venerdì 29 aprile 2011

Lettera di Giovanni Paolo II


Alle loro Eccellenze
i Capi di Stato o di Governo
Un mese fa si svolgeva ad Assisi la Giornata di preghiera per la pace nel mondo. Oggi il mio pensiero si volge spontaneamente ai responsabili della vita sociale e politica dei Paesi che vi erano rappresentanti dai capi religiosi di numerose nazioni.
Gli interventi ispirati di questi uomini e di queste donne, rappresentanti delle diverse confessioni religiose, come pure il loro desiderio sincero di operare a favore della concordia, della ricerca comune del vero progresso e della pace in seno all'intera famiglia umana, hanno trovato la propria espressione elevata e al contempo concreta in un "decalogo" proclamato a conclusione di questa eccezionale giornata.
Ho l'onore di consegnare il testo di questo impegno comune a Vostra Eccellenza, convinto che queste dieci proposte potranno ispirare l'azione politica e sociale del suo Governo.
Ho potuto constatare che i partecipanti all'incontro di Assisi erano più che mai animati da una convinzione comune:  l'umanità deve scegliere fra l'amore e l'odio. E tutti, sentendosi membri di una stessa famiglia umana, hanno saputo  tradurre  tale  aspirazione  attraverso questo  decalogo,  persuasi  che  se  l'odio distrugge, l'amore al contrario costruisce.
Auspico che lo spirito e l'impegno di Assisi conducano tutti gli uomini di buona volontà a ricercare la verità, la giustizia, la libertà, l'amore, affinché ogni persona umana possa godere dei propri diritti inalienabili, e ogni popolo della pace. Da parte sua la Chiesa cattolica, che ripone la sua fiducia e la sua speranza nel "Dio dell'amore e della pace" (2 Cor 13, 11), continuerà ad impegnarsi perché il dialogo leale, il perdono reciproco e la mutua concordia segnalino la strada degli uomini in questo terzo millennio.
Grato a Vostra Eccellenza per l'interesse che Lei vorrà prestare al mio messaggio, colgo l'occasione per assicurLa della mia più alta considerazione.
Dal Vaticano, 24 febbraio 2002
GIOVANNI PAOLO PP. II

Il Decalogo di Assisi per la Pace
1. Ci impegniamo a proclamare la nostra ferma convinzione che la violenza e il terrorismo si oppongono al vero spirito religioso e, condannando qualsiasi ricorso alla violenza e alla guerra in nome di Dio o della religione, ci impegniamo a fare tutto il possibile per sradicare le cause del terrorismo.
2. Ci impegniamo a educare le persone al rispetto e alla stima reciproci, affinché si possa giungere a una coesistenza pacifica e solidale fra i membri di etnie, di culture e di religioni diverse.
3. Ci impegniamo a promuovere la cultura del dialogo, affinché si sviluppino la comprensione e la fiducia reciproche fra gli individui e fra i popoli, poiché tali sono le condizioni di una pace autentica.
4. Ci impegniamo a difendere il diritto di ogni persona umana a condurre un'esistenza degna, conforme alla sua identità culturale, e a fondare liberamente una propria famiglia.
5. Ci impegniamo a dialogare con sincerità e pazienza, non considerando ciò che ci separa come un muro insormontabile, ma, al contrario, riconoscendo che il confronto con la diversità degli altri può diventare un'occasione di maggiore comprensione reciproca.
6. Ci impegniamo a perdonarci reciprocamente gli errori e i pregiudizi del passato e del presente, e a sostenerci nello sforzo comune per vincere l'egoismo e l'abuso, l'odio e la violenza, e per imparare dal passato che la pace senza la giustizia non è una pace vera.
7. Ci impegniamo a stare accanto a quanti soffrono per la miseria e l'abbandono, facendoci voce di quanti non hanno voce e operando concretamente per superare simili situazioni, convinti che nessuno possa essere felice da solo.
8. Ci impegniamo a fare nostro il grido di quanti non si rassegnano alla violenza e al male, e desideriamo contribuire con tutte le nostre forze a dare all'umanità del nostro tempo una reale speranza di giustizia e di pace.
9. Ci impegniamo a incoraggiare qualsiasi iniziativa che promuova l'amicizia fra i popoli, convinti che, se manca un'intesa solida fra i popoli, il progresso tecnologico espone il mondo a crescenti rischi di distruzione e di morte.
10.Ci impegniamo a chiedere ai responsabili delle nazioni di compiere tutti gli sforzi possibili affinché, a livello nazionale e a livello internazionale, sia edificato e consolidato un mondo di solidarietà e di pace fondato sulla giustizia
24 gennaio 2002

giovedì 28 aprile 2011

Assemblea Unione Europea Radio-Televisioni

La Radio ha un futuro esaltante: così l’arcivescovo Celli all’Assemblea dell’Ebu in Vaticano


L’importanza dei media, e specialmente dei Servizi pubblici, nel facilitare la diffusione di accurate informazioni, per il corretto funzionamento della società politica e civile. A sottolineare i risvolti etici della comunicazione è stato il presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni sociali, Claudio Maria Celli, aprendo stamane i lavori dell’Assemblea dell’Unione Europea di Radio-Televisioni, ospitata in Vaticano, in occasione degli 80 anni della Radio Vaticana.


Una grande occasione per valutare la missione particolare della Radio Vaticana e il servizio che offre a tutte le altre emittenti nel mondo, ha osservato padre Federico Lombardi, accogliendo ieri sera nella Sala Marconi i partecipanti all’Assemblea, che oggi e domani tiene i suoi lavori a porte chiuse. Fondata nel 1950, l’Ebu conta oggi 74 enti associati, di 56 Paesi europei e non solo, con un bacino di utenza di 650 milioni di tele-radio-ascoltatori a settimana. 300 persone lavorano nel suo staff con sede a Ginevra, in Svizzera ed uffici a Pechino, Bruxelles, Londra, Madrid, Mosca, Singapore, Washington.

Ad aprire stamane gli interventi in Assemblea è stato l’arcivescovo Celli, presidente del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali, sottolineando come la Radio resti un media fondamentale nella vita della Chiesa. “La radio ha un futuro esaltante – ha osservato - anche nel contesto degli straordinari sviluppi” nei “cosiddetti nuovi media”. “Lontano dall’essere licenziata dalle emergenti tecnologie digitali” anzi rafforzata nel raggiungere “più ampie audience”, in svariati formati e “senza i limiti tradizionali di tempo e spazio”. E vero che i media oggi - ha osservato mons. Celli – “vivono di brevità, velocità, cambiamento, varietà, emotività, ma pensare richiede il contrario”, ha ammonito. “Pensare richiede tempo. Ha bisogno di silenzio e di abilità metodiche di logica. E la Radio, al suo meglio, ha la capacità di stimolare pensiero e riflessione, di invitare al dibattito, di informare ed educare”. Quindi il richiamo al documento del Pontificio Consiglio “Etica nella comunicazione”, per ricordare che i media tutti sono chiamati a servire la dignità umana aiutando i popoli a vivere meglio e ad operare come persone nella comunità”, “coltivando il senso della reciproca responsabilità, crescendo nella libertà individuale, nel rispetto della libertà degli altri e nella capacità di dialogo”.

Fitto il programma delle due giornate sul presente e sul futuro della Radio, su sfide e opportunità di rilancio di questa compagna di vita, “diversa, accessibile, sempre rilevante, e indispensabile”, ha commentato il direttore dell’Ebu, Raina Costantinova. Di particolare interesse i tre spazi di dibattito dedicati, il primo, oggi pomeriggio alla “Radio pubblica nella tormenta - Intensità e impatto delle turbolenze politiche, economiche e finanziarie”, quindi domani sui cambiamenti portati su scala globale dai social media e sul rapporto tra Radio pubblica e cultura. Infine sabato l’udienza del Papa ai partecipanti all’Assemblea dell’Ebu, nel Palazzo apostolico di Gastelgandolfo.

domenica 17 aprile 2011

Domenica delle Palme

Testo integrale dell'omelia di Benedetto XVI


Cari fratelli e sorelle, cari giovani!Ci commuove nuovamente ogni anno, nella Domenica delle Palme, salire assieme a Gesù il monte verso il santuario, accompagnarLo lungo la via verso l’alto. In questo giorno, su tutta la faccia della terra e attraverso tutti i secoli, giovani e gente di ogni età Lo acclamano gridando: “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”
Ma che cosa facciamo veramente quando ci inseriamo in tale processione – nella schiera di coloro che insieme con Gesù salivano a Gerusalemme e Lo acclamavano come re di Israele? È qualcosa di più di una cerimonia, di una bella usanza? Ha forse a che fare con la vera realtà della nostra vita, del nostro mondo? Per trovare la risposta, dobbiamo innanzitutto chiarire che cosa Gesù stesso abbia in realtà voluto e fatto. Dopo la professione di fede, che Pietro aveva fatto a Cesarea di Filippo, nell’estremo nord della Terra Santa, Gesù si era incamminato come pellegrino verso Gerusalemme per le festività della Pasqua. È in cammino verso il tempio nella Città Santa, verso quel luogo che per Israele garantiva in modo particolare la vicinanza di Dio al suo popolo. È in cammino verso la comune festa della Pasqua, memoriale della liberazione dall’Egitto e segno della speranza nella liberazione definitiva. Egli sa che Lo aspetta una nuova Pasqua e che Egli stesso prenderà il posto degli agnelli immolati, offrendo se stesso sulla Croce. Sa che, nei doni misteriosi del pane e del vino, si donerà per sempre ai suoi, aprirà loro la porta verso una nuova via di liberazione, verso la comunione con il Dio vivente. È in cammino verso l’altezza della Croce, verso il momento dell’amore che si dona. Il termine ultimo del suo pellegrinaggio è l’altezza di Dio stesso, alla quale Egli vuole sollevare l’essere umano.
La nostra processione odierna vuole quindi essere l’immagine di qualcosa di più profondo, immagine del fatto che, insieme con Gesù, c’incamminiamo per il pellegrinaggio: per la via alta verso il Dio vivente. È di questa salita che si tratta. È il cammino a cui Gesù ci invita. Ma come possiamo noi tenere il passo in questa salita? Non oltrepassa forse le nostre forze? Sì, è al di sopra delle nostre proprie possibilità. Da sempre gli uomini sono stati ricolmi – e oggi lo sono quanto mai – del desiderio di “essere come Dio”, di raggiungere essi stessi l’altezza di Dio. In tutte le invenzioni dello spirito umano si cerca, in ultima analisi, di ottenere delle ali, per potersi elevare all’altezza dell’Essere, per diventare indipendenti, totalmente liberi, come lo è Dio. Tante cose l’umanità ha potuto realizzare: siamo in grado di volare. Possiamo vederci, ascoltarci e parlarci da un capo all’altro del mondo. E tuttavia, la forza di gravità che ci tira in basso è potente. Insieme con le nostre capacità non è cresciuto soltanto il bene. Anche le possibilità del male sono aumentate e si pongono come tempeste minacciose sopra la storia. Anche i nostri limiti sono rimasti: basti pensare alle catastrofi che in questi mesi hanno afflitto e continuano ad affliggere l’umanità.
I Padri hanno detto che l’uomo sta nel punto d’intersezione tra due campi di gravitazione. C’è anzitutto la forza di gravità che tira in basso – verso l’egoismo, verso la menzogna e verso il male; la gravità che ci abbassa e ci allontana dall’altezza di Dio. Dall’altro lato c’è la forza di gravità dell’amore di Dio: l’essere amati da Dio e la risposta del nostro amore ci attirano verso l’alto. L’uomo si trova in mezzo a questa duplice forza di gravità, e tutto dipende dallo sfuggire al campo di gravitazione del male e diventare liberi di lasciarsi totalmente attirare dalla forza di gravità di Dio, che ci rende veri, ci eleva, ci dona la vera libertà.
Dopo la liturgia della Parola, all’inizio della Preghiera eucaristica durante la quale il Signore entra in mezzo a noi, la Chiesa ci rivolge l’invito: “Sursum corda – in alto i cuori!” Secondo la concezione biblica e nella visione dei Padri, il cuore è quel centro dell’uomo in cui si uniscono l’intelletto, la volontà e il sentimento, il corpo e l’anima. Quel centro, in cui lo spirito diventa corpo e il corpo diventa spirito; in cui volontà, sentimento e intelletto si uniscono nella conoscenza di Dio e nell’amore per Lui. Questo “cuore” deve essere elevato. Ma ancora una volta: noi da soli siamo troppo deboli per sollevare il nostro cuore fino all’altezza di Dio. Non ne siamo in grado. Proprio la superbia di poterlo fare da soli ci tira verso il basso e ci allontana da Dio. Dio stesso deve tirarci in alto, ed è questo che Cristo ha iniziato sulla Croce. Egli è disceso fin nell’estrema bassezza dell’esistenza umana, per tirarci in alto verso di sé, verso il Dio vivente. Egli è diventato umile, ci dice la seconda lettura. Soltanto così la nostra superbia poteva essere superata: l’umiltà di Dio è la forma estrema del suo amore, e questo amore umile attrae verso l’alto.
Il Salmo processionale numero 24, che la Chiesa ci propone come “canto di ascesa” per la liturgia di oggi, indica alcuni elementi concreti, che appartengono alla nostra ascesa e senza i quali non possiamo essere sollevati in alto: le mani innocenti, il cuore puro, il rifiuto della menzogna, la ricerca del volto di Dio. Le grandi conquiste della tecnica ci rendono liberi e sono elementi del progresso dell’umanità soltanto se sono unite a questi atteggiamenti – se le nostre mani diventano innocenti e il nostro cuore puro, se siamo in ricerca della verità, in ricerca di Dio stesso, e ci lasciamo toccare ed interpellare dal suo amore. Tutti questi elementi dell’ascesa sono efficaci soltanto se in umiltà riconosciamo che dobbiamo essere attirati verso l’alto; se abbandoniamo la superbia di volere noi stessi farci Dio. Abbiamo bisogno di Lui: Egli ci tira verso l’alto, nell’essere sorretti dalle sue mani – cioè nella fede – ci dà il giusto orientamento e la forza interiore che ci solleva in alto. Abbiamo bisogno dell’umiltà della fede che cerca il volto di Dio e si affida alla verità del suo amore.
La questione di come l’uomo possa arrivare in alto, diventare totalmente se stesso e veramente simile a Dio, ha da sempre impegnato l’umanità. È stata discussa appassionatamente dai filosofi platonici del terzo e quarto secolo. La loro domanda centrale era come trovare mezzi di purificazione, mediante i quali l’uomo potesse liberarsi dal grave peso che lo tira in basso ed ascendere all’altezza del suo vero essere, all’altezza della divinità. Sant’Agostino, nella sua ricerca della retta via, per un certo periodo ha cercato sostegno in quelle filosofie. Ma alla fine dovette riconoscere che la loro risposta non era sufficiente, che con i loro metodi egli non sarebbe giunto veramente a Dio. Disse ai loro rappresentanti: Riconoscete dunque che la forza dell’uomo e di tutte le sue purificazioni non basta per portarlo veramente all’altezza del divino, all’altezza a lui adeguata. E disse che avrebbe disperato di se stesso e dell’esistenza umana, se non avesse trovato Colui che fa ciò che noi stessi non possiamo fare; Colui che ci solleva all’altezza di Dio, nonostante tutta la nostra miseria: Gesù Cristo che, da Dio, è disceso verso di noi e, nel suo amore crocifisso, ci prende per mano e ci conduce in alto.
Noi andiamo in pellegrinaggio con il Signore verso l’alto. Siamo in ricerca del cuore puro e delle mani innocenti, siamo in ricerca della verità, cerchiamo il volto di Dio. Manifestiamo al Signore il nostro desiderio di diventare giusti e Lo preghiamo: Attiraci Tu verso l’alto! Rendici puri! Fa’ che valga per noi la parola che cantiamo col Salmo processionale; che possiamo appartenere alla generazione che cerca Dio, “che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe” (Sal 24,6). Amen.

sabato 16 aprile 2011

Mons. Angelo Amato a riguardo della beatificazione di Giovanni Paolo II


Cardinal Angelo Amato, prefect of the Congregation for Saints' Causes, speaks at a conference about Pope John Paul II in Rome April 1. (CNS/Paul Haring)
By Cindy Wooden
Catholic News Service

ROME (CNS) -- Pope John Paul II is being beatified not because of his impact on history or on the Catholic Church, but because of the way he lived the Christian virtues of faith, hope and love, said Cardinal Angelo Amato, prefect of the Congregation for Saints' Causes.

"Clearly his cause was put on the fast track, but the process was done carefully and meticulously, following the rules Pope John Paul himself issued in 1983," the cardinal said April 1, during a conference at the Pontifical University of the Holy Cross in Rome.

The cardinal said the church wanted to respond positively to many Catholics' hopes to have Pope John Paul beatified quickly, but it also wanted to be certain that the pope, who died in 2005, is in heaven.

Cardinal Amato said the sainthood process is one of the areas of church life where the consensus of church members, technically the "sensus fidelium" ("sense of the faithful"), really counts.

"From the day of his death on April 2, 2005, the people of God began proclaiming his holiness," and hundreds, if not thousands, visit his tomb each day, the cardinal said. A further sign is the number of biographies published about him and the number of his writings that are translated and re-published.

"In the course of a beatification cause, there is the vox populi," he said, which must be "accompanied by the vox dei (voice of God) -- the miracles -- and the vox ecclesiae (voice of the church)," which is the official judgment issued after interviewing eyewitnesses and consulting with historians, physicians, theologians and church leaders to verify the candidate's holiness.

Beatification and canonization are not recognitions of someone's superior understanding of theology, nor of the great works he or she accomplished, he said. Declaring someone a saint, the church attests to the fact that he or she lived the Christian virtues in a truly extraordinary way and is a model to be imitated by others, the cardinal said.

The candidate, he said, must be perceived "as an image of Christ."

Cardinal Amato said, "the pressure of the public and of the media did not disturb the process, but helped it" because it was a further sign of Pope John Paul's widespread reputation for holiness, which is something the church requires proof of before it moves to beatify someone.

Joaquin Navarro-Valls, who served as Vatican spokesman under Pope John Paul, told the conference that the late pope's voice, his pronunciation, his use of gestures and his presence at the altar or on a stage all contributed to his success as a communicator.

But the key to his effectiveness was that he firmly believed that each person was created in God's image and likeness, Navarro-Valls said. "I think this was what attracted people even more than the way he spoke."

People felt he was sincere in his recognition of their dignity and of their destiny to be with God, he said.

"He was a man profoundly convinced of the truth of those words in Genesis -- 'God made man and woman in his image and likeness.' This gave him optimism even when he could no longer walk, and then even when he could no longer speak," Navarro-Valls said.

The Spaniard, a member of Opus Dei, said he had the blessing of personally knowing three saints: Josemaria Escriva de Balaguer, founder of Opus Dei; Blessed Teresa of Kolkata; and Pope John Paul.

What all three have in common, he said, was a good sense of humor, a ready smile and an ability to laugh.

As for those who question beatifying Pope John Paul only six years after his death and those who say the explosion of the clerical sex abuse scandal during his pontificate casts a dark shadow on his reign, Navarro-Valls said people must remember that beatification is not a judgment on a pontificate, but on the personal holiness of the candidate.

The key question, he said, is: "Can we be certain he lived the Christian virtues in a heroic way?

a Roma la preghiera per i naufraghi

Nella parrocchia di via Gallia si ricordano quanti hanno perso la vita nel Mediterraneo, nei viaggi della speranza dal Nord Africa verso l'Europa.
Quattrocentoventidue morti in tre mesi, 277 solo in questo primo scorcio di aprile. Tutti inghiottiti da quel Mediterraneo crocevia del messaggio evangelico, ormai trasformato nella più grande fossa comune dei “desaparecidos” del mare. Una terra di nessuno in cui i destini di migliaia di nord africani si intrecciano colando a picco con le loro carrette del mare. La chiesa della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo ieri (martedì 12 aprile) ha voluto ricordare quei 422 «martiri». Per simboleggiare il legame tra la parrocchia del quartiere Appio Latino con la Tunisia. Rendere onore e gloria a quelle centinaia di vite spezzate, senza un volto, un nome e un cognome; molti dei quali, sottolinea monsignor Pietro Sigurani, il parroco, «hanno frequentato le nostre scuole di formazione a Kibilì e Douz». Una fiaccolata, una candela per ogni morte, una simbolistica forte per commemorare quei «giovanotti», appena ventenni, fuggiti «da un Paese senza libertà civile e religiosa».

Come quello precedente, anche il quinto e ultimo incontro programmato dalla parrocchia della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo per il periodo della Quaresima è finito ieri per scivolare sulla tragedia tunisina. E così anche l’ospite d’onore, quel Gianni Gennari da anni nome di spicco del giornalismo italiano, concentra tutto il suo intervento sulla gioia e sull’amore. Quella gioia che separa dalla felicità («sensazione che non passa mai») e dall’allegria (momento che transita). Perché la gioia «in cui viviamo – dice il giornalista – è una realtà che non dipende da noi ma da Dio». Gennari cita il libro della Genesi per parlare di amore, quell’amore che ci incolla a Dio, fonte assoluta di gioia. Legge San Matteo per fare un paragone. «La salvezza è solo per chi conosce Dio? Guai a pensarlo, guai a pensare che solo chi conosce Dio si salverà». Ricorda le parole del cardinale Tettamanzi: «Meglio essere cristiano e non dirlo che dire di essere cristiano e non esserlo». Per tornare al punto di partenza: «Ecco perché onoriamo i fratelli del Nord Africa». E mentre lo dice ricorda quella vita eterna che Dio concederà loro, perché l’amore del Signore verso i suoi figli è indissolubile.

Per le famiglie colpite dalla tragedia del Mar Mediterraneo la chiesa della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo ha realizzato una raccolta fondi.

fonte: www.romasette.it

domenica 10 aprile 2011

Betania

Travelling down the Jerusalem-Jericho road, a visitor is apt to take only casual note of the village of El-Azariyeh It looks like just another of those settlements in the Holy Land where houses climb tier-on-tier up the slopes of a hillside. Perhaps, he will glance to the left and see, prominent above other buildings, a bell-tower and the top of another structure now in ruins. A hundred metres further on, in from a curve in the road, he may catch sight of a pure white church with its quite austere lines.. Then, the road to the desert will sweep on, and he will scarcely be aware that he has passed close by Bethany. Thus, for ages, El-Azariye, Bethany, has always been "a certain village" (Luke 10,38), with nothing remarkable about it.

However, for people who can still shed earthly desires and listen to God's voice within, Bethany has a quite special charm. It has a choice place in the Gospel record. Here, in Bethany Christ knew true intimacy and friendship. In a word, the great wonder for which the village is forever famous is itself presented in the Gospels as an act of love.

The deep meaning of Bethany's great miracle has centred Christian devotion on the tomb of Lazarus, as is clear from accounts by pilgrims who visited this site. It overshadows the township itself, including the house of Jesus' friends, and the home of Simon the Leper, where Mary, Lazarus' sister, had anointed Jesus' feet.

In 1863, thanks to the intervention of Marchioness Pauline de Nicolay, the Custody of the Holy Land got title to a plot of ground close to the tomb of Lazarus. Other areas were acquired later. In 1889, the Custody bought a property to the west where a comparatively recent tradition had located the house of Simon.

The diggings directed by Fr. Sylvester J. SaIler, in 1949 to 1953, brought to light the several religious buildings which Christian faith had erected in the course of the centuries close by the tomb. They showed the location of at least part of the ancient village of Bethany.

The results of these undertakings were published in 1957 under the title Excavations at Bethany.This is the main source for this information. The few studies which have been published subsequently deal with special topics and throw no new light on the tomb or the village. Corresponding archaeological work done by Fr. Augustine Patacconi, not yet published, does however reveal some interesting details.

from franciscan cyberspot

venerdì 8 aprile 2011

"IL GIORNALISMO DEVE ALLARGARE I PROPRI ORIZZONTI"

Intervista di Massimo Boccarella a S.E. Mons.Giuseppe Anfossi.
[in IL GIORNALISMO. LE JOURNALISME, n. 1/2011, p. 7]

1. Dove finisce il confine tra il dovere di informare e il rispetto della persona?

Il giornalista è un professionista: quando incontra una persona che è in difficoltà o meglio che è in una situazione nuova, che la espone allo sguardo indiscreto e che turba il suo equilibrio, normalmente si tratta di un forte che incontra un debole: non può abusare della sua superiorità e per esempio, umiliarla o suscitare la sua emozione ed esporla al pubblico; non può usare come vuole le informazioni che carpisce in un momento di debolezza. Sempre di più l'informazione è una merce che si vende, è facile perciò cedere alla tentazione di trarne profitto. A proposito di questo stesso tema, riferito alla vita della chiesa, vedo due difficoltà. Sul mondo-chiesa vince sempre un pregiudizio singolare: i cittadini credenti e i preti, sono sempre trattati come dei minori, incapaci di avere linee di vita, pensieri, giudizi morali e comportamenti liberi e propri. Il giornalista li immagina sempre al guinzaglio di un'autorità, a cui devono riferirsi e a cui obbedire. Mi colpisce poi la selezione che i giornalisti sono soliti fare degli argomenti interessanti per loro, non coincidono quasi mai con quelli che sono interessanti per noi. Vedono soltanto cerimonie un po' vistose, oppure scandali, infine, cercano contraddizioni tra predicazione e comportamento reale, oppure contrasti tra l'autorità religiosa e il prete o la gente. Questi ultimi temi li ammetto, però la vita della gente, comprese le situazioni dolorose, oppure i pochi luoghi in cui si pensa qualche cosa di un po' più impegnato o di decisamente nuovo e serio, non interessano. Posso ricordare, al riguardo una situazione di questo tipo molto recente: tutte le associazioni laicali presenti in Valle sono riunite per un fine settimana nella Villa di Valtournenche, ebbene il rifiuto ad incontrarli e intervistarli portò argomenti di una banalità sconcertante.

2. In una piccola comunità che ruolo deve avere l'informazione?

Il telegiornale della sera proposto dalla terza rete RAI della nostra Valle, colpisce subito un cittadino che viene da una più grande regione o città. E' proprio evidente che riflette una piccolissima comunità. Da un lato, in un certo senso negativo, appare subito che spesso mancano avvenimenti da narrare o da documentare, e dall'altra, in positivo, permette di valorizzare molte persone, anche gruppi e varie istituzioni. Praticamente, tutte le persone che fanno cose degne di nota hanno la possibilità di comparire sullo schermo. Altro dato positivo è la possibilità teorica di segnalare idee, iniziative di cultura, assistenza, servizio sociale e volontariato. Penso in modo particolare alla promozione del canto e della musica e così dello sport soprattutto competitivo che già avviene. Vedo però che è carente la promozione dell'alpinismo giovanile, familiare e in generale dello sport non competitivo. Nonostante ciò. a me pare che questo giornalismo debba allargare l'orizzonte e non temere di affrontare temi decisamente delicati che implicano approfondimento interpretativo. Inoltre, temo che non abbiano un progetto a monte, ad esempio sull'immagine che vogliono dare della Valle d'Aosta. Lo lasciano in mano al governo, mentre potrebbero elaborarne uno proprio. Mi riferisco alla non sufficiente esaltazione della componente culturale e artistica (ad esempio, Aosta è una città di arte?), e all'immagine estiva della Valle come un susseguirsi di sagre e di appetitose offerte di cibi tradizionali.

Volendo insistere sulle debolezze del nostro giornalismo valdostano (chiedo però perdono perchè essendo anche io promotore di un giornale e di una radio, parlo anche per me) trovo che potrebbe coltivare di più la curiosità culturale e sociale: ci sono diversi problemi seri e propri della nostra terra, regolarmente taciuti, forse sono anche un po' tabou. Mi limito a richiamarne due, i giovani e l'immigrazione straniera. Secondo me, il futuro di una regione così vecchia e con un tasso così debole di natività, è fortemente compromesso, ma nessuno lo vede. Almeno varrebbe la pena aver cura dei giovani. Ebbene nessuno si occupa seriamente di loro, escludendo forse la promozione dello sport popolare e competitivo. Si conoscono troppo poco il loro mondo, le loro paure, i loro desideri e soprattutto si fa troppo poco per preparali a prendere in mano le redini della Valle negli anni che stanno per venire. Un sintomo preoccupante di questo disinteresse è stato dato dal silenzio totale anche dei grandi e più diffusi nostri giornali, TV e Radio, sulla ricerca fatta dalla nostra Università sui giovani nell'anno 2008. Vale la stessa cosa per le conferenze stampa che ogni anno da cinque ormai, fa la Caritas diocesana per presentare uno studio imponente e unico in Italia, in grado di offrire informazioni precise e aggiornate sulla presenza degli stranieri in Italia e nella Valle.

Vedo un problema ulteriore. In una realtà piccola come la nostra, dove tutti si conoscono da un lato non è facile sfuggire al favore che non può non nascere da vecchia e nuova amicizia, colleghi di lavoro, ex compagni di scuola... e dall'altro il potere di influenza delle istituzioni e della politica in virtù delle piccole misure, senza voler accusare nessuno, si accentua facilmente e spesso, e così il sistema informativo globale perde autonomia e soprattutto la voglia di prendere iniziativa.

3. Nella società moderna la famiglia è fonte anche di notizie di cronaca. Come tutelare chi non è direttamente coinvolto senza penalizzare l'informazione?

La lettura che i giornalisti fanno della famiglia è del tutto schierata; non ne vedono l'ambivalenza che di questa realtà mette insieme positività e negatività. Per loro sono interessanti quasi solo le famiglie disfatte, e trovano anche un po' di gusto a mostrare che la chiesa perde la partita e che nessuno l'ascolta più. L'impasto dell'avventura umana e spirituale che c'è dentro nessuno sembra vederla. In una società in trasformazione come la nostra e soprattutto in una società che ha bruciato tutti i controlli sociali in particolare quelli che venivano dall'educazione cattolica unitamente al costume parzialmente inconscio ma osservato - quelli propri della famiglia estesa e contadina - tutti i cittadini hanno molta più libertà di un tempo e i giovani soprattutto, non ricevendo spinte che li responsabilizzino; in questa situazione di enormi condizionamenti succede che le persone più deboli le meno capaci di autocontrollo, cedano e paghino il prezzo più alto. Molte volte le famiglie che vanno a pezzi e che alimentano le notizie di cronaca sono espressione di questa parte debole della nostra società. L'informazione se non si limita a narrare e a stupire, ma da spazio all'interpretazione, può non infierire sui deboli e colpire forse chi produce o mantiene il caso acceso abnorme e soprattutto e cominciare a denunciare la sfacciata libertà che indebolisce coloro che sono già stati feriti nel corso della loro vita.