domenica 27 dicembre 2009

mercoledì 23 dicembre 2009

Media e Giustizia sociale

GINEVRA, mercoledì, 23 dicembre 2009 (ZENIT.org).- L'Unione Cattolica Internazionale della Stampa sottolinea il ruolo dei media nel costruire la giustizia economica ed esorta i giornalisti a servire l'umanità e il creato piuttosto che le agende personali.

L'Unione lo ha affermato in un documento dal titolo “Media per la Giustizia Sociale ed Economica”, pubblicato questa settimana per “sottolineare l'importanza e il ruolo del giornalismo nel trovare soluzioni durature a problemi che tutti noi affrontiamo nel mondo”.

“La giustizia sociale ed economica rappresenta la base per un mondo prospero e pacifico”, dichiara il documento, rimarcando la “particolare responsabilità” dei giornalisti e degli esperti dei media “di assicurare che la giustizia sociale ed economica a livello mondiale prevalga allo scopo di eliminare i conflitti, le guerre e altri disastri”.

Alla luce di questo, l'Unione della Stampa ha osservato che il documento, adottato durante l'assemblea generale del 31 ottobre, mira a “ispirare i giornalisti e gli esperti dei media perché possano lavorare per stabilire livelli esemplari di giustizia e di pace in tutto il mondo portando la questione nei forum mondiali e a livelli decisionali e di policy-making”.

Il testo è stato preparato da scrittori, giornalisti, docenti ed esperti di Europa, Asia, Nordamerica, Africa, Medio Oriente, Caraibi e Oceania, e sottolinea la “nobile storia del giornalismo”, osservando che “quando in passato si sono verificate delle crisi, i giornalisti sono stati capaci di parlare e di mostrare la via alla gente come i leader”.

Ora, dichiara il documento, il mondo ha a che fare con molte questioni come “consumismo, standardizzazione, distruzione dell'ambiente, globalizzazione, pagamento inadeguato dei lavoratori, dipendenza costante dei poveri dai ricchi”.

L'Unione della Stampa ha anche espresso la speranza che il documento aiuti i giornalisti e gli esperti dei media nel “nobile atto” di esplorare tali questioni e renderle una priorità dell'agenda mondiale.

Benessere globale

“Gli esperti dei media e i giornalisti hanno probabilmente il ruolo più importante da ricoprire rispetto alle questioni sociali ed economiche. Il giornalismo è la professione in cui il pensiero critico e l'analisi approfondita a favore del benessere globale devono precedere ogni parola e ogni azione”.

“In questo senso”, afferma il documento, “nessuno può essere un giornalista se discrimina o svaluta gli altri in nome dell'orgoglio nazionale, etnico o religioso”.

“Un giornalista è al servizio dell'umanità e della natura e non a quello degli interessi di pochi”.

L'Unione dichiara anche che “i media devono superare le differenze – che allo stesso tempo devono essere distinte e apprezzate per servire gli scopi superiori e il benessere di tutti”.

In questo modo, “i media possono portare costantemente alla luce, ogni giorno e ogni minuto, le politiche e le azioni che vanno contro il bene comune e il benessere e le loro devastanti conseguenze”.

“Se i media non sono capaci di fare questo, non c'è nessun altro che possa esporre queste ingiustizie”, ha osservato l'Unione.

Il documento ha anche sottolineato la necessità di “creare media sovranazionali, sovraculturali e al di sopra degli interessi che possano realmente servire l'umanità e prendere in considerazione vari punti di vista ed esperienze di vita diverse”.

“Tutti i giornalisti, gli editori e gli esperti, indipendentemente dalle loro condizioni di lavoro e dal salario, devono considerare questa la loro chiamata suprema a servire l'umanità nel suo insieme”.

“Probabilmente è l'unico modo di progredire e di stabilire gradualmente la giustizia sociale ed economica”.

sabato 19 dicembre 2009

Benedetto XVI e la Sapienza


Testo dell'omelia pronunciata da Benedetto XVI giovedì pomeriggio, presiedendo la celebrazione dei Vespri con gli universitari di Roma in preparazione al Natale.

* * *

Quale sapienza nasce a Betlemme? Questa domanda vorrei porre a me e a voi in questo tradizionale incontro pre-natalizio con il mondo universitario romano. Oggi, invece della Santa Messa, celebriamo i Vespri, e la felice coincidenza con l'inizio della novena di Natale ci farà cantare tra poco la prima delle Antifone dette Maggiori:

"O Sapienza, che esci dalla bocca dell'Altissimo,

ti estendi ai confini del mondo,

e tutto disponi con soavità e con forza:

vieni, insegnaci la via della saggezza" (Liturgia delle Ore, Vespri del 17 dicembre).

Questa stupenda invocazione è rivolta alla "Sapienza", figura centrale nei libri dei Proverbi, della Sapienza e del Siracide che da essa sono detti appunto "sapienziali" e nei quali la tradizione cristiana scorge una prefigurazione del Cristo. Tale invocazione diventa davvero stimolante e, anzi, provocante, quando ci poniamo di fronte al Presepe, cioè al paradosso di una Sapienza che, uscita "dalla bocca dell'altissimo", giace avvolta in fasce dentro una mangiatoia (cfr Lc 2,7.12.16).

Possiamo già anticipare la risposta alla domanda iniziale: quella che nasce a Betlemme è la Sapienza di Dio. San Paolo, scrivendo ai Corinzi, usa questa espressione: "la sapienza di Dio, che è nel mistero" (1 Cor 2,7), cioè in un disegno divino, che è rimasto a lungo nascosto e che Dio stesso ha rivelato nella storia della salvezza. Nella pienezza dei tempi, questa Sapienza ha assunto un volto umano, il volto di Gesù, il quale - come recita il Simbolo apostolico - "fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese agli inferi, il terzo giorno risuscitò da morte, salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente, di là verrà a giudicare i vivi e i morti". Il paradosso cristiano consiste proprio nell'identificazione della Sapienza divina, cioè il Logos eterno, con l'uomo Gesù di Nazaret e con la sua storia. Non c'è soluzione a questo paradosso se non nella parola "Amore", che in questo caso va scritta naturalmente con la "A" maiuscola, trattandosi di un Amore che supera infinitamente le dimensioni umane e storiche. Dunque, la Sapienza che questa sera invochiamo è il Figlio di Dio, la seconda persona della Santissima Trinità; è il Verbo, che, come leggiamo nel Prologo di Giovanni, "era in principio presso Dio", anzi, "era Dio", che con il Padre e lo Spirito Santo ha creato tutte le cose e che "si è fatto carne" per rivelarci quel Dio che nessuno può vedere (cfr Gv 1,2-3.14.18).

Cari amici, un professore cristiano, o un giovane studente cristiano, porta dentro di sé l'amore appassionato per questa Sapienza! Legge tutto alla sua luce; ne coglie le tracce nelle particelle elementari e nei versi dei poeti; nei codici giuridici e negli avvenimenti della storia; nelle opere artistiche e nelle espressioni matematiche. Senza di Lei niente è stato fatto di tutto ciò che esiste (cfr Gv 1,3) e dunque in ogni realtà creata se ne può intravedere un riflesso, evidentemente secondo gradi e modalità differenti. Tutto ciò che viene recepito dall'intelligenza umana può esserlo perché, in qualche modo e misura, partecipa della Sapienza creatrice. Qui, in ultima analisi, sta anche la possibilità stessa dello studio, della ricerca, del dialogo scientifico in ogni campo del sapere.

A questo punto non posso evitare una riflessione forse un po' scomoda ma utile per noi che siamo qui e che apparteniamo per lo più all'ambiente accademico. Domandiamoci: chi c'era - la notte di Natale - alla grotta di Betlemme? Chi ha accolto la Sapienza quando è nata? Chi è accorso per vederla, l'ha riconosciuta e adorata? Non dottori della legge, scribi o sapienti. C'erano Maria e Giuseppe, e poi i pastori. Che significa questo? Gesù un giorno dirà: "Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza" (Mt 11,26): hai rivelato il tuo mistero ai piccoli (cfr Mt 11,25). Ma allora non serve studiare? O addirittura è nocivo, controproducente per conoscere la verità? La storia di duemila anni di cristianesimo esclude quest'ultima ipotesi, e ci suggerisce quella giusta: si tratta di studiare, di approfondire le conoscenze mantenendo un animo da "piccoli", uno spirito umile e semplice, come quello di Maria, la "Sede della Sapienza". Quante volte abbiamo avuto paura di avvicinarci alla Grotta di Betlemme perché preoccupati che ciò fosse di ostacolo alla nostra criticità e alla nostra "modernità"! Invece, in quella Grotta, ciascuno di noi può scoprire la verità su Dio e quella sull'uomo. In quel Bambino, nato dalla Vergine, esse si sono incontrate: l'anelito dell'uomo alla vita eterna ha intenerito il cuore di Dio, che non si è vergognato di assumere la condizione umana.

Cari amici, aiutare gli altri a scoprire il vero volto di Dio è la prima forma di carità, che per voi assume la qualifica di carità intellettuale. Ho appreso con piacere che il cammino di quest'anno della pastorale universitaria diocesana avrà per tema: "Eucaristia e carità intellettuale". Una scelta impegnativa ma appropriata. Infatti, in ogni Celebrazione eucaristica Dio viene nella storia in Gesù Cristo, nella sua Parola e nel suo Corpo, donandoci quella carità che ci permette di servire l'uomo nella sua concreta esistenza. Il progetto "Una cultura per la città", poi, offre una promettente proposta di presenza cristiana nell'ambito culturale. Mentre auspico che sia fruttuoso tale vostro itinerario, non posso non invitare tutti gli Atenei ad essere luoghi di formazione di autentici operatori della carità intellettuale. Da essi dipende largamente il futuro della società, soprattutto nell'elaborazione di una nuova sintesi umanistica e di una nuova capacità progettuale (cfr Enc. Caritas in veritate, 21). Incoraggio tutti i responsabili delle istituzioni accademiche a proseguire insieme, collaborando alla costruzione di comunità in cui tutti i giovani possano formarsi ad essere uomini maturi e responsabili per realizzare la "civiltà dell'amore".

Al termine di questa Celebrazione, la delegazione universitaria australiana consegnerà a quella africana l'icona di Maria Sedes Sapientiae. Affidiamo alla Vergine Santa tutti gli universitari del continente africano e l'impegno di cooperazione che in questi mesi, dopo il Sinodo Speciale per l'Africa, si va sviluppando tra gli Atenei di Roma e quelli africani. Rinnovo il mio incoraggiamento a questa nuova prospettiva di cooperazione ed auguro che da essa possano nascere e crescere progetti culturali capaci di promuovere un vero sviluppo integrale dell'uomo. Possa, cari amici, il prossimo Natale portare gioia e speranza a voi, alle vostre famiglie e a tutto l'ambiente universitario, a Roma e nel mondo intero.

venerdì 18 dicembre 2009

Dio oggi - Spaemann


Robert Spaemann (Berlino, 5 maggio 1927), professore emerito di Filosofia presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera, è uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, autore tradotto in 14 lingue. Dopo gli studi di filosofia, storia e teologia, nelle università di Münster, Monaco e Friburgo (Svizzera) ha conseguito l’abilitazione in Filosofia e Pedagogia, insegnando in seguito a Stoccarda e a Heidelberg. È visiting professor in numerose università del mondo, tra le quali l’Università di Rio de Janeiro, di Salisburgo e la Sorbona di Parigi. È membro dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali. Tra le sue opere tradotte in italiano si ricordano: Concetti morali fondamentali, Piemme 1993; Felicità e benevolenza, Vita e Pensiero 1998; L’origine della sociologia dallo spirito della Restaurazione, Laterza 2002; Persone. Sulla differenza tra «qualcosa» e «qualcuno», Laterza 2007 e La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, Cantagalli 2008. Tra pochi mesi uscirà per Ares: Rousseau. Cittadino senza patria.
Erede della Cattedra che fu di Hans G. Gadamer, ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo del dibattito sull’etica contemporanea, in sintonia con gli studi dell’amico Joseph Ratzinger. Il suo dialogo con la coscienza moderna, il suo tentativo di riproporre la dimensione religiosa e le evidenze dell’esperienza elementare dell’uomo quali criteri alla luce dei quali affrontare i problemi più scottanti dell’etica, della bioetica, della politica, hanno ormai fatto scuola anche in Italia e costituiscono un riferimento ineludibile nel dibattito filosofico contemporaneo. Facendo tesoro della filosofia classica ed in particolare della speculazione di Aristotele, Spaemann pone al centro della sua proposta la “vita riuscita”, ossia l’ideale di felicità che costituisce l’orizzonte ed il fine di ogni azione umana. L’indagine morale non è separabile dalla domanda su Dio.


Robert Spaemann
La ragionevolezza della fede in Dio

I.
Il mito della caverna di Platone appartiene alle metafore immortali che consentono di interpretare la situazione dell’uomo. Semplificando al massimo essa si presenta così: gli uomini si trovano all’interno di una caverna priva di aperture. Sono incatenati e guardano verso una parete. Sulla parete appare un gioco di ombre, per così dire un cinema su parete, proiettato da una fonte luminosa invisibile agli spettatori e posta alle loro spalle. Gli uomini non conoscono altra situazione che questa. Essi non possono né vedersi l’un l’altro né vedere se stessi. Quel che accade nel film è per essi l’unica realtà. In relazione a questa realtà essi si agitano, fanno congetture, delineano teorie e avanzano prognosi. Senza dubbio si aggira la diceria che vi sia, fuori dalla caverna, qualcosa come un mondo vero. Si è anche sentito dire che qui la vita sia come una prigionia, che esista la possibilità di una liberazione. Si è sentito dire che alcuni sono giunti in questo vero mondo ma che i loro occhi sono stati abbagliati dalla luce del sole al punto da non riuscire a vedere nulla. Gli abitanti della caverna dunque recalcitrano con mani e piedi se qualcuno da fuori ritorna per liberarli.
Con questo paragone, Platone ha voluto simbolizzare la relazione fra il mondo vero delle idee e la pura immagine di queste, il mondo materiale. Tuttavia noi possiamo, senza allontanarci troppo dall’intenzione di Platone, modificare un poco l’interpretazione di questo paragone. Il sole è in realtà per Platone l’ìmmagine del bene sostanziale, del bene ultimo, in virtù del quale tutto esiste e che motiva, alla fine, ogni sforzo degli esseri viventi. Già i Padri della Chiesa hanno paragonato l’idea del bene di Platone a Dio. Nella variazione che introduco noi stessi non siamo soltanto gli osservatori del film che si proietta sulla parete, ma attori che prendono parte al film. La nostra vita – “la luce degli uomini”, come si dice nel Vangelo di Giovanni - deve se stessa in ogni istante ad un proiettore creativo e alla sua pellicola. Definisco creativo il proiettore per il fatto che esso proietta cose ed esseri viventi, che sono realmente animati e in una certa cornice addirittura liberi di muoversi in un modo o nell’altro. In ogni caso, comunque essi si muovano, colui che ha prodotto il film e il proiettore è già sempre un passo avanti. Esso dispone le azioni degli attori nel quadro di una totalità, che egli determina, similmente all’apparecchiatura per navigare, che alla fine porta il conducente a destinazione, malgrado i suoi giri viziosi. La causa vera e propria di quanto accade, e cioè il proiettore, naturalmente non affiora nel film stesso. Non appare nella concatenazione delle cause interne al film ovvero nelle condizioni antecedenti. In realtà si tratta della vera causa di tutta la concatenazione e di tutti i suoi elementi. La creazione non è un evento nel quale noi c’imbatteremo un giorno studiando la storia del cosmo. “Creazione” definisce la relazione che sussiste fra l’intero processo cosmico e la sua origine extracosmica, cioè la volontà divina. Che le cose stiano in questo modo lo dice una antica diceria, la diceria intorno a Dio. È singolare però che gli uomini non sono mai stati assorbiti nella realtà “interna al film”, e cioè nella sfera intramondana, fino al punto da dimenticare questa diceria. Il loro bisogno di comprendere non fu soddisfatto da ciò che essi vedevano. Ludwig Wittgenstein, il padre della filosofia analitica moderna, considera una “illusione della modernità” quella per cui le leggi naturali ci spiegherebbero il mondo, mentre in realtà descrivono soltanto regolarità strutturali. Queste regolarità non hanno nulla che sia vincolante sul piano logico; esse non spiegano né se stesse né il mondo. Il fatto che si lascino formulare matematicamente, per lo scienziato naturale, ad esempio Einstein, ha sempre rappresentato un motivo di stupore e di rinvio ad una origine divina.
Tuttavia proprio il progresso della scienza fa parte delle ragioni che rimuovono la diceria intorno a Dio. Questo si connette da una parte alla rapida dilatazione della sfera del fattibile, che in noi produce il sentimento ebbro e fantastico dell’infinità, dall’altra alla rapidità con cui il mutamento delle nostre relazioni vitali cresce in modo esponenziale. In tal modo la nostra attenzione si fissa sul problema dell’adeguamento a questa realtà terrena in mutamento continuo tanto che noi non ci possiamo più permettere la domanda circa il fondamento e il senso del tutto, dunque di ciò che sta fuori dalla caverna. Questo non ha propriamente nulla a che fare con le asserzioni concrete della scienza. Le scienze, fino ad ora, non hanno formulato un solo serio argomento contro la diceria intorno a Dio, soltanto la cosiddetta visione scientifica del mondo, lo scientismo, dunque ciò che Wittgenstein ha definito come superstizione della modernità, ha tentato di fare questo. La scienza moderna è ricerca di condizioni, non si domanda che cosa è qualcosa e perché è, ma quali sono le condizioni del suo sorgere. L’essere, l’essere-se stesso tuttavia è l’emancipazione dalle condizioni della sua genesi. E l’incondizionato, dunque Dio, per definitionem non può comparire all’interno di una ricerca di condizioni intramondana, così come non appare il proiettore nel film. Questo non significa che il film prima o poi incominci a spiegare se stesso e a rendere superfluo il proiettore.
L’alternativa non può dunque suonare così: spiegabilità scientifica del mondo o fede in Dio, ma soltanto: rinuncia a comprendere il mondo, rassegnazione della ragione o fede in Dio.
O Dio c’è – oppure l’autocomprensione dell’uomo in quanto essere di ragione, vale a dire in quanto persona, è una illusione.


Il razionalismo dell’Illuminismo da lungo tempo si è abbandonato alla fede nella impotenza della ragione umana, alla fede nel fatto che noi non siamo ciò che pensiamo di essere: esseri liberi, autodeterminati. La fede cristiana non ha mai considerato l’uomo tanto libero come ha fatto l’idealismo, ma nemmeno lo considera così privo di libertà come fa oggi invece lo scientismo. Ragione, ratio significa tanto ragione quanto fondamento. La visione scientifica del mondo considera il mondo e dunque anche se stessa come priva di un fondamento. La fede in Dio è la fede in un fondamento del mondo, che non è senza fondamento, dunque irrazionale, ma “luce”, trasparente a se stessa e così suo proprio fondamento.


II.

Sono in tal modo giunto alla seconda parte di ciò che vorrei discutere, e cioè alla domanda: che cosa crede colui che crede in Dio? Egli crede, io dico, in una fondamentale razionalità della realtà. Egli crede che il bene sia più fondamentale del male. Egli crede che ciò che è inferiore debba essere compreso a partire da ciò che è superiore e non viceversa. Egli crede che il non senso presupponga il senso e che il senso non sia una variante dell’assenza di senso. Questo però significa che, contrariamente a quanto afferma David Hume, secondo il quale “We never advance one step beyond ourselves”, colui che crede in Dio crede che nell’incontro con gli altri noi abbiamo a che fare con la realtà. Nel concetto di “Dio” noi pensiamo l’unità di due predicati, che nel nostro mondo esperienziale solo qualche volta e mai in modo necessario risultano connessi l’uno all’altro: l’unità dei predicati “potente” e “buono”, l’identità del potere assoluto e del bene assoluto, l’unità di essere e senso. Questa unità non è per noi una verità analitica. Essa non si comprende da se stessa, anche se Rousseau lo ha creduto. Egli pensava che tutto il male derivasse da debolezza e che l’Onnipotente non potesse avere alcuna ragione per non esser buono. Qui non discuto di questo. In ogni caso noi dobbiamo dire che i predicati “potente” e “buono” non significano la stessa cosa, così come non significano la stessa cosa le parole “stella della sera” e “stella del mattino”. Solo successivamente gli uomini hanno scoperto che le due parole hanno lo stesso “riferimento”, e cioè significano la stessa stella, e cioè Venere. Chi crede in Dio, crede che la potenza assoluta e il bene assoluto abbiano lo stesso riferimento: la santità di Dio. Gli gnostici dei primi secoli cristiani negavano questa identità. Essi attribuivano i due predicati a due divinità, una potenza cattiva, il Deus universi, dio e creatore di questo mondo, e un dio, che è luce, che appare da lontano nell’oscurità di questo mondo. La fede in un unico Dio è la fede secondo la quale per questa luce, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, vale l’affermazione del Vangelo di Giovanni: “Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di Lui”.
Chi crede in Dio, crede che questi due incondizionati siano identici: l’incondizionato di ciò che è in quanto è, l’incondizionato della realtà fattuale, e l’incondizionato del bene. Incondizionato della realtà fattuale: “come tutte le cose stanno è Dio. Dio è come tutte le cose stanno” si legge in Wittgenstein. Contro ciò che è nel modo in cui è non si dà alcuna obiezione. “Il destino guida i ben disposti, mentre trascina con sé quanti gli si oppongono”, così recita una massima degli Stoici. “Inschallah” – “se Dio vuole”, dicono i musulmani quando svelano un proposito. E la stessa cosa aveva raccomandato l’Apostolo Giacomo, molto tempo prima. Il fedele accoglie tutto ciò che accade e che non è in grado di modificare, dalle mani di Dio e senza accusare Dio. Giobbe accusa Dio per le disgrazie piovute su di lui. I suoi amici lo vogliono convincere del fatto che Dio è giusto e che Giobbe deve ricercare in se stesso la causa delle proprie disgrazie. Giobbe non comprende questo e Dio rimprovera alla fine i suoi amici: la loro difesa di Dio è meno devota del lamento di Giobbe. Delle intenzioni di Dio essi comprendono assai poco, esattamente come Giobbe. Dio allora riduce al silenzio Giobbe non quando egli si difende, ma dicendogli: “Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza”…..Il censore vorrà ancora contendere con l’Onnipotente? …..Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua?” Questo illumina Giobbe, il quale risponde: “Ho esposto senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo….Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere”. La sottomissione incondizionata alla volontà di Dio, che si rivela in ciò che accade e in ciò che noi non possiamo modificare, è l’atteggiamento fondamentale di tutti coloro che credono in Dio.
Ma che cosa significa sottomissione a ciò che noi non possiamo in ogni caso modificare? Non è forse più dignitoso almeno rifiutarci di accettarlo? Ma a chi interessa questo, se Dio non esiste, se il destino è cieco e l’universo indifferente all’accettazione così come al rifiuto o addirittura alla protesta? Quando Giobbe protesta davanti a Dio, questo accade perchè egli pensa a Dio come ad un essere a cui appartiene il fatto di essere buono. Nella protesta si trova ancora il riconoscimento di colui al quale noi rivolgiamo la protesta. Se noi lo considerassimo indifferente al dolore del mondo, non avrebbe alcun senso protestare. Per questo i Salmi chiedono a Dio la salvezza sempre “per amore del tuo Nome”. L’idea vi che sta dietro è che Dio è per così dire responsabile di fronte a se stesso nel venire in aiuto al suo popolo. E quando Leon Bloy, il “mendicante ingrato”, scrive: “Tout ce qui arrive est adorable”, egli fa questo soltanto perché crede, contro ogni apparenza, che tutto ciò che accade ha la sua origine in una volontà infinitamente buona, vale a dire santa.
È importante sottolineare questo oggi, dove addirittura i sacerdoti, anziché invocare su di noi la benedizione del Dio onnipotente, parlano soltanto di “Dio buono”. Il discorso sulla bontà di Dio, su Dio che è amore, smarrisce il suo punto sconvolgente, se passa sotto silenzio chi è colui di cui si dice che Egli è amore, se cioè passa sotto silenzio che Egli è la Potenza che guida la nostra esistenza e il mondo. Soltanto tale Potenza, infatti, può salvarci dalla morte. L’idea di un amore assoluto, infinito, resta un’ idea puramente regolativa, se in essa non viene pensata l’unità di due assolutezze, quella infinita del fattuale, del destino, e quella infinita del bene. Quest’ultimo, il bene, non si rivela a noi, o comunque lo fa solo talvolta, in ciò che accade, ma piuttosto nella voce sommessa, anche se inesorabile, della coscienza, la voce della ragione pratica, il cui giudizio spesso sembra porci in contrasto con ciò che di fatto accade. Nessuno al mondo può costringerci a chiamare bene il male e male il bene, anche se il giudizio della coscienza non è affatto infallibile e anche se la coscienza, così come la ragione, per giudicare in modo realmente razionale, ha bisogno di formazione ed eventualmente di correzione. Chi dunque crede che il bene e l’essere, in ultima istanza e fondamentalmente, siano la stessa cosa, chi crede certamente non contro ogni ragione, ma contro l’apparenza, crede nel Dio nascosto. Il fattuale non ci è nascosto. Si trova davanti a tutti. E nemmeno il bene ci rimane nascosto. Ragione e coscienza ci consentono di conoscerlo. Ciò che ci è nascosto è l’unità di questi due assoluti, l’unità di potenza e senso, di onnipotenza e amore. È questa unità a rimanerci nascosta. Anche se resta ragionevole credere ad essa. La Croce sembra essere la sua confutazione, la Resurrezione la sua dimostrazione.
Se io dico che è ragionevole credere a questa unità, è perché noi non possiamo pensare a nessuno di questi due assoluti in modo conseguente fino alla fine senza pensare contemporaneamente ogni volta all’altro. La potenza assoluta, l’essenza di ciò che è, non sarebbe questa essenza, non sarebbe l’Assoluto, se non avesse di fronte a sé sempre un occhio silenzioso, che inesorabilmente la orienta. Se il bene non appartenesse all’essere, l’essere non sarebbe tutto, non sarebbe cioè la totalità. L’occhio che inesorabilmente dirige e che è allo stesso tempo inesorabilmente buono appartiene esso stesso all’essere, altrimenti l’essere non sarebbe tutto. Ma vale anche il contrario: se il bene fosse impotenza, allora non sarebbe il bene tout court. Poiché l’impotenza del bene non è bene. La fede nella potenza del bene è ciò che ci consente di abbandonarci attivamente alla realtà, senza dover temere che in un mondo assurdo anche ogni buona intenzione sia giudicata come una assurdità. Del resto questo è il punto centrale dello scritto di Fichte: “Über den Grund unseres Glaubens an eine göttliche Weltregierung”.
Tommaso d’Aquino ha in mente questi due assoluti, che noi pensiamo nel concetto di Dio, quando parla delle due volontà di Dio, la volontà di comando e la volontà storica, dunque di ciò che Dio vuole che noi vogliamo e di ciò che egli vuole che accada. La volontà storica ci è nascosta. Di ciò che Dio vuole che accada, noi veniamo a conoscenza soltanto quando è accaduto. Di ciò che Egli vuole che noi vogliamo, noi questo lo sappiamo in ogni momento. Si tratta della moralità, e su questo ci illuminano la ragione e la coscienza o anche i Dieci Comandamenti. Circa ciò che Dio vuole che accada, questo noi non lo sappiamo in anticipo e dunque non possiamo nemmeno cercare di volerlo e di farlo. Possiamo unicamente sottometterci a tale volere. Dobbiamo ubbidire al volere di Dio. Tommaso fa un esempio. Un uomo ha commesso un crimine. É dovere del re dare la caccia all’uomo per infliggergli la pena che merita. Dovere della moglie di questo uomo è aiutarlo quando si nasconde. Da essi Dio esige l’opposto, poiché il re deve occuparsi del bene dello Stato e la moglie invece del bene della famiglia. L’ “assoluta volontà” di Dio, la sola che si cura del bene dell’universo, si mostra alla fine nel fatto che quell’uomo alla fine venga arrestato o meno. Il re e la moglie devono accettare questo risultato umilmente come volontà di Dio. Il re non può uccidere Antigone, dal momento che essa adempie al suo dovere di sorella verso il fratello colpevole di alto tradimento e gli dà sepoltura. Antigone non può divenire una terrorista, che impedisce al re di realizzare il suo dovere. Ciò che Tommaso chiama volontà assoluta di Dio, si realizza nella storia attraverso la continua trasgressione della volontà che si esprime nei suoi comandamenti. “Oh felice colpa di Adamo”, canta la Chiesa ogni anno nella notte di Pasqua. Il Mefistofele di Goethe pensa allo stesso modo quando si definisce come “parte di quella forza, che vuole sempre il male e crea sempre il bene”. Dio viene qui rappresentato come un pittore dalla creatività infinita, sul cui dipinto che si sviluppa progressivamente un malfattore getta continuamente schizzi di colore. II pittore, però, utilizza ciascuno di questi schizzi per trasformare di continuo il dipinto, all’aggiungersi di ogni schizzo, in qualcosa di sempre più perfetto. Alla fine si dirà: il dipinto compiuto non sarebbe quello che è, senza gli sfregi del malfattore. Quello che si avrebbe sarebbe stato dunque un dipinto differente. Non dobbiamo cedere alla tentazione, scrive Tommaso, di voler cospirare con la volontà assoluta di Dio. In questo senso Gesù dice del tradimento di Giuda: “Il Figlio dell’uomo deve essere consegnato, ma guai all’uomo per il quale Egli è consegnato”. Soltanto il marxismo ha superato il dualismo tra significato storico e morale e ha derivato l’orientamento dell’agire dal senso storico che presume di aver compreso: “A noi – e cioè i rivoluzionari esecutori del senso della storia - a noi tutto è permesso”, scrive una volta Lenin, il quale, in un altro passo, chiarisce anche come nel marxismo non vi sia “nessuna grande etica”. In tal modo Lenin ha fatto emergere una implicazione decisiva dell’ateismo. Probabilmente egli aveva nell’orecchio l’espressione di Dostojewski: “Se Dio non c’è, tutto è permesso”.
Ma quale ragione abbiamo per ammettere che Egli esiste? Noi sappiamo ciò che intendiamo quando diciamo “Dio”: un Assoluto, che ha in sé stesso il suo fondamento, perché Egli è ciò che ha senso per eccellenza, ciò che basta a se stesso. La dottrina cristiana della Trinità traduce compiutamente questo concetto di Dio, quando essa lo pensa come amore onnipotente, e certo come amore in se stesso, cosicchè non occorre alcun mondo e alcun uomo per realizzare la sua essenza. Dio non è mai solo. In questo caso infatti Egli sarebbe soltanto una parte della realtà, meno dunque di Dio e mondo insieme. La creazione del mondo sarebbe la rimozione di una mancanza e non il libero atto dell’amore. Dio è in se stesso amore, il che significa: Egli è riflesso in se stesso, Egli ha in sè una immagine adeguata di se stesso, ha il Logos come qualcosa di vivente che gli sta’ di fronte, e la sua processione nel Logos, il “Figlio”, avviene in un donarsi, che di nuovo è Dio stesso, il santo Pneuma o, come diciamo noi occidentali, nello Spirito Santo. I misteri del Cristianesimo sono l’imprevisto adempimento di ciò che nel concetto di Dio viene anticipato dalla ragione.

III.

Rimane tuttavia questa domanda: abbiamo un motivo per accettare che alla diceria intorno a Dio, dunque a ciò che noi pensiamo quando diciamo “Dio”, corrisponda qualcosa nella realtà? Noi abbiamo, come dice Kant, un “ideale senza difetti” di questo Essere supremo, un “concetto che suggella e incorona l’intera esperienza umana”. Tuttavia quale ragione abbiamo per credere che a questo concetto, come dice di nuovo Kant, corrisponda una “realtà oggettiva”? Quale ragione abbiamo per credere che il nostro grazie per un mattino splendente o per un amore fortunato abbia un destinatario e che i lamenti degli infelici non rimangano senza eco in un universo indifferente? “Nessuno ha visto Dio”, scrive l’Apostolo Giovanni. La domanda è: l’autore del film al quale noi partecipiamo, ha lasciato la sua firma più o meno celatamente, così da poter essere trovata, se lo si vuole?
La facoltà che ci consente di ricercare Dio è la ragione. Non la ragione strumentale, che, come dice Nietzsche, ci rende “animali ingegnosi”, ma la capacità con la quale l’uomo oltrepassa se stesso e il proprio ambiente e può porsi in relazione con una realtà che lo trascende. La facoltà, mediante la quale possiamo sapere che in quel punticino che in cielo si tira dietro una scia di condensazione, che non ha alcun significato nel nostro contesto vitale, siedono uomini per i quali al contrario siamo noi qui sotto a non giocare nessun ruolo. Credere che Dio esista, significa che Egli non è una nostra idea, ma che noi siamo un sua idea. Significa dunque “rovesciamento” della prospettiva, conversione. Se Dio esiste, allora questa è la cosa più importante, più importante del fatto che noi siamo.
Esiste una grande storia dello sforzo degli uomini di puntellare la loro convinzione circa l’esistenza di Dio attraverso la ricerca razionale di tracce, per rafforzare e giustificare la loro certezza intuitiva mediante motivi razionali. Paolo definisce “ubbidienza ragionevole” la fede che egli predica. Il fatto che le prove dell’esistenza di Dio siano tutte quante particolarmente controverse, dunque non dice molto. Se dalle dimostrazioni nella matematica dipendesse una decisione radicale circa l’orientamento della nostra vita, allora anche queste dimostrazioni sarebbero controverse. Le loro premesse logiche verrebbero messe in discussione. Anche le tradizionali prove dell’esistenza di Dio da Agostino a Cartesio, Leibniz ed Hegel hanno premesse che essi presuppongono come riconosciute. Tutte le dimostrazioni, così scrive una volta Leibniz, sono in questo senso argumenta ad hominem. Kant e Nietzsche hanno tuttavia contestato questo presupposto. Qual è questo presupposto? Che cosa dobbiamo presupporre come riconosciuto per trovare convincenti le classiche prove dell’esistenza di Dio? Qui accenno soltanto alla prova dell’esistenza di Dio che in tutti i tempi è stata la più diffusa a livello popolare.
Essa prende le mosse dall’esistenza indubitabile di processi orientati ad un fine, dunque da quei processi che noi possiamo comprendere soltanto a partire da una conclusione, come ad esempio il volo degli uccelli verso Sud, che noi possiamo comprendere soltanto quando sappiamo che gli uccelli laggiù trovano nutrimento. Gli uccelli tuttavia non sanno questo. Dunque, così suona la conclusione, deve esserci una coscienza creatrice che sta alla base di questi processi. Mi soffermo per un momento su questo argomento, perché esso gioca un ruolo importante nel dibattito fra i teorici del cosiddeto “Intelligent-design” e i darwinisti circa l’interpretazione dell’evoluzione della vita e delle forme del vivente.
In primo luogo si deve dire che la visione evoluzionista dell’Universo favorisce la fede in Dio. Aristotele considera l’universo, insieme a tutte le forme naturali del vivente, come eterno. Certo è Dio che mantiene questo universo in movimento, ma non è che ha incominciato a farlo in un certo tempo. Tommaso d’Aquino pensava, all’opposto del suo contemporaneo Bonaventura, che mentre la creazione del mondo è certamente dimostrabile, non lo è invece il suo inizio temporale, del quale noi siamo a conoscenza soltanto grazie alla Rivelazione.
Essendo noi oggi a conoscenza di una storia della natura, la domanda circa l’origine si pone in modo più urgente di prima, perché essa ora assume la forma della domanda circa l’inizio. Dover pensare ad una origine improvvisa, senza fondamento di un mondo dal nulla contiene una pretesa nei confronti della ragione, che pone in ombra ogni altra pretesa. Ma lo stesso vale per la pretesa di pensare ad una origine involontaria della vita, dell’istinto, della interiorità e dell’autocoscienza come risultati di processi materiali, come risultati di mutazioni casuali e della selezione di ciò che è utile alla sopravvivenza. Tali processi non possono spiegare come si giunga ad una “tendenza”, che sperimentiamo in noi stessi e che dobbiamo almeno attribuire a tutti gli esseri viventi superiori. Come mai il dolore e il piacere, come mai la negatività in un mondo di pura fatticità? Parole come “folgorazione” o “emergenza” nascondono soltanto il fatto che noi non abbiamo la più pallida idea di come una cosa come l’interiorità possa scaturire da un mondo di puri oggetti. Il segno meno nella matematica è altrettanto positivo del segno più. Tuttavia il suo significato è differente; è cioè il salto in una dimensione totalmente differente. Da più per più viene sempre e soltanto più. Il meno non si può mai costruire dal più. Invece senz’altro il più dal meno, perché meno per più dà come risultato meno, esattamente come più per meno. Con la vita emerge però qualcosa come un significato nel mondo. Con essa emerge qualcosa come il vero e il falso. Corpi puramente materiali non possono avere a che fare con qualcosa come un errore. Ogni vivente invece lo può.
Questo non significa che la visione darwinistica dell’ evoluzione abbia in se stessa delle falle già al suo proprio livello, sebbene anche questo oggi appaia sempre più verosimile. Significa soltanto che all’interno di questa teoria viene escluso in linea di principio qualcosa di nuovo. Semplicemente non viene percepito. Allo stesso modo, nell’osservazione di processi vitali, il fisico non verifica nessuna violazione delle leggi fisiche, ma, in linea di principio, non può percepire ciò che è specifico del vivente, né il sorgere dell’interiorità.
Vorrei chiarire ciò che penso attraverso la seguente ulteriore analogia. É noto che Bach nelle sue composizioni ha attribuito occasionalmente all’immagine della nota un significato simbolico, ad esempio un simbolismo della croce. Bach ha cifrato anche piccoli testi verbali nelle sue composizioni. Il più noto è il tema della fuga: B-A-C-H. Meno noto è un procedimento di cifratura assai avanzato per il quale i valori delle note vengono trasformati in valori numerici e questi di nuovo in significati alfabetici. Recenti ricerche di storia della musica sono approdate a questo: vi sono pubblicazioni contemporanee che descrivono con precisione il procedimento di una tale cifratura, allora chiamato “Gemartia” e che devono molto alla Cabbala. Se noi analizziamo le sonate per violino in sol minore, in la bemolle e in do maggiore, ma soprattutto la sonata in sol minore sulla base di questo metodo e delle sue regole di trasformazione, allora improvvisamente ci si fa incontro questo testo dei Rosacroce: “Ex Deo nascimur, in Christo morimur, per Spiritum Sanctum reviviscimus” (“Da Dio nasciamo, in Cristo moriamo, attraverso lo Spirito Santo riviviamo”). La sonata è conosciuta e apprezzata da secoli. Essa può essere analizzata e interpretata in modo puramente musicale, e questa interpretazione è del tutto legittima. Tuttavia chi, guidato dalla diceria di Dio, si accosta ad essa con un’altra chiave di decodificazione, questi scopre improvvisamente il suddetto testo. Si tratta dunque chiaramente di un doppio codice che ci consente di vedere una forza creatrice quasi divina di Bach. L’idea che questo testo cifrato emerga per così dire come epifenomeno della composizione di un musicista, è così assurda che nessuno potrebbe pensare di sostenere una tale tesi.
Ma non meno assurda è l’idea che il mondo di significato e di senso, che emerge con la vita, possa essere inteso come epifenomeno di un processo governato da fattori che non abbiano nulla a che fare con questo mondo e che siano ciechi e indifferenti ad esso. Questa doppia codificazione è evidente, e chiudere gli occhi di fronte a questo dualismo presuppone una decisione dogmatica, nella quale un apprezzato teorico della coscienza di orientamento materialista come Daniel Dennet si riconosce apertamente. Dennet scrive che egli non si lascerà mai convincere da un argomento che prenda in considerazione una ipotesi non materialistica.
Le obiezioni scientifiche contro l’interpretazione standard della macro-evoluzione sono sempre più rilevanti e hanno raggiunto nel frattempo anche le pagine di santuari scientifici come “Nature” e “Science”. La loro debolezza strategica consiste unicamente nel fatto che esse non possono presentare nessuna teoria “migliore”, vale a dire più produttiva, secondo gli standard scientifici. E la storia della scienza mostra che di regola le teorie vengono cacciate soltanto da teorie migliori, non attraverso la pura individuazione dei loro punti deboli, e nemmeno da confutazioni. Il ricorso ad un “proiettore” divino fin da principio non viene accettato come spiegazione, perché implica il ricorso a qualcosa di non osservabile e non ricostruibile.

IV.

Ritorniamo agli argomenti intorno all’esistenza di Dio. Il primo grande colpo contro di essi fu portato da Kant con la sua tesi che la nostra ragione teoretica e i suoi strumenti costitutivi, le categorie, sono adatti soltanto a ordinare la nostra esperienza. E in questo quadro anche l’idea di Dio ha una funzione sistematizzante. Tuttavia per la ragione teoretica vale anche la proposizione di Hume: “We never do one step beyond ourselves”. La ragione non ci consente di dire qualcosa circa la realtà stessa e dunque neanche qualcosa intorno a Dio, nella misura in cui Egli sia qualcosa di più di una idea. Soltanto la ragion pratica, soltanto l’esperienza cosciente spinge, anzi ci obbliga ad assumere l’ipotesi dell’esistenza di un Essere, che riesca a tener insieme i due assoluti, quello dell’essere e quello del bene, e garantisca che il corso del mondo non conduca la volontà buona all’assurdo. “Ho dovuto delimitare il sapere, per creare un posto per la fede”, scrive Kant. È Nietzsche però ad aver portato il colpo decisivo, quando ha posto in questione in linea di principio un presupposto accettato in tutte le dimostrazioni tradizionali del’esistenza di Dio, il presupposto della intelleggibilità del mondo. Il filosofo francese Michel Foucault ha formulato nel modo più conciso quello che per la prima volta aveva pensato Nietzsche: “Non possiamo pensare che il mondo ci offra un volto leggibile”. Ciò che Nietzsche poneva in questione in linea di principio, era la capacità di verità della ragione e in tal modo l’idea di qualcosa come la verità in generale. Questa idea ha infatti secondo lui un presupposto teologico, il presupposto che Dio esiste. Soltanto se Dio esiste, si dà qualcosa di diverso da immagini soggettive del mondo, qualcosa come “cose in sé” delle quali aveva parlato ancora Kant. Le cose sono come Dio le vede. Se non esiste uno sguardo di Dio, non si dà nessuna verità al di là delle nostre prospettive soggettive. Nietzsche parla della fede di Platone, che è anche la fede dei cristiani, la fede che Dio sia la verità, e che la verità sia divina. Le prove dell’esistenza di Dio dunque soffrono tutte di ciò che i logici chiamano una petitio principii. Queste prove presuppongono esattamente ciò che vogliono dimostrare: Dio. È giusto questo? Si e no.
Da un punto di vista teorico non lo è. E’ vero che Tommaso d’Aquino, nelle sue “cinque vie”, non presuppone mai espressamente una qualsiasi tesi sulla struttura logica del mondo e sulla capacità di verità della ragione. La presuppone però tacitamente. Il fatto che questo presupposto alla fine abbia il suo fondamento in Dio è per lui ontologicamente chiaro, ma questo non giunge ad una riflessione gnoseologica. Laddove si tratta della validità dei principi primi del nostro pensiero funzionale alla verità, egli argomenta semplicemente come Aristotele con la reductio ad absurdum della posizione contraria. Colui che nega la capacità di verità della ragione, o che nega la validità del principio di contraddizione, questi semplicemente non può più dire nulla. Anzi addirittura la tesi per cui non esiste la verità, se non altro presuppone che questa tesi sia vera. Diversamente noi approdiamo all’assurdo. Tuttavia qui Nietzsche solleva questa obiezione: chi ci dice che non viviamo nell’assurdo? Senza dubbio tutti noi ci aggrovigliamo in contraddizioni, ma è così e basta. La disperazione della ragione verso se stessa non si può articolare a sua volta in una forma logicamente consistente. Dobbiamo imparare a vivere senza verità. Una volta compiuta la sua opera, l’Illuminismo è costretto a sopprimere se stesso, dal momento che, così scrive Nietzsche, “anche noi illuministi, noi spiriti liberi del XIX secolo viviamo ancora della fede dei cristiani, la fede che era anche di Platone, secondo la quale Dio è la verità, e la verità è divina”.
Una volta che l’Illuminismo ha soppresso se stesso, il risultato è il nichilismo. Secondo la visione di Nietzsche, però, questo libera lo spazio necessario per un nuovo mito. Ma naturalmente neanche questo in fondo si può dire, dal momento che in generale non si può dire nulla di vero. La vera questione è soltanto con quale menzogna si viva meglio. E’ nota la storiella della scritta sul muro: “Dio è morto. Firmato: Nietzsche”, sotto la quale qualcuno ha scritto: “Nietzsche è morto. Firmato: Dio”.
Ma qualcosa di Nietzsche rimane. Ciò che rimane è la lotta contro il banale nichilismo della società del divertimento, è la coscienza puntuale e disperata di che cosa significa che Dio non esiste. E ciò che teoreticamente rimane è la comprensione della relazione interna e indivisibile della fede nell’esistenza di Dio con l’idea della verità e della capacità di verità e pertanto con la personalità dell’uomo. Queste due convinzioni si condizionano a vicenda. Una volta che è apparsa l’idea di vivere nell’assurdo, allora la reductio ad absurdum puramente gnoseologica non è più una confutazione. Non possiamo più addurre prove circa l’esistenza di Dio sul fondamento sicuro della capacità di verità dell’uomo, poiché questo fondamento è sicuro soltanto a partire dal presupposto dell’esistenza di Dio. Noi possiamo avere contemporaneamente soltanto entrambe le cose. Non sappiamo chi siamo prima di sapere chi è Dio; tuttavia non possiamo sapere qualcosa di Dio, se non vogliamo percepire quella traccia di Dio che noi stessi siamo, noi in quanto persone, in quanto esseri finiti, ma liberi e capaci di verità. Il neopragmatista americano Richard Rorty ha scritto, in perfetta sintonia con Nietzsche: “Un fine superiore di ricerca nel nome della verità potrebbe aversi soltanto se vi fosse qualcosa come una giustificazione ultima ….una giustificazione di fronte a Dio”.
La traccia di Dio nel mondo, da cui oggi dobbiamo prendere le mosse, è l’uomo, siamo noi stessi. Tuttavia questa traccia ha la peculiarità di coincidere con il suo scopritore, e dunque di non esistere indipendentemente da lui. Quando noi, vittime dello scientismo, non crediamo più in noi stessi, chi e che cosa siamo, quando ci lasciamo persuadere di essere soltanto macchine per la diffusione dei nostri geni, quando consideriamo la nostra ragione soltanto come prodotto di un adattamento evolutivo, che non ha nulla a che fare con la verità, e quando l’autocontradditorietà di questa affermazione non ci sgomenta, allora non possiamo attendere che qualcosa ci possa convincere dell’esistenza di Dio. Come ho già detto, infatti, questa traccia di Dio che siamo noi stessi non esiste senza che noi lo vogliamo, anche se – grazie a Dio – Dio esiste del tutto indipendentemente dal fatto che noi lo riconosciamo, che sappiamo di Lui o Lo ringraziamo. Ciò che possiamo cancellare è solo noi stessi.


Il concetto della somiglianza dell’uomo con Dio, spesso utilizzato solo come una metafora edificante, assume oggi un preciso e inatteso significato. Somiglianza con Dio significa capacità di verità. Laddove l’amore non è altro che la verità realizzata. L’amore si può definire come il divenire reale dell’altro per me. Nessun concetto per il messaggio neotestamentario ha un significato così centrale come il concetto di verità. “Per questo sono nato e sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità”, risponde Cristo alla domanda di Pilato se Egli sia un re. Questa risposta sta fino ad oggi accanto alla domanda di Pilato: “Che cos’è la verità?”
La personalità dell’uomo sta e coincide con la sua capacità di verità. Questo viene oggi posto in questione da biologi, teorici dell’evoluzione e delle neuroscienze. Non posso entrare nella discussione che si è sviluppata al riguardo. Vorrei soltanto dire che ogni visione puramente spiritualistica dell’uomo viene oggi inglobata dal naturalismo. Per il naturalismo tuttavia la conoscenza non è ciò che essa stessa considera di essere. La conoscenza non ci illumina su ciò che è, ma consiste in adattamenti all’ambiente finalizzati alla sopravvivenza. Tuttavia come possiamo sapere questo, se non possiamo sapere nulla? Il fatto che l’uomo sia completamente natura, un essere naturale uscito fuori dalla vita subumana, può non essere letale per l’autocomprensione dell’uomo solo a condizione che la natura, per parte sua, sia stata creata da Dio e la creazione dell’uomo corrisponda ad una intenzione divina. Per questo non è necessario che il processo evolutivo, che io con Darwin preferisco definire come processo di discendenza, venga inteso come processo teleologico, vale a dire che in esso il generatore del nuovo non sia il caso. Ciò che è il caso visto dal punto di vista della scienza naturale, può essere intenzione divina tanto quanto ciò che è riconoscibile per noi come processo orientato verso un fine. Dio agisce tanto attraverso il caso quanto attraverso leggi naturali. Se i biologi parlano di “folgorazione” e di “emergenza” per esorcizzare con le parole l’inesplicabile, credere in Dio significa allora avere un nome per questa irruzione del nuovo, un nome che, in fondo, non riduca il nuovo soltanto all’antico, il nome “creazione”. La capacità di verità si può comprendere soltanto come creazione.
Vorrei chiarire ciò che penso, il fatto cioè che la verità presuppone Dio, con un ultimo esempio, una dimostrazione di Dio che sia, per così dire, Nietzsche-resistente, una dimostrazione di Dio a partire dalla grammatica, più esattamente dal cosiddetto Futurum exactum (il futuro anteriore). Il Futurum exactum, il secondo futuro è per noi necessariamente connesso al presente. Dire di qualcosa che è adesso, equivale a dire nel futuro che quella cosa è stata. In questo senso ogni verità è eterna. Il fatto che il 10 dicembre 2009 numerose persone siano riunite a Roma per una conferenza di Robert Spaemann su “Razionalità e fede in Dio” non è vero solo oggi, ma è vero per sempre. Se noi oggi siamo qui, noi domani saremo stati qui. Come passato, come essere stato del futuro presente, il presente rimane sempre reale, sempre passato reale. Tuttavia di che tipo è questa realtà? Si potrebbe dire: come visibilità nelle tracce che essa lascia con la sua azione causale. Tuttavia queste tracce si diradano sempre di più. E restano tracce fintantoché ciò che le ha lasciate, viene esso stesso ricordato.
Fintantochè il passato viene ricordato, non è difficile rispondere alla domanda sul genere del suo essere. Ha la sua realtà appunto nell’essere ricordato. Tuttavia il ricordo prima o poi svanisce. E prima o poi nessun uomo ci sarà più sulla terra. Alla fine perfino la terra scomparirà. Poiché al passato appartiene sempre un presente, del quale il passato è passato, dovremmo dunque dire che con il presente che ricordiamo scompare anche il passato, e il futuro anteriore perde il suo significato. Tuttavia è proprio questo che non possiamo pensare. La proposizione “nel futuro più lontano non sarà più vero che noi questa sera eravamo riuniti qui” è insensata. Non si lascia pensare. Se noi un giorno non saremo più stati, allora noi di fatto non siamo reali neanche adesso, così come il Buddismo afferma in modo consequenziale. Se la realtà presente un giorno non sarà più stata presente, allora essa non è affatto reale. Chi elimina il futuro anteriore elimina il presente.
Tuttavia, ancora una volta: di quale tipo è questa realtà del passato, l’eterno essere vera di ogni verità? L’unica risposta suona così: siamo costretti a pensare una coscienza che custodisce tutto ciò che accade, una coscienza assoluta. Nessuna parola pronunciata un giorno sarà un giorno non pronunciata, nessun dolore non sofferto, nessuna gioia non vissuta. Il passato può diradare, ma non si può fare in modo che non sia stato. Se la realtà esiste, allora il futuro anteriore è inevitabile e con esso il postulato del Dio reale.
“Io temo”, così scrive Nietzsche, “che non ci libereremo di Dio finchè continuiamo a credere alla grammatica”. Il problema è che non possiamo fare a meno di credere alla grammatica. Anche Nietzsche ha potuto scrivere quello che scrisse soltanto perché ha affidato alla grammatica ciò che ha voluto dire.

martedì 15 dicembre 2009

Pace & creato

Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale della Pace 2010

"Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato"

* * *

1. IN OCCASIONE DELL’INIZIO DEL NUOVO ANNO, desidero rivolgere i più fervidi auguri di pace a tutte le comunità cristiane, ai responsabili delle Nazioni, agli uomini e alle donne di buona volontà del mondo intero. Per questa XLIII Giornata Mondiale della Pace ho scelto il tema: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. Il rispetto del creato riveste grande rilevanza, anche perché « la creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio»1 e la sua salvaguardia diventa oggi essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità. Se, infatti, a causa della crudeltà dell’uomo sull’uomo, numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull’autentico sviluppo umano integrale – guerre, conflitti internazionali e regionali, atti terroristici e violazioni dei diritti umani –, non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza – se non addirittura dall’abuso – nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito. Per tale motivo è indispensabile che l’umanità rinnovi e rafforzi « quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino».2

2. Nell’ Enciclica Caritas in veritate ho posto in evidenza che lo sviluppo umano integrale è strettamente collegato ai doveri derivanti dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti, il cui uso comporta una comune responsabilità verso l’umanità intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future. Ho notato, inoltre, che quando la natura e, in primo luogo, l’essere umano vengono considerati semplicemente frutto del caso o del determinismo evolutivo, rischia di attenuarsi nelle coscienze la consapevolezza della responsabilità.3 Ritenere, invece, il creato come dono di Dio all’umanità ci aiuta a comprendere la vocazione e il valore dell’uomo. Con il Salmista, pieni di stupore, possiamo infatti proclamare: « Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? » (Sal 8,4-5). Contemplare la bellezza del creato è stimolo a riconoscere l’amore del Creatore, quell’Amore che « move il sole e l’altre stelle».4

3. Vent’anni or sono, il Papa Giovanni Paolo II, dedicando il Messaggio della Giornata Mondiale della Pace al tema Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato, richiamava l’attenzione sulla relazione che noi, in quanto creature di Dio, abbiamo con l’universo che ci circonda. « Si avverte ai nostri giorni – scriveva – la crescente consapevolezza che la pace mondiale sia minacciata... anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura ». E aggiungeva che la coscienza ecologica « non deve essere mortificata, ma anzi favorita, in modo che si sviluppi e maturi, trovando adeguata espressione in programmi ed iniziative concrete».5 Già altri miei Predecessori avevano fatto riferimento alla relazione esistente tra l’uomo e l’ambiente. Ad esempio, nel 1971, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, Paolo VI ebbe a sottolineare che « attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, (l’uomo) rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione ». Ed aggiunse che in tal caso « non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile: problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana".6

4. Pur evitando di entrare nel merito di specifiche soluzioni tecniche, la Chiesa, « esperta in umanità », si premura di richiamare con forza l’attenzione sulla relazione tra il Creatore, l’essere umano e il creato. Nel 1990, Giovanni Paolo II parlava di « crisi ecologica » e, rilevando come questa avesse un carattere prevalentemente etico, indicava l’« urgente necessità morale di una nuova solidarietà».7 Questo appello si fa ancora più pressante oggi, di fronte alle crescenti manifestazioni di una crisi che sarebbe irresponsabile non prendere in seria considerazione. Come rimanere indifferenti di fronte alle problematiche che derivano da fenomeni quali i cambiamenti climatici, la desertificazione, il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole, l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità, l’aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali? Come trascurare il crescente fenomeno dei cosiddetti « profughi ambientali »: persone che, a causa del degrado dell’ambiente in cui vivono, lo devono lasciare – spesso insieme ai loro beni – per affrontare i pericoli e le incognite di uno spostamento forzato? Come non reagire di fronte ai conflitti già in atto e a quelli potenziali legati all’accesso alle risorse naturali? Sono tutte questioni che hanno un profondo impatto sull’esercizio dei diritti umani, come ad esempio il diritto alla vita, all’alimentazione, alla salute, allo sviluppo.

5. Va, tuttavia, considerato che la crisi ecologica non può essere valutata separatamente dalle questioni ad essa collegate, essendo fortemente connessa al concetto stesso di sviluppo e alla visione dell’uomo e delle sue relazioni con i suoi simili e con il creato. Saggio è, pertanto, operare una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, nonché riflettere sul senso dell’economia e dei suoi fini, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo richiede anche e soprattutto la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi sono da tempo evidenti in ogni parte del mondo.8 L’umanità ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale; ha bisogno di riscoprire quei valori che costituiscono il solido fondamento su cui costruire un futuro migliore per tutti. Le situazioni di crisi, che attualmente sta attraversando – siano esse di carattere economico, alimentare, ambientale o sociale –, sono, in fondo, anche crisi morali collegate tra di loro. Esse obbligano a riprogettare il comune cammino degli uomini. Obbligano, in particolare, a un modo di vivere improntato alla sobrietà e alla solidarietà, con nuove regole e forme di impegno, puntando con fiducia e coraggio sulle esperienze positive compiute e rigettando con decisione quelle negative. Solo così l’attuale crisi diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità.

6. Non è forse vero che all’origine di quella che, in senso cosmico, chiamiamo « natura », vi è « un disegno di amore e di verità »? Il mondo « non è il prodotto di una qualsivoglia necessità, di un destino cieco o del caso... Il mondo trae origine dalla libera volontà di Dio, il quale ha voluto far partecipare le creature al suo essere, alla sua saggezza e alla sua bontà».9 Il Libro della Genesi, nelle sue pagine iniziali, ci riporta al progetto sapiente del cosmo, frutto del pensiero di Dio, al cui vertice si collocano l’uomo e la donna, creati ad immagine e somiglianza del Creatore per « riempire la terra » e « dominarla » come « amministratori » di Dio stesso (cfr Gen 1,28). L’armonia tra il Creatore, l’umanità e il creato, che la Sacra Scrittura descrive, è stata infranta dal peccato di Adamo ed Eva, dell’uomo e della donna, che hanno bramato occupare il posto di Dio, rifiutando di riconoscersi come sue creature. La conseguenza è che si è distorto anche il compito di « dominare » la terra, di « coltivarla e custodirla » e tra loro e il resto della creazione è nato un conflitto (cfr Gen 3,17-19). L’essere umano si è lasciato dominare dall’egoismo, perdendo il senso del mandato di Dio, e nella relazione con il creato si è comportato come sfruttatore, volendo esercitare su di esso un dominio assoluto. Ma il vero significato del comando iniziale di Dio, ben evidenziato nel Libro della Genesi, non consisteva in un semplice conferimento di autorità, bensì piuttosto in una chiamata alla responsabilità. Del resto, la saggezza degli antichi riconosceva che la natura è a nostra disposizione non come « un mucchio di rifiuti sparsi a caso»,10 mentre la Rivelazione biblica ci ha fatto comprendere che la natura è dono del Creatore, il quale ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo possa trarne gli orientamenti doverosi per « custodirla e coltivarla » (cfr Gen 2,15).11 Tutto ciò che esiste appartiene a Dio, che lo ha affidato agli uomini, ma non perché ne dispongano arbitrariamente. E quando l’uomo, invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio, a Dio si sostituisce, finisce col provocare la ribellione della natura, « piuttosto tiranneggiata che governata da lui».12 L’uomo, quindi, ha il dovere di esercitare un governo responsabile della creazione, custodendola e coltivandola.13

7. Purtroppo, si deve constatare che una moltitudine di persone, in diversi Paesi e regioni del pianeta, sperimenta crescenti difficoltà a causa della negligenza o del rifiuto, da parte di tanti, di esercitare un governo responsabile sull’ambiente. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ricordato che « Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli».14 L’eredità del creato appartiene, pertanto, all’intera umanità. Invece, l’attuale ritmo di sfruttamento mette seriamente in pericolo la disponibilità di alcune risorse naturali non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future.15 Non è difficile allora costatare che il degrado ambientale è spesso il risultato della mancanza di progetti politici lungimiranti o del perseguimento di miopi interessi economici, che si trasformano, purtroppo, in una seria minaccia per il creato. Per contrastare tale fenomeno, sulla base del fatto che « ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale »,16 è anche necessario che l’attività economica rispetti maggiormente l’ambiente. Quando ci si avvale delle risorse naturali, occorre preoccuparsi della loro salvaguardia, prevedendone anche i costi – in termini ambientali e sociali –, da valutare come una voce essenziale degli stessi costi dell’attività economica. Compete alla comunità internazionale e ai governi nazionali dare i giusti segnali per contrastare in modo efficace quelle modalità d’utilizzo dell’ambiente che risultino ad esso dannose. Per proteggere l’ambiente, per tutelare le risorse e il clima occorre, da una parte, agire nel rispetto di norme ben definite anche dal punto di vista giuridico ed economico, e, dall’altra, tenere conto della solidarietà dovuta a quanti abitano le regioni più povere della terra e alle future generazioni.

8. Sembra infatti urgente la conquista di una leale solidarietà inter-generazionale. I costi derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni non possono essere a carico delle generazioni future: « Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi verso tutti e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi ad ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, ch’è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere. Si tratta di una responsabilità che le generazioni presenti hanno nei confronti di quelle future, una responsabilità che appartiene anche ai singoli Stati e alla Comunità internazionale».17 L’uso delle risorse naturali dovrebbe essere tale che i vantaggi immediati non comportino conseguenze negative per gli esseri viventi, umani e non umani, presenti e a venire; che la tutela della proprietà privata non ostacoli la destinazione universale dei beni;18 che l’intervento dell’uomo non comprometta la fecondità della terra, per il bene di oggi e per il bene di domani. Oltre ad una leale solidarietà inter-generazionale, va ribadita l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà intra-generazionale, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e quelli altamente industrializzati: « la comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro».19 La crisi ecologica mostra l’urgenza di una solidarietà che si proietti nello spazio e nel tempo. È infatti importante riconoscere, fra le cause dell’attuale crisi ecologica, la responsabilità storica dei Paesi industrializzati. I Paesi meno sviluppati e, in particolare, quelli emergenti, non sono tuttavia esonerati dalla propria responsabilità rispetto al creato, perché il dovere di adottare gradualmente misure e politiche ambientali efficaci appartiene a tutti. Ciò potrebbe realizzarsi più facilmente se vi fossero calcoli meno interessati nell’assistenza, nel trasferimento delle conoscenze e delle tecnologie più pulite.

9. È indubbio che uno dei principali nodi da affrontare, da parte della comunità internazionale, è quello delle risorse energetiche, individuando strategie condivise e sostenibili per soddisfare i bisogni di energia della presente generazione e di quelle future. A tale scopo, è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti improntati alla sobrietà, diminuendo il proprio fabbisogno di energia e migliorando le condizioni del suo utilizzo. Al tempo stesso, occorre promuovere la ricerca e l’applicazione di energie di minore impatto ambientale e la « ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi».20 La crisi ecologica, dunque, offre una storica opportunità per elaborare una risposta collettiva volta a convertire il modello di sviluppo globale in una direzione più rispettosa nei confronti del creato e di uno sviluppo umano integrale, ispirato ai valori propri della carità nella verità. Auspico, pertanto, l’adozione di un modello di sviluppo fondato sulla centralità dell’essere umano, sulla promozione e condivisione del bene comune, sulla responsabilità, sulla consapevolezza del necessario cambiamento degli stili di vita e sulla prudenza, virtù che indica gli atti da compiere oggi, in previsione di ciò che può accadere domani.21

10. Per guidare l’umanità verso una gestione complessivamente sostenibile dell’ambiente e delle risorse del pianeta, l’uomo è chiamato a impiegare la sua intelligenza nel campo della ricerca scientifica e tecnologica e nell’applicazione delle scoperte che da questa derivano. La « nuova solidarietà », che Giovanni Paolo II propose nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1990,2 2 e la « solidarietà globale », che io stesso ho richiamato nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2009,23 risultano essere atteggiamenti essenziali per orientare l’impegno di tutela del creato, attraverso un sistema di gestione delle risorse della terra meglio coordinato a livello internazionale, soprattutto nel momento in cui va emergendo, in maniera sempre più evidente, la forte interrelazione che esiste tra la lotta al degrado ambientale e la promozione dello sviluppo umano integrale. Si tratta di una dinamica imprescindibile, in quanto « lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità».24 Tante sono oggi le opportunità scientifiche e i potenziali percorsi innovativi, grazie ai quali è possibile fornire soluzioni soddisfacenti ed armoniose alla relazione tra l’uomo e l’ambiente. Ad esempio, occorre incoraggiare le ricerche volte ad individuare le modalità più efficaci per sfruttare la grande potenzialità dell’energia solare. Altrettanta attenzione va poi rivolta alla questione ormai planetaria dell’acqua ed al sistema idrogeologico globale, il cui ciclo riveste una primaria importanza per la vita sulla terra e la cui stabilità rischia di essere fortemente minacciata dai cambiamenti climatici. Vanno altresì esplorate appropriate strategie di sviluppo rurale incentrate sui piccoli coltivatori e sulle loro famiglie, come pure occorre approntare idonee politiche per la gestione delle foreste, per lo smaltimento dei rifiuti, per la valorizzazione delle sinergie esistenti tra il contrasto ai cambiamenti climatici e la lotta alla povertà. Occorrono politiche nazionali ambiziose, completate da un necessario impegno internazionale che apporterà importanti benefici soprattutto nel medio e lungo termine. È necessario, insomma, uscire dalla logica del mero consumo per promuovere forme di produzione agricola e industriale rispettose dell’ordine della creazione e soddisfacenti per i bisogni primari di tutti. La questione ecologica non va affrontata solo per le agghiaccianti prospettive che il degrado ambientale profila all’orizzonte; a motivarla deve essere soprattutto la ricerca di un’autentica solidarietà a dimensione mondiale, ispirata dai valori della carità, della giustizia e del bene comune. D’altronde, come ho già avuto modo di ricordare, « la tecnica non è mai solo tecnica. Essa manifesta l’uomo e le sue aspirazioni allo sviluppo; esprime la tensione dell’animo umano al graduale superamento di certi condizionamenti materiali. La tecnica, pertanto, si inserisce nel mandato di «coltivare e custodire la terra» (cfr Gen 2,15), che Dio ha affidato all’uomo, e va orientata a rafforzare quell’alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio».25

11. Appare sempre più chiaramente che il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi, gli stili di vita e i modelli di consumo e di produzione attualmente dominanti, spesso insostenibili dal punto di vista sociale, ambientale e finanche economico. Si rende ormai indispensabile un effettivo cambiamento di mentalità che induca tutti ad adottare nuovi stili di vita « nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti».26 Sempre più si deve educare a costruire la pace a partire dalle scelte di ampio raggio a livello personale, familiare, comunitario e politico. Tutti siamo responsabili della protezione e della cura del creato. Tale responsabilità non conosce frontiere. Secondo il principio di sussidiarietà, è importante che ciascuno si impegni al livello che gli corrisponde, operando affinché venga superata la prevalenza degli interessi particolari. Un ruolo di sensibilizzazione e di formazione spetta in particolare ai vari soggetti della società civile e alle Organizzazioni non-governative, che si prodigano con determinazione e generosità per la diffusione di una responsabilità ecologica, che dovrebbe essere sempre più ancorata al rispetto dell’ « ecologia umana ». Occorre, inoltre, richiamare la responsabilità dei media in tale ambito, proponendo modelli positivi a cui ispirarsi. Occuparsi dell’ambiente richiede, cioè, una visione larga e globale del mondo; uno sforzo comune e responsabile per passare da una logica centrata sull’egoistico interesse nazionalistico ad una visione che abbracci sempre le necessità di tutti i popoli. Non si può rimanere indifferenti a ciò che accade intorno a noi, perché il deterioramento di qualsiasi parte del pianeta ricadrebbe su tutti. Le relazioni tra persone, gruppi sociali e Stati, come quelle tra uomo e ambiente, sono chiamate ad assumere lo stile del rispetto e della « carità nella verità ». In tale ampio contesto, è quanto mai auspicabile che trovino efficacia e corrispondenza gli sforzi della comunità internazionale volti ad ottenere un progressivo disarmo ed un mondo privo di armi nucleari, la cui sola presenza minaccia la vita del pianeta e il processo di sviluppo integrale dell’umanità presente e di quella futura.

12. La Chiesa ha una responsabilità per il creato e sente di doverla esercitare, anche in ambito pubblico, per difendere la terra, l’acqua e l’aria, doni di Dio Creatore per tutti, e, anzitutto, per proteggere l’uomo contro il pericolo della distruzione di se stesso. Il degrado della natura è, infatti, strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana, per cui « quando l’«ecologia umana» è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio".27 Non si può domandare ai giovani di rispettare l’ambiente, se non vengono aiutati in famiglia e nella società a rispettare se stessi: il libro della natura è unico, sia sul versante dell’ambiente come su quello dell’etica personale, familiare e sociale.28 I doveri verso l’ambiente derivano da quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri. Volentieri, pertanto, incoraggio l’educazione ad una responsabilità ecologica, che, come ho indicato nell’Enciclica Caritas in veritate, salvaguardi un’autentica « ecologia umana » e, quindi, affermi con rinnovata convinzione l’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione, la dignità della persona e l’insostituibile missione della famiglia, nella quale si educa all’amore per il prossimo e al rispetto della natura.29 Occorre salvaguardare il patrimonio umano della società. Questo patrimonio di valori ha la sua origine ed è iscritto nella legge morale naturale, che è fondamento del rispetto della persona umana e del creato.

13. Non va infine dimenticato il fatto, altamente indicativo, che tanti trovano tranquillità e pace, si sentono rinnovati e rinvigoriti quando sono a stretto contatto con la bellezza e l’armonia della natura. Vi è pertanto una sorta di reciprocità: nel prenderci cura del creato, noi constatiamo che Dio, tramite il creato, si prende cura di noi. D’altra parte, una corretta concezione del rapporto dell’uomo con l’ambiente non porta ad assolutizzare la natura né a ritenerla più importante della stessa persona. Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi ad una concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica e assiologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi. In tal modo, si viene di fatto ad eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della « dignità » di tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, ad un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo. La Chiesa invita, invece, ad impostare la questione in modo equilibrato, nel rispetto della « grammatica » che il Creatore ha inscritto nella sua opera, affidando all’uomo il ruolo di custode e amministratore responsabile del creato, ruolo di cui non deve certo abusare, ma da cui non può nemmeno abdicare. Infatti, anche la posizione contraria di assolutizzazione della tecnica e del potere umano, finisce per essere un grave attentato non solo alla natura, ma anche alla stessa dignità umana.30

14. Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. La ricerca della pace da parte di tutti gli uomini di buona volontà sarà senz’altro facilitata dal comune riconoscimento del rapporto inscindibile che esiste tra Dio, gli esseri umani e l’intero creato. Illuminati dalla divina Rivelazione e seguendo la Tradizione della Chiesa, i cristiani offrono il proprio apporto. Essi considerano il cosmo e le sue meraviglie alla luce dell’opera creatrice del Padre e redentrice di Cristo, che, con la sua morte e risurrezione, ha riconciliato con Dio « sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli » (Col 1,20). Il Cristo, crocifisso e risorto, ha fatto dono all’umanità del suo Spirito santificatore, che guida il cammino della storia, in attesa del giorno in cui, con il ritorno glorioso del Signore, verranno inaugurati « nuovi cieli e una terra nuova » (2 Pt 3,13), in cui abiteranno per sempre la giustizia e la pace. Proteggere l’ambiente naturale per costruire un mondo di pace è, pertanto, dovere di ogni persona. Ecco una sfida urgente da affrontare con rinnovato e corale impegno; ecco una provvidenziale opportunità per consegnare alle nuove generazioni la prospettiva di un futuro migliore per tutti. Ne siano consapevoli i responsabili delle nazioni e quanti, ad ogni livello, hanno a cuore le sorti dell’umanità: la salvaguardia del creato e la realizzazione della pace sono realtà tra loro intimamente connesse! Per questo, invito tutti i credenti ad elevare la loro fervida preghiera a Dio, onnipotente Creatore e Padre misericordioso, affinché nel cuore di ogni uomo e di ogni donna risuoni, sia accolto e vissuto il pressante appello: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2009

BENEDICTUS PP. XVI

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1 Catechismo della Chiesa Cattolica, 198.

2 BENEDETTO XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 7.

3 Cfr n. 48.

4 DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Paradiso, XXXIII, 145.

5 Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 1.

6 Lett. ap. Octogesima adveniens, 21.

7 Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 10.

8 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 32.

9 Catechismo della Chiesa Cattolica, 295.

10 ERACLITO DI EFESO (535 a.C. ca - 475 a.C. ca), Frammento 22B124, in H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 19526.

11 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 48.

12 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 37.

13 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 50.

14 Cost. Past. Gaudium et spes, 69.

15 Cfr GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 34.

16 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 37.

17 PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 467; cfr PAOLO VI, Lett. enc. Populorum progressio, 17.

18 Cfr GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 30-31.43.

19 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 49.

20 Ibid.

21 Cfr SAN TOMMASO D’AQUINO, S. Th., II-II, q. 49,5.

22 Cfr n. 9.

23 Cfr n. 8.

24 PAOLO VI, Lett. enc. Populorum progressio, 43.

25 Lett. enc. Caritas in veritate, 69.

26 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 36.

27 BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 51.

28 Cfr ibid., 15.51.

29 Cfr ibid., 28.51.61: GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 38.39.

30 Cfr BENEDETTO XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 70.

Dio oggi - G. Coyne S.J.


DIO CREATORE DI UN UNIVERSO IN EVOLUZIONE


George V. Coyne, S.J.




L'immagine di Dio

L'immagine di Dio studiata dai teologi, nella misura in cui si sforza di giungere a una comprensione razionale della verità rivelata, va soggetta a tutte le evoluzioni del pensiero umano. E, pur riconoscendo che la verità rivelata ci è stata data in tempi determinati e attraverso persone particolari, la manifestazione, l'approfondimento e l'inculturazione di essa sono tuttavia in continuo progresso. Perciò, l'immagine attuale di Dio creatore deve rispondere ai concetti della cosmologia moderna.

Infatti, poiché il dato rivelato viene recepito e si radica profondamente in relazione al modo di pensare, anche la comprensione di esso risulta soggetta a una certa evoluzione. Inoltre, poiché la conoscenza razionale di Dio è analogica, è giusto che, nella ricerca della comprensione di Dio, si faccia ricorso anche ai concetti della cosmologia moderna dai quali si verifica che l'universo nella sua evoluzione è soggetto a molti processi non-deterministici, a volte anche casuali. Così facendo si tenta di comprendere Dio come creatore di un universo dove il fine e il progetto non sono i soli, e neanche i più importanti, fattori, ma dove la spontaneità e l'indeterminismo nell'universo hanno contribuito in modo significativo all'evoluzione di un universo in cui è apparsa la vita. Cerchiamo di analizzare la base scientifica di una tale nuova immagine di Dio.


La vita nell'evoluzione dell'universo

L'evoluzione è una caratteristica intrinseca all'universo dalla quale non si può prescindere quando si voglia dare una spiegazione sia del suo insieme, sia delle sue parti. Tenendo conto dell'età dell'universo, la comparsa della vita è un fatto relativamente recente.

Non c'è dubbio che in questi ultimi tempi sia molto cresciuto l'interesse per la vita extraterrestre. Tuttavia ciò che veramente deve sorprenderci non è tanto scoprire che la vita si trovi nell'universo anche fuori della Terra, ma piuttosto che semplicemente nell'universo esista la vita. Il fatto è che ci vollero dodici miliardi di anni prima che, con l'evoluzione dell'universo in espansione, si realizzassero le condizioni necessarie perché la vita potesse iniziare ad esistere; condizioni che, in questa lunga evoluzione, non poterono attuarsi senza il continuo concorso di circostanze fisiche particolari ritenute indispensabili per l'esistenza stessa della vita. Davanti a questo fatto si può ragionare in due modi: la vita non ha altro significato che quello di essere lo stadio finale del lungo processo di evoluzione dell'universo; oppure, è il culmine dello svolgersi estremamente lungo e delicato di un programma rappresentato dalle leggi fisiche insite nell'universo.

Cerchiamo di localizzare in questo panorama l'emergenza della vita e proporre alcune considerazioni. Oggi si ritiene che la vita sia comparsa, nelle sue prime forme microscopiche, intorno a tre miliardi di anni fa; cioè circa dodici miliardi di anni dopo il Big Bang e circa sette miliardi di anni dopo la formazione delle prime stelle. Perché essa ha impiegato tanto tempo ad apparire? Si ritiene che per produrre le quantità di elementi chimici indispensabili alla vita siano state necessarie tre generazioni di stelle. Infatti gli elementi pesanti si creano per nucleosintesi solo all'interno delle stelle e solo quando le stelle muoiono essi vengono diffusi nello spazio per dare origine ad una nuova generazione di stelle.

La durata della vita di una stella dipende dalla sua massa e può variare da parecchi milioni di anni per stelle di grande massa, a diversi miliardi di anni per stelle di piccola massa. E' comunque certo che sono stati necessari circa 10 miliardi di anni di evoluzione stellare per produrre idrogeno, azoto, ossigeno, carbonio, ecc. Ripeto che l'universo è per sua natura evolutivo e dovette evolversi fino a diventare grande e vecchio prima che potessimo esistere noi. Sono stato tentato di dire: "perché potessimo esistere noi;@ ma così avrei introdotto il concetto filosofico di finalità che, come tale, esula dal campo della scienza. Al mio parere ci porterebbe anche ad una immagine di Dio creatore non coerente con la nostra conoscenza dell'universo creato.

La comparsa della vita nell'universo pone naturalmente una serie di problemi scientifici ai quali, a mio parere, non è stata ancora data una soluzione adeguata. Tenendo conto che per l'emergenza della vita era necessaria una particolarissima sintonia (fine tuning) delle costanti e delle leggi fisiche della natura, potremmo chiederci come mai essa ha potuto semplicemente apparire. La vita infatti sarebbe stata impossibile anche se una sola di queste costanti avesse avuto un valore differente. Di nuovo per trovare una spiegazione siamo sempre tentati di ricorrere ad una immagine, al mio parere sbagliata, di Dio creatore che per Sua libera volontà ha accordato le costanti della natura.

Ma noi ci siamo e la nostra esistenza è intimamente legata alla materia e all'energia dell'universo di cui siamo parte. I nostri atomi si scambiano continuamente con quelli dell'universo, al punto che ogni anno il 98% del nostro corpo si rinnova. Ogni nostro respiro mette in circolo miliardi e miliardi di atomi già riciclati nelle ultime settimane dal respiro di altri viventi. Nulla di ciò che ora forma i miei geni vi esisteva un anno fa. Tutto viene rinnovato, rigenerato ogni momento attingendo a quella fonte di materia e di energia che è l'universo. La mia pelle si rinnova ogni mese e il mio fegato ogni sei settimane. Possiamo dire che, tra tutti gli esseri dell'universo, noi siamo i più riciclati! Qualsiasi immagine di Dio, sorgente universale della vita, deve rispondere a tali fatti scientifici.

Riflessioni sulla comparsa della vita

Riflettendo ora su ciò che è avvenuto nell'universo a partire dal suo inizio, possiamo dire che c'è stata una continua trasformazione di energia in forme sempre più complesse di materia. All'inizio c'era solo energia; poi, in base alla famosa equazione di Einstein, l'energia si è trasformata in materia dando origine a: quarks, atomi, molecole, galassie, stelle, pianeti, organismi prebiotici, e finalmente l'uomo. Noi siamo il risultato di un processo continuo di trasformazione dell'energia dell'universo in forme sempre più complesse di materia. Solo recentemente abbiamo cominciato a renderci conto che questo processo non avvenne sempre in modo deterministico e ordinato, ma che nello svolgersi di ogni fase del suo sviluppo evolutivo ebbero la loro parte anche il caso e l'imprevedibilità.

Quanto detto mi riporta ad una domanda: La vita, a livello dell'intelligenza e dell'autocoscienza rappresenta un fattore importante per l'evoluzione futura dell'universo? È una domanda che forse ci porterebbe fuori del campo delle scienze della natura. Preferisco tuttavia correre questo rischio ricapitolando le domande ora fatte in un'ultima domanda tendenziosa: esistiamo solo per riciclare l'energia nella forma in cui ci viene fornita dall'universo, oppure siamo esseri speciali, nei quali l'universo trova la possibilità di passare dalla materia allo spirito?

La nuova cosmologia

È in questo quadro generale dell'universo in evoluzione in cui si colloca la vita, e noi con essa, che vorrei presentare, in corrispondenza di una nuova cosmologia, la proposta di una nuova immagine di Dio creatore. La novità della nuova cosmologia di cui intendo parlare non può essere ben compresa senza fare riferimento alla storia di come essa ha avuto origine. Nei secoli XVI e XVII, nei quali ebbe origine la scienza, era diffusa e persistente l'idea, già condivisa dai Pitagorici, che il compito dei fisici fosse quello di scoprire qualcosa come un grande progetto trascendentale incarnato nell'universo. Si ritiene infatti che uno dei fattori essenziali che contribuirono alla nascita della scienza moderna fu la teologia cristiana della creazione e dell'Incarnazione. A proposito dell'Incarnazione, il concetto del Logos incarnato di cui si parla nel prologo del vangelo di Giovanni, si rivelò particolarmente appropriato; esso richiamava in qualche modo i concetti platonici e pitagorici del mondo delle idee eterne e del carattere trascendentale della matematica.

Peró, la comparsa, all'inizio di questo secolo, della meccanica quantistica e della teoria della relatività e più recentemente della dinamica dei sistemi non lineari contribuì subito ad introdurre concetti scientifici meno trascendentali. Per esempio, gli studi della dinamica dei sistemi non lineari hanno dato origine a due nuovi campi di studio: la teoria del caos e la complessità. L'immensa varietà di forme e strutture esistenti sia nel mondo inorganico che in quello organico mette alla prova qualunque teoria che ponga a fondamento della fisica una serie di leggi deterministiche. Tuttavia, applicando alle leggi della fisica l'analisi matematica dei sistemi non lineari, si ottengono modelli matematici che permettono una conoscenza delle strutture dei cambiamenti: cambiamenti però di cui non è possibile predire il risultato finale in quanto non si è in grado di prevedere l'effetto prodotto da piccole perturbazioni che si accumulano con leggi non lineari. In definitiva il mondo sensibile ha una ricchezza tale da mettere in crisi l'analisi matematica più sofisticata.


La mente di Dio

Ciò mi riporta al punto da cui sono partito: come far rispondere l'immagine attuale di Dio alle realtà dell'universo da Lui creato. Davanti alla costatazione del fatto che nell'universo esiste la vita, possiamo porci delle domande. Se avessimo conosciuto le condizioni fisiche dell'universo in espansione in un istante molto vicino al Big Bang (qualche unità di Planck), avremmo potuto predire l'apparizione della vita? Ritengo che chi fa una ricerca onesta risponderebbe che saremmo stati in grado di predire l'emergere e l'esatta natura e intensità delle quattro forze fondamentali e la fisica che conosciamo. Ma è vero o no che siamo costretti a dire che la vita è il risultato di tante biforcazioni avvenute in obbedienza a una termodinamica non lineare, tale che noi non saremmo mai stati in grado di prevederla, anche nel caso che avessimo posseduto la conoscenza di tutte le leggi della fisica macroscopica e microscopica? E in questo contesto come dobbiamo immaginare Dio, sorgente universale di tale vita?


Benché l'affermazione possa apparire molto sintetica, penso tuttavia sia corretto dire che, da Platone a Newton, la disputa circa la parte avuta dalla matematica nella comprensione scientifica dell'universo si è svolta tutta in una cornice religiosa. Ancora oggi sentiamo ripetere dagli scienziati il ritornello della scoperta della "mente di Dio". A noi spetta il compito di fare un serio tentativo, sia di valutare questa lunga storia, sia di dare senso alla sua eco che ancora risuona al giorno d'oggi. Ritengo che nella maggior parte dei casi, con questo termine, si voglia significare la struttura matematica ideale alla quale corrisponde, secondo Platone, il mondo delle ombre nel quale viviamo. La mente di Dio sarebbe una teoria unificata che ci permetterebbe di comprendere tutte le leggi fisiche e le condizioni iniziali dell'universo. Si può dire che nel caso di una cosiffatta teoria, avremmo anche una comprensione adeguata della vita? A mio giudizio il concetto di "mente di Dio" nella nuova cosmologia non implica alcun carattere di intenzionalità. Ma può la vita essere spiegata senza far ricorso alla intenzionalità? Riconosco il carattere piuttosto pretenzioso di queste domande; esse infatti vanno al di là del campo di competenza proprio dello scienziato.

Penso però che dobbiamo anche guardarci da una seria tentazione presentata dalla nuova cosmologia. Come ho già detto sopra, nella cultura della nuova cosmologia Dio viene visto essenzialmente, se non esclusivamente, come una spiegazione e non come una persona. Dio rappresenta la struttura matematica ideale, la teoria del tutto. Secondo questa cultura Dio è Spiegazione. Ma lo studioso teologo sa bene, come sanno tutti i credenti, che Dio è molto più di questo e che la rivelazione nella quale Dio ha rivelato se stesso nel tempo è più che una comunicazione di un'informazione. Anche se scopriremo la "mente di Dio", non per questo avremo necessariamente trovato Dio. Però, il Dio che si rivelò a noi tramite i nostri antenati, ci sta ancora svelando il grande mistero della sua realtà tramite la nostra conoscenza dell'universo da Lui creato.

Dio oggi - M. Novak

Dio e l'evoluzione

a cura di Martin A. Nowak
Professore di Matematica e Biologia
Università di Harvard

L'evoluzione è il principio organizzatore di tutta la biologia. L'evoluzione ci ha condotto da un mondo di batteri, che esistevano sulla Terra circa 3 miliardi e 500 milioni di anni fa, a ciò che vediamo oggi. L'evoluzione avviene ogniqualvolta vi è una popolazione di individui che si riproducono ed il processo della riproduzione è soggetto a mutazione e selezione. La selezione si basa sulla concorrenza tra individui. Negli ultimi anni, ho proposto di aggiungere la "cooperazione" come una terza caratteristica fondamentale dell'evoluzione. La cooperazione si manifesta ogniqualvolta un individuo sacrifica, in tutto o in parte, il proprio potenziale riproduttivo per aiutare un altro individuo. La selezione naturale favorisce la cooperazione solo se sono attivi meccanismi specifici. Tratterò cinque di questi meccanismi, che conducono a cinque regole di base della cooperazione. Sosterrò la tesi secondo cui senza cooperazione non vi è costruzione nel processo evolutivo. La cooperazione è necessaria per l'evoluzione della prima cellula, degli organismi pluricellulari nonché della società animale e di quella umana.

Si può capire al meglio l’evoluzione se la si vede come un processo di ricerca. Oggi però non sappiamo che cosa crei lo spazio di possibilità oggetto della ricerca. Per esempio, direi che l’evoluzione non "inventa" la vita intelligente ma la "scopre". L'evoluzione non può operare senza requisiti che la guidino. Il biologo deve, in ultima analisi, rivolgersi alle leggi della chimica e della fisica per trovare tali requisiti, ma ad oggi non è chiaro come lo si potrebbe fare. Come accade per ogni altra disciplina scientifica, la nostra attuale comprensione dell'evoluzione è incompleta.

L'evoluzione non rappresenta un problema per la teologia cristiana. Dio si serve dell'evoluzione per dispiegare il mondo vivente intorno a noi. Similmente Dio si serve della gravità per dispiegare l’universo su un'ampia scala. Né la gravità né l'evoluzione pongono sfide alla fede cristiana. Dio è la causa ultima di tutto ciò che esiste. Dio è colui in assenza del quale non ci sarebbe affatto l’evoluzione. Dio è sia il Creatore che il Sostenitore dell'universo. A mio modo di vedere, Dio non solo fissa le condizioni iniziali del processo evolutivo ma traccia anche l'intera traiettoria dell'esistenza. L’intera traiettoria è nota a Dio, che esiste al di fuori del tempo, eterno e a-temporale, onnisciente e infinitamente amorevole.