domenica 31 gennaio 2010

Giornata di preghiera per la Terrasanta


(s.e.)Giornata di intercessione per la pace in Terra Santa. Alla sua seconda edizione, prevista per domenica 31 gennaio, l'iniziativa di preghiera, promossa dall'Apostolato Giovani per la vita, dall'associazione nazionale Papaboys, dalle Rete internazionale delle cappelle di adorazione perpetua e dai gruppi di Adunanza eucaristica, è riuscita a coinvolgere realtà giovanili ecclesiali di oltre 1.000 città di tutto il mondo in tutti e cinque i continenti, da Roma a New York, dall'indiana Bangalore all'ugandese Kampala, e naturalmente a Gerusalemme e Betlemme. Lo scorso anno furono 480 le città coinvolte.
Per ventiquattr'ore consecutive, dunque, migliaia di giovani di tutto il mondo torneranno a pregare per la pace in Terra Santa. Lo faranno nelle parrocchie, durante le messe domenicali, ma anche in tante iniziative organizzate per l'occasione; riuniti in gruppo, oppure anche singolarmente (le adesioni si raccolgono via internet sul sito web dei Papapoys).

«Il numero delle celebrazioni cresce di ora in ora, e aumenterà fino all'ultimo», ci spiega Daniele Venturi, presidente dei Papaboys, che spiega come la maggior parte dei momenti di preghiera sarà costituito «soprattutto da celebrazioni e adorazioni eucaristiche, e quindi saranno molto intensi».

«Un coro che si passa la voce da un punto all'altro del mondo e invoca la pace per un piccolo lembo di terra che ci appartiene perché ci è stato dato insieme alla fede nel Signore Gesù»: così ha descritto la Giornata, nel suo messaggio, il Custode di Terra Santa padre Pierbattista Pizzaballa. «Che ne abbiamo fatto della pace? - continua il Custode, invitando alla responsabilità personale -. Pregare per la pace in Terra Santa diventi un volersi ritrovare nella sincerità, ognuno davanti a se stesso, gli uni davanti agli altri, tutti insieme davanti a Dio per ri-scoprire il dono della pace, per assumerci la responsabilità della pace, per ri-dare gli uni agli altri il dono che abbiamo così gratuitamente ricevuto». Un richiamo condiviso anche dal vescovo Mario Toso, segretario del Pontificio consiglio Giustizia e Pace: «Il mondo è purtroppo segnato da ingiustizie e conflitti, da sentimenti di odio e violenza che turbano l'esistenza della famiglia umana e che non possono lasciare indifferenti. Tutti, e noi cristiani per primi, siamo chiamati ad essere operatori di pace. È la vocazione dei cristiani».

Anche il patriarca di Gerusalemme, monsignor Fouad Twal, ha inviato un suo messaggio per la Giornata: «È un'esperienza di Chiesa, che, in quanto "forza spirituale" è una realtà che, come ci ha ricordato il Santo Padre Benedetto XVI, "può contribuire ai progressi nel processo di pace". A nome della comunità dei cristiani in Terra Santa grazie a tutti voi, in modo particolare voi giovani, che senza esitare e con molta generosità vi riunirete, in tante parti del mondo, per 24 ore consecutive nella preghiera».

www.terrasanta.net

venerdì 29 gennaio 2010

Omelia del Papa per i 90 anni di P. Spidlik

Omelia pronucniata da Benedetto XVI nel corso della Messa presieduta nella Cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano, con la Comunità del Centro "Aletti" di Roma, in occasione del novantesimo compleanno del Cardinale Tomáš Špidlík, S.I.

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Cari amici,

con l’odierna Liturgia entriamo nell’ultimo tratto del cammino dell’Avvento, che esorta ad intensificare la nostra preparazione, per celebrare con fede e con gioia il Natale del Signore, accogliendo con intimo stupore Dio che si fa vicino all’uomo, a ciascuno di noi.

La prima lettura ci presenta l’anziano Giacobbe che raduna i suoi figli per la benedizione: è un evento di grande intensità e commozione. Questa benedizione è come un sigillo della fedeltà all’alleanza con Dio, ma è anche una visione profetica, che guarda in avanti e indica una missione. Giacobbe è il padre che, attraverso le vie non sempre lineari della propria storia, giunge alla gioia di radunare i suoi figli attorno a sé e tracciare il futuro di ciascuno e della loro discendenza. In particolare, oggi abbiamo ascoltato il riferimento alla tribù di Giuda, di cui si esalta la forza regale, rappresentata dal leone, come pure alla monarchia di Davide, rappresentata dallo scettro, dal bastone del comando, che allude alla venuta del Messia. Così, in questa duplice immagine, traspare il futuro mistero del leone che si fa agnello, del re il cui bastone di comando è la Croce, segno della vera regalità. Giacobbe ha preso progressivamente coscienza del primato di Dio, ha compreso che il suo cammino è guidato e sostenuto dalla fedeltà del Signore, e non può che rispondere con adesione piena all’alleanza e al disegno di salvezza di Dio, diventando a sua volta, insieme con la propria discendenza, anello del progetto divino.

Il brano del Vangelo di Matteo ci presenta la "genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo" (Mt 1,1), sottolineando ed esplicitando ulteriormente la fedeltà di Dio alla promessa, che Egli attua non soltanto mediante gli uomini, ma con loro e, come per Giacobbe, talora attraverso vie tortuose e impreviste. Il Messia atteso, oggetto della promessa, è vero Dio, ma anche vero uomo; Figlio di Dio, ma anche Figlio partorito dalla Vergine, Maria di Nazaret, carne santa di Abramo, nel cui seme saranno benedetti tutti i popoli della terra (cfr Gen 22,18). In questa genealogia, oltre a Maria, vengono ricordate quattro donne. Non sono Sara, Rebecca, Lia, Rachele, cioè le grandi figure della storia d’Israele. Paradossalmente, invece, sono quattro donne pagane: Racab, Rut, Betsabea, Tamar, che apparentemente "disturbano" la purezza di una genealogia. Ma in queste donne pagane, che appaiono in punti determinanti della storia della salvezza, traspare il mistero della chiesa dei pagani, l’universalità della salvezza. Sono donne pagane nelle quali appare il futuro, l’universalità della salvezza. Sono anche donne peccatrici e così appare in loro anche il mistero della grazia: non sono le nostre opere che redimono il mondo, ma è il Signore che ci dà la vera vita. Sono donne peccatrici, sì, in cui appare la grandezza della grazia della quale noi tutti abbiamo bisogno. Queste donne rivelano tuttaviauna risposta esemplare alla fedeltà di Dio, mostrando la fede nel Dio di Israele. E così vediamo trasparire la chiesa dei pagani, mistero della grazia, la fede come dono e come cammino verso la comunione con Dio.La genealogia di Matteo, pertanto, non è semplicemente l’elenco delle generazioni: è la storia realizzata primariamente da Dio, ma con la risposta dell’umanità. È una genealogia della grazia e della fede: proprio sulla fedeltà assoluta di Dio e sulla fede solida di queste donne poggia la prosecuzione della promessa fatta a Israele.

La benedizione di Giacobbe si accosta molto bene all’odierna felice ricorrenza del 90.mo compleanno del caro Cardinale Špidlík. La sua lunga vita e il suo singolare cammino di fede testimoniano come sia Dio a guidare chi a Lui si affida. Ma egli ha percorso anche un ricco itinerario di pensiero, comunicando sempre con ardore e profonda convinzione che il centro di tutta la Rivelazione è un Dio Tripersonale e che, di conseguenza, l’uomo creato a sua immagine è essenzialmente un mistero di libertà e di amore, che si realizza nella comunione: il modo stesso di essere di Dio. Questa comunione non esiste per se stessa, ma procede – come non si stanca di affermare l’Oriente cristiano – dalle Persone divine che liberamente si amano. La libertà e l’amore, elementi costitutivi della persona, non sono afferrabili per mezzo delle categorie razionali, per cui non si può comprendere la persona se non nel mistero di Cristo, vero Dio e vero uomo, e nella comunione con Lui, che diventa accoglienza della "divinoumanità" anche nella nostra stessa esistenza. Fedele a questo principio, il Cardinale Špidlík ha intessuto lungo gli anni una visione teologica vivace e, per moltiaspetti, originale nella quale confluiscono organicamente l’Oriente e l’Occidente cristiani, scambiandosi reciprocamente i loro doni. Il suo fondamento è la vita nello Spirito; il principio della conoscenza: l’amore; lo studio: un’iniziazione alla memoria spirituale; il dialogo con l’uomo concreto: un criterio indispensabile, e il suo contesto: il corpo sempre vivo di Cristo, che è la sua Chiesa. Strettamente legata a questa visione teologica è l’esercizio della paternità spirituale, che il Cardinale Špidlík ha costantemente svolto e continua a svolgere. Oggi, potremmo dire che si raduna attorno a lui, nella celebrazione dei Divini Misteri, una sua "piccola discendenza" spirituale, il Centro Aletti, che vuole raccogliere il suo prezioso insegnamento, facendolo fruttificare con nuove intuizioni e nuove ricerche, anche attraverso la raffigurazione artistica. In questo contesto, mi sembra particolarmente bello sottolineare il legame tra teologia ed arte scaturito dal suo pensiero. Ricorrono infatti dieci anni da quando il mio venerato e amato predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo II, ha dedicato questa Cappella, la Redemptoris Mater, affermando che "quest’opera si propone come espressione di quella teologia a due polmoni dalla quale può attingere nuova vitalità la Chiesa del terzo millennio". E continua il Papa: "L’immagine della Redemptoris Mater, che campeggia nella parete centrale pone davanti ai nostri occhi il mistero dell’amore di Dio, che si è fatto uomo per dare a noi, esseri umani, la capacità di diventare figli di Dio… (E’ il) messaggio della salvezza e di gioia che Cristo, nato da Maria, ha portato all’umanità" (Insegnamenti XXII, 2 [1999], p. 895).

A Lei, caro Cardinale Špidlík, auguro di vero cuore l’abbondanza delle grazie del Signore, perché continui ad illuminare con sapienza i Membri del "Centro Aletti" e tutti i suoi figli spirituali. Continuando la Celebrazione dei Santi Misteri, affido ciascuno alla materna protezione della Madre del Redentore, invocando dal Verbo divino, che ha assunto la nostra carne, la luce e la pace annunciata dagli Angeli a Betlemme. Amen

Codex Pauli

Romano Penna, docente di Esegesi del Nuovo Testamento e di Origini Cristiane all'Università Lateranense di Roma, ha dato il suo contributo per il "Codex Pauli", un'opera unica dedicata a Benedetto XVI al termine dell'Anno Paolino.

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Tra tutti i personaggi del Nuovo Testamento la vita dell'apostolo Paolo è quella meglio conosciuta. Sia negli Atti degli Apostoli, sia nelle Lettere è possibile cogliere i diversi dati autobiografici riguardanti Saulo/Paolo (il doppio nome era corrente nell'ebraismo del tempo). Anche la letteratura apocrifa sull'Apostolo, come gli Atti di Paolo e Tecla (II/III secolo), può concorrere con le dovute cautele, a questo scopo. Ma mentre le Lettere paoline sono fonte di prima mano, gli Atti degli Apostoli (se si eccettuano le brevi "sezioni-noi"), attingono a fonti di seconda e terza mano. Il periodo più sicuro della vita di Paolo è quello che va dalla sua "conversione" all'arrivo a Roma come prigioniero.

Occorre però precisare che qui una certa sicurezza si ottiene più a livello di cronologia relativa che assoluta: è cioè abbastanza facile ottenere un rapporto più o meno accettabile fra i vari momenti scaglionantisi all'interno dell'esistenza dell'Apostolo, ma lo è meno stabilire un rapporto irrefutabile rispetto alla datazione esterna della storia del I secolo. Restano inoltre interrogativi parzialmente insoluti: come fu la sua vita prima della conversione? E cosa avvenne dopo il biennio trascorso a Roma?

Questioni cronologiche

I punti di riferimento maggiormente documentabili, ma anche discussi, per una biografia paolina sono tre.

II fatto più sicuro, è dato dalla comparizione di Paolo davanti al proconsole Gallione a Corinto (At 18,12-17).

Da una lettera dell'imperatore Claudio scoperta a Delfi nel 1905, combinata con un testo del Corpus inscriptionum latinarum (CIL 1256) e con Dione Cassio (LX 17,3), si può dedurre, con un possibile ma improbabile scarto di un anno, che Gallione fu «proconsole (anthypatos)» di Acaia tra il maggio del 51 e il maggio del 52. Quindi, nel corso di questo anno, Paolo fu certamente a Corinto. Il secondo dato cronologico è l'editto di Claudio, che cacciò gli ebrei da Roma, datato nell'anno 49. Ma ci sono delle difficoltà: dell'editto, Tacito non parla, e anche Giuseppe Flavio non lo conosce.

In terzo luogo occore stabilire l'anno in cui avvenne il cambio del procuratore della Giudea da Antonio Felice a Porcio Festo, verificatosi dopo l'arresto di Paolo a Gerusalemme al termine del terzo viaggio missionario. Mentre l'opinione tradizionale lo colloca verso il 60, sembrerebbe doversi accettare come più probabile l'anno 55, sulla base di queste fonti:

- Giuseppe Flavio (Ant. XX 182) narra che Felice a Roma, dopo la destituzione, fu salvato dalla protezione del fratello Pallante, ministro delle finanze di Claudio e poi di Nerone (diventato imperatore nel 54);

- Tacito (Ann. XII 14) precisa che Pallante cadde in disgrazia verso la fine del 55, poco prima dell'uccisione di Britannico (figlio di Claudio e Messalina e possibile antagonista di Nerone);

- Svetonio (Cl. 27 combinato con ib. 7 e 14) ci dice che Britannico fu avvelenato poco prima del quattordicesimo compleanno, che doveva cadere il 13 febbraio 56.

Stando così le cose, il procuratore Antonio Felice dovette essere destituito entro l'anno 55, ricevendo, come successore Porcio Festo entro quello stesso anno. Pertanto la notizia di At 24,27 («trascorsi due anni») dovrebbe riferirsi al biennio non della prigionia di Paolo, durata pochi mesi, ma della procura di Antonio Felice.

In tal caso, il viaggio di Paolo da Cesarea a Roma si svolge tra l'autunno del 55 e la primavera del 56 (cfr. At 27,12; 28,11), e il biennio da lui trascorso a Roma (At 28,30) sarebbe compreso tra il 56 e il 58.

Su queste basi, si possono proporre due ipotesi di sistemazione cronologica, limitandoci ai fatti maggiori:

A. La cronologia tradizionale pone la conversione nel 34-35; il primo viaggio missionario (Pisidia e Licaonia) nel 45-49; il concilio di Gerusalemme nel 48-49; il secondo viaggio missionario (Filippi, Tessalonica, Atene, Corinto) nel 50-52; terzo viaggio (Efeso, Macedonia, Corinto, Mileto) nel 53-57/58; l'arresto a Gerusalemme e un biennio di prigionia nel 57-59 o 58-60 (in questi anni avviene il cambio del procuratore); l'arrivo a Roma nel 60-61 e conseguente biennio di prigionia; viaggio in Spagna e ritorno nell'area del Mar Egeo; secondo arresto e martirio a Roma tra il 64 e il 68. Secondo questa cronologia, le lettere (tutte e tredici) si scaglionerebbero tra il 51 e il 67.

B. Tra le molte e discordanti proposte, che si discostano da quella comune, proponiamo la ricostruzione abbastanza recente e originale di G. Lüdemann, che si fonda su Gal 1,6-2,14 e sul criterio delle collette per i poveri di Gerusalemme. Lüdemann struttura la vita di Paolo non secondo i viaggi missionari, ma secondo le visite compiute a Gerusalemme (il tutto con lo scarto di tre anni, a seconda che si ponga la morte di Gesù nell'anno 27, da lui preferito, o nel 30, che qui seguiamo): la conversione nel 33; la prima visita a Gerusalemme («videre Petrum», Gal 1,18) nel 36; il viaggio con Barnaba in Siria-Cilicia (e Galazia del Sud: At 13-14), più il viaggio missionario autonomo a Filippi,Tessalonica, Atene, Corinto fra il 37 e il 41; in concomitanza, la fondazione delle comunità galatiche; la seconda visita a Gerusalemme per il concilio nel 50; a Efeso nel 51; la «visita intermedia» a Corinto nel 52 (e incontro con Gallione); Efeso - Macedonia - Corinto nel 53-55; la terza visita a Gerusalemme per portare le collette nel 55; in quest'anno avviene il cambio del procuratore; l'arrivo a Roma nel 56 e la prigionia biennale fino al 58. Stando a questa cronologia, le lettere (solo sette autentiche) si pongono tra il 41 e il 58. Secondo Dockx, tra il 58 e il 67 si collocherebbe il viaggio di Paolo in Spagna (cfr. Rm 15,28; lClem 5,7) e un nuovo viaggio in Oriente con l'itinerario Creta - Efeso - Macedonia - Nicopoli - Efeso - Troade documentato dalle lettere pastorali. Secondo l'opinione tradizionale, questi ultimi viaggi si collocherebbero tra il 63 e il 67. Molti autori invece ritengono che Paolo abbia subito il martirio immediatamente allo scadere del biennio di prigionia a Roma (a motivo sia della finale tronca degli Atti, sia della inautenticità delle lettere pastorali).

Profilo della vita di Paolo

Saulo nacque non molti anni dopo Gesù a Tarso in Cilicia, nell'attuale Turchia sud-orientale (cfr. At 21,39). Pur appartenendo a una famiglia di fedele osservanza ebraica (cfr. Fil 3,5-6), già alla nascita ebbe in eredità dal padre la cittadinanza romana (cfr. At 16,37-39; 22,25-29; 25,10-12), che gli permetterà di appellarsi al giudizio diretto dell'imperatore (cfr. At 25,1-12; così faranno poi anche altri cristiani, come leggiamo nella Lettera 10,96 di Plinio il Giovane a Traiano all'inizio del II secolo).

Il nome romano di «Paolo», che egli usa sempre nelle lettere («Saulo» è testimoniato solo da Luca negli Atti), può derivare o da uno scambio per assonanza così da adeguarsi meglio all'ambiente culturale non giudaico, oppure dal nome del patrono romano, che può aver trasformato in liberti gli avi dell'apostolo (i quali si sono forse trasferiti dalla Palestina alla Cilicia in seguito all'intervento di Pompeo nel 63 a.C.).

Nella città di Tarso, che già Senofonte definiva «grande e felice», al tempo di Paolo regnava «un grande zelo per la filosofia e per ogni ramo della formazione universale»; essa fu la patria di non pochi filosofi stoici, tra cui Crisippo e poi Atenodoro, precettore di Augusto. Paolo vi frequentò certamente una buona scuola elementare greca, anche se probabilmente di ambito giudaico, consistente nell'apprendimento della lingua greca e soprattutto della Bibbia greca, con la quale egli si dimostrerà familiarizzato. È probabile che vi abbia appreso anche elementi di retorica, ma che non abbia studiato i classici della letteratura greca (diversamente dal filosofo ebreo, suo coetaneo, Filone di Alessandria). Stando alla testimonianza del retore-filosofo di poco posteriore, Dione di Prusa (cfr. Oratio 33,47), a Tarso si venerava il dio locale Sandam, assimilato a Eracle, secondo forme cultuali misteriche (morte-reviviscenza della vegetazione).

Questa molteplice componente grecizzante si manifesta variamente in Paolo: il tema stoico dell'autàrcheia (autosufficienza, cfr. Fil 4,12), quello della conoscenza naturale di Dio (cfr. Rm 1,19-20), il metodo retorico della diatriba (cfr. Rm 2,27-3,8), un certo vocabolario antropologico (cfr. 2Cor 4,16-5,9), la conoscenza dei giochi nello stadio (cfr. 1Cor 9,24-27), una citazione di Menandro (ma forse in termini proverbiali: 1Cor 15,33), il concetto di coscienza (cfr. Rm 2,15; 13,5 ecc.).

Nato nella diaspora greca, Paolo si recò a Gerusalemme (dove doveva avere legami di parentela: cfr. At 23,16) per approfondire la sua specifica formazione ebraica ai piedi del grande rabbino Gamaliele I (cfr. At 22,3); qui acquisì anche la tipica conoscenza delle sacre Scritture e in particolare della Torah secondo la scuola dei farisei. Seguendo l'abitudine dei rabbini, imparò ed esercitò un lavoro manuale, consistente nella fabbricazione di tende o coperte da campo, che si può intendere anche come lavorazione del cuoio (cfr. At 18,3: skenopoiòs). Anche come apostolo, egli non vorrà gravare sulle sue chiese, ma lavorerà con le proprie mani per provvedere alle necessità del sostentamento (cfr. At 20,34; e soprattutto 1Cor 9,7-15; 2Cor 12,13).

Qualche moderno ha suggerito che Paolo si fosse pure sposato, rimanendo poi vedovo o abbandonato dalla moglie in seguito alla sua conversione. Il matrimonio era sicuramente il normale costume rabbinico; il Talmud babilonese ci attesta l'unica eccezione di Rabbi Ben Azzaj, della fine del I secolo, il quale, rimproverato del suo celibato, rispondeva: «Che devo fare, se la mia anima brama la Torah? Il mondo può essere conservato da altri!»; certo Paolo era stabilmente solo, quando scriveva la Prima lettera ai Corinzi (cfr. 7,8; 9,5).

Non si ha nessun indizio di qualche contatto con Gesù di Nazaret, crocifisso probabilmente l'anno 30, anche se è verosimile che Paolo fosse a Gerusalemme per la Pasqua di quell'anno. Il suo primo approccio sicuro con il nascente cristianesimo lo ebbe a Gerusalemme con il gruppo giudeo-ellenistico di Stefano e compagni; dev'essere stato per lui, fariseo, qualche cosa di scioccante, tanto da infuriarlo, sentirli «pronunciare espressioni blasfeme contro Mosè e contro Dio», cioè contro la Torah e contro il Tempio (At 6,11-14). Di qui il suo zelo persecutorio, che egli stesso ricorderà ai cristiani di Galazia: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com'ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14).

La sua attività si estendeva fino a Damasco. Ma proprio là subì il capovolgimento della sua vita e fu «ghermito da Cristo» (Fil 3,12), al punto che ciò che prima era un valore per lui diventò spazzatura (cfr. Fil 3,7ss.). Solo Luca negli Atti ci dà una dimensione narrativa del fatto; ma Paolo nelle sue Lettere parla sempre e soltanto, in termini sobri e personalistici, di un decisivo incontro con il Signore risorto, che fece di lui insieme un cristiano e un apostolo (cfr. 1Cor 9,1; 15,8-10; 2Cor 4,6; Gal 1,15-16; Fil 3,7-12). Secondo il racconto degli Atti, la repentinità dell'evento si combinò con una specifica iniziazione da parte della comunità cristiana tramite lo sconosciuto Anania (cfr. At 9,1-18). Si era attorno all'anno 33 (o 35).

D'ora in poi tutte le energie dell'ex fariseo sono poste al servizio di Gesù Cristo e del vangelo. Il suo temperamento focoso (cfr. 1Cor 4,19-21; Fil 3,2), non alieno da momenti di vera tenerezza (cfr. 1Ts 2,7-9; Gal 4,18-19), rimane intatto, ed è la prova concreta che il cristianesimo non mortifica l'umanità di nessuno. Ma ormai la sua è l'esistenza appassionata di un apostolo che si fa «tutto a tutti» (1Cor 9,22). Ha un primo significativo incontro con «Cefa», cioè Pietro, a Gerusalemme (Gal 1,18). Strutturalmente teso verso nuovi orizzonti, soprattutto sentendo acuto il problema dell'accesso dei pagani al Dio biblico della grazia, che in Gesù Cristo si è reso scandalosamente disponibile a tutti senza eccezioni, egli non trova vita facile all'interno della Chiesa-madre di Gerusalemme, di tendenza conservatrice. È costretto a rifugiarsi a Tarso.

Il primo viaggio missionario

Intanto, a seguito della persecuzione contro il gruppo di Stefano, alcuni di questi sono giunti ad Antiochia di Siria, dove per la prima volta il vangelo viene predicato ai pagani e da essi accettato, così che i discepoli di Gesù in quella metropoli vengono chiamati per la prima volta «cristiani», alla greca (At 11,25-26). E Barnaba, un giudeo-cristiano di origine cipriota ma appartenente alla Chiesa di Gerusalemme, allora si reca a Tarso a prelevare Paolo perché collabori alle promettenti prospettive missionarie nella città siriana. Qui si impegnano insieme per un anno intero. Poi ancora insieme, mandati dalla Chiesa antiochena, intraprendono un viaggio missionario come nuova esigenza di espansione del vangelo (cfr. At 13-14). Salpati da Seleucia, predicano a Cipro, incontrandovi il proconsole romano Sergio Paolo; di qui proseguono per l'Anatolia centro-meridionale, toccando i seguenti centri abitati: Perge di Panfilia, Antiochia di Pisidia, Iconio, e poi le città della Licaonia, Listra e Derbe; di volta in volta, il racconto di Luca fa vedere che, mentre i giudei si oppongono attivamente all'annuncio evangelico, i pagani invece lo accolgono gioiosamente.

Tornati sui propri passi ad Antiochia di Siria, alcuni cristiani venuti dalla Giudea si oppongono alla loro metodologia missionaria, che prescinde dalla circoncisione e in genere dalla legge mosaica; il contrasto rende così necessario quello che viene chiamato il concilio di Gerusalemme. Qui per l'intervento di Pietro e di Giacomo, fratello del Signore, si viene a un compromesso: è riconosciuto l'apostolato di Paolo, con l'accordo che egli si rivolga ai pagani (lasciando i circoncisi a Giacomo, Cefa e Giovanni), purché egli si ricordi di fare collette per i poveri della Chiesa gerosolimitana (cfr. Gal 2,1-10); Luca aggiunge anche la richiesta di quattro clausole mosaiche, a cui i pagani avrebbero dovuto attenersi pur rinunciando alla circoncisione (cioè: astenersi dalle carni immolate agli dei, dal sangue, dagli animali soffocati e dai matrimoni proibiti dalla legge levitica), ma Paolo nelle sue Lettere non dimostra di conoscere queste disposizioni. Siamo con ciò nell'anno 49 (o al massimo al 50).

Paolo ritorna ad Antiochia di Siria, dove in una non meglio precisata circostanza rimprovera Pietro, in nome della «verità del vangelo», per la sua doppiezza a proposito delle prescrizioni dietetiche giudaiche (cfr. Gal 2,11-14). La metropoli siriana, che era la terza città dell'impero dopo Roma e Alessandria, diventa per Paolo la sede abituale e il normale punto di riferimento dopo i suoi viaggi (un po' come Cafarnao per Gesù). Ma è poco più che un pied-à-terre. I viaggi per la fondazione e la cura pastorale delle molte chiese da lui suscitate lo impegnano per tutto il resto della vita, assorbendo le sue energie migliori, nonostante le noie di una non meglio identificabile malattia, che è stata variamente diagnosticata come cecità, disfasia, epilessia, febbri malariche (cfr. 2Cor 11,6; Gal 4,13-15; forse 2Cor 12,7-9).

Il suo metodo di evangelizzazione lo porta a privilegiare i grandi agglomerati urbani del tempo, dove si rivolge in ordine di preferenza ai poveri, agli intellettuali e ai benestanti (borghesia del commercio). Gli immancabili avversari giudeo-cristiani gli sono sempre alle calcagna (cfr. 2Cor 11,13-15.22-23; Gal 1,6-7; Fil 3,2.18; Rm 16,17.18; e anche Col 2,8).

Il secondo viaggio missionario

Un secondo e più impegnativo viaggio missionario, senza Barnaba, ha il seguente itinerario: Paolo parte da Antiochia di Siria insieme a Sila, passa via terra per Listra, dove prende con sé Timoteo, poi per la Frigia, la Galazia, la Misia, fino a Troade sull'Egeo settentrionale; di qui salpa per l'Europa, toccando l'isola di Samotracia, e poi per le città di Neapoli, Filippi, Anfipoli, Apollonia, Tessalonica, Berèa, giunge ad Atene, dove tiene il celebre discorso dell'Areopago (At 17,16-34), e infine a Corinto. In quest'ultima città si ferma un anno e mezzo, scrive la Prima lettera ai Tessalonicesi, è osteggiato dai giudei che lo deferiscono al tribunale del proconsole romano Gallione (fratello di Seneca), ma suscita una delle chiese più vivaci di tutto il cristianesimo primitivo. Riparte da Cencre (il porto orientale di Corinto) e, toccando appena Efeso e poi Cesarea Marittima, sale fino a Gerusalemme per tornare ad Antiochia di Siria.

Di là intraprende il suo ultimo viaggio missionario: attraverso la Galazia e la Frigia, giunge a Efeso, dove si ferma per più di due anni. Qui, abbandonata la sinagoga, «continuò a discutere ogni giorno nella scuola di un certoTiranno» (At 19,9: il cosiddetto testo occidentale precisa che vi insegnava dalle ore 11 alle ore 16). Da Efeso intrattiene una nutrita corrispondenza con la Chiesa di Corinto, dove si reca una seconda volta via mare, subendo una non meglio precisata offesa (cfr. 2Cor 2,5-11). Di qui scrive anche la lettera ai Galati, vero manifesto della libertà cristiana, per opporsi al tentativo di giudaizzazione di queste chiese.

A Efeso sperimenta anche una sollevazione ostile, provocata dall'argentiere Demetrio in nome della dea Artemide, di cui la città ospitava il tempio Artemision (computato tra le sette meraviglie del mondo). È qui che probabilmente conosce anche una prigionia, dalla quale scrive la Lettera ai Filippesi e il biglietto a Filemone. Lasciata la capitale della provincia d'Asia, Paolo si dirige verso nord e, attraversata la Macedonia, giunge in Grecia (probabilmente a Corinto), da dove scrive la sua lettera più importante, quella ai Romani, in cui tra l'altro annuncia il progetto di recarsi in Spagna.

Ripartito dalla Grecia in direzione settentrionale, dalla macedonica Filippi salpa verso Troade, e sempre per via mare, toccando Asso, Mitilene, Chio, Samo, Mileto (dove tiene un importante discorso agli anziani della Chiesa di Efeso fatti venire là), Cos, Rodi, Pàtara, Cesarea Marittima, giunge finalmente a Gerusalemme per recarvi le collette messe insieme soprattutto in Macedonia e in Acaia.

A Gerusalemme si ripresenta il contrasto con Giacomo e l'interpretazione giudeo-cristiana del vangelo. E in occasione di un subbuglio suscitato contro di lui da alcuni giudei della provincia d'Asia, con l'accusa di opporsi alle istituzioni del giudaismo, viene arrestato da un tribuno della coorte romana. Paolo si difende ripetutamente, sia in pubblico di fronte ai giudei della città sia di fronte al sinedrio, e anche davanti al procuratore Antonio Felice a Cesarea Marittima, dove viene trasferito. Avvenuto poi il cambio del procuratore, di fronte a Porcio Festo il prigioniero Paolo si appella all'imperatore e, dopo un altro discorso di difesa davanti al re Agrippa II e a sua sorella Berenice (che sarà amante dell'imperatore Tito), viene deferito a Roma.

Alla volta di Roma

Il viaggio verso la capitale dell'impero seguì questo percorso: con una nave, salpati da Cesarea e passando per Sidone e Cipro, giunsero a Mira di Licia; qui con un'altra nave costeggiarono la Licia fino all'altezza di Cnido, da dove puntarono a sud ovest verso l'isola di Creta, raggiungendo una località chiamata Buoni Porti; nonostante la pericolosità della navigazione per l'avanzata stagione autunnale, ripartono verso l'Italia, ma li sorprende una lunga e violenta tempesta che si risolve in un fortunoso naufragio all'isola di Malta; salpano di nuovo dopo tre mesi con un'altra nave, che aveva svernato nell'isola, e approdano a Siracusa in Sicilia, poi a Reggio Calabria, per giungere infine al porto di Pozzuoli; percorrendo di qui la via Campana fino a Capua e poi la via Appia, gli vennero incontro alcuni cristiani di Roma fino al Foro Appio (circa 72 chilometri dalla capitale); giunto finalmente a Roma, vi trascorse sotto custodia militare due anni interi nella casa che aveva preso a pigione. A seconda della cronologia adottata, come abbiamo detto sopra, questa scadenza ci porta all'anno 58 oppure all'anno 63.

Dopo questa data non abbiamo più notizie sicure, non sapendo con esattezza se il processo ebbe esito negativo o positivo. Probabilmente comunque il viaggio in Spagna non ebbe luogo; nessuna fonte antica lo descrive: solo gli apocrifi Atti di Pietro, della fine del secolo II, narrano della partenza di Paolo da Roma, ma probabilmente per pura dipendenza da Rm 15,24.28 (il testo della Lettera di Clemente, capitolo 5, è troppo generico). La tesi tradizionale di un nuovo viaggio in Oriente (Efeso, Creta, Nicopoli in Epiro, Troade) è basata essenzialmente sulle lettere Pastorali, 1-2Tm e Tito, che però oggigiorno vengono diffusamente ritenute deuteropaoline, cioè scritte più tardi da un discepolo.

La morte di Paolo avvenne sicuramente a Roma sotto l'imperatore Nerone e fu violenta, un martirio. La data del 64, in concomitanza con l'esecuzione dei cristiani accusati dell'incendio della città, non è chiaramente proposta dalla tradizione (cfr. 1Clem 5,6, secondo cui Paolo fu consegnato «per gelosia e invidia», forse dei giudeo-cristiani della capitale). La data del 67 è suggerita da san Gerolamo, De viris illustr. 5 e 12 (due anni dopo la morte di Seneca); da parte sua, Eusebio nel Chronicon suggerisce il 68. Ma, come abbiamo detto, è possibile pensare già al 58.

La più antica testimonianza circa il suo sepolcro sulla via Ostiense risale al presbìtero Gaio sul finire del II secolo: «Io posso mostrarti i trofei degli apostoli; se vorrai recarti al Vaticano o sulla via Ostiense, troverai i trofei dei fondatori di questa chiesa» (Eusebio di Cesarea, Hist. eccl. 2,22,2). Una tradizione successiva specifica il martirio come decapitazione alle Acque Salvie, oggi Tre Fontane (Atti di Pietro e Paolo, 80: non anteriori ai secoli IV-V).

Prof. Romano Penna

(www.zenit.org)

giovedì 28 gennaio 2010

Tomaso d'Aquino

"Signore, mio Dio, donami un cuore vigile che nessun pensiero vano allontani da Te; un cuore nobile che nessun attaccamento ambiguo degradi;
un cuore retto che nessuna intenzione cattiva possa sviare;
un cuore fermo che resista ad ogni avversità;
un cuore libero che nessuna violenza possa soggiogare.
Concedimi,
Signore mio Dio,
un intelligenza che ti conosca,
un amore che ti cerchi,
una sapienza che ti trovi,
una vita che ti piaccia,
una perseveranza
che ti attenda con fiducia
e la speranza di poterti
finalmente abbracciare. Amen

S. Tommaso d'Aquino (Dottore della Chiesa, patrono degli studenti e dei teologi)

L'Invisible

Lancement de L'Invisible, un mensuel catholique gratuit (France)

Un mensuel catholique gratuit, "L'invisible", va être mis en circulation mercredi, diffusé à 200.000 exemplaires, pour "répondre aux fortes attentes spirituelles d'aujourd'hui", annoncent ses fondateurs dans un communiqué.

"Alors que la religion est plus que jamais reléguée dans la sphère privée, L?invisible souhaite donner à la foi chrétienne une visibilité nouvelle dans la société française", écrivent les fondateurs du mensuel Jean-Baptiste Fourtané, fondateur du Festival de Pâques à Chartres et Hubert de Torcy, directeur des Éditions de l?Emmanuel.

Le premier numéro de L'Invisible publie un sondage selon lequel plus de sept Français sur dix considèrent la religion comme un atout pour la société. Il compte 24 pages et comporte un cahier central donnant des informations paroissiales de proximité.

Trois titres de la presse catholique se sont associés au projet, l'hebdomadaire La Vie, le mensuel de prière Magnificat et le mensuel Il est vivant!.

(AFP - le 27 janvier 2010, 19h58)

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« L’Invisible », c’est le nom d’un nouveau mensuel catholique qui sort ce mercredi. Sa particularité : il est gratuit. Diffusé à 200 000 exemplaires, le premier numéro publie un sondage selon lequel plus de sept français sur dix considèrent la religion comme un atout pour la société. Alors pourquoi ne pas aller à la rencontre de ces personnes qui ne fréquentent pas forcément les paroisses mais qui ont de fortes attentes spirituelles ? C’est cette réflexion qui a mené Jean-Baptiste Fourtané et Hubert de Torcy à créer ce magazine. Présentation de ce nouveau titre par Jean-Baptiste Fourtané : il nous explique pourquoi le choix d’un gratuit.

Trois titres de la presse catholique se sont associés à ce projet : l’hebdomadaire « La Vie », le mensuel de prière « Magnificat » et le mensuel « Il est vivant ! »

www.radiovaticana.org

mercoledì 27 gennaio 2010

Dopo DEWEY "Le strutture concettuali nella pedagogia di Bruner e la psicologia del linguaggio

John Dewey fu anche un pragmatista(1859-1952), non solo il piú significativo pensatore americano, ma anche un esponente il rilievo di tutta la cultura del Novecento. Autore, tra l'altro, di Studi sulla teoria logica, La ricostruzione filosofica, Esperienza e natura, La ricerca della certezza, Filosofia e civiltà, Arte come esperienza, Una fede comune, Libertà e cultura, Natura e condotta dell'uomo, Dewey è approdato al pragmatismo attraverso una revisione critica dell'hegelismo: la realtà è, si, un tutto; ma tale tutto non è razionalità assoluta; in esso non coincidono essere e dover-essere, essere e valore.

Ha confutato la nozione classica di esperienza: cominciamo appena ora a intendere che è annullata la psicologia che dominava la speculazione filosofica dei secoli XVIII e XIX. "Essa affermava che la vita mentale ha origine nelle sensazioni che sono ricevute separatamente e passivamente e si riuniscono, per mezzo delle leggi della memoria e dell'associazione, in un mosaico di immagini, di percezioni e di concezioni. I sensi erano considerati come ingressi o vie della conoscenza. Salvo che nel combinare le atomistiche sensazioni, la mente era del tutto passiva e quiescente nel conoscere. Volizione, azione, emozione, desiderio, sono conseguenze delle sensazioni e delle immagini. Il fattore intellettuale o conoscitivo viene per primo e la vita emotiva e volitiva è solo una conseguente congiunzione di idee con sensazioni di piacere e di dolore".

Tale nozione risulta ormai da contestare in base ai risultati della moderna scienza biologica:infatti lo sviluppo della biologia ha avuto per effetto di capovolgere questa visione. Se c'è vita, c'è comportamento, attività.

Seguono conseguenze importanti per la filosofia: l'interazione tra organismo e ambiente che si traduce in adattamento che rende possibile l'utilizzazione dell'ambiente stesso, ciò è il fatto primario. La conoscenza è relegata in una posizione derivata, secondaria, anche se la sua importanza è comunque riconosciuta. La conoscenza non è qualcosa di staccato e sufficiente a sé stesso, ma è coinvolta nel processo da cui la vita si sviluppa.

I sensi perdono il loro significato di "ingressi della conoscenza", per assumere quello di stimoli all'azione. Per un animale, un'affezione all'occhio o all'orecchio non è inutile materia d'informazione intorno a qualcosa d'indifferente che accade nel mondo. Ma è stimolo ad agire nel modo più utile. E' un filo conduttore per il comportamento, fattore direttivo nell'adattamento della vita al proprio ambiente. "Ha la qualità di un incitamento, non di una contemplazione". Tutta la disputa empirismo/razionalismo sul valore intellettuale delle sensazioni diviene cosí obsoleta. Il problema delle sensazioni si inserisce nel capitolo stimolo-risposta, non in quello di conoscenza-come-elemento-consapevole. una sensazione segna una interruzione in un corso di azioni già iniziato. Le sensazioni di questa specie sono emotive e pratiche, piuttosto che cognitive e intellettuali, sono urti del mutamento, sono segnali per dare direzione nuova all'azione.

Io "sono", esisto, quali sono i caratteri distintivi di questa esistenza? Nell'esperienza pratica dell'uomo domina l'incertezza egli si proietta rischiando spesso l'errore. "La filosofia non deve sostituirsi alle superstizioni e alla magia - tipiche della società primitiva - nel creare l'illusione di una realtà e di una esistenza umana "garantite"; da forze, interne o esterne al reale, di natura divina. Non deve creare nell'uomo l'immotivata fiducia nella "riuscita" dei suoi progetti, nella attuazione sicura dei suoi scopi, immaginandoli in un quadro del reale ordinato secondo razionalità. Non deve obliare ciò che è precario, instabile, imperfetto, il male, l'errore, la morte, relegando tutto ciò nella categoria dell'"apparenza"."

Tutto ciò è comunque "reale". "Questo" mondo è il campo d'azione dell'uomo; il quale deve tendere a "ridurre" la precarietà, il male, l'ignoranza, e lo stesso influsso della morte nella sua vita quotidiana; e addirittura deve tendere, attraverso la ricerca metodologicamente organizzata, a "trarre partito dalla contingenza".

La lotta col reale dev'essere guidata dall'indagine scientifica e filosofica. Ma che cosa Dewey intende per "indagine"? Essa "è la trasformazione controllata o diretta di una situazione indeterminata in una situazione determinata nelle sue distinzioni e relazioni costitutive, a tal punto da convertire gli elementi della situazione originaria in una totalità unificata".

Quindi l'indagine nasce dal dubbio-incertezza legati al carattere problematico della realtà. E si sviluppa in questo modo: "assunto il reale sul piano conoscitivo come "problema",se ne individuano i termini; quindi si formula una "idea" o "possibilità di soluzione", o anche "ipotesi anticipatoria" di un possibile evento futuro; tale idea viene quindi sviluppata in termini di "ragionamento", il quale viene espresso in parole affinché si espliciti il senso stesso dell'idea; poi si sottopone l'ipotesi alla prova dell'esperimento; si potranno avere allora due possibilità: la prima è che l'esperimento non convalidi l'ipotesi, e in tal caso però l'esperimento stesso indicherà in qual modo essa debba esser corretta; oppure, ed è la seconda possibilità, che l'esperimento confermi l'ipotesi, e in tal caso questa si trasformerà in un "giudizio", che poi altro non è che una "decisione direttiva di attività future"."

Le idee sono quindi per Dewey di natura "funzionale", sono "strumenti" per produrre "operazioni" atte a dare "soluzioni" che permettano un "intervento" sul reale.

L'uomo conosce ed agisce. Ma questi due momenti non sono scissi tra loro. Anche quando conosce, agisce, e non solo nel senso che nel conoscere egli è attivo, ma anche in quello che con la conoscenza egli si propone e attua sempre una trasformazione della realtà. E cosí pure, quando agisce, conosce, perché ogni azione, che e sempre condizionata dalla conoscenza, produce essa stessa una nuova conoscenza.

L'uomo è anzitutto "impulsi" e "abitudini"; è formato da caratteri primari, o "impulsi istintivi", e da caratteri secondari, o "abitudini". Nell'ordine "gli impulsi sono primi nel tempo"; per esempio guidano la vita infantile; ma gl'impulsi non garantiscono indipendenza: il bambino dipende dagli altri. Gli umani adulti intervengono sugli impulsi disciplinandoli; trasmettono le loro abitudini così "i bambini devono agli adulti la possibilità di esprimere le loro attività native in modi che abbiano significato", un significato sociale, con la possibilità di divenire autonomi e partecipare in modo "significativo" alla vita sociale.

"Le condizioni sociali educano le attività originarie in disposizioni finite e significative". Con tale educazione però il rapporto tra istinti e abitudini si capovolge. Le abitudini cioè, che "in quanto attività primarie organizzate", cioè "in quanto svolgimento elaborato delle attività istintive", hanno la loro ragione d'essere nella socializzazione degli istinti, e pertanto "sono secondarie e acquisite, non native e originarie", poi, nella condotta dell'uomo adulto, diventano elementi "primari", relegando gl'impulsi a condizione di dipendenza e a ruolo secondario. Le abitudini prevalgono sugli impulsi e li condizionano quanto alle forme espressive. Ma non li pongono, e non li possono porre, fuori gioco. Devono sempre interagire con gl'impulsi. Se le abitudini avessero un predominio totale, l'uomo non avvertirebbe neppure l'esigenza di modificarsi e modificare la realtà esterna e le società e le epoche non muterebbero la loro "qualità". È l'istinto, dunque, che con la sua vitalità rompe gli schemi di comportamento e apre l'uomo all'esperienza del nuovo.
***
La dialettica istinti-abitudini è costruttiva, l'uomo è anche "coscienza", "spirito" e "io". Prima è "spirito", cioè "un sistema di credenze, nozioni, ignoranze, di accettazioni e di rifiuti, che si è formato sotto l'influenza dell'abitudine e della tradizione". Lo spirito è "il sistema organizzato dei significati esprimibili" che permettono l'azione, non è propriamente ciò che caratterizza l'individualità umana, ma ciò che rende "il singolo" membro della sua comunità. Ma l'individuo non si conforma totalmente al suo "spirito". Egli vive esperienze, e queste trovano nella "coscienza" il centro unificante di rielaborazione critica. È nella sua coscienza che matura il bisogno del mutamento, col "dubbio-bisogno che si traduce in idea", cioè in progetto previsionale della trasformazione delle esperienze.

Questo elemento non caratterizza la specificità del singolo: è invece un "io". L'io è, in senso proprio, l'individualità che "emerge" dallo spirito del suo popolo e del suo tempo e, con l'elaborazione dell'esperienza nella coscienza, si fa "personalità" relazionandosi attivamente con la realtà.

Tale personalità però è "ambigua". Essa può risolversi in un adeguamento al mondo, o in un rifiuto del mondo cosí come esso si presenta, per trasformarlo. Solo nel secondo caso raggiunge la sua pienezza. L'uomo - in quanto personalità piena - critica, progetta, e si rende autore della soluzione di un problema o di una modificazione del reale; e se ne assume la responsabilità rispetto alla "tradizione" e agli "altri". L'io, cosí, mentre accoglie l'esperienza la muta, assumendo la tradizione la nega, partecipando alla vita sociale la condiziona e la rinnova col suo pensiero e con la sua iniziativa.

Dato tutto questo, come si risolve il problema della libertà umana?

"Bisogna sfrondarlo dei suoi connotati di astrattezza, e riferirlo alla condizione concreta dell'uomo. L'interazione effettiva tra uomo e mondo, intendendo il mondo non solo in senso naturale, esclude la soluzione del libero arbitrio assoluto. La libertà, intesa sul piano operativo, sussiste, ma è sempre condizionata. E lo è da molti fattori interni ed esterni, soggettivi ed oggettivi. Tra quelli soggettivi si possono annoverare, ad esempio, il desiderio della novità, la capacità d'ideare e di eseguire programmi d'intervento sulla realtà, ed anche la disponibilità a mutare tali programmi ove mai occorresse. Sicché solo le conseguenze dell'azione, cioè la sua riuscita o il suo fallimento, sono il segno e il criterio di valutazione dell'attuazione della libertà individuale e del suo grado".

L'uomo per Dewey, è sempre attivo nel mondo. Tutto ciò che fa è produttivo, e richiede sempre che si stabiliscano fini e si scelgano mezzi per attuarli. Ma sia per determinare i fini che per scegliere i mezzi l'uomo deve procedere a "valutazioni". È lui che stabilisce che cosa è fine e che cosa mezzo. Non ci sono fini e mezzi in quanto tali, e non c'è un rapporto assoluto tra di essi. Ogni fine può essere anche mezzo, e ogni mezzo può esser fruito come fine in sé.

Ciò comporta una conseguenza rilevante. Non è possibile stabilire in assoluto la distinzione tra le attività che realizzano mezzi e quelle che realizzano fini. Non è possibile porre una precisa linea di demarcazione.

Si prenda ad esempio l'arte. Qual è il suo scopo? quello di produrre un fine, la bellezza? o quello di produrre un mezzo, un oggetto tale da esser fruito, goduto, dal contemplatore? Detto in altro modo, l'oggetto d'arte dev'essere bello o utile? Se si riflette, la creazione artistica è sempre produzione di valori estetici attraverso l'utilizzazione finalizzata di materiali e strumenti adeguati. Dunque già nel momento creativo è difficile separare il bello dall'utile: l'utile è necessariamente connesso al bello. E poi l'oggetto estetico non esaurisce la sua funzione nella realizzazione della bellezza. Esso può e deve esser goduto, può e deve essere utile all'arricchimento della vita umana. E allora: la bellezza è - in sé - un fine, un mezzo, o l'uno e l'altro? L'attività estetica è - per sé - produttiva di fini, di mezzi o di entrambe le cose? Ciò che è fine è anche mezzo, e viceversa; e ciò ch'è bello, è anche utile, e viceversa. Di qui deriva che non è possibile separare arti belle, realizzatrici di fini, e arti utili, realizzatrici di mezzi. Anche le arti utili, in quanto e nella misura in cui contribuiscono ad arricchire il senso della vita, sono belle come quelle cosiddette "belle".

Ma non c'è proprio nessuna differenza tra le arti "estetiche" e quelle "produttive", e tra l'oggetto artistico e, ad esempio, il prodotto industriale? Sí, dice Dewey, la differenza sta nel fatto che le arti produttive costruiscono oggetti con una forma funzionale allo scopo d'uso; le arti estetiche creano un oggetto con una forma che è indipendente dall'uso particolare possibile, e che realizza in sé la pienezza dell'esperienza artistica. Tale pienezza risiede nella perfezione autonoma dell'insieme. Il fine delle arti estetiche insomma è la forma stessa come perfezione. L'oggetto estetico è quindi per sua origine e natura "espressivo" e non "strumentale"; è progettato e realizzato come "fine" e non come "mezzo".

In ogni momento della sua vita spirituale l'uomo procede a "valutazioni"; stabilisce "valori" da conseguire, e determina i mezzi. Ma dei valori si può avere conoscenza rigorosa? Si crede generalmente, dice Dewey, che solo i dati empirici siano verificabili operativamente, e che i valori si sottraggano a tale verifica. Si crede cioè che mentre è possibile una scienza dell'esperienza, non è possibile una scienza dei valori. Ciò è errato. Anzi una tale convinzione relega, ad esempio, il bello o anche il bene nell'ambito esclusivamente "soggettivo"; implica che una valutazione di bellezza o di bontà sia necessariamente arbitraria; e comporta, ad esempio, che i valori sociali, e le istituzioni che li incarnano, siano inevitabilmente l'esito di un caso irrazionale. Tutto ciò bisogna evitare. È necessario che una ricerca, scientificamente organizzata, sottragga le valutazioni etiche, estetiche, sociali, politiche, religiose, al relativismo soggettivistico, e quindi all'arbitrio e alla provvisorietà; e contemporaneamente le sottragga alla tentazione di ancorarle a valori metafisicamente oggettivi. Cioè bisogna realizzare un processo valutativo che implichi sempre una critica del presente, del già acquisito, la fissazione ipotetica di un risultato possibile, cioè del fine, e, secondo relazioni verificabili, la determinazione di attività e di mezzi che siano adeguati alla realizzazione del fine. C'è bisogno insomma di rigore scientifico. Se si adottano questi criteri nelle valutazioni, allora è possibile strutturare "scientificamente" anche la società.

Quale ruolo, ora, deve assumere la filosofia? Posto che lo scopo dell'uomo è "aumentare il controllo sul suo benessere", "assicurarsi l'avvenire" attraverso l'utilizzazione razionale del reale, cioè attraverso "l impiego del fatto presente come segno di qualcosa che ancora non è dato", la filosofia non può essere "contemplativa" dell'ordine e dei valori esistenti, né semplicemente "conoscitiva" della realtà naturale. E tanto meno deve andare alla ricerca di principi primi e assoluti. Le "idee" filosofiche devono nascere dalla "critica", e devono "progettare" l'innovazione del mondo umano in modo che la vita stessa dell'uomo risulti arricchita di valori e di significati. Certo, l'attività filosofica è "teoretica": essa "impiega gli accadimenti per la scoperta e la determinazione delle conseguenze, per la formazione di nuove connessioni dinamiche". In ciò il filosofo partecipa in modo "indiretto" alla progettazione del futuro, rispetto, ad esempio, al politico. Ma lo scopo dovrà essere quello di aprire "una prospettiva sulle possibilità future in vista di conseguire il meglio e di allontanare il peggio", non di fare "una rassegna contemplativa dell'esistenza, né un'analisi di ciò ch'è passato ed esaurito". La filosofia pertanto "deve sviluppare idee che fanno presa sulle crisi effettive della vita, idee che hanno influenza nell'affrontarle". Idee che però devono essere sempre "verificate", perché anche per la filosofia "il successo del conseguimento degli effetti misura la portata della previsione".

Se la filosofia deve abbandonare la ricerca dei principi primi e dei valori assoluti, che ne sarà allora della religione, che per sua natura è vincolata a valori fissi, eterni, immutabili? Anche la validità dell'esperienza religiosa è data da quella degli effetti che produce. Si badi: dell'esperienza religiosa, non delle religioni. Se l'esperienza religiosa autentica, aliena da credenze e pratiche superstiziose, procura un "migliore adattamento alla vita", dà "maggior senso di sicurezza e di stabilità", allora essa rientra legittimamente nell'esistenza dell'uomo. Essa è "moralità toccata dall'emozione". E Dio non sarà che l'ideale unità di quei valori e di quei beni che l'uomo pone davanti a sé come "prospettive" da concretare. [...]

www.clerus.org (sezione filosofia contemporanea, autore Giuseppe Tortora)

lunedì 25 gennaio 2010

La tunica di Cristo

[...]Ebbene, può forse esserci qualcuno che creda si possa dividere l'unità della Chiesa, questa unità che viene dalla stabilità divina e che è legata ai misteri celesti, e pensare che si possa dissolvere per la divergenza di opposte volontà? Chi non si tiene in questa unità, non si tiene nella legge di Dio, non si tiene nella fede del Padre e del Figlio, non si tiene nella vita e nella salvezza.
Questo mistero dell'unità, questo vincolo di concordia stretto alla perfezione, ci viene indicato nel vangelo, là dove si parla della tunica del Signore Gesù Cristo: essa non viene affatto divisa né strappata; ma si gettano le sorti sulla veste di Cristo, sicché chi dovrà rivestirsi di Cristo riceva la veste intatta e possieda indivisa e integra quella tunica. Così leggiamo nella Divina Scrittura: "Quanto poi alla tunica, poiché era senza cuciture dall'alto al basso e tessuta d'un pezzo, si dissero a vicenda non stracciamola, ma tiriamola a sorte a chi tocchi". (Gv 19,23) Lui portava l'unità che viene dall'alto, che viene cioè dal cielo e dal Padre: tale unità non poteva affatto essere affatto divisa da chi la ricevesse in possesso, conservandosi tutta intera e assolutamente indissolubile. Non può possedere la veste di Cristo, colui che divide e separa la Chiesa di Cristo.

S.Cipriano III sec. (L'unità della Chiesa cattolica 6-7)

venerdì 22 gennaio 2010

Intervista - Giornalismo

Intervista al coordinatore della Scuola di giornalismo della Lumsa, alla vigilia della festività di San Francesco di Sales, patrono dei giornalisti di Michela Nicolais (Sir)

«Qual è “il peccato di stato” di un giornalista?
La maldicenza, che “equivale ad un omicidio”, perché è in grado di arrivare fino a “condannare senza appello” una persona sulla base di semplici insinuazioni». Ne è convinto Angelo Paoluzi, docente e coordinatore della Scuola di giornalismo della Lumsa, intervistato alla vigilia della festa di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, e della presentazione del messaggio del Papa per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali.

Come definirebbe il tipo di linguaggio che utilizzano prevalentemente i media e che non sembra affatto quello di san Francesco di Sales?

È chiaramente un linguaggio di carattere essenziale, che dovrebbe essere ridotto ai suoi elementi più semplici, per far sì che tutti siano in grado di capirlo. Molti giornalisti, invece, parlano in sindacalese, politichese, sportivese… tutti linguaggi tipici del settore in cui il singolo giornalista opera. Di per sé, il dato non è assolutamente negativo: ognuno di noi, all’interno dei vari media, cerca le cose che gli interessano. Il lettore del giornale non è in genere il lettore del giornale ‘in toto’, ma di alcuni settori di esso, ed il limite e il merito di un giornale è proprio quello di essere onnicomprensivo. Tenuto conto della varietà dei vari linguaggi, è però un dato sotto gli occhi di tutti che il comune modo espressivo si sta imbarbarendo: il giornalismo è oggi sempre più forzato, gridato, esasperato e conflittuale nei toni. Soprattutto è un giornalismo che si è involgarito, grazie all’introduzione di espressioni volgari, ‘grossier’, approssimative, tali da offendere anche la sensibilità del lettore, il quale però senza accorgersene si abitua. La volgarità, l’esasperazione dei toni, l’approssimazione si traducono in un mancato rispetto del lettore che, assuefacendosi a questo tipo di linguaggio, non si accorge che è lui stesso il primo ad essere danneggiato. San Francesco di Sales indica un altro stile comunicativo.

Quanto pesa lo strapotere della tv e dei nuovi media?

La televisione pesa moltissimo. Sono 25 anni ormai – da quando Murdoch, nel 1984-1985, decise di dare via libera al ‘trash’ in tv – che stiamo peggiorando anche la qualità del linguaggio scritto, perché peggiora la qualità del linguaggio audiovisivo. La volgarità è come uno tsunami che ha travolto tutti, ma sono state scelte precise che hanno determinato tale evoluzione, o meglio involuzione. Anche quei giornalisti che hanno una migliore buona volontà, e che sono dotati di un’eleganza naturale, inevitabilmente finiscono con l’essere travolti, e il loro linguaggio ne risente.

È possibile, in questo contesto, recuperare uno “stile” giornalistico più “mite”, come quello di Francesco di Sales, da non confondere con “più debole”?

È certamente possibile, perché esiste una responsabilità personale. Il giornalista non può trincerarsi dietro al fatto che ‘oggi il pubblico vuole così…’. Il comunicatore deve essere sempre consapevole delle proprie responsabilità: non può cedere, deve resistere. Se si resiste in molti, può instaurarsi un circolo virtuoso per cui l’imitazione evolve in senso positivo. Esiste anche un contagio positivo, non soltanto un contagio negativo: l’obiettivo è quello di creare una spirale virtuosa di imitazione, per cui il giornalista che scrive in un certo modo venga considerato un modello da imitare. Se si riesce ad instaurare un rapporto con parole e fatti, fuggendo dagli stereotipi, forse la deriva della volgarità e dello stile gridato può essere superata.

C’è un “supplemento di responsabilità” per i giornalisti cattolici vista “la professionalità” del loro patrono?

C’è, e a mio avviso consiste nel resistere fermamente alla tentazione del ‘male dicere’, della maldicenza, del pettegolezzo, della diffamazione, dello sberleffo, della cattiveria… Moltissimi giornalisti credono di fare il loro mestiere proprio utilizzando questi mezzi che io definirei satanici, perché introducono la cattiveria, l’invidia, la competizione, tutti quei difetti di cui parla san Paolo nella Lettera ai Romani. Creare ponti, come ci esorta a fare il Papa, significa invece mettersi sempre un passo indietro rispetto alle cose di cui si parla: informare, senza voler giudicare. Tutto ciò può accadere se il giornalista gioca tutta la sua attività nella completezza dell’informazione: i fatti sono di per sé espressivi, basta saperli raccontare senza forzarli, all’insegna del rispetto della persona. La capacità di autocritica, la disponibilità a farsi un esame di coscienza dovrebbero infine essere tipici di un giornalista cattolico, qualora esso lo sia non solo a parole.

M. Nicolais www.romasette.it

Benedetto XVI sulla settimana di preghiera per l'unità dei cristiani

Siamo al centro della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, un’iniziativa ecumenica, che si è andata strutturando ormai da oltre un secolo, e che attira ogni anno l’attenzione su un tema, quello dell’unità visibile tra i cristiani, che coinvolge la coscienza e stimola l’impegno di quanti credono in Cristo. E lo fa innanzitutto con l’invito alla preghiera, ad imitazione di Gesù stesso, che chiede al Padre per i suoi discepoli "Siano uno, affinché il mondo creda" (Gv 17,21). Il richiamo perseverante alla preghiera per la piena comunione tra i seguaci del Signore manifesta l’orientamento più autentico e più profondo dell’intera ricerca ecumenica, perché l’unità, prima di tutto, è dono di Dio. Infatti, come afferma il Concilio Vaticano Secondo: "il santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell’unica Chiesa di Cristo, una e unica, supera tutte le forze umane" (Unitatis Redintegratio, 24). Pertanto, oltre al nostro sforzo di sviluppare relazioni fraterne e promuovere il dialogo per chiarire e risolvere le divergenze che separano le Chiese e le Comunità ecclesiali, è necessaria la fiduciosa e concorde invocazione al Signore.

Il tema di quest’anno è preso dal Vangelo di san Luca, dalle ultime parole del Risorto ai suoi discepoli "Di questo voi siete testimoni" (Lc 24,48). La proposta del tema è stata chiesta dal Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, in accordo con la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese, ad un gruppo ecumenico della Scozia. Un secolo fa la Conferenza Mondiale per la considerazione dei problemi in riferimento al mondo non cristiano ebbe luogo proprio ad Edimburgo, in Scozia, dal 13 al 24 giugno 1910. Tra i problemi allora discussi vi fu quello della difficoltà oggettiva di proporre con credibilità l’annuncio evangelico al mondo non cristiano da parte dei cristiani divisi tra loro. Se ad un mondo che non conosce Cristo, che si è allontanato da Lui o che si mostra indifferente al Vangelo, i cristiani si presentano non uniti, anzi spesso contrapposti, sarà credibile l’annuncio di Cristo come unico Salvatore del mondo e nostra pace? Il rapporto fra unità e missione da quel momento ha rappresentato una dimensione essenziale dell’intera azione ecumenica e il suo punto di partenza. Ed è per questo specifico apporto che quella Conferenza di Edimburgo rimane come uno dei punti fermi dell’ecumenismo moderno. La Chiesa Cattolica, nel Concilio Vaticano II, riprese e ribadì con vigore questa prospettiva, affermando che la divisione tra i discepoli di Gesù "non solo contraddice apertamente alla volontà di Cristo, ma anche è di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del Vangelo ad ogni creatura" (Unitatis Redintegratio, 1).

In tale contesto teologico e spirituale si situa il tema proposto in questa Settimana per la meditazione e la preghiera: l’esigenza di una testimonianza comune a Cristo. Il breve testo proposto come tema "Di questo voi siete testimoni" è da leggere nel contesto dell’intero capitolo 24 del Vangelo secondo Luca. Ricordiamo brevemente il contenuto di questo capitolo. Prima le donne si recano al sepolcro, vedono i segni della Risurrezione di Gesù e annunciano quanto hanno visto agli Apostoli e agli altri discepoli (v. 8); poi lo stesso Risorto appare ai discepoli di Emmaus lungo il cammino, appare a Simon Pietro e successivamente, agli "Undici e agli altri che erano con loro" (v. 33). Egli apre la mente alla comprensione delle Scritture circa la sua Morte redentrice e la sua Risurrezione, affermando che "nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati" (v. 47). Ai discepoli che si trovano "riuniti" insieme e che sono stati testimoni della sua missione, il Signore Risorto promette il dono dello Spirito Santo (cfr v. 49), affinché insieme lo testimonino a tutti i popoli. Da tale imperativo – "Di tutto ciò", di questo voi siete testimoni (cfr Lc 24,48) -, che è il tema di questa Settimana per l’unità dei cristiani, nascono per noi due domande. La prima: cosa è "tutto ciò"? La seconda: come possiamo noi essere testimoni di "tutto ciò"?

Se vediamo il contesto del capitolo, "tutto ciò" vuole dire innanzitutto la Croce e la Risurrezione: i discepoli hanno visto la crocifissione del Signore, vedono il Risorto e così cominciano a capire tutte le Scritture che parlano del mistero della Passione e del dono della Risurrezione. "Tutto ciò" quindi è il mistero di Cristo, del Figlio di Dio fattosi uomo, morto per noi e risorto, vivo per sempre e così garanzia della nostra vita eterna.

Ma conoscendo Cristo – questo è il punto essenziale - conosciamo il volto di Dio. Cristo è soprattutto la rivelazione di Dio. In tutti i tempi, gli uomini percepiscono l’esistenza di Dio, un Dio unico, ma che è lontano e non si mostra. In Cristo questo Dio si mostra, il Dio lontano diventa vicino. "Tutto ciò" è quindi, soprattutto col mistero di Cristo, Dio che si è fatto vicino a noi. Ciò implica un’altra dimensione: Cristo non è mai solo; Egli è venuto in mezzo a noi, è morto solo, ma è risorto per attirare tutti sé. Cristo, come dice la Scrittura, si crea un corpo, riunisce tutta l’umanità nella sua realtà della vita immortale. E così, in Cristo che riunisce l’umanità, conosciamo il futuro dell’umanità: la vita eterna. Tutto ciò, quindi, è molto semplice, in ultima istanza: conosciamo Dio conoscendo Cristo, il suo corpo, il mistero della Chiesa e la promessa della vita eterna.

Veniamo ora alla seconda domanda. Come possiamo noi essere testimoni di "tutto ciò"? Possiamo essere testimoni solo conoscendo Cristo e, conoscendo Cristo, anche conoscendo Dio. Ma conoscere Cristo implica certamente una dimensione intellettuale - imparare quanto conosciamo da Cristo - ma è sempre molto più che un processo intellettuale: è un processo esistenziale, è un processo dell'apertura del mio io, della mia trasformazione dalla presenza e dalla forza di Cristo, e così è anche un processo di apertura a tutti gli altri che devono essere corpo di Cristo. In questo modo, è evidente che conoscere Cristo, come processo intellettuale e soprattutto esistenziale, è un processo che ci fa testimoni. In altre parole, possiamo essere testimoni solo se Cristo lo conosciamo di prima mano e non solo da altri, dalla nostra propria vita, dal nostro incontro personale con Cristo. Incontrandolo realmente nella nostra vita di fede diventiamo testimoni e possiamo così contribuire alla novità del mondo, alla vita eterna. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dà un'indicazione anche per il contenuto di questo "tutto ciò". La Chiesa ha riunito e riassunto l'essenziale di quanto il Signore ci ha donato nella Rivelazione, nel "Simbolo detto niceno-costantinopolitano, il quale trae la sua grande autorità dal fatto di essere frutto dei primi due Concili Ecumenici (325 e 381)" (CCC, n. 195). Il Catechismo precisa che questo Simbolo "è tuttora comune a tutte le grandi Chiese dell’Oriente e dell’Occidente" (Ibid.). In questo Simbolo quindi si trovano le verità di fede che i cristiani possono professare e testimoniare insieme, affinché il mondo creda, manifestando, con il desiderio e l’impegno di superare le divergenze esistenti, la volontà di camminare verso la piena comunione, l’unità del Corpo di Cristo.

La celebrazione della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani ci porta a considerare altri aspetti importanti per l’ecumenismo. Innanzitutto, il grande progresso realizzato nelle relazioni tra Chiese e Comunità ecclesiali dopo la Conferenza di Edimburgo di un secolo fa. Il movimento ecumenico moderno si è sviluppato in modo così significativo da diventare, nell’ultimo secolo, un elemento importante nella vita della Chiesa, ricordando il problema dell’unità tra tutti i cristiani e sostenendo anche la crescita della comunione tra loro. Esso non solo favorisce i rapporti fraterni tra le Chiese e le Comunità ecclesiali in risposta al comandamento dell’amore, ma stimola anche la ricerca teologica. Inoltre, esso coinvolge la vita concreta delle Chiese e delle Comunità ecclesiali con tematiche che toccano la pastorale e la vita sacramentale, come, ad esempio, il mutuo riconoscimento del Battesimo, le questioni relative ai matrimoni misti, i casi parziali di comunicatio in sacris in situazioni particolari ben definite. Nel solco di tale spirito ecumenico, i contatti sono andati allargandosi anche a movimenti pentecostali, evangelici e carismatici, per una maggiore conoscenza reciproca, benchè non manchino problemi gravi in questo settore.

La Chiesa cattolica, dal Concilio Vaticano II in poi, è entrata in relazioni fraterne con tutte le Chiese d’Oriente e le Comunità ecclesiali d’Occidente, organizzando, in particolare, con la maggior parte di esse, dialoghi teologici bilaterali, che hanno portato a trovare convergenze o anche consensi in vari punti, approfondendo così i vincoli di comunione. Nell’anno appena trascorso i vari dialoghi hanno registrato positivi passi. Con le Chiese Ortodosse la Commissione Mista Internazionale per il Dialogo Teologico ha iniziato, nell’XI Sessione plenaria svoltasi a Paphos di Cipro nell’ottobre 2009, lo studio di un tema cruciale nel dialogo fra cattolici e ortodossi: Il ruolo del vescovo di Roma nella comunione della Chiesa nel primo millennio, cioè nel tempo in cui i cristiani di Oriente e di Occidente vivevano nella piena comunione. Questo studio si estenderà in seguito al secondo millennio. Ho già più volte chiesto la preghiera dei cattolici per questo dialogo delicato ed essenziale per l’intero movimento ecumenico. Anche con le Antiche Chiese ortodosse d’Oriente (copta, etiopica, sira, armena) l’analoga Commissione Mista si è incontrata dal 26 al 30 gennaio dello scorso anno. Tali importanti iniziative attestano come sia in atto un dialogo profondo e ricco di speranze con tutte le Chiese d’Oriente non in piena comunione con Roma, nella loro propria specificità.

Nel corso dell’anno passato, con le Comunità ecclesiali di Occidente si sono esaminati i risultati raggiunti nei vari dialoghi in questi quarant’anni, soffermandosi, in particolare, su quelli con la Comunione Anglicana, con la Federazione Luterana Mondiale, con l’Alleanza Riformata Mondiale e con il Consiglio Mondiale Metodista. Al riguardo, il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani ha realizzato uno studio per enucleare i punti di convergenza a cui si è giunti nei relativi dialoghi bilaterali, e segnalare, allo stesso tempo, i problemi aperti su cui occorrerà iniziare una nuova fase di confronto.

Tra gli eventi recenti, vorrei menzionare la commemorazione del decimo anniversario della Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, celebrato insieme da cattolici e luterani il 31 ottobre 2009, per stimolare il proseguimento del dialogo, come pure la visita a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, il Dottor Rowan Williams, il quale ha avuto anche colloqui sulla particolare situazione in cui si trova la Comunione Anglicana. Il comune impegno di continuare le relazioni e il dialogo sono un segno positivo, che manifesta quanto sia intenso il desiderio dell’unità, nonostante tutti i problemi che si oppongono. Così vediamo che c’è una dimensione della nostra responsabilità nel fare tutto ciò che è possibile per arrivare realmente all’unità, ma c’è l’altra dimensione, quella dell’azione divina, perché solo Dio può dare l’unità alla Chiesa. Una unità "autofatta" sarebbe umana, ma noi desideriamo la Chiesa di Dio, fatta da Dio, il quale quando vorrà e quando noi saremo pronti, creerà l’unità. Dobbiamo tenere presente anche quanti progressi reali si sono raggiunti nella collaborazione e nella fraternità in tutti questi anni, in questi ultimi cinquant’anni. Allo stesso tempo, dobbiamo sapere che il lavoro ecumenico non è un processo lineare. Infatti, problemi vecchi, nati nel contesto di un’altra epoca, perdono il loro peso, mentre nel contesto odierno nascono nuovi problemi e nuove difficoltà. Pertanto dobbiamo essere sempre disponibili per un processo di purificazione, nel quale il Signore ci renda capaci di essere uniti.

Cari fratelli e sorelle, per la complessa realtà ecumenica, per la promozione del dialogo, come pure affinché i cristiani nel nostro tempo possano dare una nuova testimonianza comune di fedeltà a Cristo davanti a questo nostro mondo, chiedo la preghiera di tutti. Il Signore ascolti l’invocazione nostra e di tutti i cristiani, che in questa settimana si eleva a Lui con particolare intensità.

martedì 19 gennaio 2010

Incontri ecumenici - Genova

Settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani 18-25 gennaio 2010

Voi sarete testimoni di tutto ciò (Luca 24,48)

Incontri Ecumenici di Riflessione e Preghiera

Lunedì 18 gennaio ore 18 Incontro di preghiera
Chiesa Evangelica Valdese di San Pier d’Arena Via Rela 3r
Predica su Lc 24, 45-49
Padre Filip Sorin della Chiesa Oerodossa Romena
SE Cardinale Angelo Bagnasco Arcivescovo di Genova

Giovedì 21 gennaio ore 20,30 Incontro di preghiera
Chiesa Santa Sabina Via Donghi 8
Predica
Padre Michele Notarangelo della Chiesa Ortodossa Greca
Pastora Maike Bendig della Chiesa Luterana

Domenica 24 gennaio ore 20,30
Presso la Sala Frate Sole della Basilica dell’Annunziata in Piazza Bandiera
Incontro con SE Filip Arcivescovo Ortodosso di Poltava Patriarcato di Mosca
Sul tema “Martirio e resistenza al male: una sfida per l’Unità”

Sabato 23 gennaio ore 17
Conferenza al Quadrivium Piazza Santa Marta 5
“Amate lo straniero perché anche voi siste stati stranieri”
Sig Franca Di Lecce Direttore del Servizio Rifugiati ed Emigrati delle Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia
Sig Laura Dragomirescu rappresentante della Comunità Romena
Mons Marino Poggi Direttore della Caritas Diocesana Genovese

Lunedì 25 gennaio ore 18 Incontro di preghiera
Chiesa Ortodossa Romena Piazza Aprosio Sestri Ponente
Predica
Pastore Italo Pons della Chiesa Valdese
SE Mons Luigi Palletti Vescovo Ausiliare di Genova

sabato 16 gennaio 2010

CARITAS - Alessandria

Anche la Caritas alessandrina è mobilitata per dare un aiuto alle popolazioni colpite dal violento terremoto che ha devastato, martedì, Port au Prince, la capitale di Haiti, provocando migliaia di vittime e danni enormi. L’intera rete Caritas ha subito lanciato un appello per potere contribuire alla realizzazione del piano d’emergenza e ha messo a disposizione centomila euro per i bisogni immediati. Alcuni centri, tra cui la sede del Catholic Relief Services, Caritas statunitense, e un centro per ragazzi di strada risultano lesionati; un team Caritas di circa 10 persone è subito partito. Dalle prime informazioni ricevute le diocesi a nord e a sud del Paese sembra non siano state colpite in modo grave e possono essere utilizzate per l'accoglienza degli sfollati, oltre che come base per lo stoccaggio degli aiuti. Il Paese è diviso in due arcidiocesi, Cap-Haitien e Port-au-Prince e otto diocesi, in ognuna delle quali è attiva la Caritas: l’Fort-Liberté, Hinche, Les Gonaïves, Port-de-Paix, Anse-à-Veau e Miragoâne, Jacmel, Jérémie, Les Cayes. Anche le strutture nella vicina Repubblica Dominicana possono essere messe a disposizione.

Per sostenere gli interventi in corso si possono inviare offerte a Caritas Diocesana di Alessandria - Banco di Desio e della Brianza, filiale di Alessandria, piazza Libertà  IBAN: IT82 M034 4010 4000 0000 0121 700
oppure Segreteria Caritas, via Orfanelle, 25 - Alessandria  (telefono 0131 253119), dal lunedì al sabato dalle 8,30 alle 12.30 

Haiti è il paese più povero dell’America Latina ed è periodicamente provato da calamità naturali e crisi sociali. Dei circa nove milioni di abitanti, su una superficie che è poco più di quella della Sicilia, oltre la metà vive con meno di un dollaro al giorno. La Caritas del luogo, nata nel 1975, oltre ai consolidati impegni per l'alimentazione, la salute, l'educazione e l'abitazione, lo sviluppo integrale, si è sempre attivata in ogni emergenza e anche in questa occasione ha avviato aiuti d’urgenza, in coerenza con quella che il presidente, Monsignor Pierre André Dumas, vescovo di Anse-À-Veau et Miragoâne, ha definito “una pastorale samaritana, di prossimità, attenta alle piccole comunità, con una rinnovata opzione per i più poveri”. La Caritas Italiana da anni sostiene la Chiesa locale, in particolare per le emergenze e interventi di promozione della donna e di economia solidale, e ha prontamente manifestato vicinanza e solidarietà.

CARITAS - HAITI

TERREMOTO HAITI

Salvi tutti gli operatori Caritas ad Haiti.
La Conferenza episcopale italiana invita a sostenere le iniziative di solidarietà promosse dalla Caritas Italiana
“Le enormi difficoltà di comunicazione restano l’ostacolo più grande per il coordinamento dei nostri primi interventi. Cibo, acqua, tende, prodotti igienici sono le necessità immediate alle quali cerchiamo di rispondere”.
Joseph Jonides Villarson, responsabile per le emergenze di Caritas Haiti ringrazia per la solidarietà espressa dall’intera rete Caritas e aggiunge che tutti gli operatori che erano sul posto sono salvi e stanno già occupandosi degli aiuti d’urgenza.
Insieme al direttore, padre Serge Chadic, e alla coordinatrice, Marie Fausta Jean-Maurice, ha già visitato le zone più colpite della città : Delmas, la zona Palais des Ministères, Turgeau, Champs de Mars, Bas Lalue e Debussy.
Anche nelle precedenti emergenze Caritas Haiti è riuscita a fornire tempestivamente aiuti alimentari, tende, acqua potabile e assistenza sanitaria, grazie alla mobilitazione dei centri Caritas in tutte le dieci diocesi. Sta perciò utilizzando quanto già disponibile nei suoi magazzini.
Inoltre il CRS, Caritas statunitense, presente ad Haiti con proprie sedi, sta mettendo a disposizione kit da cucina e per l’igiene, disinfettanti e materassi per mille famiglie.
Si attende anche l’arrivo di cisterne per l’acqua potabile in grado di far fronte ai bisogni di duemila famiglie.
Altro materiale di prima necessità potrà essere reperito anche nei centri Caritas nella confinante Repubblica Domenicana.
Intanto, dopo l’appello del Santo Padre, anche la Chiesa italiana ha espresso vicinanza alla popolazione haitiana, mettendo a diposizione 2 milioni di euro tramite il Comitato per gli interventi caritativi a favore del terzo mondo.
La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana ha invitato inoltre le comunità ecclesiali a pregare per quanti sono stati colpiti dal tragico evento e a sostenere le iniziative di solidarietà promosse dalla Caritas italiana con l’obiettivo di alleviare le sofferenze di quella popolazione.

mercoledì 13 gennaio 2010

Il "buonismo" nel Vangelo

Cominciamo da Maria: non è molto ciò che lei dice o fa nei testi dei Vangeli ma è abbastanza, a cominciare da quel "fiat" che cambierà il suo destino e quello della storia umana. Un angelo, una voce, una colomba, quello che sia, una persona sospettosa e sul chi vive non si "apre" a nulla e a nessuno, figuriamoci all'azione dello Spirito Santo! E si reca pure incinta in un viaggio piuttosto impegnativo, forse a dorso di mulo, come doveva essere ai suoi tempi per andare ad aiutare la cugina Elisabetta che aveva concepito un figlio in età avanzata. Persino alle nozze di Cana, accanto al suo meraviglioso figliolo e circondata dai suoi amici, nella comprensibile e gioiosa ebbrezza di un banchetto di nozze avrebbe potuto tranquillamente farsi gli affari suoi pur essendosi accorta che i festeggiati avevano terminato il vino, e ciò durante un banchetto di nozze era proprio disdicevole. Che fa? Costringe il Figlio ad una manifestazione prima del tempo, gli forza la mano, per così dire ed ecco il banchetto degli amici sposi continuare nella gioia il suo svolgimento. E che dire del "buonismo" di S. Giuseppe? A quel tempo per le spose che "tradivano" la promessa prima delle nozze c'era la lapidazione! Ma veniamo al personaggio principale del Vangelo: Gesù. Dando per ormai arcinoto il suo "buonismo" verso le categorie sociali più bistrattate di quell'epoca, lebbrosi, donne peccatrici a cui permette persino che gli profumino i piedi, adultere che salva dagli accusatori con un astuto escamotage, samaritane che hanno avuto cinque mariti, ecc. ecc. notiamo come il suo buonismo non si ferma neanche davanti alle richieste di coloro che erano si può dire gli occupanti della sua terra, cioè i Romani, come avviene per la guarigione della figlia del centurione, o delle autorità religiose del tempo, il capo della sinagoga. Con Giuda Iscariota, poi, il traditore con cui intinge fino all'ultimo il boccone nel piatto, fino al rimprovero per Pietro che aggredisce di spada la guardia venuta per arrestarlo. Ma l'apice del "buonismo" di Gesù si ha quando morente sulla croce chiede al Padre celeste di perdonare coloro che lo hanno condannato e ucciso, cosa che sarà poi emulata da una foltissima schiera di martiri e santi, fino ai giorni nostri. (MLA)

Giona e la tolleranza di Dio

Ma chi crede, per chi si riconosce nella radice giudaico-cristiana, l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, vi immaginate questo Dio che ad un certo punto davanti alle infinite marachelle umane che costellano tutta la storia della salvezza cominciasse a dire: "tolleranza zero"! Forse solo nel giorno del giudizio universale quando il Cristo tornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti... Tutte le volte che sento l'espressione "tolleranza zero" mi immagino sempre che a pronunziarla sia una macchina informatica, e non una creatura umana, per quanto in linea di massima mi ritrovo in accordo con ciò che si vorrebbe assolutamente vietare, o assolutamente non tollerare. Ma nel corso della storia umana così come è narrata nella Bibbia Dio è sempre misericordioso ed esige misericordia, emblematico è anche il caso di Giona, al quale il Signore comanda di andare ad ammonire Ninive la grande città peccatrice pena la distruzione totale. Giona apparteneva certamente al partito della "tolleranza zero": prima cerca di svicolare dall'ordine divino e, leggiamo nel testo biblico, si imbarca e si dirige esattamente nella direzione opposta ... ma poiché l'ordine divino era irrevocabile, viene gettato nel mare in tempesta dai marinai della nave a cui aveva confessato di stare fuggendo dalla sua missione profetica. Dopo tre giorni nel ventre del pesce che lo aveva "inghiottito" e quindi salvato, Giona si converte alla sua missione e va a Ninive ad ammonire i cittadini del rischio che stanno correndo. E suo malgrado lo prendono sul serio e fanno penitenza, uomini e animali iniziano a digiunare. Dio allora vide che si erano convertiti dalla loro condotta malvagia e non fece loro del male. "Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato", Giona si lamenta con il Signore per la sua misericordia! Avrebbe voluto la "tolleranza zero", e addirittura vuole morire per questo e non riesce proprio ad "inghiottire" il boccone della bontà divina. Uscì dalla città si fece una capanna e si sedette lì a fianco guardando verso quella città che avrebbe dovuto essere distrutta. Intanto il Signore fece crescere una pianta di ricino sulla sua testa per offrirgli un po' di ombra e sollievo. Giona fu molto felice per quel ricino, tanto che quando il giorno dopo Dio manda un verme a rodergli la pianta, Giona si dispera dice "meglio per me morire che vivere": Allora è Dio che si sdegna per lo sdegno di Giona e gli dice: "Ti sembra giusto essere sdegnato così per una pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica...e io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone che non sanno distinguere fra la mano destra e la mano sinistra e, e una grande quantità di animali?". (continua) MLA

Neologismi e vecchi schemi: ma Gesù era "buonista"?

C'è un uso/abuso sempre più spregiudicato di un paio di termini che paiono rischiare dubbie se non pericolose interpretazioni. I termini sono "buonismo" e "tolleranza zero", vanno spesso insieme, il primo compare nella frase principale, il secondo nella subordinata, in genere uno precede l'altro il primo sembra più nostrano, il secondo è una parola importata e tradotta da un'altra struttura linguistica. Cerco a fatica da anni di interpretarne il senso e il campo semantico: ma mi riesce difficile sia aiutandomi con l'etimologia sia con la semiotica, sia con la linguistica. Un metodo per procedere è quello di enumerare le situazioni in cui vengono pronunziate. Il "buonismo" si tira fuori nella maggior parte dei casi davanti a situazioni dis-umane che oramai non possono più essere definite tali si rischia appunto di venire etichettati come affetti da "buonismo", ma allora sarà una nuova specie di influenza? Purtroppo non posso verificare quest'altra supposizione, non rientra nelle mie competenze. Rientro allora nei miei ambiti, trovo allora la classica interpretazione che si da a tutti i termini che terminano con "ismo", quasi sempre negativa, esempio: comunismo, fascismo, demagogismo, egoismo, ecc. ecc, ma anche "pluralismo", termine finora al riparo da significati degenerativi. Alla lettera sembrerebbe il "buonismo" un eccesso di bontà, una forma di generosità non sottoposta al vaglio della ragione tanto che si traduce in stoltezza. D'altra parte nello stesso Decalogo, il comandamento che tratta di queste storie recita così: prima amerai Dio..., poi il prossimo tuo "come" te stesso, non dice "più" di te stesso. Così certamente occorre equilibrio anche nella solidarietà e nella generosità, fin qui ci siamo. Ma poi in quello stesso insieme di libri che chiamiamo Antico o Primo Testamento, ritrovo anche quelle terribili pagine in cui si narra di Lot che addirittura arriva a proporre ai violenti del suo paese che volevano abusare dei tre stranieri che stava ospitando lo scambio con le sue figlie vergini. Lot meriterebbe per i nostri occhi la medaglia del "buonismo" se ne esistesse una assegnazione... Così anche Davide che si dispera per la morte del figlio Assalonne, anche se l'aveva tradito nel peggiore dei modi. Forse alla fine anche Giobbe, che è noto al grande pubblico più per la sua "pazienza", rifiutando di maledire il Signore, mentre se ne sta per terra pieno di ulcere, privato senza motivo di figli e di beni, potrebbe concorrere alla palma del buonismo. Finché compare ad un certo punto, discendente di Davide ma anche nella genealogia da qualche donna di dubbia reputazione compare un certo Gesù di Nazareth. Mi accingo a cercare nelle pagine delle testimonianze della vita e delle parole di questa illustre figura, cioè nei Vangeli il corrispettivo del nostro termine "buonismo"... E' una operazione complessa, richiederà almeno una seconda puntata...! MLA (continua)

domenica 10 gennaio 2010

Il volto di Cristo e un Velo di mistero

Il volto di Cristo e un Velo di mistero

di Robert Moynihan


Uno dei tessuti più misteriosi del mondo, che mostra l'immagine di un uomo torturato e crocifisso, è conservato nella Cappella Reale di San Giovanni Battista nel Duomo di Torino. E' la Sindone.

La tradizione sostiene che sia il sudario di Gesù, usato per avvolgerlo nella tomba dopo la sua crocifissione, e che l'immagine sul telo sia un “ritratto” di Cristo mentre giaceva nella tomba.

Benedetto XVI si recherà a Torino l'anno prossimo, il 2 maggio, per vedere la Sindone. Il Vaticano e l'Arcidiocesi torinese hanno annunciato la visita due settimane fa.

“Come primo atto della visita, il Santo Padre sosterà in preghiera personale davanti alla Santa Sindone”, ha reso noto l'Arcidiocesi.

Il Papa vedrà la Sindone insieme a milioni di fedeli nei 54 giorni dell'ostensione, dal 10 aprile al 23 maggio 2010. L'Arcidiocesi di Torino ha un sito web, www.sindone.org, dove si può prenotare la visita nel periodo di esposizione.

Visitando la Sindone e pregando davanti a lei, il Pontefice mostrerà il suo rispetto e la venerazione per questo lenzuolo misterioso.

Ma la Sindone è davvero autentica?

Diamo uno sguardo ai fatti.

Più di un secolo fa, nel 1898, l'immagine della Sindone venne fotografata per la prima volta. Il fotografo era l'italiano Secondo Pia, al quale venne permesso di immortalarla mentre veniva esibita nel Duomo di Torino.

Il pomeriggio del 28 maggio 1898, quando guardò la placca fotografica, vide l'immagine molto più chiaramente di come si poteva vedere dal vivo, perché si tratta di un'immagine in negativo.

Questo fatto non era mai stato osservato prima dell'arrivo della fotografia. Vuol dire che solo negli ultimi 110 anni abbiamo potuto renderci conto di quanto sia realmente misteriosa questa immagine.

Nel XX secolo ci sono state sempre più richieste alla Chiesa di “misurare” l'età della Sindone utilizzando il metodo del Carbonio 14, stabilendo così una volta per tutte se si trattava di un tesuto antico o risalente a periodi più recenti.

Parla la scienza

Io stesso ho avuto un ruolo in questo – un ruolo piuttosto insignificante, ma ad ogni modo l'ho avuto – perché ero reporter della rivista Time nel 1987 e nel 1988, quando si svolse la datazione della Sindone con il Carbonio 14.

Ero presente alla conferenza stampa del 13 ottobre 1988, quando il Cardinale Anastasio Ballastrero, allora Arcivescovo di Torino, e altri presentarono i risultati dei laboratori – per i quali la Sindone doveva essere datata tra il 1260 e il 1390. Era dunque di origine medievale, per cui non era possibile che fosse autentica.

In quel momento ho diffuso quei risultati. Posso testimoniare lo choc che rappresentò per molti, che credevano che il lenzuolo fosse autentico e confidavano che i risultati attestassero che risaliva a un periodo “tra il 50 avanti Cristo e il 50 dopo Cristo”.

Le prove scientifiche, però, sembravano chiare: la tela aveva solo circa 650 anni di vita, non 2000. Il “verdetto della scienza” era stato dato.

Da allora molti hanno creduto, e credono ancora, che il caso della Sindone sia chiuso, che si tratti di una misteriosa pittura o stampa medievale, ma non del sudario di Cristo.

Il caso è quindi chiuso? No.

Sono nate serie questioni sul processo di datazione del 1988 – non sulla qualità della datazione al radiocarbonio, ma sull'identità e sulla possibile contaminazione del pezzo di lenzuolo datato.

Le tecniche di datazione al carbonio sono migliorate in modo costante nel corso dei decenni. All'inizio, 50 anni fa, erano richieste grandi quantità di materiale, ma negli anni Ottanta il processo di datazione ha iniziato a richiedere quantità molto più esigue di materiale originale.

Nel 1978 è stato istituito per studiare la Sindone lo Shroud of Turin Research Project (S.Tu.RP), composto da circa 30 scienziati di diversi credo religiosi e anche da atei.

Il gruppo S.Tu.R.P. ha pianificato vari studi sulla tela, includendo la datazione al radiocarbonio.

Una commissione guidata dai chimici Robert H. Dinegar e Harry E. Gove ha consultato numerosi laboratori capaci già nel 1982 di datare con il carbonio piccoli pezzi di tessuto. Sei laboratori hanno mostrato interesse nel realizzare la procedura: il Brookhaven National Laboratory di Upton (New York, USA); l'Atomic Energy Research Establishment di Harwell (Oxfordshire, Regno Unito); il laboratorio Rochester di New York (USA); l'Università di Oxford (Regno Unito), l'Università dell'Arizona di Tucson (USA) e l'ETH di Zurigo (Svizzera).

Consapevoli della grande pubblicità che gli esperimenti avrebbero scatenato, i laboratori hanno ingaggiato una competizione feroce. In seguito si è compiuta una separazione tra il gruppo S.Tu.R.P. e i laboratori candidati.

Durante una conferenza sulla datazione al carbonio a Trondheim (Norvegia) nel 1985, i rappresentanti di tutti i laboratori candidati hanno annunciato congiuntamente la fine della collaborazione con il gruppo S.Tu.R.P. e hanno proposto che il Museo Britannico dirigesse il progetto.

Carlos Chagas Filho, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, ha approvato a malincuore la proposta. Nel 1986 si è svolta una riunione con le autorità ecclesiastiche per stabilire come procedere.

Nuovo progetto

Il 10 ottobre 1987, il Cardinale Ballestrero ha annunciato ai sei laboratori che solo tre di loro, quelli di Oxford, Tucson e Zurigo, avrebbero partecipato alla datazione. L'unica istituzione con compiti di supervisione sarebbe stata il Museo Britannico, guidato da Michael Tite.

I campioni sono stati prelevati il 21 aprile 1988 nel Duomo. Erano presenti il Cardinale Ballestrero, quattro sacerdoti, il portavoce dell'Arcidiocesi Luigi Gonella, fotografi, un cineoperatore, Michael Tite e i rappresentanti dei laboratori.

I pezzi originali e quelli di controllo sono stati collocati in 12 cilindri metallici identici. La datazione delle parti di controllo, che in origine si era stabilito dovesse rimanere sconosciuta, è stata pubblicata da “L'Osservatore Romano” il 23 aprile. Questa fuga di notizie, insieme alle violazioni del protocollo, ha appannato la credibilità di questa fase del procedimento, alimentando i sospetti di manipolazione.

I laboratori non hanno lavorato separatamente e in contemporanea. Tucson ha realizzato le prove a maggio, Zurigo a giugno e Oxford ad agosto, scambiando informazioni nel frattempo. Il quotidiano “Avvenire” ha pubblicato il 14 ottobre la notizia che i direttori dei tre laboratori si erano riuniti segretamente in Svizzera, fatto poi confermato dagli interessati.

Il 28 settembre 1988, il direttore del Museo Britannico e coordinatore dello studio, Michael Tite, ha comunicato i risultati ufficiali all'Arcidiocesi di Torino e alla Santa Sede. Il 13 ottobre, il Cardinale Ballestrero li ha annunciati pubblicamente.

Il documentario italiano del 2008 “Sindone, Prove a Confronto”, di David Rolf, suggerisce che le parti scelte per la datazione non potevano dare un risultato preciso. Si dice che la quantità di carbonio 14 trovata potrebbe essere stata significativamente intaccata dal clima, dai metodi di conservazione utilizzati nel corso dei secoli e dal carbonio sprigionato dall'incendio che danneggiò il sudario.

Il Cardinale Ballestrero, poco prima della morte, nel 1998, disse in un'intervista pubblicata il 5 settembre 1997 dal quotidiano tedesco Die Welt: “A mio avviso, la Santa Sindone di Torino è autentica. Le analisi al radiocarbonio, che la facevano risalire al Medioevo, sembra siano state realizzate senza le cure dovute”.

La tradizione della Chiesa, anche se non “scientifica”, sostiene che Tommaso e Giuda Taddeo (il Taddeo dei 70, Taddeo di Edessa) si recarono a Edessa nel 33 d.C. Una leggenda afferma che portavano con sé un telo con l'immagine di Gesù.

Nel 544 d.C., un telo con un'immagine che si crede sia di Cristo venne trovata sopra una delle porte di Edessa, nelle pareti della città. Gregorio Referendarius di Costantinopoli descrisse in seguito il telo come un'immagine di un corpo intero con macchie di sangue.

La questione è semplice: se nel 1988 sono state compiute prove su un campione che non era della Sindone originale, o che era stato contaminato nel corso dei secoli, allora la datazione non ha senso.

Il velo della Veronica

Un'immagine altrettanto misteriosa ma meno conosciuta si trova nella cittadina di Manoppello. E' un piccolo telo che molta gente ritiene il vero “velo della Veronica”. Sono andato a Manoppello per vederlo. Se lo si guarda direttamente sembra trasparente, ma se si rimane a quasi un metro al lato, o a una certa distanza, si può vedere il volto di un uomo giovane, con gli occhi aperti.

Quello che alcuni credono di questo telo è ancor più drammatico della Sindone di Torino. Pensano che si tratti del velo che copriva il volto di Gesù nella tomba, e che ciò che si vede nell'immagine sia il volto di Cristo al momento della resurrezione, quando apre gli occhi.

Benedetto XVI ha visitato Manoppello nel settembre 2006.

E' entrato nel santuario e ha pregato davanti all'altare per circa cinque minuti, poi si è recato dietro a questo e ha pregato davanti alla reliquia, conosciuta come il “Volto Santo” e il “Velo della Veronica”.

Il Papa non ha parlato delle origini del velo.

“Questo è il senso anche di questa mia visita. Insieme cerchiamo di conoscere sempre meglio il volto del Signore e dal volto del Signore attingiamo questa forza di amore e di pace che ci mostra anche la strada della nostra vita”, ha detto in quell'occasione.

Qualunque sia la verità su queste immagini, il fatto fondamentale è che ci riportano il volto di Gesù.

Cristo stesso ci ha detto di guardare il volto di chi ci circonda, del più piccolo dei suoi fratelli. E' questo il volto che dobbiamo cercare.