuit son propre bien-être (la Main invisible n’existe pas). Ce qui veut dire que la responsabilité du bien-être général incombe à la fois aux individus et à l’Etat.

L’Eglise considère d’ailleurs le bien-être général comme la raison d’être du pouvoir politique. C’est pourquoi l’Etat a la mission et le devoir de créer un cadre juridique adéquat pour régler les relations économiques dans la perspective du bien-être général. Et ce bien-être général n’est, lui non plus, pas une fin en soi : il est fonction de la dignité humaine et de la préservation de la création.

Le pouvoir politique doit garantir une vie en communauté structurée et honnête, dans le respect de l’indépendance de l’individu et l’optique du bien-être général. Plus que son prédécesseur Jean-Paul II qui comme Polonais a connu l’impact massif et destructif de l’État dans la vie économique et était assez restreint envers un plus grand rôle de l’État, Benoît XVI plaide en faveur d’un état qui intervient dans le marché.

Il reconnaît néanmoins que, de nos jours, les possibilités de l’Etat sont limitées : « A notre époque, l’État (national) se trouve dans la situation de devoir faire face aux limites que pose à sa souveraineté le nouveau contexte commercial et financier international, marqué par une mobilité croissante des capitaux financiers et des moyens de productions matériels et immatériels. Ce nouveau contexte a modifié le pouvoir politique des États. »

La participation et la coresponsabilité sont essentielles. L’encyclique sociétale Centesimus annus (1991) abordait explicitement le concept de démocratie : « Une démocratie authentique n'est possible que dans un Etat de droit et sur la base d'une conception correcte de la personne humaine ». L’Eglise considère comme l’une des plus grandes menaces des démocraties modernes le relativisme éthique lequel suppose que n’existent ni critères objectifs ni critères universels s’agissant de la hiérarchie des valeurs.

Selon la Doctrine sociale, la communauté politique est au service de la société civile dont elle est née. Cette société civile représente l’ensemble des relations et des biens, culturels ou associatifs, qui sont relativement indépendants de la politique et de l’économie. L’Etat – la communauté politique – doit veiller à un cadre juridique permettant aux acteurs sociaux (sociétés, associations, organisations, etc.) d’exercer leurs activités en toute liberté ; il doit être prêt à intervenir, en cas de besoin et conformément au principe de subsidiarité, afin que l’interaction entre la liberté d’association et la vie démocratique puisse prendre la direction du bien-être général.

Dans l’intérêt de ce bien-être général, l’Eglise parle de la destination universelle des biens (ce qui ne veut pas dire que la propriété privée serait interdite mais bien qu’elle est subordonnée et qu’elle doit contribuer au bien-être général). Dieu a, en effet, légué la Terre à l’ensemble du genre humain, à savoir aux générations actuelles et à celles de demain. En découle le principe de l’intendance : la Terre ne nous appartient pas, nous avons reçu la création à titre de prêt.

Cette destination universelle invite à l’élaboration d’une vision économique qui garde à l’esprit justice et solidarité et offre à chaque être humain la possibilité d’un développement intégral. En ce sens, chaque homme a le droit à la propriété privée puisqu’elle lui apporte la liberté et l’autonomie nécessaires pour s’émanciper et se réaliser. Ce droit à la propriété privée est également assorti d’un devoir, la propriété privée étant subordonnée à la destination universelle des biens.

Celui qui possède ne doit pas seulement prêter attention à ceux qui ne possèdent pas (les pauvres, les nécessiteux). Il convient, en outre, que la propriété privée revête une fonction économique (investir dans l’économie). « Les richesses remplissent leur fonction de service à l'être humain quand elles sont destinées à prodiguer des bienfaits aux autres et à la société », d’après le Compendium de la doctrine sociale de l'Église.

La liberté et l’initiative constituent des valeurs fondamentales et des droits inaliénables qu’il y a lieu de promouvoir, précisément pour parvenir à dispenser ses bienfaits aux autres. Or, cela signifie également que pour l’Eglise catholique, la propriété n’est pas une fin en soi mais un moyen, un moyen d’autonomie et un moyen de solidarité.

Le profit est l’objectif légitime de toute entreprise économique. S’il démontre la bonne santé de l’entreprise, pris isolément, il ne fournit cependant pas la preuve que l’entreprise sert correctement la société. Le profit doit être en équilibre avec la protection de la dignité des hommes qui sont au service de l’entreprise. Le marché libre, l’instrument le plus efficace pour la production et la distribution de biens et de services, ne peut être dissocié des objectifs sociaux.

Telles sont les limites de la pensée économique de marché. Dans la dernière encyclique Caritas in veritate, l’on peut lire : « L’activité économique ne peut résoudre tous les problèmes sociaux par la simple extension de la logique marchande. Celle-là doit viser la recherche du bien commun, que la communauté politique d’abord doit aussi prendre en charge. (…) L’Église a toujours estimé que l’agir économique ne doit pas être considéré comme antisocial. Le marché n’est pas de soi, et ne doit donc pas devenir, le lieu de la domination du fort sur le faible. (…) La sphère économique n’est, par nature, ni éthiquement neutre ni inhumaine et antisociale. Elle appartient à l’activité de l’homme et, justement parce qu’humaine, elle doit être structurée et organisée institutionnellement de façon éthique. Le grand défi qui se présente à nous, qui ressort des problématiques du développement en cette période de mondialisation et qui est rendu encore plus pressant par la crise économique et financière, est celui de montrer, au niveau de la pensée comme des comportements, que non seulement les principes traditionnels de l’éthique sociale, tels que la transparence, l’honnêteté et la responsabilité ne peuvent être négligées ou sous-évaluées, mais aussi que dans les relations marchandes, le principe de gratuité et la logique du don, comme expression de la fraternité, peuvent et doivent trouver leur place à l’intérieur de l’activité économique normale. C’est une exigence de l’homme de ce temps, mais aussi une exigence de la raison économique elle-même. C’est une exigence conjointe de la charité et de la vérité. »

Ce postulat chrétien est, par conséquent, une critique acerbe, voire une condamnation, de l’économie virtuelle du marché financier de ces dernières années qui ne voyait plus en l’argent un moyen mais purement et simplement une fin et qui nous a plongé dans la crise que nous connaissons. Par ces mots, l’Eglise ne condamne pas le marché financier international en tant que tel, car sans système adéquat, nous n’aurions connu ni cette croissance économique, ni les investissements massifs des dernières décennies. La mondialisation de l’économie contraint, par ailleurs, les pays à une collaboration internationale.

La critique de l’Eglise a pour cible l’économie financière qui est devenue une fin en soi, sans prestation de services et sans production. Née comme un moyen, elle a évolué en une fin et c’est en cela qu’elle va mener à la crise (ce qui s’est d’ailleurs passé).

Dans Sollicitudo rei socialis (1987), le précédent pape annonçait cette crise : « Une économie financière qui est une fin en soi est destinée à contredire ses finalités, car elle se prive de ses propres racines et de sa propre raison constitutive, et par là de son rôle originel et essentiel de service de l'économie réelle et, en définitive, de développement des personnes et des communautés humaines. »

C’est pour cette raison que Jean-Paul II estimait que la communauté internationale devait jouer un rôle déterminant sur le terrain financier afin de réguler les processus en fonction de cette fin et du bien-être général. Il plaidait pour « une dimension politique, opérationnelle et mondiale visant à permettre d'orienter les processus en cours à la lumière de paramètres moraux. »

Sur fond de crise, Benoît XVI va encore plus loin : il plaide en faveur d’un nouveau gouvernement politique mondial. A la fin de son encyclique, il réitère à cet effet l’appel autrefois lancé par Jean XXIII (Pacem in terris, 1963) pour une révision urgente du fonctionnement des Nations Unies : « Pour le gouvernement de l’économie mondiale, pour assainir les économies frappées par la crise, pour prévenir son aggravation et de plus grands déséquilibres, pour procéder à un souhaitable désarmement intégral, pour arriver à la sécurité alimentaire et à la paix, pour assurer la protection de l’environnement et pour réguler les flux migratoires, il est urgent que soit mise en place une véritable Autorité politique mondiale telle qu’elle a déjà été esquissée par mon Prédécesseur, le bienheureux Jean XXIII. »
 
Toute la vie économique moderne est une actualisation du devoir biblique « de  cultiver et de conserver la terre ». La première signification de ce message est que le travail n’est ni une punition, ni une malédiction mais qu’il est source de conditions de vie dignes, la seconde est que le travail a une priorité par rapport au capital. Le travail est un devoir, ce faisant, nous développons l’humanité et le travail affermit l’identité de l’homme, afin qu’il puisse devenir maître de la Terre.

Le devoir de travailler appelle, en conséquence, le devoir pour l’employeur de veiller à un juste salaire et à des conditions de travail dignes pour que chaque homme puisse exercer sa maîtrise sur les choses et mener une vie agréable. Le pape demande, plus particulièrement, que l’accent soit mis sur la famille, thème déjà prioritaire dans la première encyclique Rerum novarum (1891).

La vie de famille ne peut être sacrifiée sur l’autel de l’économie, économie qui doit demeurer au service des familles. Cette exigence de l’Eglise d’atteindre l’équilibre entre travail et famille constituait déjà la trame de la première encyclique sociale Rerum novarum (1891) et doit, aujourd’hui, être actualisée dans le contexte de l’économie mondiale (délocalisation, immigration, mécanisation, informatisation, flexibilité…). Dans cet ordre d’idées, l’Etat a le devoir et la responsabilité de mener une politique active en matière d’emploi.

Dans un monde globalisé également, il convient de placer à l’avant-plan le fait que l’homme est sujet de travail (la personne est la mesure du travail) et que le travail ne peut à aucun moment être considéré comme une marchandise ou un élément impersonnel de l’organisation productive. Aujourd’hui plus encore qu’hier, le travail revêt une dimension sociale : le travail est plus que jamais une question de collaboration, le travail pour les autres (la plupart du temps, l’on ne travaille pas directement pour sa subsistance propre).

De par son caractère subjectif et personnel, le travail est supérieur à tout autre facteur de l’économie et de la productivité, en particulier au capital. Précisément en ces temps de flexibilisation et de mondialisation, il faut retenir que la principale ressource aux mains de l’homme, c’est l’homme lui-même.

Cette nouvelle situation de l’économie mondialisée a posé de nouveaux défis à la solidarité et à la question sociale (l’actuelle « res novae ») : de nouvelles formes de production, la flexibilité, la requalification, une autre organisation du travail, qui sont la conséquence d’une économie qui passe du stade d’économie industrielle à celui d’économie de services et de la connaissance.

Le risque est grand qu’une large part du travail classique ne trouve plus sa place dans la nouvelle économie et que la dimension subjective du travail soit abandonnée, sous la pression notamment de l’évolution technologique qui menace d’évincer le travail mais aussi, ce faisant, de considérer le travail avec moins d’égards et donc, de subordonner l’homme à la technique.

Benoît XVI écrit : « La technique permet de dominer la matière, de réduire les risques, d’économiser ses forces et d’améliorer les conditions de vie. Elle répond à la vocation même du travail humain: par la technique, œuvre de son génie, l’homme reconnaît ce qu’il est et accomplit son humanité. (…) La technique n’est jamais purement technique. Elle manifeste l’homme et ses aspirations au développement, elle exprime la tendance de l’esprit humain au dépassement progressif de certains conditionnements matériels. Le développement technologique peut amener à penser que la technique se suffit à elle-même, quand l’homme, en s’interrogeant uniquement sur le comment, omet de considérer tous les pourquoi qui le poussent à agir. C’est pour cela que la technique prend des traits ambigus. Née de la créativité humaine comme instrument de la liberté de la personne, elle peut être comprise comme un élément de liberté absolue, liberté qui veut s’affranchir des limites que les choses portent en elles-mêmes. Le processus de mondialisation pourrait substituer la technologie aux idéologies, devenue à son tour un pouvoir idéologique qui expose l’humanité au risque de se trouver enfermée dans un a priori d’où elle ne pourrait sortir pour rencontrer l’être et la
vérité. »

Dans le contexte de la mondialisation également, nous devons veiller à une juste hiérarchie des valeurs tout en nous assurant que l’activité économique et le progrès matériel restent au service de l’homme et de la société, guidés par un humanisme intégral et solidaire. Le pape actuel s’oppose au fatalisme « à l’égard de la mondialisation, comme si les dynamiques en acte étaient produites par des forces impersonnelles anonymes et par des structures indépendantes de la volonté humaine. Derrière le processus le plus visible se trouve la réalité d’une humanité qui devient de plus en plus interconnectée. Celle-ci est constituée de personnes et de peuples auxquels ce processus doit être utile et dont il doit servir le développement, en vertu des responsabilités respectives prises aussi bien par des individus que par la collectivité. Le dépassement des frontières n’est pas seulement un fait matériel, mais il est aussi culturel dans ses causes et dans ses effets. Si on regarde la mondialisation de façon déterministe, les critères pour l’évaluer et l’orienter se perdent. C’est une réalité humaine et elle peut avoir en amont diverses orientations culturelles sur lesquelles il faut exercer un discernement.

Et cela s’accompagne du respect de la nature. Si l’homme est maître de la nature, il ne peut en disposer arbitrairement. La nature ne peut faire l’objet d’une réduction utilitariste, mais pas question non plus de la faire prévaloir sur la personne humaine et de l’absolutiser. Benoît XVI n’hésite pas en particulier en jeter une pierre dans le jardin des écologistes, quand il juge que « considérer la nature comme plus importante que la personne humaine elle-même est contraire au véritable développement ».
La protection de l’environnement est un défi posé à toute l’humanité car il s’agit d’un bien collectif pour les générations d’aujourd’hui et de demain. L’avenir de notre planète et de l’humanité dépend de ce que nous faisons aujourd’hui. L’écrivain suisse Denis de Rougement notait dans son livre L’avenir est notre affaire (1977) : « Hier nous pouvions encore partir du passé pour juger le présent en même l’avenir… Aujourd’hui, nous devons partir de l’avenir. »

L’ensemble de la Doctrine sociale de l’Eglise s’inscrit dans le droit fil de la protection de la vie, autrement dit de la création dans son ensemble et de l’homme. Pour le pape, l’attention accordée à l’homme (en ce compris le respect de la vie et l’opposition à la manipulation génétique) est indissociable de la protection de l’environnement et de la préservation de la création. L’homme en est lui-même responsable. Dans ce sens Benoît XVI prolonge l’enseignement de Jean-Paul II dans Centesimus annus qui rappelait: « Quand l’écologie humaine est respectée dans la société, l’écologie proprement dite en tire aussi avantage. » Finalement, tout dépend de l’homme et de ses actes.

Le but ultime de la Doctrine sociale de l’Eglise est la promotion d’une « civilisation de l’amour ».

La nouvelle encyclique Caritas in veritate se rallie en cela à la pensée du « développement intégral et authentique de l’homme » (une notion qui doit beaucoup au philosophe Jacques Maritain, défenseur d'une philosophie chrétienne fondée sur l'expérience et la raison, et au dominicain Louis-Joseph Lebret, pionnier du développement). Le pape Paul VI l’a développée dans son encyclique Populorum progressio (1967), laquelle, selon le pape actuel, « mérite d’être considérée comme l’encyclique Rerum novarum de l’époque contemporaine ». Benoît XVI fait de nombreuses références à l’encyclique de 1967 ainsi qu’à d’autres textes de Paul VI pour étudier, à la lumière de sa pensée, les « nouvelles questions » de la mondialisation, de la protection de l’environnement, du développement durable, du système financier et des conséquences économiques et sociales de la mondialisation. « Il faut évaluer les multiple termes dans lesquels se pose aujourd’hui, à la différence d’alors, le problème de développement », dit Benoît XVI.

L’être humain (le principe personnaliste) est au cœur de cette réflexion mais dans la pleine conscience que l’homme est un « pécheur » qui a droit au salut. Plutôt que de se fonder sur la ‘faisabilité’, la Doctrine sociale de l’Eglise se réfère au caractère ‘perfectible’. La différence résidant dans le fait que, dans le cas de la faisabilité, une élite ou une autorité peut déterminer ce qu’on attend de l’homme, tandis que, dans le cas de la perfectibilité, c’est la conscience humaine qui est sollicitée.

Au fond, rien n’est mauvais en soi. Ni la finance, ni le marché, ni la mondialisation. Seules sont perverses les passions qui nous poussent à ‘absolutiser’ tel ou tel mécanisme, dans une logique de pur profit. Inversement, seul est authentiquement bon ce qui conduit au ‘développement humain intégral’.

Avec plus de vigueur encore que ses prédécesseurs, le pape actuel fait appel à la conscience personnelle et à la révolution personnelle. A ses yeux, aucune justice sociale et économique n’est possible sans moralité individuelle. Sans équilibre intérieur, pas d’équilibre dans la société, telle est sa thèse. En découle le concept de « caritas », la charité, qu’il place au centre de sa pensée. Ce qui, de prime abord, peut paraître étrange puisque nous sommes bien plus habitués, s’agissant de problèmes sociaux, d’utiliser le concept de « justice ».

La charité qui a surtout trait à la vie personnelle et aux relations personnelles, Benoît XVI la relie également aux macro-relations des mondes politique et économique. Il est convaincu que c’est précisément le manque de charité qui nous a menés à l’actuelle crise économique et financière : l’égoïsme a isolé la réalisation de bénéfices des autres fins de l’économie, anéantissant la prospérité et créant la pauvreté.

Cette « attitude égocentrique », le pape la retrouve non seulement dans l’absence de charité mais aussi dans l’illusion de l’autodétermination et la prétention de la faisabilité. Il écrit que l’homme moderne se fourvoie lorsqu’il pense qu’il peut, à lui seul, orchestrer sa vie et la société. Quiconque doit ou veut gagner absolument tout seul perd de vue l’intérêt général (de la société, du monde, de la nature et de la famille humaine). Lorsque les systèmes économiques, sociaux ou politiques reposent sur les idées de faisabilité et d’autodétermination, ils mettent à mal la véritable liberté des hommes.
 
Le pape écrit : « La vérité qui, à l’égal de la charité, est un don, est plus grande que nous (…) Parce qu’elle est un don que tous reçoivent, la charité dans la vérité est une force qui constitue la communauté, unifie les hommes de telle manière qu’il n’y ait plus de barrières ni de limites. Nous pouvons par nous-mêmes constituer la communauté des hommes, mais celle-ci ne pourra jamais être, par ses seules forces, une communauté pleinement fraternelle ni excéder ses propres limites, c’est-à-dire devenir une communauté vraiment universelle : l’unité du genre humain, communion fraternelle dépassant toutes divisions… »

Benoît XVI, qui pour ce faire s’est inspiré de Saint Augustin, se présente dans cette encyclique davantage comme un théologien que ses prédécesseurs. En adoptant ce ton théologique très marqué, très spirituel de temps à autre, la nouvelle encyclique sociale risque d’avoir un poids politique moindre. Peut-être est-ce précisément de ce ton spirituel dont le monde d’aujourd’hui a besoin.

Il faut le reconnaître, la seule option qui s’impose est une nouvelle synthèse humaniste qui sera capable de remédier à la complexité et à la gravité dont la planète prend enfin conscience pour le moment.

Cette encyclique est une contribution pour parvenir à cette nouvelle synthèse. J’ai essayé de faire la synthèse de cette tentative de synthèse.

mercoledì 18 novembre 2009

Seminario ortodosso russo in Francia

Seminario ortodosso russo in Francia: un ponte fra i cristiani di Oriente e Occidente

◊ Da una parte, permettere ai futuri membri del clero della Chiesa ortodossa di scoprire le ricchezze scientifiche, culturali e religiose dell'Occidente cristiano; dall'altra, far meglio conoscere la tradizione ortodossa russa in Europa. È la duplice vocazione del Seminario ortodosso russo in Francia inaugurato ufficialmente sabato scorso dalla liturgia eucaristica presieduta dall'arcivescovo Hilarion, responsabile del dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca. Alla celebrazione erano presenti fra gli altri l'arcivescovo di Chersonèse, Innocent, il metropolita Emmanuel, presidente dell'Assemblea dei vescovi ortodossi di Francia, il cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi e presidente della Conferenza episcopale francese, e il vescovo di Evry-Corbeil-Essonnes, Michel Dubost. Per l’occasione anche il Patriarca di Mosca Kirill ha inviato un messaggio sottolineando come oggi più che mai sia indispensabile che la Chiesa ortodossa russa abbia a disposizione specialisti ben formati, che conoscano perfettamente la società europea e capaci di esercitare il loro ministero non solo nel proprio campo scientifico ma anche in quello delle relazioni interecclesiali e diplomatiche. “Allo stesso tempo – si legge nel testo - essa ha più bisogno di preti che possano servire con dignità le nostre parrocchie all'estero”. Tra gli obiettivi del seminario, spiega poi il Patriarca di Mosca, “c'è anche quello di cooperare con la civiltà cristiana europea: un passo significativo sul cammino dell'approfondimento delle relazioni con le altre Chiese”. Creato dal sinodo del Patriarcato di Mosca nell'aprile 2008, il Seminario è infatti il primo istituto di formazione superiore della Chiesa ortodossa russa in Europa occidentale. Ponte spirituale tra la Francia e la Russia, ha appunto l'obiettivo di formare e di far incontrare i cristiani di Oriente e Occidente. (C.S.)

Discorso di Benedetto XVI alla Fao

Discours de Benoît XVI au Sommet de la FAO

Rome, le lundi 16 novembre 2009

***

Discours de Benoît XVI


Monsieur le Président,
Mesdames et messieurs,

1. J’ai accueilli avec grand plaisir l’invitation de Monsieur Jacques Diouf, Directeur général de la FAO, à prendre la parole au cours de la session d’ouverture de ce Sommet mondial sur la Sécurité alimentaire. Je le salue cordialement et je le remercie pour ses courtoises paroles de bienvenue. Je salue les Hautes Autorités présentes et tous les participants. En continuité avec mes vénérés prédécesseurs Paul VI et Jean-Paul II, je désire exprimer à nouveau mon estime pour l’action de la FAO, que l’Église catholique et le Saint-Siège suivent avec l’attention et l’intérêt que mérite l’engagement quotidien de tous ceux qui s’y impliquent. Grâce à votre travail généreux que résume la devise Fiat Panis, le développement de l’agriculture et la sécurité alimentaire demeurent parmi les objectifs prioritaires de l’action politique internationale. Je suis certain que cet esprit orientera les décisions du présent Sommet, tout comme celles qui seront adoptées dans le but commun de remporter dès que possible le combat contre la faim et la malnutrition dans le monde.

2. La Communauté internationale affronte au cours de ces dernières années une grave crise économique et financière. Les statistiques témoignent de la croissance dramatique du nombre de ceux qui souffrent de la faim, à laquelle concourent l’augmentation des prix des produits alimentaires, la diminution des ressources économiques des populations plus pauvres, l’accès limité au marché et à la nourriture. Tout cela survient alors que se confirme le fait que la terre est en mesure de nourrir tous ses habitants. En effet, même si dans certaines régions des niveaux bas de production agricole persistent, parfois à cause du changement climatique, cette production est globalement suffisante pour satisfaire aussi bien la demande actuelle, que celle qui est prévisible dans le futur. Ces données indiquent l’absence d’une relation de cause à effet entre la croissance de la population et la faim, et cela est encore confirmé par la déplorable destruction de denrées alimentaires pour préserver certains profits. Dans l’Encyclique Caritas in Veritate, j’ai observé que « la faim ne dépend pas tant d’une carence de ressources matérielles, que d’une carence de ressources sociales, la plus importante d’entre elles étant de nature institutionnelle. Il manque en effet une organisation des institutions économiques qui soit aussi en mesure de bien garantir un accès régulier et adapté (…) à la nourriture et à l’eau, que de faire face aux nécessités liées aux besoins primaires et aux urgences des véritables crises alimentaires (…) ». Et j’ai ajouté : « Le problème de l’insécurité alimentaire doit être affronté dans une perspective à long terme, en éliminant les causes structurelles qui en sont à l’origine et en promouvant le développement agricole des pays les plus pauvres à travers des investissements en infrastructures rurales, en système d’irrigation, de transport, d’organisation des marchés, en formation et en diffusion des techniques agricoles appropriées, c’est-à-dire susceptibles d’utiliser au mieux les ressources humaines, naturelles et socio-économiques les plus accessibles au niveau local, de façon à garantir aussi leur durabilité sur le long terme » (n. 27). Dans ce contexte, il est aussi nécessaire de contester le recours à certaines formes de subventions qui perturbent gravement le secteur agricole, ainsi que la persistance de modèles alimentaires orientés seulement vers la consommation et dépourvus de perspectives de plus grande envergure et, au-delà de tout, l’égoïsme qui permet à la spéculation de pénétrer même sur le marché des céréales, mettant la nourriture sur le même plan que toutes les autres marchandises.

3. La convocation elle-même de ce Sommet, témoigne, dans un certain sens, de la faiblesse des mécanismes actuels de la sécurité alimentaire et de la nécessité de les repenser. En effet, même si les Pays plus pauvres sont plus largement intégrés que par le passé dans l’économie mondiale, le fonctionnement des marchés internationaux les rend plus vulnérables et les contraint à recourir à l’aide des Institutions intergouvernementales, qui offrent, certes, une aide précieuse et indispensable. Cependant, la notion de coopération doit être cohérente avec le principe de subsidiarité : il est nécessaire d’engager « les communautés locales dans les choix et les décisions relatives à l’usage des terres cultivables » (ibid.), parce que le développement humain intégral requiert des choix responsables de la part de tous et demande une attitude solidaire qui ne considère pas l’aide ou l’urgence comme une opportunité profitable pour qui met à disposition des ressources ou pour des groupes privilégiés qui se trouvent parmi les bénéficiaires. Face aux pays qui ont besoin d’aides externes, la Communauté internationale a le devoir de répondre avec les outils de la coopération, en se sentant coresponsable de leur développement, « par la solidarité de la présence, de l’accompagnement, de la formation et du respect » (ibid., 47). Au sein de ce contexte de responsabilité se situe le droit de chaque pays à définir son propre modèle économique, prévoyant les modalités pour garantir sa propre liberté de choix et d’objectifs. Selon cette perspective, la coopération doit devenir un instrument efficace, libre de contraintes et d’intérêts qui peuvent absorber une partie non négligeable des ressources destinées au développement. Il est en outre important de souligner combien la voie de la solidarité pour le développement des pays pauvres peut constituer aussi une voie de solution de la crise globale actuelle. En effet, en soutenant ces nations par des plans de financement inspirés par la solidarité, pour qu’elles pourvoient elles-mêmes à la satisfaction de la demande de consommation et de développement qui leur est propre, non seulement on favorise en leur sein la croissance économique, mais cela peut avoir aussi des répercussions positives sur le développement humain intégral dans d’autres pays (cf. ibid., 27).

4. Actuellement, subsiste encore un niveau inégal de développement au sein et entre les nations, qui entraîne, en de nombreuses régions du globe, des conditions de précarités, qui accentue le contraste entre pauvreté et richesse. Ce constat ne concerne plus seulement les mérites comparés des divers modèles économiques ; mais il concerne, d’abord et surtout, la perception même que l’on a d’un phénomène comme l’insécurité alimentaire : le risque existe concrètement que la faim soit considérée comme structurelle, comme partie intégrante de la réalité socio-politique des pays plus faibles, et fasse donc objet d’un découragement résigné, voire même de l’indifférence. Il n’en est pas ainsi, et il ne doit pas en être ainsi ! Pour combattre et vaincre la faim, il est essentiel de commencer par redéfinir les concepts et les principes jusqu’ici appliqués dans les relations internationales, de façon à répondre à la question : qu’est-ce qui peut orienter l’attention et la conduite des États - qui en découle - vers les besoins des plus démunis ? Il ne faut pas chercher une réponse dans le profil opérationnel de la coopération, mais dans les principes qui doivent l’inspirer. C’est seulement au nom de l’appartenance commune à la famille humaine universelle que l’on peut demander à chaque peuple et donc à chaque pays d’être solidaire, c’est-à-dire d’être disposé à assumer des responsabilités concrètes pour venir au-devant des besoins des autres, pour favoriser un vrai partage fondé sur l’amour.

5. Toutefois, même si la solidarité animée par l’amour dépasse la justice, parce qu’aimer c’est donner, offrir du ‘mien’ à l’autre, elle n’existe jamais sans la justice, qui pousse à donner à l’autre ce qui est ‘sien’ et qui lui revient en raison de son être et de son agir. Je ne peux pas, en effet, ‘donner’ à l’autre du ‘mien’, sans lui avoir donné tout d’abord ce qui lui revient selon la justice (cf. ibid., 6). Si on vise l’élimination de la faim, l’action internationale est appelée non seulement à favoriser une croissance économique équilibrée et durable ainsi que la stabilité politique, mais aussi à rechercher de nouveaux paramètres – nécessairement éthiques et ensuite juridiques et économiques – capables d’inspirer un mode de coopération susceptible de construire une relation paritaire entre les pays qui se trouvent à un degré différent de développement. Outre le fait de combler l’écart existant, ceci pourrait favoriser la capacité de chaque peuple à se sentir protagoniste, confirmant ainsi que l’égalité fondamentale des différents peuples plonge ses racines dans l’origine commune de la famille humaine, source des principes de la « loi naturelle » appelés à inspirer les orientations et les choix d’ordre politique, juridique et économique de la vie internationale (cf. ibid., 59). Saint Paul a des paroles éclairantes à cet égard : « Il ne s’agit pas - écrit-il – de vous mettre dans la gêne en soulageant les autres, il s’agit d’égalité. En cette occasion, ce que vous avez en trop compensera ce qu’ils ont en moins, pour qu’un jour ce qu’ils auront en trop compense ce que vous aurez en moins, et cela fera l’égalité, comme dit l’Écriture : « Celui qui en avait ramassé beaucoup n’a rien eu de plus, et celui qui en avait ramassé peu n’a manqué de rien » (2 Co 8, 13-15).

6. Monsieur le Président, Mesdames et Messieurs, pour lutter contre la faim en promouvant un développement humain intégral, il faut également comprendre les besoins du monde rural, et aussi éviter que la tendance à la diminution de l’apport des donateurs ne crée des incertitudes sur le financement des activités de coopération : le risque que le monde rural puisse être considéré, par manque de clairvoyance, comme une réalité secondaire doit être écarté. En même temps, l’accès au marché international des produits provenant des régions plus pauvres doit être favorisé, alors qu’aujourd’hui il est souvent relégué dans des espaces limités. Pour atteindre ces objectifs, il est nécessaire de soustraire les règles du commerce international à la logique du profit pour lui-même, en les orientant en faveur de l’initiative économique des pays qui ont le plus besoin de développement et qui, disposant d’entrée plus importantes, pourront atteindre cette autosuffisance qui est le prélude à la sécurité alimentaire.

7. Il ne faut pas oublier non plus les droits fondamentaux de la personne parmi lesquels se détache le droit à une alimentation suffisante, saine et nourrissante, ainsi qu’à l’eau ; ceux-ci revêtent un rôle important à l’égard des autres droits, à commencer par le premier d’entre eux, le droit à la vie. Il faut donc que mûrisse « une conscience solidaire qui considère l’alimentation et l’accès à l’eau comme droits universels de tous les êtres humains, sans distinction ni discrimination » (Caritas in Veritate, n.27). Si tout ce qui a été patiemment accompli au cours de ces années par la FAO a, d’un côté, favorisé l’élargissement des objectifs de ce droit par rapport à la seule garantie de satisfaire les besoins primaires de la personne, d’un autre côté cela a aussi mis en évidence la nécessité de sa juste réglementation.

8. Les méthodes de production alimentaire imposent également une analyse attentive du rapport entre le développement et la sauvegarde de l’environnement. Le désir de posséder et d’user de façon excessive et désordonnée les ressources de la planète est la cause première de toute dégradation environnementale. La préservation de l’environnement se présente donc comme un défi actuel pour garantir un développement harmonieux, respectueux du dessein créateur de Dieu et par conséquent en mesure de sauvegarder la planète (cf. ibid., 48-51). Si l’humanité entière est appelée à être consciente de ses propres obligations vis-à-vis des générations à venir, il est également vrai que le devoir de protéger l’environnement en tant que bien collectif revient aux États et aux Organisations internationales. Dans cette perspective, il est indispensable d’approfondir les interactions entre la sécurité environnementale et le préoccupant phénomène des changements climatiques, en se focalisant sur le caractère central de la personne humaine et en particulier des populations plus vulnérables à ces deux phénomènes. Des normes, des législations, des plans de développement et des investissements ne suffisent pas, il faut modifier les styles de vie personnels et collectifs, les habitudes de consommation et les véritables besoins ; mais, par-dessus tout, il est nécessaire d’être conscient du devoir moral de distinguer le bien du mal dans les actions humaines pour redécouvrir de cette façon le lien de communion qui unit la personne et la création.

9. Il est important de rappeler – je l’ai aussi observé dans l’Encyclique Caritas in Veritate – que « la dégradation de l’environnement est (…) étroitement liée à la culture qui façonne la communauté humaine : quand ‘l’écologie humaine’ est respectée dans la société, l’écologie proprement dite en tire aussi avantage ». C’est vrai : « le système écologique s’appuie sur le respect d’un projet qui concerne aussi bien la saine coexistence dans la société que le bon rapport avec la nature ». «Le point déterminant est la tenue morale de la société dans son ensemble ». C’est pourquoi, « les devoirs que nous avons vis-à-vis de l’environnement sont liés aux devoirs que nous avons envers la personne considérée en elle-même et dans sa relation aux autres. On ne peut exiger les uns et piétiner les autres. C’est là une grave antinomie de la mentalité et de la praxis actuelle qui avilit la personne, bouleverse l’environnement et détériore la société » (cf. ibid., 51).

10. La faim est le signe le plus cruel et le plus concret de la pauvreté. Il n’est pas possible de continuer d’accepter l’opulence et le gaspillage quand le drame de la faim prend des dimensions toujours plus grandes. Monsieur le Président, Mesdames et Messieurs, l’Église catholique prêtera toujours attention aux efforts pour vaincre la faim; elle soutiendra toujours, par la parole et par les actes, l’action solidaire – programmée, responsable et régulée - que toutes les composantes de la Communauté internationale seront appelées à entreprendre. L’Église ne prétend pas interférer dans les choix politiques. Respectueuse du savoir et des résultats des sciences, tout comme des choix déterminés par la raison quand ils sont éclairés de façon responsable par des valeurs authentiquement humaines, elle s’unit à l’effort pour éliminer la faim. C’est là le signe le plus immédiat et concret de la solidarité animée par la charité, signe qui ne laisse pas de place aux retards et aux compromis. Cette solidarité s’en remet à la technique, aux lois et aux institutions pour répondre aux aspirations des personnes, des communautés et de peuples entiers, mais elle ne doit pas exclure la dimension religieuse, qui recèle une puissante force spirituelle capable de servir la promotion de la personne humaine. Reconnaître la valeur transcendante de tout homme et de toute femme reste le premier pas pour favoriser la conversion du cœur qui peut soutenir l’engagement pour éradiquer la misère, la faim et la pauvreté sous toutes leurs formes.

Je vous remercie de votre aimable attention et, en conclusion, j’adresse mes vœux, dans les langues officielles de la FAO, à tous les États membres de l’Organisation.

martedì 17 novembre 2009

teologia liturgica


Il Santo Padre Benedetto XVI ha indetto, come a tutti noto, l’Anno Sacerdotale (giugno 2009 – giugno 2010), in occasione del 150° anniversario del dies natalis del Santo Curato d’Ars. L’intento è di «contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi» [1]. San Giovanni Maria Vianney, oltre a rappresentare al vivo un modello sommo di sacerdote, ha sempre annunciato con chiarezza e con enfasi l’incomparabile dignità del sacerdozio e la centralità del ministero ordinato in seno alla Chiesa. Attingendo ai suoi insegnamenti, il Santo Padre ha riproposto le seguenti parole del Santo: «“Oh come il prete è grande!... Se egli si comprendesse, morirebbe... Dio gli obbedisce: egli pronuncia due parole e Nostro Signore scende dal cielo alla sua voce e si rinchiude in una piccola ostia...”». E ancora: «Tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la preparerà a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire [per il peccato], chi la risusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote... Dopo Dio, il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo» [2].

Come si vede, san Giovanni Maria individua la grandezza del sacerdote con riferimento privilegiato al potere che egli esercita nei sacramenti a nome e nella Persona di Cristo. Benedetto XVI ha messo in evidenza questo fatto, riportando ancora altre parole del Curato d’Ars, che si riferiscono in particolare al ministero di celebrare la Santa Eucaristia. Il Papa scrive che il Santo «era convinto che dalla Messa dipendesse tutto il fervore della vita di un prete: “La causa della rilassatezza del sacerdote è che non fa attenzione alla Messa! Mio Dio, come è da compiangere un prete che celebra come se facesse una cosa ordinaria!”» [3].

L’Anno Sacerdotale propone alla nostra riflessione la figura del sacerdote e, in modo particolare, la sua dignità di ministro ordinato che celebra i sacramenti, a beneficio di tutta la Chiesa, nella Persona di Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote [4].

In questo Anno Sacerdotale, che si celebra tra il 2009 ed il 2010, ci sono tuttavia anche altre ricorrenze che merita ricordare, perché intimamente connesse con l’indole eucaristica della dignità sacerdotale. Nel 1969, il Papa Paolo VI promulgava, con la Costituzione apostolica Missale Romanum, il nuovo Messale approntato dopo il Concilio Vaticano II. Nel presente anno 2009, dunque, si celebra il 40° di tale promulgazione. Il prossimo anno 2010, si celebreranno altri due anniversari, pure legati direttamente alla celebrazione dell’Eucaristia. Il primo coincide con il 40° anniversario (1970-2010) della promulgazione della definitiva editio typica (prima) della Institutio Generalis Missalis Romani. Il secondo coincide con il 440° anniversario della promulgazione del Messale attualmente detto Vetus Ordo o Usus antiquior, promulgato da san Pio V con la Costituzione apostolica Quo primum del 14 luglio 1570. Tale Costituzione è richiamata, assieme al Messale di san Pio V, sin dalle prime parole della menzionata Costituzione apostolica Missale Romanum di Paolo VI [5].

I due Messali, uniti anche dalla celebrazione dei rispettivi anniversari, sono due forme dell’unica lex orandi della Chiesa di Rito latino. A questo riguardo, si è espresso il Santo Padre Benedetto XVI, insegnando che, in relazione al Messale di Paolo VI, «il Messale Romano promulgato da san Pio V e nuovamente edito dal beato Giovanni XXIII deve venir considerato come espressione straordinaria della stessa “lex orandi” [“legge della preghiera”] e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della “lex orandi” della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella “lex credendi” (“legge della fede”) della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico Rito Romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal beato Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa» [6].

La possibilità di una serena ed armonica coesistenza delle due forme dell’unico Rito Romano è infine stata indirettamente affermata anche dalla compresenza di entrambi gli Ordines Missae (beato Giovanni XXIII e Paolo VI) all’interno del recentissimo Compendium Eucharisticum, pubblicato dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti [7].

La coincidenza di queste diverse ricorrenze ha dettato anche il tema che la rubrica Spirito della Liturgia si propone di approfondire quest’anno: quello del «Sacerdote nella Celebrazione eucaristica». Attraverso brevi articoli a cadenza quindicinale, redatti da teologi, liturgisti e canonisti competenti, cercheremo di presentare in modo chiaro ed accessibile il ruolo ed il compito del sacerdote nelle diverse parti della Messa, tenendo presenti entrambi i Messali di cui si celebrano gli anniversari. L’auspicio è che questi articoli possano aiutare i sacerdoti a cogliere l’opportunità di riflessione e di conversione offerta dall’Anno Sacerdotale, e che li possano stimolare ad una cura sempre più attenta dell’ars celebrandi. Speriamo inoltre che i contributi che saranno via via pubblicati possano aiutare anche gli altri lettori – religiosi, religiose, seminaristi, fedeli laici – a riconsiderare con maggiore attenzione, e a venerare con profondo rispetto religioso, la grandezza del Mistero eucaristico e la dignità del ministero sacerdotale, nonché a riscoprire la loro centralità nella vita e nella missione della Chiesa.


(don Mauro Gagliardi)


Note

[1] Benedetto XVI, Lettera di Indizione dell’Anno Sacerdotale, 16.06.2009.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] I presbiteri «esercitano al massimo grado il loro sacro munus nel culto eucaristico o sinassi, nella quale, agendo in persona di Cristo [in persona Christi] e proclamando il suo mistero, uniscono i voti dei fedeli al sacrificio del loro Capo, e nel sacrificio della Messa rappresentano ed applicano l’unico sacrificio della nuova alleanza, cioè di Cristo che si offrì al Padre una volta per sempre come Vittima immacolata, fino alla venuta del Signore»: Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n. 28: AAS 57 (1965), p. 34. Cf. anche Presbyterorum Ordinis, nn. 2; 12; 13.

[5] Cf. Paolo VI, Missale Romanum, 03.04.1969: AAS 61 (1969), p. 217.

[6] Benedetto XVI, Summorum Pontificum, 07.07.2007, art. 1.

[7] Cf. Congregatio de Cultu Divino et Disciplina Sacramentorum, Compendium Eucharisticum, LEV, Città del Vaticano 2009. La preparazione di questo testo era stata affidata direttamente dal Santo Padre, che ne aveva dato notizia nella Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis, 22.02.2007, n. 93.

Nuovo Rito delle esequie

(ZENIT.org).- I Vescovi italiani, riuniti in Assemblea generale ad Assisi dal 9 fino al 12 novembre, hanno approvato mercoledì la bozza del nuovo Rito delle esequie, la versione italiana cioè del libro liturgico ufficiale, utilizzato nelle veglie di preghiera e nei funerali.

In una nota mons. Domenico Pompili, Direttore dell'Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e portavoce della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), ha fatto sapere che “il testo sarà pubblicato dopo la prescritta approvazione della Santa Sede”.

Nel documento, la Chiesa italiana si dice contraria allo spargimento delle ceneri in natura dopo la cremazione e alla conservazione “in luoghi diversi dal cimitero”, come a casa o in giardino, delle urne con i resti dei defunti cremati.

La Chiesa intende in questo modo evitare qualsiasi deriva panteistica o naturalistica, ma anche forme di idolatria o feticismo.

Il nuovo Rito delle esequie aggiorna così l’edizione del 1974 e rende normative le indicazioni contenute nel Sussidio pastorale “Proclamiamo la tua risurrezione”, pubblicato alla fine del 2007.

Già dal 1963 con l'emanazione dell'Istruzione "De cadaverum crematione: Piam et constantem" la Chiesa aveva legittimato la cremazione, pur non approvandola come forma di seppellimento dei cadaveri.

Nel 1969, con il decreto “Ordo Exsequiarum”, della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, aveva stabilito che "a coloro che avessero scelto la cremazione del loro cadavere si può concedere il rito delle esequie cristiane, a meno che la loro scelta non risulti dettata da motivazioni contrarie alla dottrina cristiana”.

“In particolare – ha spiegato mons. Pompili –, sarà introdotto un formulario per quanti scelgono la cremazione”.

La Chiesa, ha ribadito il portavoce della CEI, “pur preferendo la sepoltura tradizionale, non riprova tale pratica”, e infatti il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 la prevede “se non mette in questione la fede nella risurrezione dei corpi”.

Infatti, ha aggiunto, questa pratica è ammessa a meno che non sia “voluta in disprezzo della fede, cioè quando si intende con questo gesto affermare il nulla in cui verrebbe ricondotto l’essere umano”.

“Per questo in futuro si promuoverà una riflessione a tutto campo sul senso della vita e della morte a fronte di una cultura che maschera o esorcizza la fine”, ha detto.

“Si vuole così risvegliare la memoria dei defunti attraverso la preghiera, bandendo ogni forma di ricerca del macabro e del demonismo”.

“La memoria dei defunti e la familiarità con il camposanto sarà un modo concreto per contrastare la prassi di disperdere le ceneri o conservarle al di fuori del cimitero o di una chiesa”, ha quindi aggiunto.

La prima cremazione in Italia risale al 1822 ma è solo negli ultimi due decenni del XIX sec. che la pratica si diffonde lentamente nel paese. Ora è un fenomeno in forte crescita. In vent'anni si è, infatti, passati dalle 3.600 cremazioni del 1987 alle quasi 60.000 del 2007.

In Italia ci sono oltre 40 tra associazioni e società per la cremazione che si occupano di tutti gli aspetti legati alle esequie di chi ha scelto questa strada tramite volontà testamentaria o semplicemente attraverso l'iscrizione a una So.Crem. Le esequie vengono quindi celebrate in Chiesa in presenza dell’urna cineraria o, per i non credenti, nelle cosiddette “Sale del Commiato”.

In un incontro con i giornalisti il Segretario generale della CEI, mons. Mariano Crociata, aveva detto che “sarebbe opportuno che le persone imparassero a rapportarsi in maniera consapevole con l'unica cosa certa della vita: la propria morte”. Invece, oggi, “o c'è la sua rimozione pressoché totale, oppure si assiste, al contrario, alla sua spettacolarizzazione”.
"La Luce della Fede sulla morte – aveva indicato il Vescovo – deve portare a vivere con responsabilità questa vita".

Nella prolusione all'Assemblea generale, il Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della CEI, aveva inquadrato l'importanza della nuova edizione italiana del Rito delle esequie nell'orizzonte pastorale, evidenziando la possibilità in queste occasioni di richiamare la novità dell'annuncio di Cristo di fronte al mistero della morte.

“Capita sovente – aveva riflettuto il porporato – di trovarci a riflettere sulla tendenza a considerare privatisticamente anche l’esperienza della morte. L’individualismo, che è cifra marcata di questa post-modernità, raggiunge ai limiti della vita una delle sue esasperazioni più impressionanti”.

“Anche quando la maschera della morte scende sul volto dei propri cari – aveva aggiunto –, dunque si fa più prossima e meno facilmente evitabile, anche allora non di rado si tende a rimuovere l’evento, a scantonarlo, a scongiurare ogni coinvolgimento”.

Da qui deriva “la pratica sparizione dell’esperienza della morte e di ogni suo simulacro dalla scena della vita”, mentre in una cultura come la nostra, “che progressivamente sembra slittare verso forme post-cristiane”, comincia ad avvertirsi sempre più l' “influenza di talune visioni spurie o paganeggianti” e al contempo “una certa insufficienza catechistica”.

A questo proposito il porporato aveva sottolineato l'importanza di “bonificare l’immagine della vita per imparare a godere realmente della stessa” e di “imparare ad invecchiare, per saper contare i giorni e apprezzare i doni, e per non sprecare né gli uni né gli altri”.

“Dobbiamo includere anche il camposanto tra i luoghi cari alla famiglia e alla comunità. Saper visitare il cimitero – il luogo dei 'dormienti' in attesa della resurrezione finale − e lì pregare, è un modo per bandire il macabro e per esorcizzare il troppo demonismo della nostra cultura”.

“Le nostre parrocchie – aveva esortato infine – abbiano sempre il cimitero nel perimetro della loro pastorale ordinaria, in modo che questo non sia un’area separata e ghettizzata, cui rivolgersi una volta l’anno, ma spazio della vita così concretamente trascendente da non affievolirsi mai, santuario della memoria che ci fa vivamente umani, ponte che unisce la comunità cristiana con la comunione dei suoi Santi già presso Dio”.

Cura del creato

Dal rispetto dell'ecologia umana, il futuro dell'ambiente

L’articolo che segue è stato pubblicato in novembre da Mondo e Missione, il mensile del Pontificio Istituto Missioni Estere, nel numero monografico di 100 pagine con il titolo “La 'Caritas in veritate' in 10 parole”.

L'autore è il Cardinale Óscar Andrés Rodríguez Maradiaga, Arcivescovo di Tegucigalpa e Presidente di Caritas Internationalis.

* * *

«Il modo in cui trattiamo l'ambiente influisce sul modo in cui trattiamo noi stessi»

Il degrado della natura è strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l'«ecologia umana» è rispettata dentro la società, anche l'ecologia ambientale ne trae beneficio (n. 51).

Nella Caritas in veritate Benedetto XVI, proponendo il tema dell'«ecologia umana», supera un dualismo frequente in passato: la separazione tra i temi dell'etica della vita e i temi dell'etica dell'ambiente. Al n. 28 dice: «Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l'importanza del tema del rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli». E menziona mortalità infantile, controllo demografico, le legislazioni contrarie alla vita e la mentalità «antinatalista», che spesso si cerca di trasmettere «come se fosse un progresso culturale». L'enciclica enuncia in tutta chiarezza un principio che oggi sembra dimenticato: «L'apertura alla vita è al centro del vero sviluppo».

Più oltre, al n. 48, viene messa a fuoco la tematica della cura dell'ambiente. È un argomento, questo, cui Benedetto XVI si riferisce di frequente, tanto che alcuni media lo chiamano il «Papa verde». «Il tema dello sviluppo - si legge - è oggi fortemente collegato anche ai doveri che nascono dal rapporto dell'uomo con l'ambiente naturale. Questo è stato donato da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l'umanità intera».

Come credenti dobbiamo riconoscere nella natura il meraviglioso risultato dell'intervento creatore di Dio, che l'essere umano può utilizzare responsabilmente per soddisfare le sue legittime necessità, rispettando l'equilibrio della creazione stessa.

Come profeti della vita, insistiamo nel dire che negli interventi sulle risorse naturali non devono predominare gli interessi di gruppi economici che distruggono irrazionalmente le fonti di vita, pregiudicando nazioni intere e la stessa umanità.

Le generazioni future hanno diritto a ricevere un mondo abitabile e non un pianeta dall'aria contaminata. «Se tale visione viene meno - continua Papa Benedetto - l'uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per abusarne. Ambedue questi atteggiamenti non sono conformi alla visione cristiana della natura, frutto della creazione di Dio».

La terra è un regalo del Creatore da «custodire e coltivare», ma non è più importante della stessa persona umana. Il Papa ci ricorda che sulla terra c'è posto per tutti. Ma dobbiamo lasciare la terra alle nuove generazioni in una condizione in cui possano abitarla degnamente.

Ciò - parafrasando un passaggio al n. 49 - implica l'impegno di decidere insieme con l'obiettivo di rafforzare l'alleanza tra essere umano e ambiente ed è auspicabile che la comunità internazionale e i singoli governi sappiano contrastare efficacemente modalità d'utilizzo dell'ambiente che risultino dannose.

Mai come oggi occorre aiutare le persone a vedere nella creazione qualcosa di più di una semplice fonte di ricchezza o di sfruttamento nelle mani dell'uomo. Il paragrafo 51 ci dice che «le modalità con cui l'uomo tratta l'ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta se stesso e, viceversa». Questa reciprocità non viene sempre considerata nella società di oggi.

La desertificazione e l'impoverimento produttivo di alcune aree agricole sono anche il frutto dell'impoverimento dei suoi abitanti e della loro arretratezza educativa.

La Chiesa ha una responsabilità rispetto alla creazione e la deve far valere in pubblico, non solo difendendo terra, acqua e aria come doni dal Creatore per tutti, ma proteggendo l'essere umano dalla distruzione di se stesso. Questa è l'autentica ecologia umana.

«Per salvaguardare la natura - ricorda il Papa - il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell'uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale»

Artisti

Presentato l'incontro del Papa con gli artisti nella Cappella Sistina, il 21 novembre. Mons. Ravasi: la Chiesa cerca una "nuova allenza" con l'arte

◊ A 45 anni dal celebre discorso che Paolo VI tenne agli artisti nella Cappella Sistina - e a 10 anni dall’altrettanto celebre Lettera che nell’aprile del ’99 indirizzò agli artisti Giovanni Paolo II - Benedetto XVI si prepara a rivivere un analogo incontro il prossimo 21 novembre, sempre nella Cappella Sistina, con una rappresentanza internazionale di esponenti di ogni settore dell’arte. L’evento è stato presentato stamattina in Sala Stampa vaticana dall’arcivescovo Gianfranco Ravasi - presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, che promuove l’incontro - e dal direttore dei Musei Vaticani, il prof. Antonio Paolucci. Il servizio di Alessandro De Carolis:

Da tutto il mondo a Roma, in Vaticano, sotto gli affreschi della Sistina - che Paolo VI definì un “cenacolo” per gli artisti - per rilanciare, all’inizio del 21.mo secolo, un dialogo “globale” con tutti i settori dell’arte: dialogo che la Chiesa ha sempre avuto nei secoli e che da oltre 40 anni - prima con Paolo VI e quindi con Giovanni Paolo II - aveva ripreso attraverso incontri rimasti nella storia. Dietro l’appuntamento che il prossimo 21 novembre vedrà oltre 260 artisti rispondere all’invito del Pontificio Consiglio della Cultura per ascoltare le parole di Benedetto XVI c’è nella sua integrità, ha affermato mons. Ravasi, lo spirito che Papa Wojtyla dieci anni fa condensò nella sua Lettera agli artisti e che il presidente del dicastero ha ripetuto:

“Questa [l’arte], infatti, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un'intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l'arte continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l'esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un'immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero. Persino quando scruta le profondità più oscure dell'anima o gli aspetti più sconvolgenti del male, l'artista si fa in qualche modo voce dell'universale attesa di redenzione”.

Il presule ha spiegato all’inizio della conferenza stampa che l’orizzonte entro il quale è stata condotta la selezione per gli inviti all’incontro col Papa è stato “il più vasto possibile”. Oltre 500 gli artisti contattati - un numero molto ampio nonostante le limitazioni di capienza imposte dalla Sistina - nessun rifiuto di tipo ideologico, solo una serie di defezioni dovute a impegni pregressi degli artisti impossibilitati a sottrarvisi. E soprattutto, nessuna limitazione di tipo religioso:

“I soggetti che sono invitati e che parteciperanno non appartengono soltanto al mondo cattolico, anche se il mondo cattolico evidentemente è rappresentato in maniera molto sostanziosa e sostanziale. Si tratta, infatti, anche in questo caso dell’orizzonte più esteso possibile: tutti coloro cioè che sono significativi all’interno della loro ricerca artistica, prescindendo quindi dalla confessione, prescindendo dal loro credo, dalle loro appartenenze nazionali o etniche o politiche”.

Pittura e scultura, architettura, letteratura e poesia, musica e canto, cinema, teatro, danza, fotografia. Queste le macro-categorie nelle quali sono stati raggruppati gli artisti. Con tutte loro, ha ribadito mons. Ravasi, la Chiesa intende ristabilire una “nuova alleanza”. Quell’alleanza tra due dimensioni che si confrontano entrambe con lo sforzo di rappresentare l’infinito. Mons. Ravasi ha riconosciuto che in passato questa alleanza si è “spezzata”:

“E’ accaduto, da una parte, che la Chiesa si è accontentata molto spesso del ricalco di modelli passati oppure si è accontentata semplicemente di luoghi comuni, di stereotipi, qualche volta anche semplicemente del pur nobile artigianato, senza interrogarsi sulla possibilità di uno stile che fosse espressione del proprio tempo. E dall’altra parte, l’arte, che ha tentato soprattutto sperimentazioni di linguaggio, ricerche stilistiche, elaborazioni autoreferenziali, provocazioni, cioè ha un po’ anch’essa dato le dimissioni nei confronti della sua sorgiva vocazione, quella di rappresentare questo mistero, questo senso ulteriore”.


Nel Novecento - ha spiegato il direttore dei Musei Vaticani, il prof. Antonio Paolucci - Paolo VI volle riannodare le fila di un rapporto quasi dimenticato della Chiesa col mondo artistico, ricordando appunto - in quel famoso incontro del 1964 nella Sistina - che la sfida dell’artista è quella di “carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità”. Una consapevolezza che per Papa Montini era frutto di una lunga maturazione:

“Quello che Benedetto XVI dirà agli artisti il prossimo 21 novembre viene dal cuore del ‘900, viene dagli articoli che sono rimasti memorabili, che Montini ancora giovane prete, nei primi anni ’30, scriveva su questo argomento. C’è un articolo, rimasto famoso, del 1931, quando Montini, trentenne, o poco meno o poco più, si domanda: 'Ma cosa sarà l’arte sacra del futuro? Possibile che dobbiamo andare avanti con queste bolse ripetizioni? Possibile che questo divorzio non sia recuperabile?'”.

L’obiettivo del prossimo incontro, ha ulteriormente precisato il presule, non ha il fine strumentale di indurre gli artisti a diventare “produttori di arte sacra, di arte liturgica” - anche se ciò, ha ipotizzato, potrebbe in qualche caso rappresentare un’evoluzione futura. Lo scopo, ha proposto mons. Ravasi, è quello di confrontarsi seguendo alcuni punti:

“Da una parte la Chiesa, che ripropone ancora i suoi grandi simboli, la sua enorme lettura della realtà, le sue narrazioni, le sue grandi figure, i suoi grandi temi, temi sconvolgenti anche. E l’artista non è evidentemente costretto apologeticamente a rappresentarli: li raccoglie e li fa fiorire attraverso questa potenzialità di eterno e di infinito che è in essere”.


A mons. Pasquale Iacobone, organizzatore dell’incontro per conto del dicastero pontificio, è spettato il compito di illustrare ai giornalisti le modalità dell’evento, che sarà preceduto - nel pomeriggio del 20 novembre - da una visita degli artisti alla Collezione di Arte Moderna e Contemporanea dei Musei Vaticani, realizzata da Paolo VI, e sarà concluso da un ricevimento offerto dallo sponsor unico dell’evento, la “Martini e Rossi”. Nella mattinata del 21 novembre, poi, l’atteso discorso del Papa gli artisti radunati nella Cappella Sistina. Due brevi interventi musicali, su musiche di Palestrina, apriranno e chiuderanno l’incontro. Dopo il commiato del Pontefice, ai partecipanti all’Incontro, si terrà, nel Braccio Nuovo dei Musei Vaticani, un ricevimento conclusivo dell’evento, offerto sempre dalla “Martini e Rossi”, durante il quale mons. Ravasi offrirà agli artisti, a nome del Papa, una medaglia appositamente coniata per l’evento.