domenica 30 maggio 2010

Noam Chomsky

Ici, une étudiante coréenne discute politique avec deux amies espagnoles, comme elle passionnées de philosophie. Là, une poignée de curieux, qui viennent juste de faire connaissance, se chamaillent déjà sur le niveau des émissions de France Culture.

Un peu plus loin, une jeune militante du Parti socialiste prend son mal en patience, adossée à la statue de Claude Bernard qui trône devant le Collège de France, à Paris. Celui-ci affichant complet, vendredi 29 mai, en milieu d'après-midi, tous désespèrent de ne pouvoir écouter Noam Chomsky, 81 ans, linguiste de renommée mondiale et figure de la gauche radicale américaine. "Je suis bien embêtée, soupire Azza El Hamadi, professeur d'anglais dans un lycée de Meaux (Seine-et-Marne). Aujourd'hui, c'est mon anniversaire, et je voulais m'offrir ce cadeau, voir Chomsky en chair et en os ! A mes yeux, il est le dernier intellectuel intègre."

La veille, jeudi, le célèbre intellectuel est arrivé à Paris pour une visite de quatre jours en forme de marathon, soigneusement préparée par des universitaires, des journalistes et/ou des militants. Au programme : une conférence au CNRS, un meeting à la Mutualité (sous l'égide du Monde diplomatique), une émission de radio, une autre à la télévision, le tout encadré, donc, par deux interventions au Collège de France. La première d'entre elles est venue conclure un colloque intitulé "Rationalité, vérité et démocratie : Bertrand Russell, George Orwell, Noam Chomsky", organisé par le philosophe Jacques Bouveresse. La réunion visait d'abord à honorer un certain idéal rationnel issu des Lumières : dénonçant les pensées relativistes, cette tradition affirme la puissance subversive de la vérité face à tous les pouvoirs.

Dès le milieu de la matinée, les débats étaient riches, l'ambiance bon enfant. Du reste, les 420 places du grand amphithéâtre se trouvaient déjà assez remplies. Si bien que les agents de la société DMH sécurité, spécialement recrutés pour l'occasion, ont fermé les grilles du Collège de France à l'aide d'une grosse chaîne. "Nous avons des consignes, c'est tout", ont-ils répondu à ceux qui manifestaient leur perplexité à travers les barreaux. Ainsi, au moment où la star américaine s'apprêtait à prendre la parole, cela faisait déjà plusieurs heures que l'accès était devenu impossible. Quelques dizaines de personnes se sont retrouvées bloquées devant la vénérable institution où "l'entrée libre" est une longue tradition.

Conférence cadenassée

Ce désarroi s'est bientôt mué en colère, lorsqu'une dame est parvenue à s'extraire du Collège de France en confiant : "J'ai demandé à sortir parce que je ne comprends pas l'anglais. D'ailleurs, je ne comprends pas non plus pourquoi ils ont fermé les portes, vu qu'il reste pas mal de places dans l'amphithéâtre !" Comment expliquer que la conférence d'un penseur anarchiste se trouve ainsi cadenassée ? C'est la question que se posait un étudiant en mathématiques. A deux pas de lui, et dans la plus pure tradition chomskienne, un petit groupe papotait en essayant de conjuguer philosophie et politique. Parmi eux, Ange Ze, ingénieur de 28 ans venu de Lille, proposait cette réflexion : "Si tout est politique, si le simple fait que nous discutions ensemble, ici, est politique, alors la question est : pourquoi la porte est-elle fermée, là, et comment faire pour qu'elle soit ouverte ?"

www.lemomde.fr

venerdì 28 maggio 2010

In cammino con Gesù: La ricerca sul Gesù storico (I parte)

La questione del Gesù storico, come è noto, venne aperta nel corso della stagione illuministica, quando gli strumenti scientifici che venivano elaborati per la conoscenza del passato vennero applicati anche all’intera Bibbia ed, in particolare, ai vangeli.

Tale questione, però, non è mai stata estranea alla chiesa, come affermò l’esegeta – e vescovo – Vittorio Fusco nella relazione che preparò solo due mesi prima della morte in occasione del 90° anniversario della fondazione dell’Istituto Biblico di Roma, il più importante centro di studi biblici esistente al mondo.

Fusco ricordava, in quell’occasione, come già il Nuovo Testamento utilizzasse una terminologia attenta a questi problemi, con riferimento agli Atti degli Apostoli nei quali è presente l'espressione «quel Gesù» (houtos ho Iêsous: At 1,11; 2,32. 36) o ancora alla Lettera agli Ebrei dove si trova l'espressione «nei giorni della sua vita mortale», letteralmente «nei giorni della sua carne» (Eb 5,7).

Anche la riflessione su Gesù in età patristica e poi ancora nei secoli successivi ha continuamente avuto coscienza del problema, come è evidente dal rifiuto cristiano di altre immagini di Gesù che andavano emergendo col tempo – il Gesù dei vangeli apocrifi dell’infanzia dotato fin dall’infanzia di poteri divini, il Gesù gnostico dotato di una carne solo apparente, il Gesù mago ed operatore di miracolosi inganni delle tradizioni rabbiniche, il Gesù nemico dell’ebraismo proposto da Marcione, il Gesù “uomo divino” di Celso e degli altri autori pagani che scrivevano contro la fede cristiana.

Inoltre, gli autori che si posero come scopo di elaborare una “concordanza” dei vangeli, consci delle differenze dei diversi racconti, si pronunciarono più volte sulla maggiore o minore verità dei singoli particolari degli stessi scritti neotestamentari.

Agostino utilizzò in questo senso – ricordava allora Fusco - una «distinzione tra la sequenza narrativa evangelica (ordo recordationis) e la sequenza storica dei fatti (ordo rerum gestarum), tra l'intenzione di Gesù (voluntas, sententia) e la formulazione scelta dagli evangelisti (verba)».

Questo interesse e questo amore che la chiesa ha sempre avuto per la storia reale di Gesù – interesse e amore non sarebbero potuti mancare, poiché la fede cristiana è fede precisamente nella realtà dell’incarnazione del Signore – dovettero, però, certamente affrontare poi la sfida posta dalle critiche che dal settecento in poi sono state mosse alla figura del Cristo così come è presentato dai vangeli.

Se si guarda ai tentativi che sono stati fatti negli ultimi tre secoli per ricostruire una vicenda di Gesù sostanzialmente diversa da quella trasmessa dai vangeli ci si accorge immediatamente di quanto siano datati e legati ai presupposti culturali del tempo in cui furono avanzati, rispecchiando più le filosofie e le teologie dei loro autori che non il Gesù storico stesso.

Basti pensare all’altalena di interpretazioni che suggerivano ora un Gesù che proponesse idee liberali, propugnatore di una religione del cuore svincolata dal rito, fondatore di un’etica personale dell’amore reciproco, ora un Gesù testimone invece del futuro avvento del regno di Dio, maestro dell’attesa di una speranza escatologica riposta nelle mani del Padre, assertore di una grazia divina non dipendente in alcun modo dall’azione dell’uomo.

Un guadagno che certamente si è avuto attraverso i lunghi dibattiti che hanno contrassegnato la storia della questione della storicità dei vangeli è stato quello di sfumare la presunta opposizione fra “Gesù storico” e “Cristo della fede”. Infatti – come affermava ancora Fusco – il problema non è tanto quello di provare l’assoluta identità del Gesù annunziato dai vangeli con quello che risulterebbe da una descrizione cronachistica della sua vita, poiché è evidente che i vangeli non sono stati scritti con questa logica, quanto mostrare la rispondenza del ritratto che ne fornisce il Nuovo Testamento con la sua vita reale, carica di una pienezza che non poteva non conoscere sviluppi successivamente.

(andrea lonardo da romasette.it)

giovedì 27 maggio 2010

Dietrich von Hildebrand

Dal 27 al 29 maggio alla Pontificia Università della Santa Croce si svolge il convegno "The Christian Personalism of Dietrich von Hildebrand. Exploring his Philosophy of Love" organizzato dal Dietrich von Hildebrand Legacy Project. Pubblichiamo il testo di una delle relazioni. (Cristiana Dobner)

L'Essenza dell'amore versus La trasformazione in Cristo. Richiamiamo così due opere del grande fenomenologo realista Dietrich von Hildebrand (1889-1977), il cui segno nella storia del pensiero e nella storia della relazione della persona con Dio deve ancora essere scoperto nella sua piena originalità e compattezza e riproposto, quale garanzia dell'identità cristiana, del vertice dell'Amore e dell'amore nella comunione silenziosa del cristiano con la grandezza e la debolezza, con la gloria e la sofferenza di Dio. Specie in un mondo irreligioso e ormai del tutto secolare quale il nostro.
L'elemento essenziale si palesa all'istante: non si tratta solo di un lascito esclusivamente scrittorio ma, di più e meglio, di un lascito testimoniale di una persona pensante che ha avuto il coraggio di vivere, da filosofo, per la gloria di Dio; di una persona che ha osato, con l'acribia professionale di un pensatore rigoroso, affrontare l'irruzione di Dio nella storia e nella persona.
Ed è questo il focus esaltante di un'esistenza pensante e di una svolta con impegno teoretico nella solidità di un impianto indiscutibile e, simultaneamente, il suo temperante cromatico.
Non abbiamo commesso un errore cronologico invertendo i titoli e i dati situativi: è risaputo infatti che Essenza dell'amore - l'opus magnum - è stata stampata nel 1971, nella piena maturità filosofica dell'autore e costituisce la summa della sua riflessione, mentre La trasformazione in Cristo risale al periodo in cui, fuggito agli artigli del nazismo, von Hildebrand viveva a Vienna in situazioni precarie, come scrive la moglie Alice: "Malgrado le tensioni distruttive pesassero su di lui durante questo periodo, von Hildebrand fece in modo di scrivere una delle sue opere più enduring, La trasformazione in Cristo, un'esplorazione del radicale cambiamento che avviene in una persona attraverso la grazia", opera in cui "il tono sereno inganna sulle circostanze ansiose in cui fu composto".
Furono pubblicate infatti in Svizzera, con lo pseudonimo Peter Ott, le conferenze che von Hildebrand tenne nel monastero di San Francesco a Firenze nelle estati 1936-1937, grazie all'iniziativa di un gruppo di stretti amici tedeschi che sovvenzionò il suo viaggio in Italia e affittò San Francesco, tanto era stata avvertita la sua mancanza dopo la fuga da Monaco.
L'inversione quindi cronologica è del tutto intenzionale perché intendiamo evidenziarne la cerchiatura qualitativa e filosofica e indicare come l'amore, nella sua struttura intima di dono (Gabe), e di donazione (Zuwendung), sia fonte di felicità, frutto di libertà, alimento dell'affettività, vertice della moralità, perché "nell'amore apriamo le braccia della nostra anima per abbracciare l'anima dell'amato", e come tutta la sua articolazione si fondi sulla trasformazione (Umgestaltung), cui peraltro tende in continua dinamica e osmosi.
Nella grande amicizia, ricca di "affinità elettive" con il nunzio a Berlino Eugenio Pacelli emersero queste correnti sotterranee che avrebbero poi preso corpo; sottolinea infatti Alice von Hildebrand che "egli voleva gettare luce sulla trasformazione della vita umana e dei valori umani attraverso la "santa invasione" del soprannaturale nell'esistenza terrena dell'uomo. Egli sempre pose l'amore al centro della sua vita, considerando nulla - carriera, professione, ricerca - più importante dell'amore e del matrimonio".
Von Hildebrand ha sperimentato, in tempo reale, quanto André Glucksmann ha espresso, a posteriori, a chiare lettere ne L'11 ° comandamento: "Hitler si scaglia contro un sentimento più generale, non ignorato da alcune civiltà: l'àidos greco, il pudore che fa arrossire e segnala gli atti da non commettere. Il registro dei gesti malfamati varia secondo le latitudini, ma non la convinzione che esiste l'indegno e che a volte si abbia ragione di indignarsi. Dietro ogni "Tu devi" c'è un "Non devi". E dietro il "Non devi" non c'è qualche celeste Castigamatti, ma lo spettacolo assillante delle cose inumane. Ciò che Hitler voleva eliminare non era Dio, che egli rimuove, ricolloca, sostituisce, bensì i nostri occhi, aperti sull'inumano. Così è divenuto inumano". Von Hildebrand aveva gli occhi aperti e, ben prima che la maggioranza se ne avvedesse, aveva colto il senso distruttivo di quanto con il nazionalsocialismo stava avvenendo nella storia dell'umanità, e non volle allinearsi con l'inumano, ma volle esplicitamente e provocatoriamente essere umano e perciò difforme dalla deriva allora corrente. Per questo però poté intuire l'assoluto della rivelazione di Dio in Cristo e la vera natura dell'uomo.
L'èthos quindi e l'èthos soprannaturale, nuovo qualitativamente nella sua essenza, e nei suoi cardini principali espresso in Essenza dell'amore conosce una duplice dinamica perché promana e insieme è in movimento: promana cronologicamente dall'opera La trasformazione in Cristo; e muove verso l'opera La trasformazione in Cristo, poiché non si tratta solo di pensieri articolati e distinti, ma dell'opera stessa dello Spirito nella persona. Un coagulo vivo di vis centrifuga e centripeta, un atteggiamento profondo di fondazione della persona, con uno stile molto controllato e cesellato in cui s'intravvede un modus sculpendi, retaggio del figlio d'arte, che, togliendo dalla pietra della natura, approda alla trascendenza di Dio e a quella pietra viva che è Cristo, con cui l'autore propone una riflessione personale, profonda, non una trattazione limitata del problema ad modum unius.
Non è in atto un mutamento di prospettiva, bensì la considerazione dello sviluppo e della fioritura di tale dinamica nelle sue componenti nella sfera dello spirito, divenute strutturanti, passando dai principi metafisici a uno statuto paradigmatico di vita, perché ormai "effetto - scrive in La trasformazione in Cristo - della vita soprannaturale nell'èthos della persona, ossia nel formarsi in noi di quella vita che è illuminata dal volto dell'uomo nuovo in Cristo". Non è l'uomo la meta, ma la spinta oltre l'uomo, verso Cristo e in Cristo verso la Trinità, confutando completamente il gott ist tot. Es lebt der Übermensch.
L'essenziale di un pensiero filosofico è come il rovescio silenzioso degli enunciati che lo esprimono, il non-detto essenziale in questo caso è l'esercizio della libertà in cui la persona si conosce, l'esercizio della filosofia, intesa nella modalità di von Hildebrand, nella sfida audacissima di servirsi e di utilizzare tutta la strumentazione, propria e ben tarata, di chi di "mestiere" pensa, riflette e conosce la storia del pensiero, in quell'autonomia quale progressiva conquista dell'agire umano, ma che si radica, simultaneamente, in una fede profonda che costituisce l'oltre ma che, soprattutto, incontra l'Oltre. Una vita in cui il senso è diventato scelta e tutto è permeato dal dono dell'essere come pienezza di senso, quale amore che pervade la struttura del dono nel dono libero della inesauribile divina Bontà.
Scatta quindi nell'irruzione di Dio nella persona, la dinamica alterocentrica nella sua intenzionalità e orientamento alla persona stessa, resa capace di cercare il bene di chi ama, quale slancio, consapevole e oggettivo, al di fuori della propria immanenza, del proprio egoismo: "La dedizione a Cristo presuppone la volontà di lasciarci da Lui completamente trasformare, non opponendo ostacolo alcuno alle modifiche che occorreranno nella nostra natura" (La trasformazione in Cristo).
La diversa, ma simile postura di Teresa di Gesù e Giovanni della Croce, in un von Hildebrand impregnato di francescanesimo, nella somiglianza, differenza, superamento, continuità/discontinuità, conduce a riflessioni feconde che pongono in rilievo l'originalità del suo pensiero in alcuni aspetti fondanti la persona e il suo èthos. La persona come fulcro della relazione con Dio nella risposta di amore, nel valore non solo morale, etico, ma nella Gesamtschönheit, la bellezza complessiva della persona che può rispondere affettivamente, cioè con il cuore, ad un'altra Persona. Perché "ci sono due dimensioni della donazione di sé. La prima è di natura puramente affettiva. Ha il carattere di un dono che non ci possiamo dare volendolo, che è una pura voce del cuore. La seconda è il sanzionamento della presa di posizione donativa, affettiva dell'amore. Solo quando si hanno entrambe, la donazione di sé raggiunge il suo carattere pieno". E noi siamo creati per l'amore di Dio.
Vi è poi la comune insistenza sull'orazione quale antitesi radicale di ogni ansia di attività e il trasferimento nell'attività periferica, perché "la relazione personale a Cristo che sta al centro della propria vita, il rapporto intimo con Cristo, costituisce una trasfigurazione qualitativa della vita privata". E ancora: il perire personale per divenire e la costruzione del mondo morale per cui è necessario un rinnegamento di fronte a quanto è impossibile annullare. Dietrich von Hildebrand tratteggia chiaramente la valenza di questo perire personale che, di primo acchito, sembra essere duplice, mentre è soltanto accentuato in modo diverso: il primo aspetto è quello di voler diventare un uomo nuovo in Cristo, l'essere conquistati, "eliminando inesorabilmente tutto ciò che non può sussistere al cospetto di Lui che viene a essere superato in questa vita nuova nel Cristo (...) come un dono letificante"; il secondo, ma pur sempre complementare, il perdersi di noi stessi che si incontra nella mistica: "La morte interiore che Giovanni della Croce descrive nella "Notte oscura" va assai più oltre di quello che abbiamo considerato come "il morire a noi stessi" nel procedimento della trasformazione in Cristo. È un "morire dell'anima" - che si può paragonare con l'esperienza di chi precipita d'un tratto nel buio più profondo - e questo morire avviene affinché possiamo risuscitare in Cristo completamente rinnovati". Il contatto con Cristo è immediato, senza diaframmi.
In lui poi troviamo l'amore come risposta e le conseguenti forme tipiche dell'atteggiamento mentale contemplativo, con il vivo senso dell'uomo peccatore e spirituale: "Sì, infatti dobbiamo imparare ad amare veramente e questo richiede di vivere nella profondità, di riservare alla contemplazione il suo vero posto nella vita, il ritornare sempre di nuovo a un reale confronto con Dio". La creazione quindi di un'altra logica, di una passione profonda, che se è cognizione è soprattutto nuova relazione che dona pace e sicurezza, anche nelle traversie peggiori. Infine l'aver attraversato, nel senso sanjuanista e teresiano del Hay que pasar, la notte oscura della storia, in un cammino doloroso, senza arrendersi alle circostanze, senza considerarle un destino ineluttabile, senza smarrire il senso della vita e dei valori, non restando nell'oscurità essendone avvinti ma trovando proprio nelle tenebre la vera Luce. La "trasformazione" (Umgestaltung), quindi come valore esistenziale ed evento di grazia nell'attiva partecipazione all'opera di risanamento nella vigilia del terzo millennio. Perché, come afferma lo stesso von Hildebrand in Essenza dell'amore: "Noi siamo creati per l'amore di Dio perché a Dio è dovuto questo amore e non perché attraverso questo amore dobbiamo trovare noi stessi. Siamo creati per quest'amore, perché esso rende gloria a Dio attraverso il suo valore. Che noi con ciò giungiamo al nostro autentico essere, è un di più e un dono sovrabbondante", solo nell'amore infatti la persona umana si desta alla sua piena esistenza personale, solo nell'amore attualizza la pienezza della sua essenza.
I mistici di von Hildebrand perciò non sono i mistici Musil che vogliono vivere di "solo sale", ma del sale sapienziale dell'Amore e della fedeltà nell'Amore e all'Amore nelle parole versate sulla carta.

Un filosofo serio lo riconosci dalla gioia
di Lodovica Maria Zanet (Università Cattolica del Sacro Cuore)

Correva l'anno 2004 e negli Stati Uniti nasceva il Dietrich von Hildebrand Legacy Project: un centro di studio e di ricerca che avesse la finalità prima di far conoscere la straordinaria figura di quello che a detta di molti - oggi - sarebbe "il maggior filosofo cattolico del Novecento". L'idea viene al figlio di uno degli studenti americani di Hildebrand, John Henry Crosby. Questi riesce, giovanissimo, a raccogliere il consenso di alcuni grandi studiosi di fama mondiale. Con l'idea di portarli a un confronto con la proposta speculativa di questo singolare filosofo, tedesco di famiglia, fiorentino di nascita, austriaco per adozione nei difficilissimi anni del regime nazionalsocialista di cui fu primissimo oppositore in Europa; quindi prima svizzero, poi francese e infine americano, al termine di una lunga quanto dolorosa peregrinazione per un'Europa in crisi, nella quale la libertà di pensiero era allo stesso tempo un bisogno vitale e un traguardo reso sempre più difficile dalle circostanze storiche. Dietrich von Hildebrand uomo del suo tempo è riuscito per prima cosa a saldare una personalissima ricerca di verità e la concretizzazione di questa verità nella vita: nel cuore, centro della persona dal quale si originano le decisioni che "fanno" una vita; e nel quale anche la verità diventa verità tangibile, "sentita" e "vissuta" ben prima che professata attraverso un gioco di concetti tanto forse erudito quanto in realtà sterile. Come John Henry Crosby ha detto al termine di una serrata intervista, il Legacy Project non si vuole limitare a raccontare chi sia Dietrich von Hildebrand, o a ottenere un esplicito assenso alla sua filosofia. Vuole, all'opposto, risvegliare nell'interlocutore la prontezza di una presa di posizione personale: di una presa di posizione efficace nella sola misura in cui libera. Per John H. Crosby la verità ha una sua forza trasfigurante a patto che sia "vera": testimoniata nei fatti, e vissuta nella consapevolezza di un'intelligenza non certo sminuita, ma illuminata e perfezionata dal decisivo contributo della fede. Testimone del tutto unica di questa riflessione esistenziale attestata da Von Hildebrand è la moglie Alice: nessuno come lei avrebbe potuto raccontare, partendo dalla concretezza di una vita condivisa, chi Dietrich sia stato e quale impatto la sua filosofia oggi possa avere su ciascun uomo pensante del nostro tempo.

Dietrich von Hildebrand persona del suo tempo e maestro per l'oggi?

Sì. Tuttavia non si può comprendere chi sia Dietrich von Hildebrand, mio marito, senza ripercorrere, almeno per tappe, i momenti cardine della sua vita. Una vita che inizia a Firenze, nella casa paterna dove Dietrich viene al mondo nell'autunno del 1889: una "dimora perfetta" - l'ex convento francescano dedicato a San Francesco di Paola - acquistato dal padre di Dietrich e trasformato in dimora di famiglia. I von Hildebrand sono una famiglia circondata dalla bellezza: dal culto per la bellezza artistica in tutte le sue possibili forme.

Bellezza artistica, bellezza dell'anima? Quale impatto ha avuto questa bellezza sull'animo di Dietrich?

La famiglia di Dietrich viveva di un "raffinato paganesimo". Una casa di non-praticanti. Nessuno - salvo il giovane von Hildebrand che arriva però dopo cinque sorelle ed è quindi considerato il piccolo di famiglia - è religious minded. Un episodio tra tutti lo illustra in modo meraviglioso.

Vale a dire?

La conversazione che ebbe con una delle sorelle maggiori all'età di quattordici anni. I due giovani prendono posizione in modo radicalmente diverso circa il senso del mondo e della vita. Per la sorella tutto è relativo: parlare di una verità come "della" verità non ha senso. Agli occhi di Dietrich questo relativismo assume i tratti di una provocatoria inconsistenza. Si inizia a delineare la sua anima credente, che si tradurrà a distanza di alcuni anni nella conversione al cattolicesimo.

Che cosa significa credere? Come si può attestare nei fatti la propria fede?

Credere significa per prima cosa credere che Dio esiste. E che Gesù Cristo è perfetto Dio e perfetto uomo. Vuol dire radicarsi nella tradizione e nel magistero della Chiesa. E vivere quanto creduto e proclamato. Da questo punto di vista, l'incontro di von Hildebrand con l'amico Max Scheler è determinante. Scheler è sì credente, ma la sua vita è spesso lontana dalla Chiesa.

Una coerenza che in von Hildebrand parrebbe invece brillare.

Sì. Anche e soprattutto nei momenti in cui per mantenersi fedele al magistero della Chiesa gli è stato necessario prendere le distanze dal proprio modo di pensare. In questi casi la risposta è sempre stata esemplare: un gioioso passo indietro rispetto alla propria soggettiva opinione.

Dietrich filosofo cattolico, che pare oggi dimenticato. Le ragioni?

Ha dovuto più volte ripartire da zero. Attivo oppositore dei totalitarismi novecenteschi, ha peregrinato attraverso moltissimi Paesi. Ogni volta, i suoi manoscritti e i suoi appunti andavano persi. Ricostruiva dalla povertà più totale. Non si è mai imposto come "grande nome"; si è invece reso presente attraverso il vivo di alcuni incontri. Ha sempre iniziato a incidere sul contesto in cui si trovava: studenti, colleghi, amici. Lasciando un segno e portandone molti alla conversione.

Si direbbe che in Dietrich verità e amore procedano in una inscindibile unità.

Veritas et amor si co-appartengono. Se la verità resta astratto gioco di concetti è sterile. La verità deve diventare vita.

Cuore "centro della persona"?

Sì. Nel rispetto però di una ben precisa gerarchia di valori e di beni. Non tutto sta sullo stesso piano: alcune cose - si pensi al comandamento nuovo dell'amore - ne precedono altre. Alcune seguono. Altre ancora devono essere rifiutate in modo esplicito.

Un motto per concludere? Un lascito che diventi mandato?

Joy in faith, la gioia nella fede e della fede. Il cristiano si riconosce dalla gioia. Una cosa che non ha certo impedito a Dietrich von Hildebrand di essere pensatore serio e rigoroso: un filosofo al cento per cento



(Dall'Osservatore Romano 28-5-2010)

Von Hildebrand

Si apre oggi a Roma, alla Pontificia Università della Santa Croce, il congresso internazionale “Il personalismo cristiano di Dietrich von Hildebrand: esplorando la sua filosofia dell’amore”, promosso dal Dietrich von Hildebrand Legaci Project. L’iniziativa vede riuniti fino al 29, filosofi, teologi, psicologi, scienziati e artisti, per analizzare l’originalità filosofica dello studioso sul tema dell’amore, espressa nella sua opera “The Nature of Love”. Secondo il fondatore del progetto, John Henry Crosby, la tre giorni vuole “contribuire alla chiarificazione e alla difesa della dignità umana, attraverso gli occhi dell’amore”. Dietrich Von Hildebrand - riporta l'agenzia Sir - fu un grande filosofo cristiano, uno scrittore molto religioso e un eroico intellettuale che si oppose al regime di Hitler e al nazismo. Tra i relatori personaggi di spicco del mondo filosofico e teologico tra cui Robert Spaemann e John Zizioulas, Roberta Green Ahmanson, Joseph Bottum, Charles Morerod e Michael Novak. L’Hildebrand Project è stato creato nel 2004 da John Henry Crosby, in collaborazione con la vedova di Hildebrand, Alice von Hildebrand, e diversi studenti e amici del filosofo. Il progetto ha lo scopo di diffondere l’operato di Hildebrand pubblicando e traducendo le sue opere e organizzando diverse iniziative. Benedetto XVI ne è stato membro onorario fin dall’inizio del suo pontificato. (R.P.)

domenica 23 maggio 2010

CHIESA E MEDIA: IL CARD. BAGNASCO INAUGURA “PRETI AL CINEMA”

“Com'è stato rappresentato il prete al cinema? Com'è cambiata la sua immagine negli anni, da autore ad autore, attraverso pellicole e sensibilità differenti?”. E’ “Preti al cinema. I sacerdoti e l’immaginario cinematografico”, una mostra fotografica che verrà inaugurata lunedì prossimo, 24 maggio, alle ore 16 presso la Sala Nervi in Vaticano dal card. Angelo Bagnasco, presidente della Cei. Nell’occasione, verranno presentati i contenuti della mostra, che sarà poi visibile dal 3 giugno presso la Pontificia Università Lateranense. Ideata in occasione dell’Anno Sacerdotale indetto dal Papa, l'iniziativa, curata dalla Fondazione Ente dello Spettacolo in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia, si compone di circa un centinaio di fotografie che ritraggono i protagonisti sul set e nei momenti di riposo. Attraverso una variopinta galleria di personaggi – dal Don Bosco portato sullo schermo da Giampaolo Rosmino nel capolavoro di Goffredo Alessandrini del 1935, al Don Camillo di Fernandel, fino al disilluso don Giulio di “La messa è finita” (1985) di Nanni Moretti e al modernissimo padre Carlo di “Io, loro e Lara” (2010) di Carlo Verdone – la mostra vuole “stabilire un contatto tra gli spettatori e la religione, cercando di interpretare il succedersi delle stagioni culturali, politiche e religiose che hanno attraversato non solo il nostro Paese, ma il mondo intero”.

venerdì 21 maggio 2010

Europa: nuove interessanti alleanze

Première conférence de presse conjointe - M. David Cameron, Premier Ministre du Royaume Uni
M. LE PRÉSIDENT DE LA RÉPUBLIQUE

Palais de l'Élysée -- Jeudi 20 mai 2010


LE PRÉSIDENT -- Mesdames et Messieurs, bonsoir. Je suis très heureux de recevoir à Paris le nouveau Premier ministre britannique que j'avais eu l'occasion de rencontrer pour la première fois déjà, il y a cinq ans, et à plusieurs reprises. Je me réjouis de l'occasion de le rencontrer à nouveau à Londres pour le 70e anniversaire de l'Appel du 18 juin ;on aura un déjeuner de travail.

Nous avons eu un échange extrêmement fructueux. Vous savez combien la France est engagée dans ce partenariat et cette alliance stratégique avec le Royaume-Uni. Nous avons beaucoup de choses à faire ensemble en bilatérale mais aussi en Europe. J'ai dit à David CAMERON combien je serais heureux de travailler main dans la main avec lui en Europe, mais aussi dans le cadre de nos activités du G8 et du G20.

Nous partageons exactement la même analyse de la situation sur les grands dossiers que sont : l'Afghanistan, l'Iran où il y a une identité de vues complète ; la même ambition sur les changements climatiques et sur les suites de la conférence de Copenhague ; la même volonté d'apporter des réponses du XXIe siècle, pour le siècle qui est le nôtre, et de faire en sorte que le G20 reste une structure opérationnelle où l'on apportera de nouvelles idées pour construire un nouvel ordre monétaire international. Nous avons la volonté de rapprocher nos deux pays, de parler sans tabou des questions de défense, où nous avons beaucoup de choses à faire ensemble ; des questions de régulation et notamment la volonté que nous avons en commun de taxer les banques, comme nous nous y étions engagés.

J'ai également dit au Premier ministre britannique qu'il fallait que l'on comprenne où étaient les lignes rouges ; pour les Anglais notamment sur la question des services, on va travailler ensemble. On est même prêt à mettre des papiers communs sur la table pour réfléchir aux voies et moyens de doper la croissance européenne.

Bref, c'était son premier déplacement, mais c'est très prometteur sur, en tout cas, l'envie que l'on a de travailler ensemble et la confiance avec laquelle nous travaillerons ensemble.

J'ai dit également à David CAMERON combien la France était honorée que le nouveau Premier ministre britannique choisisse pour son premier déplacement la France. C'est symbolique, mais on a beaucoup apprécié cette démarche. On est vraiment persuadé que l'on va travailler main dans la main, que ce n'est que le début, et il y a vraiment beaucoup de pain sur la planche !

M. DAVID CAMERON -- Merci beaucoup Monsieur le Président. C'est un immense honneur d'être là. Vous avez été le premier homme politique que j'ai rencontré lorsque j'ai pris la direction de mon parti, le parti Conservateur, il y a cinq ans. Et donc, j'étais ravi de venir ici en tant que nouveau Premier ministre britannique pour ma première visite à l'étranger, et d'avoir cette réunion avec vous ce soir, à l'Elysée.

Nous avons parlé d'énormément de choses ce soir. J'admire votre dynamisme et votre leadership en France et en Europe. Je pense qu'à partir de tout ce que l'on s'est dit ce soir, on peut construire un véritable partenariat focalisé, pratique et qui obtient des résultats sur les choses qui comptent pour l'un comme pour l'autre.

Ce soir, on a discuté en particulier de la nécessité de se coordonner, notamment en matière économique, face aux problèmes que nous connaissons l'un et l'autre pour juguler les déficits budgétaires et nous voulons nous assurer qu'au sein de l'Europe, on avance vers l'économie de l'avenir, l'économie verte, les nouvelles entreprises que nous voulons voir se créer. Ce que nous avons également en commun, c'est une analyse des problèmes qui doivent être réglés : comment réussir en Afghanistan où, l'un et l'autre, nous estimons que cette année sera cruciale pour progresser dans le sens où nous voulons tous deux aller ? Comment faire en sorte de rééquilibrer les choses pour mettre la pression sur l'Iran, pour qu'il n'aille pas dans la voie d'un avenir nucléaire ? Nous avons parlé de ces étapes : comment travailler avec d'autres pays européens pour essayer d'obtenir un régime de sanctions ferme et, une fois de plus, une attitude de part et d'autre très pratique, très concentrée sur les résultats. Cela a été très utile.

Je suis particulièrement d'accord avec ce que vous avez dit sur le G8/G20, de faire en sorte que ce soit des réunions qui obtiennent des résultats concrets et qui préparent la présidence française du G8/G20 en 2011.

Je me réjouis également d'une date, d'un événement qui est important pour nos deux pays, qui est la date du 18 juin et la commémoration de l'Appel du général de GAULLE du 18 juin. Je me réjouis de vous accueillir à Londres, avec votre épouse, et j'espère que ce sera effectivement une commémoration, un événement, une manifestation d'une très grande importance, très symbolique où nous pourrons commémorer ensemble ce grand moment, ce grand moment de coopération et de partenariat entre la France et le Royaume-Uni.

Donc, je pense que nous sommes partis du bon pied ce soir avec ce dîner. Une fois de plus, merci de m'avoir si bien accueilli avec mes collaborateurs ici, à l'Elysée, pour cet excellent entretien très pratique, très productif.

LE PRÉSIDENT -- Peut-être deux questions anglaises et deux questions françaises. Enfin, deux journalistes français, deux journalistes anglais. Les Anglais, d'abord quand même.

QUESTION -- Monsieur le Président, je souhaite vous poser des questions sur des choses dont on m'a dit que vous les aviez dites de par le passé : vous aviez dit que vous aimiez Gordon BROWN, l'ancien Premier ministre, que ressentez-vous par rapport au nouveau ? On vous prête aussi d'avoir dit à certains députés de votre parti, que David CAMERON, comme tous les autres, commencerait eurosceptique et finirait euro-enthousiaste. Est-ce que vous le pensez toujours ce soir ?

LE PRÉSIDENT -- Merci de cet effort de franchise, tellement étonnant lorsqu'il s'agit des journalistes anglais. D'abord, je veux vous dire quelque chose : l'idée que j'ai de la relation entre le Royaume-Uni et la France., je l'ai eue bien avant d'être Président de la République, bien avant de connaître David, bien avant de connaître Gordon BROWN, bien avant de connaître Tony BLAIR. Vous êtes très précis, les journalistes anglais, et vous savez parfaitement que j'ai toujours développé l'idée que l'entente cordiale, c'était un peu court et que l'on devait faire autre chose de plus qui nous rapproche ; et qui va bien au-delà de ma personne ou de celle du locataire du 10 Downing Street. Première remarque.

Deuxième remarque, ce n'est pas moi qui désigne le Premier ministre britannique. Et moi je travaillerai de tout mon cœur avec le Premier ministre qui a été choisi par les Anglais. De la même façon que David CAMERON, son devoir, c'est de travailler avec le Président français que les Français choisissent.

Je vais faire une troisième remarque : quand quelqu'un est battu, on ne lui tourne pas le dos. Dans ma vie politique, qui est longue, il m'est arrivé d'avoir quelques succès et un certain nombre d'échecs. Et voyez-vous, je me suis toujours rappelé de ceux qui, dans l'échec, étaient toujours là. Et je suis persuadé que David, tel que je le connais, il a aussi cette forme d'humanité. Et donc, j'ai une pensée pour Gordon et Sarah BROWN. Ils sont partis, mais moi aussi, je sais qu'un jour je partirai. David sait parfaitement qu'un jour, il partira aussi.

Et puis je voudrais vous dire une dernière chose, David CAMERON je le connais depuis longtemps, parce qu'à chaque fois que je suis venu en Angleterre, j'ai toujours pensé que c'était important de le voir et de parler, y compris en pleine période électorale. Je ne suis pas sûr que tous les leaders européens qui sont venus à Londres aient eu la même démarche. Quand je l'ai fait, je l'avais dit à Gordon BROWN, qui m'avait dit que c'était tout à fait normal de faire ainsi.

Je crois connaître un peu David CAMERON, c'est quelqu'un que j'apprécie parce qu'il veut changer les choses. Alors, après le débat politique interne Grande-Bretagne, écoutez, j'ai bien assez de travail avec le débat politique français ! Donc, quand je dis qu'on travaille bien ensemble ...

Alors sur l'Europe, je ne me serais pas permis de porter un jugement comme cela sur David, comme sur quiconque d'ailleurs. Ce que j'ai dit, c'est que moi, dans ma vie politique, j'étais moins Européen au début de ma vie politique et je suis devenu plus Européen. Pourquoi Monsieur ? Parce que j'ai compris une chose, c'est que si l'on veut changer les choses, on ne peut pas être seul, il faut créer des solidarités. Je l'ai dit pour moi et si c'est valable pour moi, c'est valable pour tous les autres. Nous avons besoin des Anglais en Europe. Voilà, c'est absolument stratégique. Je suis sûr qu'un homme comme David CAMERON, qui a de l'ambition pour son pays, le comprend également.

Je vous remercie de m'avoir posé cette question, parce que si vous ne me l'aviez pas posée, ce n'est pas sûr que je l'aurais mis moi-même sur la table.

QUESTION -- Il semble qu'il y a encore quelques difficultés pour mettre en place le mécanisme européen de stabilisation. Et puis beaucoup déplore que l'Allemagne ait interdit unilatéralement les ventes à découvert de dettes européennes. Que vous êtes-vous dit cet après-midi avec Mme MERKEL sur ces deux sujets et peut-être sur d'autres ?

LE PRÉSIDENT -- J'ai dit la même chose que ce que nous avons dit avec David CAMERON tout le dîner : il y a beaucoup de fébrilité depuis quelque temps. Et cette fébrilité nous les chefs de gouvernement et les chefs d'État, nous devons y répondre avec sang-froid, avec la volonté de s'entendre et de coopérer. Parce que derrière tout cela, c'est l'épargne des Européens, des Anglais, des Français, des Allemands, c'est le travail des Européens. Nous, nous ne sommes pas des spéculateurs qui jouons sur le marché. Nous avons en charge l'avenir de plusieurs dizaines de millions d'habitants. Donc de la même façon que nous voulons travailler main dans la main avec David CAMERON, j'ai dit à Angela MERKEL - mais elle en est parfaitement convaincue - qu'il ne peut pas y avoir de désaccords entre l'Allemagne et la France sur des sujets de cette importance. De la même façon, la Grande-Bretagne n'est pas dans l'euro mais dans l'Europe des 27, si les trois plus grands pays d'Europe - Grande-Bretagne, Allemagne et France - se divisent, cela n'amènera rien de bon.

Donc, sur mes relations avec Mme Angela MERKEL, nous faisons tout pour qu'elle soit dans l'harmonie, qu'elle s'additionne, qu'elle se complète et qu'elle montre une volonté commune. Nous n'avons pas de désaccord ensemble. C'est pour cela d'ailleurs que l'on discute. De la même façon que j'ai dit à David CAMERON : « si un jour il y a une ligne rouge... » Il m'a dit notamment sur les services financiers, que c'était capital pour lui ; nos collaborateurs vont donc travailler pour voir comment on peut avancer dans la régulation et en même temps comprendre que nos amis anglais, qui ont beaucoup investi dans les services financiers, souhaitent pouvoir continuer à investir dans les services financiers, ce qui est tout à fait normal. Donc avec Mme Angela MERKEL on travaille, mais c'est quasiment quotidien. Voilà et c'est cela dont l'Europe a besoin.

QUESTION - Ce n'est pas personnel parce que vous n'étiez pas impliqué dans la décision, mais ces évènements au sein de la zone euro, est-ce que cela ne prouve pas que la Grande-Bretagne a eu raison de rester en dehors de la zone euro et devrait continuer à rester en dehors de l'euro ? Moi j'aimerais que tous les deux vous me répondiez là-dessus.

M. DAVID CAMERON -- Comme vous le savez, je pense que nous avons eu raison de ne pas rejoindre l'euro et de rester en dehors de la zone euro et dans notre accord de coalition avec les libéraux-démocrates, c'est entériné : nous resterons, en tout cas avec ce Parlement, en dehors de la zone euro. Je pense que c'est très important. Forcément, quand on a une seule monnaie, il faut des taux d'intérêts unifiés, il faut une politique économique unifiée dans toute l'Europe. Mais je veux être très clair là-dessus, c'est dans l'intérêt de la Grande-Bretagne que l'euro soit une monnaie forte, que les économies de la zone euro connaissent la reprise, le développement et la croissance, qu'elles s'entraident. C'est dans notre intérêt. 60% de nos échanges se font avec l'Europe. C'est fondamental que la zone euro soit stable, forte et en croissance. Evidemment on est en dehors de la zone euro donc on ne subi pas les même pressions et on n'a pas à aider l'euro de la même manière que les membres de la zone euro. Mais enfin, c'est également dans notre intérêt de faire en sorte que cette stabilité, ce progrès, ce développement voient le jour.

Pour ce qui est des services financiers, je pense que l'accord qui a été trouvé par le gouvernement est également important et nous allons nous y tenir. Mais sur notre position sur l'euro vous la connaissez, je n'ai pas besoin de vous la rappeler.

LE PRÉSIDENT -- Ecoutez, moi j'étais ministre du Budget lorsqu'il y a eu la crise monétaire des années 93-94. A l'époque, vous vous en souvenez certainement, il y avait un serpent monétaire avec des bandes de fluctuation jusqu'à 15%. Tous les pays faisaient des dévaluations compétitives, cela a été une pagaille absolument sans précédent qui s'est payée de millions de chômeurs. Je me souviens de la dévaluation de la Lire, la dévaluation de la Couronne suédoise. Je suis de ceux qui pensent qu'unis, on est plus forts qu'isolés. C'est un choix politique qui m'a fait soutenir l'euro dès sa création.

Je voudrais vous dire une deuxième chose, à mes amis anglais. L'euro c'est une réussite parce qu'en peu de temps, c'est devenu la deuxième monnaie du monde. Donc ne ramenons pas le bilan de l'euro aux quelques jours qui viennent de se passer. Vous voulez que je vous parle des crises qu'il y a eu sur le dollar sur les dix dernières années ? Est-ce que cela empêche le dollar d'être la grande monnaie du monde ? Prenons tous un peu de recul et un peu de calme face à ces événements-là.

Et enfin, moi je me battrai pour qu'on aille plus loin. David a raison, dans le gouvernement économique de la zone euro, dans l'harmonisation de la zone euro, cela fait bien des années que je me bats là-dessus, eh bien la crise a cela de positif qu'elle accélère l'acceptation d'idées qui paraissaient, au début, trop ambitieuses. Et quand on voit les problèmes, on voit bien que c'est ce qui se pose. Quand vous pensez que jamais les chefs d'État et de gouvernement de la zone euro ne s'étaient réunis avant le sommet de l'Elysée l'année dernière quand il y a eu la crise. Maintenant, cette année, on doit être à trois réunions de l'Eurogroupe. Cela progresse. Gardez vos euros si vous en avez ! La Grande-Bretagne décidera ce qu'elle a à décider, je suis sûr que ce sera bien décidé.

QUESTION -- Monsieur le Premier ministre, je voulais vous demander si vous comptez vraiment soutenir la zone euro et concrètement comment ? Et à Monsieur le Président de la République lui demander s'il était favorable à des sanctions qu'envisageaient Mme MERKEL concernant les pays qui ne respectent pas les normes budgétaires ?

M. DAVID CAMERON -- Vous avez posé la question de savoir comment nous allons soutenir la zone euro. Un accord a été trouvé par le gouvernement sortant que nous allons honorer. Nous pensons que, comme je l'ai dit, que la zone euro doit réussir, que les étapes et les démarches qu'elle fera et qu'elle fait permettent aux économies de la zone euro d'être plus stables et plus fortes. En tant qu'Union européenne, il faut effectivement faire en sorte que toutes nos économies soient en croissance. Nous pensons que la question de la réduction des déficits budgétaires n'est pas une option : il faut le faire. Le plus grand risque, à mon avis, qui pèse sur nos économies, c'est de ne rien faire, de ne rien faire va effectivement provoquer une augmentation des taux d'intérêt, va causer plus de préoccupations. Et même dans les neuf premiers jours depuis que nous sommes au gouvernement, nous nous sommes donné cette priorité.

Maintenant quant aux choses qui vont être faites, c'est le droit des Allemands de faire ce qu'ils ont annoncé. Pour ce qui est de notre pays, j'en référerai à l'autorité des services financiers. Mais je pense qu'il est important d'aller à la racine, à la cause de ces problèmes qui remontent à certaines des dettes, des déficits et d'un modèle d'emprunt trop déséquilibré, qui n' a pas permis ou plutôt qui nous a mis dans la situation où nous sommes.

Et là où le Président et moi avons beaucoup de choses en commun, c'est de faire en sorte qu'au prochain G8-G20, nous réformions, nous examinions la réforme de nos systèmes bancaires, que nous examinions la question d'une taxe bancaire, que nous examinions ce qu'a été proposé par le Président OBAMA, et nous en sommes d'accord, à savoir qu'il ne faut pas que les banques commerciales soient engagées dans les activités au niveau de risque le plus élevé, les activités de « casino » comme on les appelle. Donc pour toutes ces choses, pour toutes ces raisons, je pense qu'effectivement nous allons devoir faire cela pour rassurer, renforcer nos économies.

LE PRÉSIDENT -- Moi je suis d'accord avec la Chancelière, on en a parlé cet après-midi, sur le principe de nouvelles sanctions. Parce que la sanction financière, n'est ce pas, un pays qui a un trop grand déficit, on lui impose une pénalité financière, cela abouti à quoi ? A ce qu'il ait un plus grand déficit. Donc il faut bien imaginer des sanctions plus efficaces. La Chancelière a fait des propositions, moi-même j'ai proposé une suspension des droits de vote. Donc sur le principe il y a un accord total entre la Chancelière et moi, sur le principe de réfléchir à de nouvelles sanctions

Et sur le pacte, eh bien il doit évoluer. Peut-être plus de critères, plus de transparence pour plus d'efficience. Et c'est d'ici au mois de juin, ce sur quoi nous allons travailler avec la Chancelière dans le cadre de la zone euro. Et pour la stratégie économique avec David CAMERON dans le cadre de l'Union européenne.

Merci à tous, on avait deux questions. Il y a le compte, non ?

QUESTION -- Est-ce qu'on peut vous demander, Monsieur le Président, votre réaction après la fusillade qui a eu lieu aujourd'hui dans le Val de Marne ?

LE PRÉSIDENT -- Ecoutez, j'ai appris cette fusillade absolument dramatique. Je sais qu'il y a, à l'heure où je vous parle, une policière municipale dans une situation extrêmement grave, extrêmement préoccupante à l'hôpital. Je voudrais d'abord m'adresser à sa famille pour lui exprimer toute ma solidarité, la solidarité de la Nation. Ceux qui ont fait cela sont des criminels. Tout sera mis en œuvre pour les attraper et les punir avec la sévérité qu'un acte de cette nature justifie. Et j'en profite pour dire à tous les policiers municipaux qu'ils ont le droit à la reconnaissance de la nation pour la qualité de leur travail. On parle beaucoup des policiers nationaux et des gendarmes, ce qui est tout à fait juste. Il y a aussi, je crois, quelques 30 000 policiers municipaux, ils font un métier tout aussi dangereux qui mérite le soutien de la population et j'aurai, dans les heures qui viennent, l'occasion de montrer et d'exprimer cette solidarité.

mercoledì 19 maggio 2010

La ferita della bellezza

Il rapporto tra il bello e l’orrore nell’ultimo libro del cinquantottenne Jean-Louis Chrétien, docente di storia della filosofia dell’Alto Medio Evo alla Sorbona di Andrea Monda

«La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo»: così nel 2000 l’allora cardinale Joseph Ratzinger. E sulla «ferita» della bellezza si concentra il poeta-filosofo Jean-Louis Chrétien in questo volume breve quanto denso pubblicato oggi in Italia dalla Marietti ma risalente al 1987 e seguito da altre pubblicazioni più recenti dello stesso autore: L’indimenticabile e l’insperabile (2008) e Simbolica del corpo: la tradizione cristiana del cantico dei cantici (2009). È un saggio quindi che arriva da lontano ma che non ha perso la sua freschezza e urgenza; L’effroi du beau, come il titolo originale sottolinea (effroi sta per «sgomento», «spavento»), vuole colpire il lettore, costringerlo a prendere atto che la bellezza ha qualcosa a che fare con l’orrore, con la lacerazione che ogni uomo prova e vive nel corso della sua esistenza, sempre se intende rimanere aperto alla realtà.

Il segreto della forza di questo saggio è anche racchiuso nella biografia dell’autore: l’attuale cinquantottenne docente di storia della filosofia dell’Alto Medio Evo alla Sorbona, Jean-Louis Chrétien è stato un militante della Gioventù rivoluzionaria comunista, nome noto e attivo negli ambienti di sinistra, quando a un certo punto abbandona bruscamente la politica e si converte al cristianesimo al quale dedica da alcuni decenni la maggior parte della sua opera, sia filosofica, teologica che poetica.

Nella precisa e recisa introduzione il filosofo Fabrice Hadjadj afferma che «l’eccesso della bellezza è superiore a quello dell’orrore. L’orrore infatti ci fa tacere togliendoci le nostre facoltà, mentre la bellezza ci fa ammutolire lasciandoci integri. Se ci ferisce, lo fa senza danneggiarci» e conclude invitando il lettore a non sottovalutare «questo piccolo volume: le sue dimensioni contenute ne fanno una grande feritoia». La bellezza come ferita, cioè come feritoia attraverso cui la fonte della bellezza può continuare a sgorgare; la bellezza come scossa, apportatrice di sgomento: è evidente, l’autore lo riconosce sin dalle prime pagine, la lezione di Platone, ma anche di Dante, Pascal, Dostoevskij, Rilke e Heidegger e, oggi, si potrebbe aggiungere la lezione di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI.

La ferita della bellezza rivela l’uomo a se stesso, aprendolo a ciò che lo eccede, ci dice Chrétien, e l’uomo, colpito da questa gioia dolorosa, non può che celebrare la bellezza. Proprio come ha fatto lo scorso 21 novembre il Santo Padre nell’incontro con gli artisti nel magnifico scenario della Cappella Sistina, quando ha affermato che «il Giudizio Universale, che campeggia alle mie spalle, ricorda che la storia dell’umanità è movimento ed ascensione, è inesausta tensione verso la pienezza, verso la felicità ultima, verso un orizzonte che sempre eccede il presente mentre lo attraversa».

«La ferita della bellezza», di Jean-Louis Chrétien, Marietti, Genova 2010, pp.164, 14 euro.

www.Romasette.it

Un’ora che non vale nulla?

La lezione di religione nella scuola dell’obbligo, nessuna novità all’orizzonte ma la richiesta di non modificare prassi consolidate. Il commento del direttore dell’ufficio Scuola del Vicariato di Roma di Filippo Morlacchi.

Secondo alcuni organi di stampa, in questo ultimo scorcio di anno scolastico si starebbe consumando l’ennesima ingiustizia nel mondo della scuola: i soliti docenti di religione hanno incassato un altro regalino immeritato. Questa volta la colpa sembra del Consiglio di Stato, che ha stabilito, con la decisione 02749/2010 «l’importanza determinante dell’IdR ai fini dell’attribuzione del credito scolastico… e introduce un criterio di esclusione per chi quel “credito” non può (o non vuole) accumularlo».

Anzi – rincara la dose Pierluigi Battista («La religione a scuola fa media: che errore», Corriere della Sera del 13.05.10) – «gli studenti che frequentano il corso di religione [avranno] una marcia in più, un credito in più, un contributo in più che faccia “media” con le altre materie. E gli altri? Gli altri dovranno dolersi di non aver scelto l’ora di religione».

Come se non bastasse, la cosa è tanto più grave se si considera la scorrettezza di cambiare le regole mentre si sta giocando. È la tesi di Repubblica, secondo la quale «cambia la valutazione alla vigilia degli scrutini» (cfr Salvo Intravaia, «Ora di religione nel credito. Gelmini esulta per la sentenza», 10.05.10). La solita storia delle “sentenze a orolo-geria”, quindi…

A onor del vero, l’articolo in questione è più corretto, ed è solo il sommario a riferirne faziosamente il contenuto, inducendo in inganno il lettore frettoloso. Lo so, succede spesso, i titoli devono essere accattivanti per creare la “notiziabilità”. Ma non mi sembra onesto. Peggio ancora, del resto, fa il Manifesto (cfr Giorgio Salvetti, «Quanto paghiamo l’ora di religione» 12.05.2010), che nell’occhiello dichiara azzardatamente dell’IRC: «in pagella farà media» (e tralascio altre inesattezze che generosamente imprezioscono il corpo dell’articolo). Dispiace però che un opinion maker saggio e lucido come Pierluigi Battista sia stato così poco informato sui termini esatti della questione e si sia espresso in modo così corrivo e approssi-mativo.

Come stanno effettivamente le cose?

1. Il Consiglio di Stato con il suo recente intervento si limita a richiedere l’osservanza di una normativa scolastica decennale, ribadendo ancora una volta quanto già stabilito dall’OM 128/99, secondo la quale tra i criteri che ciascuna scuola fissa per l’attribuzione del credito scolastico, deve essere inserito anche il giudizio dell’IdR (cfr ad es. S. CICATELLI, Prontuario giuridico IRC, Queriniana, Brescia 2003, p. 75). Quindi nessuna novità viene introdotta, ma piuttosto si chiede di non modificare una prassi consolidata.

2. L’ora di religione non fa media. I membri del Consiglio di Stato lo sanno bene e infatti ribadiscono, sulla base della normativa vigente, che l’IdR non attribuisce voti (cfr n. 14 della Sentenza). Dunque qualche organo di stampa che ha titolato diversamente ha preso un abbaglio.

3. Il Consiglio di Stato non ha introdotto una novità definendo che, qualora l’alunno scelga di avvalersi dell’IRC, la frequenza delle lezioni diventa per lo studente obbligatoria. Questo è non solo un principio di logica elementare, ma chiarito dalla normativa e consolidato dalla giurisprudenza. Basta leggere cosa affermano in proposito l’accordo di revisione del Concordato (1984) e le successive intese tra MPI e CEI, o rifarsi alla sentenza n. 203/1989 della Corte Costituzionale.

4. Non è vero che la sentenza che riconosce il valore dell’IRC (e delle attività alternative!) lede un principio di uguaglianza ed è discriminante per i non avvalentisi. Queste infondate accuse erano state già rivolte, a suo tempo, all’OM 128/99; e in quell’occasione proprio il Tar del Lazio ne aveva dichiarato l’infondatezza con la sentenza n. 7101/00: «a coloro che non maturano crediti nel seguire l’IRC o di materie alternative non è affatto impedito di guadagnare crediti con altre iniziative.

Né si può pretendere che la scelta del nulla possa produrre frutti». Semmai, dispiace che nel giro di un decennio il medesimo organo istituzionale abbia così drasticamente smentito se stesso, dichiarando con la sentenza n. 7076/2009 l’esatto contrario di quanto aveva affermato nove anni prima. Questo sì che è un “cambiare le carte in tavola”! Limpido, invece, il ragionamento del Consiglio di Stato: «chi segue religione (o l’insegnamento alternati-vo) non è avvantaggiato né discriminato: è semplicemente valutato per come si comporta, per l’interesse che mostra e il profitto che consegue» (n. 16).

5. «Tutti sanno che i corsi alternativi sono assenti nella grande maggioranza delle scuole», scrive ancora P. Battista sul Corriere. È vero, purtroppo. E allora? Su quest’ultimo punto, meritano attenzione le conclusioni del Consiglio di Stato: l’attività alternativa o insegnamento alternativo «è, e deve restare, facoltativo per lo studente, che può certamente non sceglierlo senza essere discriminato, ma la sua istituzione deve considerarsi obbligatoria per la scuola […].Di questo aspetto il Ministero appellante dovrà necessariamente farsi carico». Questo sì, mi sembra un elemento di novità, che farà – giustamente – discutere.

www.Romasette.it

Le circostanze dell'uccisione dei trappisti di Tibhirine restano controverse

S’appuyant sur des documents récemment déclassifiés, « La Croix » relève les incohérences de la version officielle algérienne de la mort des moines de Tibhirine et apporte des précisions sur la façon dont les autorités françaises ont suivi, à distance, les événements


Six des sept moines trappistes de Tibhirine. Au premier rang : Frère Paul (à gauche) et Frere Christophe (au centre). Debouts : Frere Luc (2e à gauche), Frere Michel (3e), Pere Amédé (2e à partir de la droite) et Frere Jean-Pierre (à droite) (Archives AFP/MALIE).
Qui a enlevé les sept moines trappistes de Tibhirine ?

Dans la nuit du 26 au 27 mars 1996, sept moines cisterciens de Tibhirine, situé près de Médéa, à une centaine de kilomètres au sud d’Alger, sont enlevés par une vingtaine d’islamistes armés. Aujourd’hui encore, l’identité des ravisseurs reste confuse. Vrai ou faux scénario, ce serait un groupe islamiste extrémiste, Takfir-Wal-Hijra, composé d’anciens « Afghans », comme on appelait les islamistes algériens partis combattre en Afghanistan, qui aurait enlevé les moines. Une note « confidentiel diplomatie » de l’ambassadeur de France à Alger, Michel Lévêque, en date du 22 avril, trois semaines après l’enlèvement, donne cette thèse avancée par Me Boukhalfa, ancien avocat du Front islamique du salut (FIS). Avec cette précision : « Le groupe Takfir-Wal-Hijra est commandité par certains éléments issus de la Sécurité militaire algérienne. » Toutefois, le groupe se serait fait « voler les moines », lors d’un affrontement, par le GIA (Groupe islamique armé) dirigé par Djamel Zitouni.
Où furent détenus les moines ?

Pendant un mois, les Français semblent ignorer où se trouvent les trappistes. Puis une note confidentielle rédigée par l’ambassadeur de France à Alger fait état d’échos rapportés par une journaliste du quotidien francophone El Watan, originaire de Médéa, dont le père avait été lui-même enlevé : « Une des personnes enlevées dans la région de Médéa à peu près en même temps que les moines trappistes aurait été relâchée par ses ravisseurs environ une semaine après, raconte-t-elle. Il aurait été retenu dans une grotte avec les moines dans la région de Chréa. » « Les moines trappistes, ajoute-t-elle, ont été localisés de manière précise par l’armée algérienne, grâce notamment aux hélicoptères équipés de détecteurs thermiques. » Des informations qui se sont révélées justes.

Le 30 avril, un interlocuteur des ravisseurs se présente au consulat de France à Alger. Il est porteur d’un message de Djamel Zitouni et d’une cassette audio comportant un enregistrement de la voix, bien reconnaissable, de chacun des sept moines, daté du 20 avril. « Il est demandé au gouvernement français de libérer un certain nombre d’otages appartenant à ce groupe en échange de notre libération, cet échange semblant être une condition absolue », énonce notamment le prieur de la communauté, le P. Christian de Chergé. Il n’y aura pas d’autres contacts et l’émissaire ne se remanifestera pas.Comment ont réagi les autorités françaises ?« Nous les voulons vivants. » C’est le message envoyé dès le 28 mars par les autorités françaises aux responsables algériens, comme le précise ce jour-là une note de la direction Afrique du Nord-Moyen-Orient du Quai d’Orsay, le ministère des affaires étrangères. Ce message, selon la note, doit partir « des services français » vers la Sécurité militaire, l’organe suprême des services de renseignement de l’armée algérienne, qui dirige le pays. « La DST pourra appuyer son message d’un avertissement sur le devenir de la coopération avec les services algériens », précise la note.

Le 8 avril 1996, le général Philippe Rondot, alors « chargé de mission opérationnelle » à la DST, transmet ses réflexions à Hubert Colin de Verdière, directeur de cabinet du ministre des affaires étrangères, Hervé de Charette, après un déplacement à Alger. Celui-ci les transcrit dans une note « confidentiel défense » :

« 1. Les services algériens ont bien localisé le groupe, qui s’est déplacé lentement depuis le 27 mars de la région de Médéa vers celle de Tablat (vers l’est). Il se trouve actuellement dans la zone que contrôle l’émir Djamel Zitouni, le quadrilatère montagneux, Tablat-Chréa-Médéa-Berrouaghia, l’Atlas blidéen. Les moines ont été vus par un indicateur le 6 avril (il n’est pas certain qu’ils étaient alors sept. Il s’agissait, selon le témoignage, d’Européens entre 50 et 60 ans). Pour les services algériens, ils sont clairement entre les mains de Zitouni.

2. Les services algériens continuent de privilégier l’hypothèse de soins à donner à des blessés pour l’origine de l’enlèvement. Cette hypothèse peut n’avoir été qu’un prétexte, compte tenu de la longue marche imposée depuis lors aux moines. On en est donc réduit, en l’absence à ce stade de toute revendication même confidentielle, à faire d’autres hypothèses (…). On ne peut exclure que les services algériens, avec lesquels le général Philippe Rondot a eu des contacts très directs et apparemment confiants, en sachent plus qu’ils ne le disent sur les intentions de Zitouni : on prétend qu’ils manipuleraient plus ou moins. Sans avoir trempé dans l’enlèvement, ils peuvent souhaiter attendre jusqu’à être en mesure de traiter avec lui, voire de servir d’honnêtes courtiers entre lui et nous. »
La France a-t-elle fait confiance aux services algériens ?

Le général Smaïn Lamari, numéro deux de la Sécurité militaire, aujourd’hui décédé, était connu dans les années 1990 pour sa politique d’infiltration du Front islamique du salut et des groupes armés radicaux, en priorité le GIA. Paris ne cesse donc de douter et reconnaît « un certain malaise, les autres canaux d’information que les autorités algériennes n’ayant rien donné ».

Au fil de ses notes, Philippe Étienne, directeur adjoint de cabinet d’Hervé de Charette, posera plusieurs fois la question : « L’affaire de l’enlèvement des moines est-elle une manipulation algérienne ? » Les autorités algériennes, écrit-il, « auraient accepté, comme prix d’avantages hypothétiques (sympathie de la communauté internationale et de la France au moment de la libération des moines), le blocage des relations bilatérales », Hervé de Charette ayant fait clairement savoir à son homologue algérien, Ahmed Attaf, que son projet de visite à Alger serait gelé « tant que nous resterions sans nouvelles de nos compatriotes ». La France met ainsi en jeu l’avenir des relations bilatérales, son seul moyen de pression.
Comment comprendre le silence des catholiques ?

Se pose au bout d’un mois d’enlèvement, note encore Philippe Étienne, « la question de la réaction très mesurée de l’opinion publique française ». Il remarque que « le public concerné n’a pas cherché la médiatisation. Au-delà des appels du Pape et de Monseigneur Teissier, archevêque d’Alger, l’Église a conservé sa discrétion naturelle ; les communautés présentes en Algérie reconnaissent d’ailleurs que la France avait à de nombreuses reprises demandé à ses ressortissants religieux de quitter le pays et réaffirment à l’occasion de cet enlèvement qu’elles considèrent de leur vocation de rester sur place. »

La présence des moines trappistes à Tibhirine était de plus en plus contestée par les autorités militaires algériennes, qui demandaient sans cesse leur départ. L’entêtement des moines à rester les agaçait, d’autant que les militaires ne voulaient pas de témoins de leurs actions dans une région sympathisant avec les islamistes. Ceux-là étaient, de plus, venus à plusieurs reprises se faire soigner à Tibhirine.
Comment a-t-on appris la mort des moines ?

Seuls deux communiqués du GIA, les nos 43 et 44, ont été reçus, et leur authenticité reste mise en doute, car ils présentent des anomalies et des styles fort différents. C’est dans le second qu’est annoncé l’assassinat des moines le matin même du 21 mai. « Nous avons tranché la gorge de tous les moines conformément à notre engagement », puisque « le président français et le ministère des affaires étrangères ont déclaré qu’ils ne négocieraient pas avec le Groupe islamique armé », annonce le communiqué. Or, comme on l’a su très vite, les moines n’ont pas été égorgés, mais décapités. Aujourd’hui encore, leurs corps n’ont toujours pas été retrouvés.

Les autorités algériennes semblent prises de court par cette annonce. C’est l’un des documents les plus troublants parmi ceux qui ont été déclassifiés : huit jours après l’exécution des moines, Me Boukhalfa se signale. D’après une note signée le 28 mai par Roe d’Albert, alors premier conseiller à l’ambassade de France à Alger, qui a rencontré l’avocat à sa demande, « le dénouement tragique avait constitué pour lui une totale surprise. Il n’a d’ailleurs pas caché son scepticisme et sa difficulté à admettre l’issue fatale de l’enlèvement tant que les corps n’auraient pas été retrouvés. »

« Il m’a fait part également à titre confidentiel du témoignage d’un de ses amis, officier supérieur de l’ANP, l’armée algérienne, bien introduit dans les milieux du FIS – j’ai songé au général Benyelles, poursuit Roe d’Albert. Celui-ci était persuadé, au début de l’enlèvement, qu’il s’agissait d’une manipulation des services spéciaux algériens visant à soulever l’Église contre les islamistes et à discréditer la démarche de Sant’Egidio. Cet officier s’était montré optimiste sur le sort des moines avant de partir à la mi-avril pour le pèlerinage à La Mecque. Il était rentré la semaine dernière et avait déjeuné avec le général Tewfik Mediene, le patron de la Sécurité militaire, dont il est l’ami personnel. Ce dernier lui a paru extrêmement embarrassé par l’annonce de la mort des moines. Il lui aurait laissé entendre qu’il ne comprenait pas ce qui s’était passé (…). L’officier supérieur lui avait confirmé “le grand embarras des plus hauts décideurs algériens (sic)”. »
Qui a découvert les « dépouilles » ?

Les conditions de découverte des « dépouilles » des moines laissent aujourd’hui encore dubitatif. Une note « confidentiel défense » en date du 7 juin 1996 signée par l’ambassadeur de France Michel Lévêque souligne : « Les dépouilles ont bien été retrouvées dans la matinée du jeudi 30 mai, à la lisière d’un champ, en bordure de la route nationale Alger-Médea, 800 mètres environ avant le carrefour d’entrée à Médéa. L’armée dispose d’un poste de contrôle permanent à ce carrefour où se croisent la route d’entrée à Médéa et la route qui continue vers Boughari. »

Le diplomate s’étonne que « trois têtes des moines aient été suspendues à un arbre afin d’attirer l’attention, que les quatre autres aient été déposées sur la terre en limite de la route », sans que les militaires, si proches, n’aient rien vu eux-mêmes. Il était cependant connu que les Groupes armés islamistes opéraient la nuit et les militaires le jour. C’est le propriétaire du terrain qui aurait fait la macabre découverte en venant faucher son champ.

Une semaine auparavant, le 30 mai, le ministre algérien des affaires étrangères, Ahmed Attaf, semblait vouloir atténuer les circonstances horribles de la mort des moines. « Le ministre m’a assuré, note Michel Lévêque, qu’aucune photo n’a été prise ni ne serait divulguée par “souci de dignité” et “compte tenu de l’horreur de cette exécution”. Par ailleurs, et pour les mêmes raisons, il ne serait pas fait état de la seule découverte des têtes des moines, mais plutôt de leurs “dépouilles” ou de leurs “cadavres”. Les autorités algériennes font venir sept cercueils de Marseille pour y déposer les restes des moines. »
Est-on sûr des circonstances de la mort des moines ?

Quelques jours auparavant, dans une note « secret défense », l’ambassadeur de France, Michel Lévêque, raconte qu’il s’est fait accompagner par un médecin de la gendarmerie à l’hôpital militaire d’Aïn Nadja, près d’Alger, où les restes des moines ont été rassemblées. « Un des crânes présente une fracture de la branche montante gauche de la mandibule, laissant penser que les décapitations ont été effectuées par une arme blanche lourde et violente, note-t-il. On ne peut cependant pas déterminer si ces décapitations ont été effectuées pré ou post mortem. (…) Les différentes constatations visuelles effectuées par le médecin de la gendarmerie conduisent donc à penser que le décès des sept moines pourrait remonter à une période située entre le 15 et le 21 mai, la date de revendication de l’assassinat des moines par le GIA. »

Un doute pèse donc, là encore, sur les circonstances de la mort des cisterciens, d’autant que les groupes armés islamistes égorgeaient leurs victimes et ne les décapitaient pas.

Dans une note à la Direction des renseignements militaires (DRM) datant du 23 mai 1996, François Buchwalter affirme que « du lundi 20 mai en soirée au mercredi 22 mai midi s’est déroulée une importante opération au nord de Berrouaghia, mettant en œuvre comme à l’accoutumée hélicoptères armés et parachutistes ». Une information décisive, quand on sait que les autorités algériennes avaient donné, dès le 27 avril, des assurances contraires à Paris. Dans une note du 10 juin, la DRM n’exclut pas que la démarche des autorités algériennes « n’ait été guidée que par la seule volonté de faire cesser au plus vite cette situation sans se préoccuper de la vie des otages ».
Comment s’est passée la reconnaissance des dépouilles ?

Le 31 mai, l’ambassadeur de France s’est rendu à la morgue de l’hôpital militaire d’Ain Nadja afin de procéder à l’identification des sept moines. Il était accompagné du consul général, du médecin de gendarmerie, de Mgr Henri Teissier, archevêque d’Alger, de Dom Bernardo Olivera, abbé général des cisterciens de la stricte observance (trappistes), du P. Armand Veilleux, procureur général, et du P. Amédée, l’un des moines survivants de Tibhirine. Il y eut un véritable forcing auprès des autorités algériennes pour que les cercueils, qui étaient déjà plombés, soient ouverts, ainsi que l’écrit dans une note l’ambassadeur Michel Lévêque.

« Notre présence s’est avérée particulièrement opportune. Les autorités algériennes n’avaient pu en effet reconnaître les identités des différents moines. La reconnaissance de chacun d’eux a pu être faite grâce à Mgr Teissier et aux représentants de l’ordre cistercien. Chacun des cercueils portait donc désormais le nom du moine disparu. »

Le P. Armand Veilleux apporte aujourd’hui une précision nouvelle et de taille : « Les têtes que j’ai identifiées s’apparentaient à des momies. En revanche, sur les clichés pris par la Sécurité algérienne lors de leur découverte – et qui m’ont récemment été soumis chez le juge –, j’ai pu voir combien les têtes avaient été refaites par les médecins légistes. Voilà qui m’amène à penser qu’on ne peut exclure aucune hypothèse, y compris celle d’un bombardement ayant visé les moines. »
Djamel Zitouni a-t-il longtemps survécu à cette tragédie ?

Le chef du GIA n’aura pas survécu longtemps aux moines. Il est tombé dans une embuscade le 16 juillet, non loin de Médéa, sur la piste même qu’avaient suivie les moines lors de leur enlèvement. Selon toute vraisemblance, ce ne fut pas l’armée algérienne qui le tua, mais l’émir de Médéa, dissident du GIA, Ali Benhadjar. Celui-ci se considérait comme le dépositaire de l’aman, la protection licite accordée aux étrangers qu’avait donnée, fin 1993, Sayah Attia, fondateur du GIA dans la région au P. Christian de Chergé, après une incursion au monastère.

« Nous tenions à montrer que nous savions respecter quelques règles sacrées dans la conduite du djihad. Or, le respect de la vie de ces hommes de foi en était une », racontera l’émir qui, depuis 2000, fait partie des repentis.

Pour certains observateurs, c’est le numéro deux de la Sécurité militaire, Smaïn Lamari, qui aurait finalement « donné » Djamel Zitouni à Ali Benhadjar. Dans une note du 27 mai 1996, et alors que les moines sont morts, le général Philippe Rondot, évoque les relations de collusion entre les services algériens et le GIA, pour favoriser les luttes intestines entre les groupes armés. Il laisse deviner qu’il a exercé des pressions sur Smaïn Lamari pour qu’il élimine Djamel Zitouni : « C’est notre devoir de l’encourager et peut-être même de le lui imposer », écrit-il.

Julia FICATIER (avec Marie BOËTON) da www.lacroix.com

Chronologie : Tibhirine et les années noires de l'Algérie

11 janvier 1992 : annulation du second tour des élections législatives (dont le premier tour avait été remporté par le Front islamique du salut, FIS) et début des années de violence en Algérie.

30 octobre 1993 : ultimatum du Groupe islamiste armé (GIA) aux étrangers. La plupart quittent le pays.

8 mai 1994 : assassinats à Alger d’un frère mariste et d’une petite sœur de l’Assomption.

23 octobre 1994 : assassinats de deux sœurs augustines.

27 décembre 1994 : assassinats de quatre Pères Blancs à Tizi Ouzou.

Juillet 1995 : revendication par le GIA d’une série d’attentats en France. Le 3 septembre, deux Sœurs de Notre-Dame-des-Apôtres sont assassinées, puis le 10 novembre, une petite sœur du Sacré-Cœur.

Nuit du 26 au 27 mars 1996 : enlèvement de sept moines à Tibhirine. 23 mai : « Radio Medi 1 » annonce la mort des moines, après avoir reçu le « communiqué 44 » du GIA.

30 mai 1996 : les corps des moines sont retrouvés près de Médéa. Ils seront inhumés le 4 juin à Tibhirine.

1er août 1996 : assassinat de Mgr Pierre Claverie, archevêque d’Oran.

Août 1997 : carnage de Raïs (plus de 300 morts civils). L’Armée islamique du salut annonce un cessez-le-feu. Le GIA sévira encore au moins cinq ans. On estime que 150 000 personnes ont été tuées durant ces années. Le nombre de disparus oscille entre 4 000 et 20 000.

1999 : création de deux communautés distinctes : l’une à Fès (puis à Midelt) au Maroc, l’autre à Alger. Les deux derniers trappistes d’Alger quitteront l’Algérie en 2001.

Septembre 2009 : demande, par les magistrats chargés de l’enquête sur la mort des sept moines, de la levée du secret-défense sur les documents détenus par les ministères de la défense, des affaires étrangères et de l’intérieur. Demande à laquelle la Commission consultative du secret de la défense nationale (CCSDN) émet un avis favorable.

Una storia d'Amore

"Des hommes et des dieux" : l'esprit de Tibhirine emporte le festival

Avec « Des hommes et des dieux », très belle évocation de la vie des moines de Tibhirine, le cinéaste français signe une œuvre magistrale

DES HOMMES ET DES DIEUX de Xavier Beauvois
Film français, 2 heures

On le vit d’abord en soi, puis on sent que la salle est gagnée du même sentiment, sans en évaluer encore l’intensité exacte. Pour constater, lorsque les lumières se rallument, que le festival vient de vivre l’un de ses grands moments. Applaudissements nourris, échanges unanimes. Quelque chose est passé. Pas seulement un film, éblouissant, transcendant, mais une grâce, un souffle. Une profonde fraternité.

Mardi 18 mai, Xavier Beauvois, l’auteur de Nord, N’oublie pas que tu vas mourir, Selon Matthieu et Le Petit lieutenant, présentait en compétition officielle Des hommes et des dieux.

Une évocation magnifique de la vie des moines de Tibhirine, en Algérie, dans les trois années qui précédèrent l’enlèvement et la mort de sept d’entre eux, en 1996. Une œuvre tragique et lumineuse, sobre et lente, baignée de tonalités douces et des couleurs pâles de l’hiver dans l’Atlas, superbement photographié par la chef opératrice Caroline Champetier.

Pas de théorie sur les circonstances de leur mort, pas de thèse sur les responsabilités. À mille lieues des polémiques et des procédures judiciaires ayant trait à ce drame, Xavier Beauvois, à partir d’un scénario d’Étienne Comar, s’interroge sur le choix que firent ces moines de rester là, parmi leurs frères algériens, sans prendre partie entre ceux de la montagne (les terroristes) et ceux de la plaine (dont tous ces villageois avec lesquels ils vivaient en parfaite harmonie). Attachés à réaffirmer humblement leur message de paix alors que le pays, au nom d’un dieu caricaturé par l’extrémisme, s’enfonçait dans le terrorisme et la guerre civile.

Voilà donc l’existence paisible de huit moines, peu à peu confrontés à la violence, démunis et horrifiés, mais résolus, à la suite du prieur Christian de Chergé, à ne pas renoncer à l’appel qui avait dessiné leurs vies, celles de religieux catholiques vivant leur engagement en terre d’islam.

Au rythme de la vie monastique, restituée avec précision grâce aux conseils d’Henry Quinson, entre travaux manuels et repas, célébrations, prière et recueillement, le film révèle l’esprit de la communauté de Tibhirine et livre peu à peu l’objet de sa quête. Cherche à s’approcher du mystère de ces hommes de foi, prévenus des dangers et incités au départ, jetés dans le doute (Faut-il s’éloigner ? Faut-il rester ?), intérieurement ébranlés et amenés à entrevoir la possibilité d’un martyre qu’ils n’ont pas recherché.

Lectures de psaumes, méditations, poèmes accompagnent avec profondeur ce cheminement douloureux, dans des scènes d’une extraordinaire simplicité et d’une intense justesse, jusqu’à la lecture bouleversante du testament du père de Chergé.

Croyant ou non, chaque spectateur semblait touché mardi par la force universelle de ce message d’amour, porté par huit comédiens véritablement habités par leur rôle, autour de Lambert Wilson dans celui du prieur et du formidable Michael Lonsdale en Frère Luc, médecin aux 150 consultations par jour.

Lors de la conférence de presse qui suivit – au cours de laquelle Étienne Comar et Lambert Wilson recommandèrent La-Croix.com à qui désirerait disposer de tous les éléments sur le drame et ses prolongements – Xavier Beauvois a précisé que le film, tourné au Maroc, s’était fait « en état de grâce ». Les comédiens, eux, évoquaient le lien qui les unit encore. On imagine mal que le jury ne soit pas, comme le petit peuple du festival, emmené par cette œuvre singulière et puissante.

Arnaud SCHWARTZ

martedì 18 maggio 2010

Icona del mistero del Sabato Santo

Meditazione pronunciata da Benedetto XVI dopo l’atto di venerazione della Sindone nel Duomo di Torino, nel salutare le monache di clausura di diversi monasteri della diocesi e i membri del Comitato della Sindone presenti.

* * *

Cari amici,

questo è per me un momento molto atteso. In un’altra occasione mi sono trovato davanti alla sacra Sindone, ma questa volta vivo questo pellegrinaggio e questa sosta con particolare intensità: forse perché il passare degli anni mi rende ancora più sensibile al messaggio di questa straordinaria Icona; forse, e direi soprattutto, perché sono qui come Successore di Pietro, e porto nel mio cuore tutta la Chiesa, anzi, tutta l’umanità. Ringrazio Dio per il dono di questo pellegrinaggio, e anche per l’opportunità di condividere con voi una breve meditazione, che mi è stata suggerita dal sottotitolo di questa solenne Ostensione: “Il mistero del Sabato Santo”. Si può dire che la Sindone sia l’Icona di questo mistero, l’Icona del Sabato Santo. Infatti essa è un telo sepolcrale, che ha avvolto la salma di un uomo crocifisso in tutto corrispondente a quanto i Vangeli ci dicono di Gesù, il quale, crocifisso verso mezzogiorno, spirò verso le tre del pomeriggio.

Venuta la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato solenne di Pasqua, Giuseppe d’Arimatea, un ricco e autorevole membro del Sinedrio, chiese coraggiosamente a Ponzio Pilato di poter seppellire Gesù nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia a poca distanza dal Golgota. Ottenuto il permesso, comprò un lenzuolo e, deposto il corpo di Gesù dalla croce, lo avvolse con quel lenzuolo e lo mise in quella tomba (cfr Mc 15,42-46). Così riferisce il Vangelo di San Marco, e con lui concordano gli altri Evangelisti. Da quel momento, Gesù rimase nel sepolcro fino all’alba del giorno dopo il sabato, e la Sindone di Torino ci offre l’immagine di com’era il suo corpo disteso nella tomba durante quel tempo, che fu breve cronologicamente (circa un giorno e mezzo), ma fu immenso, infinito nel suo valore e nel suo significato.

Il Sabato Santo è il giorno del nascondimento di Dio, come si legge in un’antica Omelia: “Che cosa è avvenuto? Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme … Dio è morto nella carne ed è sceso a scuotere il regno degli inferi” (Omelia sul Sabato Santo, PG 43, 439). Nel Credo, noi professiamo che Gesù Cristo “fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto, discese agli inferi, e il terzo giorno risuscitò da morte”.

Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo, specialmente dopo aver attraversato il secolo scorso, l’umanità è diventata particolarmente sensibile al mistero del Sabato Santo. Il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre di più. Sul finire dell’Ottocento, Nietzsche scriveva: “Dio è morto! E noi l’abbiamo ucciso!”. Questa celebre espressione, a ben vedere, è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana, spesso la ripetiamo nella Via Crucis, forse senza renderci pienamente conto di ciò che diciamo. Dopo le due guerre mondiali, i lager e i gulag, Hiroshima e Nagasaki, la nostra epoca è diventata in misura sempre maggiore un Sabato Santo: l’oscurità di questo giorno interpella tutti coloro che si interrogano sulla vita, in modo particolare interpella noi credenti. Anche noi abbiamo a che fare con questa oscurità.

E tuttavia la morte del Figlio di Dio, di Gesù di Nazaret ha un aspetto opposto, totalmente positivo, fonte di consolazione e di speranza. E questo mi fa pensare al fatto che la sacra Sindone si comporta come un documento “fotografico”, dotato di un “positivo” e di un “negativo”. E in effetti è proprio così: il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più luminoso di una speranza che non ha confini. Il Sabato Santo è la “terra di nessuno” tra la morte e la risurrezione, ma in questa “terra di nessuno” è entrato Uno, l’Unico, che l’ha attraversata con i segni della sua Passione per l’uomo: “Passio Christi. Passio hominis”. E la Sindone ci parla esattamente di quel momento, sta a testimoniare precisamente quell’intervallo unico e irripetibile nella storia dell’umanità e dell’universo, in cui Dio, in Gesù Cristo, ha condiviso non solo il nostro morire, ma anche il nostro rimanere nella morte. La solidarietà più radicale. In quel “tempo-oltre-il-tempo” Gesù Cristo è “disceso agli inferi”. Che cosa significa questa espressione? Vuole dire che Dio, fattosi uomo, è arrivato fino al punto di entrare nella solitudine estrema e assoluta dell’uomo, dove non arriva alcun raggio d’amore, dove regna l’abbandono totale senza alcuna parola di conforto: “gli inferi”. Gesù Cristo, rimanendo nella morte, ha oltrepassato la porta di questa solitudine ultima per guidare anche noi ad oltrepassarla con Lui.

Tutti abbiamo sentito qualche volta una sensazione spaventosa di abbandono, e ciò che della morte ci fa più paura è proprio questo, come da bambini abbiamo paura di stare da soli nel buio e solo la presenza di una persona che ci ama ci può rassicurare. Ecco, proprio questo è accaduto nel Sabato Santo: nel regno della morte è risuonata la voce di Dio. E’ successo l’impensabile: che cioè l’Amore è penetrato “negli inferi”: anche nel buio estremo della solitudine umana più assoluta noi possiamo ascoltare una voce che ci chiama e trovare una mano che ci prende e ci conduce fuori. L’essere umano vive per il fatto che è amato e può amare; e se anche nello spazio della morte è penetrato l’amore, allora anche là è arrivata la vita. Nell’ora dell’estrema solitudine non saremo mai soli: “Passio Christi. Passio hominis”.

Questo è il mistero del Sabato Santo! Proprio di là, dal buio della morte del Figlio di Dio, è spuntata la luce di una speranza nuova: la luce della Risurrezione. Ed ecco, mi sembra che guardando questo sacro Telo con gli occhi della fede si percepisca qualcosa di questa luce. In effetti, la Sindone è stata immersa in quel buio profondo, ma è al tempo stesso luminosa; e io penso che se migliaia e migliaia di persone vengono a venerarla – senza contare quanti la contemplano mediante le immagini – è perché in essa non vedono solo il buio, ma anche la luce; non tanto la sconfitta della vita e dell’amore, ma piuttosto la vittoria, la vittoria della vita sulla morte, dell’amore sull’odio; vedono sì la morte di Gesù, ma intravedono la sua Risurrezione; in seno alla morte pulsa ora la vita, in quanto vi inabita l’amore. Questo è il potere della Sindone: dal volto di questo “Uomo dei dolori”, che porta su di sé la passione dell’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, anche le nostre passioni, le nostre sofferenze, le nostre difficoltà, i nostri peccati - “Passio Christi. Passio hominis” - promana una solenne maestà, una signoria paradossale. Questo volto, queste mani e questi piedi, questo costato, tutto questo corpo parla, è esso stesso una parola che possiamo ascoltare nel silenzio. Come parla la Sindone? Parla con il sangue, e il sangue è la vita! La Sindone è un’Icona scritta col sangue; sangue di un uomo flagellato, coronato di spine, crocifisso e ferito al costato destro. L’immagine impressa sulla Sindone è quella di un morto, ma il sangue parla della sua vita. Ogni traccia di sangue parla di amore e di vita. Specialmente quella macchia abbondante vicina al costato, fatta di sangue ed acqua usciti copiosamente da una grande ferita procurata da un colpo di lancia romana, quel sangue e quell’acqua parlano di vita. E’ come una sorgente che mormora nel silenzio, e noi possiamo sentirla, possiamo ascoltarla, nel silenzio del Sabato Santo.

Cari amici, lodiamo sempre il Signore per il suo amore fedele e misericordioso. Partendo da questo luogo santo, portiamo negli occhi l’immagine della Sindone, portiamo nel cuore questa parola d’amore, e lodiamo Dio con una vita piena di fede, di speranza e di carità. Grazie.

Comprendere l'arte

Riflessioni sulle teorie contemporanee dell’'arte: relazione tenuta il 5 maggio nel Seminario Superiore "Le ragioni dell'arte", dell'Accademia Urbana delle Arti, con sede in Roma, dal prof. Rodolfo Papa, docente di storia delle teorie estetiche presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana e docente al Master in “Architettura, Arti Sacre e Liturgia” presso l'Università Europea di Roma.

* * *

Per comprendere l’arte, e in special modo la questione contemporanea che ad essa è legata, c’è necessità di un approccio multidisciplinare, giacché la complessità delle parti che la compongono rischia di far perdere di vista l’unitarietà dell’insieme. Un esempio di questa difficoltà si incontra negli studi del britannico Nigel Warburton che, nel suo The Art Question pubblicato nel 2003, cercando una definizione generale di arte, capace di comprendere contemporaneamente un’opera pittorica di Franz Halz del 1664 e una di Damien Hirst del 1898, la fotografia Film Still #21 del 1978 di Cindy Sherman e l’istantanea Carri armati in Piazza Tien Anmen del 1989 di Stuart Franklin, applicando i medesimi criteri, giunge ad una battuta d’arresto e, quasi ammettendo candidamente la propria sconfitta, dichiara: «La questione dell’arte, quando è posta al livello generale di “che cos’è l’arte?”, probabilmente non ha risposta». Il metodo applicato da Warburton non riesce e non può giungere ad una definizione dell’arte, perché si limita ad analisi di tipo formalistico e, di fronte alle varie opere d’arte, non pone in campo le dovute informazioni che provengono dalla storiografia, dall’iconologia contestuale, dall’antropologia culturale, dalla critica e dalle numerose altre discipline che compongono il panorama delle scienze dell’arte. Si apre, quindi, una questione metodologica. Nei secoli passati, le diverse competenze della teoria e della storia dell’arte confluivano tutte nella figura dell’artista. Oggi, essendosi separate tutte queste discipline in decine di sottogruppi, è estremamente difficile comporre un quadro generale sufficiente a dirimere le singole questioni e dipanare la matassa.

Proveremo qui a dare alcuni spunti per ben impostare il discorso sull’arte. Il primo passo da compiere è analizzare gli studi di alcuni recenti teorici dell’arte, utili per ripensare un sistema storiografico di riferimento. Larry Shiner, nel suo The Invention of Art. A Cultural History pubblicato nel 2001, propone un punto di vista particolare. Nelle teorie contemporanee, l’artista si distingue nettamente da colui che ha competenze ed abilità manuali, come se ne fosse un superamento; Larry Shiner prova a ricostruire il momento della prima separazione tra arte e artigianato, rintracciandolo di fatto nell’era dei philosophes, ovvero nel XVIII secolo. Dunque, secondo Shiner, nel Rinascimento arte e artigianato convivono ancora. Questo a mio avviso appare indubitabile, giacché, per esempio, per un artista del Rinascimento come Michelangelo, un’opera non finita, quale la Pietà Rondanini, è da considerarsi un fallimento, proprio perché non portata a compimento; invece tanta critica novecentesca esalta tale opera proprio perché non-finita, applicando categorie estetiche novecentesche e commettendo una sorta di anacronismo interpretativo. Shiner sottolinea come per un artista pre-romantico o romantico, a differenza dell’artista rinascimentale, tutto risieda nell’idea: «dopo la rottura settecentesca, tutti gli aspetti nobili della precedente figura dell’artigiano-artista, come grazia, invenzione e immaginazione furono associati soltanto all’artista, mentre l’artigiano, o artiere, si disse che possedeva solo l’abilità, che lavorava seguendo la consuetudine, che mirava solo al guadagno».

Questo procedimento di rottura tra arte e artigianato ci può sembrare positivo e liberatorio, ma di fatto pone alcuni problemi. Se si riconosce all’artista la capacità creativa indipendentemente dall’abilità tecnica, se artista è colui che è capace di esprimere se stesso in ogni modo e attraverso ogni mezzo, ecco allora che diventa problematica la definizione dell’arte stessa, tanto che il medesimo Shiner nota che «soltanto a seguito dell’instaurazione del moderno sistema dell’arte ci si può chiedere: “è davvero arte?”, oppure: “Qual è la relazione tra arte e società?». Come è noto, il sistema dell’arte che fa convivere arte e artigianato ha come fine la bellezza, entro un orizzonte di pratica del mestiere e coltivazione delle virtù morali, mentre nella separazione tra arte e artigianato, si afferma sempre di più una sorta di autonomia dell’opera d’arte dalla bellezza e dalle virtù praticate, tanto che si apre uno spazio di riflessione su qualcosa di totalmente diverso che, con Baumgarten nel 1750, prenderà il nome di Aesthetica, la quale sancirà un’ulteriore separazione dopo quella tra arte e artigianato, ovvero quella tra arte e ragione, lasciando l’arte in un luogo intermedio e confuso.
L’approccio critico di Shiner al concetto di arte e il tentativo che ne deriva di operare una ricostruzione storica, ha il pregio di superare definizioni generiche come quella ricercata da Warburton, o negative come quella adottata strategicamente da Ernest H. Gombrich nella sua Storia dell’arte del 1950, dove, con lo scopo di superare la difficoltà definitoria del termine, afferma che: «Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti». Queste due strategie non tengono conto della realtà storica dei fatti e quindi sono fuorvianti per la comprensione del senso delle cose dell’arte. In più Shiner, criticando fortemente la posizione di Gombrich, afferma: «L’inconveniente di una strategia come quella adottata da Gombrich risiede nel fatto che nelle conseguenti storie dell’arte si tendono a nascondere i forti elementi di diversità che distinguono l’antico sistema dell’arte dal moderno sistema dell’arte».
Dunque, per definire il concetto di arte si deve riorganizzare il sistema storiografico. Inoltre, molte delle scoperte avvenute nel corso degli ultimi venti anni in campo iconologico, aprono decisamente scenari nuovi, capaci di ridefinire e riconvertire stanche narrazioni storiografiche, infettate da pregiudizi di tipo progressista e materialista. A tal proposito, nel 1997 Arthur Danto pubblicava il saggio dal titolo After the End of Art. Contemporary Art and the Pale of History. Danto costruisce una narrazione a partire dal concetto di “fine dell’arte”, analizzando ciò che accade dopo la fine dell’arte, indicando questo “dopo” come un momento storico preciso, che si individua nell’assenza di principi come unico principio regolatore. In sostanza viene posto una sorta di confine, prima del quale l’arte si presenta come definita. Infatti l’arte è, per Danto, qualcosa di preciso in termini storiografici, qualcosa che, fin quando è stato possibile narrarne la storia, ha potuto essere inteso come espressione di uno stadio evolutivo. Ma “dopo”, conclusasi la parabola della “rassicurante cornice narrativa”, ogni cosa è possibile. In tale studio si rintracciano, a mio avviso, due dati essenziali, uno di tipo storiografico e l’altro di tipo critico: il primo è che l’arte si individua su un piano storico, l’altro è che oggi sia mo in una fase di puro e totale relativismo, dove tutto è uguale, nell’assenza di ogni tipo di riferimento.
Nell’introduzione al saggio, Danto cita i risultati dello storico tedesco Hans Belting che, pubblicando nel 1990 un saggio sull’arte bizantina dal titolo Bild und Kult. Geschichte des Bildes vor dem Zeitalter der Kunst, soprattutto nel sottotitolo (Una storia delle immagini prima dell’era dell’arte) identifica un nuovo confine per l’arte. Dal confronto con i due estremi confini, uno anteriore posto da Belting e l’altro posteriore segnato da Danto, si viene ad individuare uno spazio vuoto, dal cui calco, per negativo, ricostruiamo l’era dell’arte, che coincide con il tardo Medio Evo e con tutto il Rinascimento e il Barocco, in sostanza dal XIII al XVIII secolo.
Come si vede, il termine “arte” designa qualcosa di ben circoscritto, che coincide storicamente con l’arte cristiana (anzi, in termini più precisi, con l’arte cattolica). Tutto il resto è pre-arte (come il culto delle immagini studiato da Belting) o post-arte (come la contemporaneità descritta da Danto). Correggendo Gombrich, occorrerebbe dire che non è l’arte a non esistere, ma semmai la storia dell’arte, che muta struttura al mutare delle teorie che ne informano l’assetto. Ma allora viviamo in un’epoca senza arte? Sembrerebbe di sì, se ci soffermiamo ad analizzare le emergenze. Per esempio, l’interessante studio Il consumo della Pop Art di Carolina Carriero del 2003 sottolinea la dimensione non-artistica della Pop Art: «Il mito di Narciso entra nella serie delle pratiche cerimoniali in virtù della sollecitazione, operata sulle componenti emozionali della massa, attraverso la funzionalizzazione pubblicitaria della bellezza. L’attenzione ossessiva per il prodotto più vendibile è anche il nuovo criterio estetico pop: bello è ciò che vende e che fa vendere, che è asettico e lucido come la plastica e che, soprattutto, può essere gettato via dopo essere stato utilizzato. Bello non è l’utensile ma il suo consumo preliminare come fruizione di un servizio futuro; bella è la promessa di felicità nella promozione di sé come immagine che può uccidere una ninfa».
Tuttavia, se interroghiamo più profondamente l’identità dell’arte, utilizzando gli studi di Belting, Danto e Shiner, appare chiaramente come l’arte sia un frutto innovativo della spiritualità cristiana. Ma se vogliamo andare oltre, e insieme al necrologio provare a dare una relazione autoptica, possiamo considerare che, come il Cristianesimo è stato l’inizio stesso dell’arte, così il volontario rifiuto di questo ne abbia sancito la fine: insieme alla visione cristiana del mondo, è stato abbandonato il fondamento metafisico della bellezza e il valore veritativo dell’arte. La laicizzazione dell’arte è stata, per certi versi, un morbo che ha condotto l’arte alla morte. Ma la contaminazione non è stata totale. L’arte in quanto tale è sopravvissuta, e soprattutto riemerge prepotentemente come un’esigenza. Come afferma Remo Bodei: «l’ideale delle “belle arti” non è tuttavia tramontato neppure in seguito all’apparente apoteosi del brutto. Si assiste anzi, in questi ultimi tempi, al veloce congedo dalla adorniana fase del cordoglio, a una crescente insofferenza nei confronti dell’“arte brutta” e dello sperimentalismo esacerbato delle avanguardie». Le contemporanee speculazioni sull’arte portano, dunque, un grande contributo di riflessione su cosa sia l’arte e sulla sua storia, rendendo attenti contro un concetto rassicurante e indistinto di “arte” che, per tutto contenere, nulla comprende.

ZENIT.org