sabato 31 luglio 2010

LA “CURA PERSONALIS”

Di P. Peter-Hans Kolvenbach

Una caratteristica del carisma ignaziano è di situarsi sempre in un movimento. Ignazio ama esprimere questo servendosi di comparativi: così nelle Costituzioni (Cost. 52) scrive che si deve decidere tutto “per la maggior gloria e lode di Dio nostro Signore”. Forse anche troppo conosciuto, ma spesso poco compreso è l’avverbio “più” – “magis” – che spinge a desiderare e scegliere quello che “più” ci conduce al fine per il quale siamo stati creati [EE, 23]. Per conservare uno slancio spirituale e un dinamismo apostolico nel senso del “magis”, Ignazio ha immesso in questo cammino verso Dio tutta una serie di tensioni che non ci consentono di fermarci o di essere soddisfatti delle mete raggiunte. Proprio da queste tensioni noi siamo spinti a fare di più,o meglio a permettere a Dio di fare di più in noi e con noi. Conosciamo bene la tensione richiesta da una vita di impegno apostolico, vissuto nella contemplazione dei misteri della vita di Cristo.
Nelle Costituzioni tale tensione spicca soprattutto nella passione per l’universalità, per il mondo intero – perché “il bene quanto più è universale tanto più è divino” (Cost. 622) – mentre ci si preoccupa di inserire il proprio ministero in un bene particolare.
Pensare globalmente e agire localmente: Ignazio desiderava vivere questo apostolicamente come una tensione costruttiva. In tale contesto bisogna ricordare anche la tensione, difficile da vivere, tra una povertà scelta in tutta la sua radicalità, seguendo la kenosi del Figlio, e la povertà attuale. Il Signore ci chiama a servirlo concretamente, in uno stile e in un livello di vita mai
scontati ma sempre da fare e rifare.Di tutte queste tensioni dell’ispirazione ignaziana che spingono verso il “magis” fa parte anche il tema del mio intervento: la “cura personalis” (“attenzione alla persona”), una caratteristica dell’accompagnamento spirituale e insieme un elemento costitutivo nell’educazione gesuitica e nella formazione.
La tensione contenuta nella “cura personalis” può essere descritta in questo modo: Ignazio ha fatto esperienza che nell’itinerario verso Dio la persona necessita di una “cura” particolare, cioè dell’aiuto di un compagno di cammino, anche se tale avventura spirituale sarà – secondo lo Spirito che è sempre rigorosamente personale - una “cura personalis”. Per scoprire il significato di questa espressione ci lasciamo guidare dalle annotazioni che sono state poste all’inizio del libretto degli
Esercizi Spirituali. Come dice l’espressione latina, le annotazioni sono “note”, che proprio come note devono spiegare il testo scritto che Ignazio ci ha lasciato. Molto probabilmente infatti si trattava di conversazioni orali che Ignazio intratteneva con l’esercitante prima di iniziare propriamente gli esercizi. Di fatto era necessario precisare il tipo di relazione da intrattenere – la “cura” – tra Ignazio e la persona dell’esercitante. Al posto di un trattato devoto oppure di uno studio esaustivo al riguardo, Ignazio si limitava a poche note per illuminare i punti salienti.
Come primo impatto, insiste sul carattere personale della “cura personalis”. Anche a livello di semplice scelta dei termini, egli rifiuta ogni terminologia professionale o istituzionale; non parla di un direttore spirituale né di un animatore che si trovano davanti a un esercitante. La “cura personalis” viene espressa attraverso gli atti umani di “dare” e “ricevere”, un atto di trasmissione e di conseguenza un atto di ricezione. Si stabilisce una relazione lineare tra uno che dà gli esercizi e
uno che li riceve. Né il libretto né uno schema di esso danno gli esercizi. Ignazio dava il libretto scritto solo a chi aveva già fatto gli esercizi personalmente e ora necessitava dell’aiuto del testo per dare se stesso nel dare gli esercizi. Tutta la tradizione ignaziana mette in rilievo che non si tratta di trasmettere un sapere o una dottrina, di imporre un metodo o le proprie idee, ma di proporre i misteri della vita e della persona di Cristo in modo che l’esercitante possa da solo accoglierli nella propria storia personale. Chi dà gli esercizi si sente allora spinto a dare se stesso, senza fare da schermo e sapendo rinunciare a metterci del suo; e chi li riceve viene incoraggiato ad agire e reagire personalmente davanti al dono ricevuto, non soddisfatto di fermarsi alla superficie delle impressioni e dei sentimenti, ma sentendo interiormente il dono ricevuto e gustandolo nelle profondità di se stesso (EE, 2).
È proprio su questo punto che prende posizione l’annotazione meno messa in pratica nel corso dei secoli. La “cura personalis” non è più realizzata quando chi dà gli esercizi impedisce chi li riceve di agire e decidere da solo, quando la “cura” è manovrata in una precisa direzione oppure intorno a una valanga di idee o iniziative proprie del direttore. Anche se colui che dà gli esercizi è altamente qualificato, seriamente preparato per tale ministero, uomo di larga esperienza e di indiscutibile
competenza, Ignazio lo vuole sobrio, breve e soprattutto fedele a Ignazio e rispettoso di chi riceve gli esercizi (EE, 2). Oggi in particolare, con tanti direttori-animatori ben formati nell’arte del counseling e nelle dinamiche di gruppo, in esegesi e spiritualità, perché non arricchire la “cura personalis” anche con le acquisizioni delle scienze umane? Ciò nonostante, proprio all’inizio del libretto Ignazio osa esigere da chi dà gli esercizi di rinunciare a ogni abbondanza di sapere e a ogni dispiegamento della propria animazione spirituale, in modo tale che chi li riceve possa agire come autore – personalmente – di ciò che vuole e desidera. Tutta l’autorità di un direttore spirituale dovrebbe servire a rendere gli altri autori, secondo l’autentica etimologia del termine latino “auctoritas”. Al contrario, un atteggiamento autoritario o seduttore rischia di privare del loro senso sia “cura” sia “personalis”.
Passando ora da colui che dà gli esercizi a colui che li riceve, è sorprendente che Ignazio non dia alcuna spiegazione sul fatto che chi entra nell’avventura spirituale degli esercizi si metta quasi naturalmente nelle disposizioni di colui che deve riceverli. Per Ignazio non c’è bisogno di dire che la persona ha bisogno di “cura personalis” e che nessuno può cavarsela da solo. Molto semplicemente, possiamo dire che per crescere e svilupparci noi abbiamo bisogno di aiuto e rifiutare tale aiuto significa condannarsi fatalmente al ristagno o alla sconfitta. Tuttavia il
riconoscere la “cura personalis” di un compagno nel cammino verso Dio come qualcosa di indispensabile non comporta alcun atteggiamento rinunciatario. Al contrario, il rivolgersi con grande generosità (EE, 5) e in completa libertà a un’altra persona per aiuto è paradossalmente il modo migliore per aiutarsi. Paradossalmente, proprio questo ricorrere per aiuto a un’altra persona deve culminare nel prendere veramente sul serio quello che io stesso voglio. Questa espressione è ripetuta più di dodici volte nel libretto degli Esercizi ed è rinforzata da tutta una serie di verbi
riflessivi indicanti un’azione che ricade sul soggetto del verbo; ad esempio: “disporsi” (EE, 18), “correggersi” (EE, 24), oppure del tipo “riflettere in me stesso” (EE, 114). È chiaro che chi riceve la “cura personalis” è una persona capace di volere e di scegliere in libertà e con generosità. Come dice l’espressione “cura personalis”, si tratta di prendersi cura della persona. Tutta la dinamica degli
Esercizi porta a rendere chi li riceve responsabile, cioè capace di rispondere a ciò che il Signore vuole e desidera per lui. Ma tale responsabilità personale non lo isola in alcun modo in una torre d'avorio. Inoltre, l’insistenza degli Esercizi sul “me stesso” non intende affatto promuovere e favorire un esagerato individualismo. Al contrario, attraverso gli esercizi della prima settimana fa emergere nell’esercitante la corresponsabilità – fatta di complicità consapevoli o inconsapevoli – verso per
tutto ciò che in noi e attorno a noi viene distrutto dal peccato. La medesima responsabilità personale è chiamata in causa quando il Signore, nel corso degli esercizi della seconda settimana, desidera servirsi di noi per costruire una nuova umanità, più umana perché più divina. Così la “cura personalis” dispone chi riceve gli esercizi a diventare liberamente, e soprattutto personalmente, una risposta a Colui che chiama ciascuno e ciascuna per nome, per il più grande servizio, per la
maggiore gloria di Dio.
Ma allora in che cosa consiste concretamente la “cura personalis” nel servizio di dare gli esercizi? Come sempre, Ignazio è molto sensibile alla diversità delle persone – la loro età, la loro cultura, la loro maturità spirituale, il loro stato di vita (EE, 18-28) – e non esclude neppure l’eventualità che, almeno per il momento, non si debbano dare gli esercizi. Di qui tante possibilità suggerite da Ignazio per diventare capaci di offrire un aiuto concreto adattando gli esercizi, anche nei dettagli, alle necessità di colui che desidera riceverli. Questo adattamento al bisogno della persona presuppone che chi dà gli esercizi sia informato fedelmente delle diverse agitazioni e pensieri che si muovono in chi fa gli esercizi (EE, 17). Soprattutto, egli deve intervenire se la persona non è per nulla mossa da consolazioni o desolazioni (EE, 6). Come aiutare la persona nel caso di una calma
piatta, che non consente alla barca di muoversi e di andare avanti? Un problema, questo, più difficile da gestire rispetto a quello di un vento contrario provocato dal cattivo spirito, oppure di un vento troppo favorevole dove sembra sia lo spirito buono a indicare l’orientamento. In tutte queste situazioni di turbolenza, per rimanere nel linguaggio meteorologico, la “cura personalis” è indispensabile. Chi dà gli esercizi - dice Ignazio - deve allora intervenire ponendo domande. Ma in questi interrogativi non deve mostrarsi né aspro né severo (EE, 7) ma incoraggiante, facendo luce su tutto ciò che il buono e il cattivo spirito possono provocare nel cuore
di una persona. Un grande aiuto proviene dallo smascherare gli inganni di colui che è stato menzognero fin dal principio (Gv 8,44) e che continua a sedurre e a ingannarci, trasformandosi così spesso in angelo di luce (EE, 332). La “cura personalis” consiste allora, secondo le annotazioni, nel richiamare l’attenzione (EE, 12), nell’essere vigilanti (EE, 14), nel mettere in guardia e avvertire (EE, 14).
Soprattutto bisogna dire, nello spirito di Ignazio, che la “cura personalis” richiede un’atmosfera di reciproca fiducia, una fiducia che è sempre difficile guadagnare e sempre facile perdere. Ignazio stesso dovette dare gli esercizi spirituali in un contesto di grande diffidenza, in una relazione tra persone esposta al rischio concreto di rottura del dialogo nel periodo della riforma e controriforma. Ignazio aveva pure avuto l’esperienza che spesso possiamo sbagliarci, ad esempio quando era convinto che il Signore lo chiamasse a continuare la sua missione nel Vicino Oriente. In mezzo a queste incertezze, Ignazio tenta di avanzare con fiducia nella “cura personalis”. Anche oggi noi rischiamo di essere incompresi e di perdere la fiducia perché considerati di destra o di sinistra, catalogati come conservatori o progressisti. Allora – ci dice Ignazio, (EE, 22) – devono prevalere la comprensione e la benevolenza riguardo a quanto viene riferito, salvando nella misura del possibile quanto l’altro dice invece di condannare in partenza. Questa predisposizione favorevole avrà la priorità in tutto, insieme alla preoccupazione di mantenere aperto il dialogo con l’altro fino alla fine, per amore del prossimo. Una volta fissato questo principio della “cura personalis” piena di fiducia misericordiosa, Ignazio si industria di tracciare nelle annotazioni alcuni limiti. Un limite nella “cura personalis”, nel preciso contesto di una relazione tra due persone – chi dà gli esercizi e chi li riceve – consiste in questo: i due che parlano tra loro portano avanti la conversazione soltanto durante il tempo degli esercizi. Tuttavia Ignazio conosce situazioni completamente diverse e distingue esplicitamente la “cura
personalis” fuori dall’organizzazione degli esercizi e durante gli esercizi. Al di fuori di questi, l’accompagnatore spirituale può e deve incoraggiare le persone a scegliere il presbiterato o la vita consacrata (EE, 15). Durante gli esercizi invece l’esercitante deve sentirsi veramente libero, in modo che il Signore possa servirsi di lui; perciò chi dà gli esercizi non deve interferire quando il Signore stesso si sta riservando l’iniziativa di chiamarlo. Per la stessa ragione, c’è un limite insito nel bisogno di conoscere chi ha bisogno di “cura personalis”. Chi dà gli esercizi è obbligato a porre molte domande e a conoscere molti dettagli, per essere in grado di aiutare veramente la persona (EE, 6). Ignazio desidera che in questa acquisizione di informazioni chi dà gli esercizi sia guidato da un profondo rispetto per la persona interessata, evitando di fare domande o di voler conoscere i pensieri intimi e i peccati (EE, 17).
Comunque, chi dà gli esercizi non sarebbe in grado di garantire la “cura personalis” se non fosse informato sui diversi movimenti e agitazioni provocate nel cuore dell’esercitante dal buono o dal cattivo spirito. È vero che la “cura personalis” all’interno degli esercizi costituisce un caso particolare e una situazione privilegiata, ma nella pratica dei primi gesuiti sono salvaguardati lo stesso principio e le stesse limitazioni che ne derivano: saper cioè offrire una “cura personalis” a ciascuno e a ciascuna secondo la misura in cui queste persone vorranno rendersi disponibili e in un contatto da persona a persona. Il libretto degli Esercizi non ne parla, ma i primi gesuiti evitavano un pubblico troppo numeroso e abbandonavano il tono da predicatore per assumere invece lo stile di un dialogo personale. L’ideale rimane la conversazione, il colloquio. È attraverso le conversazioni che Ignazio si guadagnò dei compagni; è attraverso queste che Ignazio preparava le persone agli esercizi spirituali, dove però tali conversazioni - condotte in modo più accurato – assumevano il carattere di un colloquio. Anche se oggi viene riconosciuto l’apporto delle dinamiche di gruppo e della comunicazione di massa, si assiste a una specie di ritorno alle sorgenti in un movimento dagli esercizi predicati agli esercizi individualmente guidati, sebbene questa “cura personalis” comporti delle limitazioni nel numero di quelli che ne possono beneficiare.
Questa è la ragione per cui lo stesso Ignazio non presenta gli esercizi spirituali come un blocco monolitico da prendere o lasciare, ma prevede egli stesso esercizi lievi o impegnativi (EE, 18-20),rispettando così il desiderio e le reali possibilità di ciascuno; in tal modo, secondo l’apertura delle persone, sia lui sia lei possono essere aiutati nel loro personale cammino verso Dio. Spingendo la “cura personalis” il più lontano possibile, Ignazio apre la porta a ciò che è stata chiamata la democratizzazione dell’esperienza cristiana, sia attraverso gli esercizi nella vita quotidiana sia attraverso il ministero dell’accompagnamento spirituale, così diffuso nel nostro tempo grazie all' aiuto di uomini e donne ben preparati per il diverso tipo di “cura personalis”, i quali vi dedicano se stessi e il proprio tempo.
A tutti coloro che sono coinvolti nella “cura personalis” rimane da dire e da ripetere con Ignazio che la ragione per cui chi dà e chi riceve si impegnano in tale conversazione è quella di far sì che il Creatore si comunichi lui stesso alla persona che desidera essergli fedele, abbracciandola con il suo amore e lode, disponendola a entrare nel cammino in cui potrà meglio servire Lui in futuro (EE, 15). È ovvio che chi dà gli esercizi può sentirsi pieno di buoni consigli, di interessanti idee di teologia, esegesi e spiritualità, del tutto pronto ad aiutare chi li riceve, specie se costui ne ha veramente bisogno. Pur tuttavia, nella pedagogia ignaziana egli è chiamato a scomparire in modo che il Signore possa conversare senza intermediari con colui che riceve. Talvolta, o piuttosto spesso, la nostra fede in questo contatto personale con Dio è debole. Ignazio medesimo aveva avuto l’esperienza di “essere ammaestrato da Dio” (Aut. 27) e ha sperimentato in se stesso il desiderio che Dio ha di comunicarsi a chi entra in conversazione con Lui con tutto il cuore, a chi è disposto con tutto il cuore a riceverlo. Bisogna allora arrendersi all’evidenza che la relazione tra chi dà e chi riceve trae origine non solamente da una relazione reciproca, ma dal desiderio di questa comunicazione immediata ed efficace che il Creatore desidera avere con la sua creatura (EE, 15 e 231). In sostanza, la “cura personalis” è semplicemente un aiuto, da persona a persona, affinché Dio e l’uomo possano veramente incontrarsi.
Alla fine di tutte le annotazioni Ignazio osa scrivere (EE, 20) che quanto più una persona si trova sola e appartata, tanto più si rende adatta a incontrare il suo
Creatore e Signore e unirsi a Lui, e quanto più è unita a Lui tanto più è disposta a ricevere grazie e doni dalla sua divina e sovrana bontà. Non è forse questo un andare contro ciò che stiamo oggi cercando in una chiesa che si percepisce come “comunione”, a livello di tanti nuovi gruppi così vivaci, che sperimentano i benefici della dimensione comunitaria come una benedizione vitale? Tuttavia Ignazio insiste fin dall’inizio degli Esercizi e quasi come un principio (EE, 23) che non è stata in primo piano l’umanità ad essere creata per servire Dio, ma l’uomo – la persona – chiamata da Dio con il suo nome personale. Così le persone non si dissociano mai del tutto da una comunità dove il proprio io, la propria libertà e volontà sono presi in considerazione. In sinergia con il Signore che fa crescere (1Cor 3,7), l’uomo è in persona l’autore della propria crescita e riceve questo dono personalmente da Colui che è suo Maestro e suo amico, con il quale egli stabilisce un colloquio da servo e amico (EE, 54). Qui la “cura personalis”, nata dalla ‘conversazione familiare’ tra chi dà e chi riceve, raggiunge la pienezza di significato in Dio, il primo ad essere servito in ogni cosa.
C’è forse da meravigliarsi se i primi gesuiti e i loro successori, formati a questa “cura personalis”, l’abbiano sempre avuta davanti agli occhi in ogni passo del loro ministero pastorale e sociale, educativo e intellettuale, almeno nel rendere personalizzato il loro compito? Fin dall’inizio il ministero privilegiato era “predicare il Vangelo”, ma in un modo diverso dallo stile scolastico – come prescrivono le Costituzioni –, cioè piuttosto in conversazioni con il popolo, da persona a persona. Proprio nel trasformare questo stile scolastico, la “cura personalis” prende piede come una caratteristica dell’educazione gesuitica. La Ratio Studiorum del 1599 prenderà a cuore questa sollecitudine personale piena di rispetto per la vocazione di ogni alunno, per la storia personale di ciascuno. Gli educatori e gli insegnanti devono comprendere che l’esempio della loro vita personale favorisce la formazione degli studenti più delle loro parole. Questi studenti essi devono amarli, conoscendoli personalmente - “cura personalis” – e vivendo con loro una familiarità piena di rispetto. Questa conoscenza personale dovrebbe consentire un adattamento dei tempi scolastici, dei programmi e dei metodi, alle necessità di ciascuno. Questa “cura personalis” in tutta la sua pienezza e in tutta la sua pratica concreta ci è sembrata come un cardine degli Esercizi Spirituali.
Nell’esperienza educativa della Compagnia essa diventa il cardine di ogni educazione ignaziana,
che ha di mira una pedagogia personalizzata, nella misura in cui tale desiderio si rivela possibile,considerando i pesi imposti alle nostre istituzioni dall’esterno degli stati o dei mercati, con riconoscimenti e diplomi e con il supporto finanziario così spesso indispensabile. Proprio come prolungamento della “cura personalis” praticata negli Esercizi, la Ratio Studiorum – anche nella versione aggiornata delle Caratteristiche dell’educazione gesuitica – non persegue nelle scuole e università solamente l’eccellenza accademica, la specializzazione professionale o la ricerca scientifica più avanzata, ma attraverso queste iniziative ha di mira la formazione integrale della persona per una vita responsabile in mezzo popolo di Dio e nella società umana. Bisogna prendere atto che nell’attuale contesto impersonale, in cui contano soltanto i crediti e i risultati per ottenere i riconoscimenti degli stati e il sostegno del mercato, la “cura personalis” è più necessaria che mai. Infatti, come ci ricorda Papa Benedetto nella sua prima Enciclica (Deus caritas est, 33), non sono le ideologie che fanno progredire l’umanità, ma le persone, toccate dall’amore di Cristo. Questa convinzione del Papa riguarda anche altri ambiti, ad esempio l’attività sociale, dove esiste un facile rischio di sostituire i migliori programmi manageriali alla presenza e inserimento tra i poveri. Nel raccomandare la “cura personalis” Ignazio e i suoi compagni volevano seguire Cristo, che desidera essere servito personalmente in ogni persona che soffre e ha bisogno del suo aiuto, consolandola “nella maniera in cui gli amici sogliono consolarsi tra loro” (EE, 224).

Il testo è stato
pubblicato nel n. 114 (I, 2007) della Rivista di Spiritualità Ignaziana (CIS della Curia generalizia).

La storia della mia parrocchia

Una storica devozione: S. Maria del Carmine di Alessandria

"La voce dei Santi Eremiti / dal monte di Elia / tu porti ai tuoi figli smarriti, / O Vergine Santa, Maria." Così recita una bella composizione musicale dedicata alla Madonna del Carmelo venerata da tempo immemorabile in questa terra. Come è attestato da varie fonti storiche i Carmelitani possedevano una chiesa fuori dalla cinta urbana fin dal secolo XIII dedicata a S.Nicolao.

Esiste un primo riferimento cronologico attestato dallo storico G.A. Chenna: in data 27 settembre 1290, un Breve di Papa Nicolò IV concede indulgenze a varie chiese locali tra cui “l'ecclesia sancti Nicolai de Alexandria, ordinis B.V.M. de Monte Carmelo”. L'edificio originariamente si trovava nella zona di Marengo, probabilmente in fedeltà al primo e originario carisma eremitico dell'ordine che ebbe origine in Terrasanta sul Monte Carmelo, il bel promontorio sul mare oggi chiamato Haifa, la cui bellezza è ricordata dalla stessa Sacra Scrittura.

In quel luogo il profeta Elia difese la purezza della fede d'Israele nel Dio vivente, emblema della lotta contro gli idoli, come ha ricordato il Vescovo di questa diocesi Mons. Giuseppe Versaldi nella sua omelia nel giorno della memoria liturgica. Su quel monte presso la fontana che prende il nome dallo stesso profeta, verso la fine del secolo XII si stabilirono alcuni eremiti e vi costruirono un oratorio in onore della Madre di Dio, eleggendola a loro Patrona e Titolare, ma anche madre e modello, nella pratica della vita contemplativa e nel dono ai fratelli delle ricchezze attinte nella comunione con Dio. Furono chiamati "Fratelli di Santa Maria del Monte Carmelo".

La commemorazione già avveniva dal secolo XIV in vari luoghi, come è noto, i primi frati-eremiti non molto tempo dopo aver ricevuto la loro Regola ed essersi riuniti in comunità per mano di S. Alberto, Vescovo di Vercelli e Patriarca di Gerusalemme, presto a causa delle incursioni saracene dovettero abbandonare il Monte Carmelo diffondendosi così in varie zone d'Europa. Considerando che il il patriarcato di S. Alberto durò dal 1206 al 1214, vediamo subito come la comunità dei Carmelitani di S. Nicolao dovette essere tra le prime giunte in Europa.

Un po' per volta il carisma originario si dovette adattare alla diversa condizione europea e si inserì un po' per volta nella tradizione degli Ordini Mendicanti, mutarono i loto abiti abiti bianchi e neri a striscie (come si può vedere nel dipinto del Lorenzetti, Pala del Carmine) che causavano derisione per lo stile tipicamente orientale, incominciarono ad aprire scuole e in seguito le comunità incominciarono ad avere anche parrocchie. Le fonti storiche attestano un breve di Papa Clemente VI del 7 agosto 1346 che permetteva all'antico convento dei Carmelitano di trasferirsi in città (de priori loco infra villam Alexandriae ad locum decentem et honestum), la zona di Marengo era infatti anche acquitrinosa oltre che maggiormente esposta a rischi di epidemie e saccheggi.

Il trasloco fu lento e si concluse all'incirca agli inizi del Quattrocento. Il nuovo convento e la nuova chiesa furono chiamati ancora sia con il nome dell'antica chiesa di S. Nicolao sia con il nome di Chiesa dei Carmelitani, Santa Maria del Carmine. Ma a questo punto la storia della comunità carmelitana alessandrina si lega con le vicende della nobile famiglia alessandrina dei Ghilini. Nell’anno 1466, narrano le cronache di Girolamo Ghilini, tornando dalla Francia, dove aveva combattuto in aiuto del Re Luigi XI, Niccolò Ghilini introdusse in Alessandria i Frati Carmelitani ai quali donò tutto il sito “dove hora vedesi fabricato il Convento insieme con la Chiesa loro; ed anche alcune possessioni e rendite del patrimonio loro”.

Il testamento redatto nel 1463 dallo zio dei donatori, Rolando Ghilini, lascia 25 fiorini imperiali per “Sancte Marie de Montercarmello pro laborerio et fabrica dicte ecclexie”. Con la conclusione del XV secolo termina anche la disponibilità di notizie sulla chiesa e il convento annesso, ma ci sono ancora tracce di donazioni a testimoniare l’atteggiamento di continua devozione nel sentimento religioso degli alessandrini. Nel frattempo la devozione alla Madonna del Carmelo si era arricchita con il prodigio dell’apparizione a S. Simone Stock della la tradizione dello scapolare. Di lì a poco la chiesa a seguito delle note vicende storiche passa da essere chiesa dei Ghilini a chiesa degli spagnoli. In particolare la seconda metà del 500 vede fiorire le proposte riformatrici dei santi carmelitani “scalzi” Teresa di Gesù e Giovanni della Croce, con un nuovo richiamo alla tradizione eremitica e al rinnovamento dello spirito religioso carmelitano.

Conla seconda metà del 500 iniziano una serie di visite pastorali che hanno lasciato numerosi dati e notizie sull'organizzazione ecclesiale, il culto, gli usi e gli arredi liturgici.Da una fonte tardosecentesca scopriamo che la chiesa del Carmine era oggetto di una venerazione particolare da parte della colonia spagnola che si trovava ad Alessandria. "In ea ecclesia sepeliuntur saee duces ac milites Nostri Regis", è questo è testimoniato dalle numerose epigrafi, purtroppo fisicamente scomparse ma che possono essere lette nella Raccolta di Iscrizioni Alessandrine.

Esistevano anche due compagnie di laici: la "Sodalitas Beatissimae Virginis" che aveva l'incarico di tenere una lampada sempre accesa davanti al tabernacolo e la compagnia "SS. Corporis Domini Nostri Jesu Christi". Queste forme di religiosità, molto diffuse nell'età spagnola, a differenza delle confraternite che avevano propri statuti, e proprie chiese, vivevano della vita della chiesa presso cui erano state istituite ed avevano compiti di tipo liturgico, di mortificazione e di assistenza ai poveri e agli infermi.

Si ha anche notizia dell'esistenza di una Compagnia di Santa Maria Maddalena de' Pazzi, siamo nel 1694, e il culto della mistica visionaria fiorentina era molto in auge, essendo stata canonizzata nel 1669. La chiesa le dedica anche un altare ("posto a mano sinistra dell'altare maggiore"). Così come dal 1666 è attestata l'esistenza di una "Compagnia dell'Habito della Beata Vergine del Carmine", composta probabilmente da terziari laici dell'Ordine carmelitano.

Dopo la riforma teresiana arrivarono ad Alessandria anche i Carmelitani "Scalzi", nel 1668, edificarono chiesa e convento intitolati a SS. Anna e Teresa, aprirono uno studio di filosofia che nel 1772 ospitava 35 tra religiosi, conversi e studenti. Nel 1672 si aggiunsero anche le monache del monastero di S. Giuseppe e Santa Teresa. Ma tutto l'insediamento, situato non lontano dalla chiesa del Carmine, non sopravvisse alle soppressioni napoleoniche.

Nell'età sabauda non si hanno troppe notizie della chiesa del Carmine, si sa che nel 1711 viene fatta una richiesta per il restauro della facciata, che si celebrano due messe, una presto "in aurora, per commodo degli artisti e giornaglieri, ed altra sul mezzogiorno per commodo dei Nobili". Dopo il 16 agosto del 1802, per la legge di soppressione di tutti gli ordini monastici e delle congregazioni regolari il Carmine cessò ogni attività religiosa. Nell'aprile del 1805 la parrocchia del Carmine risulta appartenente al Demanio Imperiale e il convento è segnalato come sede di caserma.

(continua)

domenica 18 luglio 2010

La scienza studia le immagini acheropite


Riprodotta presso i laboratori ENEA di Frascati un'immagine simile alla Sindone di Torino

La Sindone di Torino è uno degli oggetti più studiati al mondo e rappresenta un vero e proprio enigma scientifico. Il principale interrogativo sulla Sindone riguarda la realizzazione dell’immagine impressa sul telo di lino, che ha caratteristiche chimiche e fisiche praticamente impossibili da replicare, tanto nel passato quanto oggi. Un gruppo di ricercatori dell’ENEA di Frascati è riuscito ora a riprodurre, per la prima volta, la colorazione di un tessuto di lino, negli strati più superficiali del tessuto, con la stessa cromaticità dell’immagine sindonica. Questo risultato è stato ottenuto inviando impulsi di luce ultravioletta emessi da speciali laser.
Gli studi e le conoscenze sulla Sindone non sono ancora in grado di fornire risposte scientificamente attendibili. Per fare il punto sugli interrogativi lasciati aperti dagli studi sulla Sindone, il dott. Di Lazzaro, responsabile del Laboratorio Eccimeri ENEA, e i suoi collaboratori hanno organizzato dal 4 al 6 Maggio 2010 presso il Centro Ricerche di Frascati, un workshop scientifico internazionale, a cui parteciperanno esperti provenienti da tutto il mondo. Sarà l’occasione per approfondire le conoscenze sull’immagine sindonica e su altre due immagini cosiddette acheropite, ovvero “non fatte da mano” (www.acheiropoietos.info).

(Nell'immagine foto al microscopio petrografico di una fibrilla di lino (al centro) parzialmente irraggiata da laser eccimero. Le zone irraggiate e non irraggiate da luce laser sono ingrandite negli inserti in alto e in basso, rispettivamente.)



DAI RICERCATORI ENEA I RISULTATI DEGLI ESPERIMENTI CON IL LASER AD ECCIMERI PER LA RIPRODUZIONE IN LABORATORIO DI UN'IMMAGINE SIMILE ALLA SINDONE DI TORINO
Intervista al dott. Paolo Di Lazzaro, responsabile del Laboratorio Eccimeri del Centro Ricerche ENEA di Frascati


Perché un lenzuolo di lino rettangolare lungo 4,4 metri e largo 1,1 metri, che porta impressa un’immagine frontale e dorsale di un uomo flagellato e morto in croce, è divenuto uno degli oggetti più studiati al mondo? Secondo la tradizione cristiana la Sindone ha avvolto il corpo di Gesù e l’immagine impressa sarebbe, quindi, quella del Cristo; eppure a interessarsi della Sindone non è solo il mondo storico-religioso, ma anche quello scientifico.
“La Sindone è un enigma scientifico a molte facce.” Ci spiega il dott. Paolo Di Lazzaro, responsabile del Laboratorio Eccimeri del Centro Ricerche ENEA di Frascati. E in effetti le domande sono numerose. “La misura di radio datazione effettuata con il carbonio 14, per esempio, ha collocato l’origine del telo in pieno medioevo (1260 – 1390) ma questa misura sembra aver sofferto sia di errori materiali di calcolo sia di problemi di contaminazione, ed è in contrasto con molti indizi tessili, iconografici, storici che suggeriscono che questo telo sia più antico di quanto dica la radio datazione”.
Il principale interrogativo, però, sembra riguardare la realizzazione di questa immagine che ha caratteristiche chimiche e fisiche praticamente impossibili da replicare oggi, e a maggior ragione nel medioevo o in tempi più remoti. “Fra le tante caratteristiche peculiari, l’immagine si presenta come un negativo fotografico; il colore risiede solo in uno strato molto superficiale dei fili del tessuto e le sue sfumature contengono informazioni tridimensionali. Le numerose tracce ematiche (sangue, siero, birilubina 1) sul telo sono pienamente rispondenti ad un uomo crocefisso e fortemente traumatizzato e la mancanza di immagine sotto le macchie di sangue suggerisce che il sangue stesso abbia schermato il lino dalla causa dell’immagine, quindi il sangue si è depositato prima della formazione dell’immagine”.
Dott. Di Lazzaro perché vi siete interessati alla Sindone?

La curiosità è una delle caratteristiche principali degli scienziati. Di fronte all’immagine sindonica, invece di porci la domanda sul “quando?” a Frascati ci siamo chiesti “come?”. Tempo fa abbiamo visto alcune foto al microscopio del tessuto della Sindone di Torino e abbiamo notato una somiglianza con le fibre di tessuto che avevamo colorato con i nostri Laser per conto di alcune industrie tessili. Ci siamo chiesti se era possibile, con le nostre conoscenze e tecnologie, produrre una immagine simil-sindonica e ci siamo rivolti ad uno dei massimi sindonologi italiani, il Prof. Giulio Fanti dell’Università di Padova.

In cosa consistono i vostri esperimenti e cosa siete riusciti a dimostrare?

I risultati ottenuti sono andati oltre ogni nostra aspettativa. Abbiamo dimostrato che un impulso di luce ultravioletta2 estremamente breve (pochi miliardesimi di secondo) in un intervallo ristrettissimo di valori di energia e densità di potenza è in grado di colorare con la stessa cromaticità dell’immagine sindonica il tessuto di lino in modo molto superficiale, in pratica solo gli strati più esterni del singolo filo di lino.
Più precisamente, ciascun filo di lino (che ha un diametro di circa 0,3 millimetri) è composto da circa 200 fibrille3. Noi siamo riusciti a colorare il primo strato di fibrille esposto alla luce laser, il cosiddetto “primary cell wall” della fibrilla di lino, una pellicola sottilissima spessa 0,2 micrometri che circonda la fibrilla, lasciando la parte interna della stessa fibrilla non colorata. Questa è una delle caratteristiche dell’immagine sindonica più difficili da replicare. Inoltre abbiamo osservato che bastava variare di pochissimo il valore di intensità per ottenere una colorazione sempre superficiale, ma molto più profonda di 0,2 micrometri.4 Si tratta della prima volta che, in analogia con l’immagine sindonica, si riesce a colorare solo il “primary cell wall” della fibrilla di lino tramite radiazione, un risultato mai ottenuto sinora con metodi chimici a contatto (coloranti, paste chimiche, polveri, acidi, vapori, ecc) e avvicinato solo da una tecnica che utilizza la cosiddetta “scarica ad effetto corona”5 e che emette luce ultravioletta.
Questi risultati sono stati riassunti in due articoli pubblicati sulle riviste scientifiche statunitensi Applied Optics nel 2008 e Journal of Imaging Science and Technology nel 2010.
Con il vostro laser siete riusciti a colorare in modo superficiale un telo di lino dopo anni di studi per capirne i meccanismi fisico-chimici.
L’idea iniziale era di sfruttare l’elevato assorbimento della cellulosa, che costituisce il 75% delle fibre di lino, nell’ultravioletto per ottenere una colorazione estremamente superficiale, in uno spessore micrometrico o sub-micrometrico. Di conseguenza la scelta è ricaduta sui sistemi laser a eccimero perché sono i laser con maggiore potenza emessa nell’ultravioletto. Abbiamo inviato gli impulsi di luce ultravioletta emessi dai nostri laser ad eccimeri a bombardare vari tessuti di lino, sia grezzi che sbiancati, fabbricati recentemente ma con antiche tecniche, come quella del telaio a mano.
Non avendo trovato in letteratura esperimenti di colorazione di lino tramite luce laser ultravioletta, abbiamo iniziato gli esperimenti in cieco, variando tutti i parametri laser (durata temporale, intensità, numero di impulsi consecutivi) in un ampio intervallo di valori. Questa procedura ha richiesto circa due anni per essere completata. Alla fine siamo riusciti a trovare i parametri laser adatti a colorare in modo simile alla sindone i tessuti di lino, con una sorpresa: è sufficiente, infatti, una piccola variazione dei parametri laser per non ottenere più la colorazione.

Un ulteriore effetto che avete ottenuto è stata un’ “immagine latente”, di cosa si tratta?

Appena al di sotto dell’intensità minima per generare la colorazione, è possibile ottenere una colorazione invisibile, che “appare” solo dopo un invecchiamento naturale del lino di circa due anni, oppure dopo un invecchiamento artificiale ottenuto con pochi secondi di riscaldamento del tessuto a 190 gradi centigradi. Anche in questo caso siamo riusciti a individuare i principali meccanismi fisico-chimici che sottendono la generazione di queste immagini latenti.

Ma allora, in base ai vostri risultati, è possibile riprodurre l’immagine sindonica con le stesse dimensioni?

Diciamo che è molto difficile. Se consideriamo la densità di potenza di radiazione che noi abbiamo utilizzato per ottenere la colorazione di un solo centimetro quadrato di lino, per riprodurre l’intera immagine con un singolo flash di luce sarebbero necessari quattordicimila laser tutti puntati in un’unica direzione, pensate ad un intero palazzo pieno di laser.
Il nostro è l’ultimo di centinaia di tentativi di riproduzione, i primi hanno utilizzato tecniche a contatto con risultati simili all’originale ad occhio nudo, ma molto diversi se osservati al microscopio. In tempi recenti si è pensato di utilizzare irraggiamenti sia tramite particelle (protoni) sia tramite radiazione ultravioletta emessa da scariche elettriche tipo corona o direttamente da sorgenti laser, come nel nostro caso.

I risultati che avete ottenuto possono essere una risposta a uno dei misteri della Sindone?

Quando si parla di un flash di luce che riesce a colorare un telo di lino in modo simile alla sindone è facile portare il discorso nell’ottica del miracolo e della resurrezione. Ma come scienziati, noi ci occupiamo solo di eventi scientificamente riproducibili. Quello che posso dire con assoluta certezza è che il nostro risultato è assolutamente riproducibile in laboratorio, lo abbiamo verificato più volte con attenzione. Se i nostri risultati scientifici possono aprire un dibattito filosofico e teologico, le conclusioni le lasciamo agli esperti dei rispettivi campi, e in definitiva alla coscienza di ciascuno di noi.

(continua)

giovedì 15 luglio 2010

In memoria di Padre Andrè Louf

Dom André Louf è morto lunedi 12 luglio. Era nato 28 Dicembre 1929 a Lovanio.
Entrato nella comunità trappista di Mont des Cats il 15 OTTOBRE 1947, fece la sua solenne professione 2 Febbraio 1954 ed è stato ordinato sacerdote il 19 Luglio 1955. Eletto abate 10 gennaio 1963, rimase fino alle sue dimissioni il 14 novembre 1997. Poi si ritirò a vivere come un eremita, presso la Comunità benedettina di S. Lioba in Simiane-Collongue. Era appena ritornato alla trappa di Mont des Cats, poche settimane fa, per problemi di salute. Il funerale si è svolto Mercoledì 14 luglio alle ore 15.

***

Ho incontrato tre volte Padre Andrè Louf: la prima attraverso i suoi scritti, semplici ma efficaci e soprattutto "pratici" si si può usare questo termine per materie che riguardano la vita interiore. La seconda volta nella bellissima cornice della Abbazia di Monte Oliveto Maggiore sulle assolate colline intorno a Siena nel contesto di un Simposio Ecumenico Internazionale. Padre Andrè Louf figurava tra i relatori pur non essendo più abate da alcuni anni ma "eremita" nei pressi della Comunità benedettina di S. Lioba a Simiane Collongue nel sud della Francia.

Ricordo ancora bene il suo intervento, inaspettato rispetto al tema. Parlò infatti dell'importanza dell'ecumenismo "interno" per la Chiesa oltre che di quello "esterno". Dopo il suo intervento molto, molto schietto, cadde una breve pioggia donando a tutti noi e alle zolle di terra spaccate dalla siccità, un po' di refrigerio. Incontrandolo di persona per la prima volta rimasi colpita dalla sua franchezza, dal suo sorriso, dalla sua alta e longilinea figura, la cintura di cuoio stretta sui fianchi, con due buchi: quello più serrato per il tempo del digiuno, quello più ampio per il tempo normale.

La terza volta fu un incontro più ravvicinato: mi recai per una settimana di ritiro nel monastero benedettino di S. Lioba nel cui territorio il Padre Abate aveva stabilito la sua residenza. Abitava in una piccola casa tutta di legno grande poco più una cella di convento, con un po' di giardino intorno e una recinzione protettiva. In quei giorni stava lavorando ad una traduzione dell'opera del mistico fiammingo Jan van Ruysbroeck. Ogni tanto partecipava alla liturgia del monastero insieme ad altri sacerdoti, ma non sempre, spesso ai vespri.

L'ambiente aveva per me molte attrattive, dal punto di vista liturgico a quello artistico, in special modo per la splendida produzione artigianale delle religiose, esperte nel colorare le stoffe (ogni casula indossata dal celebrante era un'autentica opera d'arte), nel fare vetrate, ceramiche, naturalmente anche icone, tutto ad un livello veramente alto.

D'altra parte quella comunità è stata fondata nel 1935 da una ex pittrice olandese in seguito divenuta religiosa, Hildegard Michaelis proveniente dalla Scuola di Belle Arti di Amburgo. Ma aldilà delle pur ottime e utili sollecitazioni sensibili, il vero guadagno di quel ritiro mi venne dall'aver avuto la possibilità di dialogare per tutti i giorni della mia permanenza, nelle prime ore della mattina, con quell'uomo di Dio. Ebbi modo di farmi spiegare molti aspetti della vita religiosa che ancora erano per me difficili da comprendere ed anche le novità e i rischi del dopo concilio per alcuni aspetti delle vita religiosa, mi diede da leggere alcune regole religiose e mi consigliò su molte cose su cui ero dubbiosa.

Mi preparò anche a ciò che mi attendeva, infatti diceva che spesso in certi contesti ecclesiali avere una forte personalità, o meglio avere "una" personalità, crea problemi giacchè si confonde spesso quello che è il "principium individuationis" e che tutti devono arrivare a sviluppare, quel "quid" specifico che ognuno di noi ha, con la personalità di tipo "egotico", incentrato su di sè, cosa assolutamente diversa. Avere una marcata personalità, cioé aver sviluppato il proprio "principium individuationis" non solo non è di ostacolo alla vita religiosa, ma si rende necessario, per non rischiare di finire come certi matrimoni contratti da personalità ancora troppo acerbe e non definite.

Alla fine del mio soggiorno mi scrisse l' indirizzo di posta elettronica di una Certosa di cui conosceva la madre superiora su un piccolo foglietto di carta che conservo ancora (e che però non mi riuscì mai di contattare, nè via mail nè via posta cartacea). Comunque feci ritorno a casa con il cuore traboccante per tutto quanto avevo ricevuto. Di lì a poco decisi di partire per l'Abruzzo per raggiungere una piccola casa di proprietà della mia famiglia, dove ho vissuto da sola per alcuni anni. (MLA)

***

Da "Sotto la guida dello Spirito" di Andrè Louf, ed. Qiquajon:

(Sta parlando di conversione e accompagnamento spirituale) "La crescita di quest'uomo nuovo è sempre legata alla realtà psicologica di ciascuno e in modo difficile da controllare: la guida spirituale ne terrà conto. Non potrà mai discernere chiaramente tra ciò che è puro dato psicologico e ciò che proviene solo dallo Spirito Santo. Ogni dato è innazitutto psicologico, ma nello stesso tempo in armonia o in disaccordo con lo Spirito. Il che significa che l'azione dello Spirito Santo puà appoggiarsi sia sugli elementi oscuri che su quelli luminosi della personalità.

Un equilibrio psicologico non è mai una condizione "sine qua non" del progresso spirituale, così come un handicap psicologico non è mai un ostacolo insuperabile. L'importante è discernere come vengono messi in opera gli elementi oscuri e quelli luminosi, in che direzione si sviluppano, se positiva o negativa, e, infine se sono o meno a servizio dell'amore. Questa è la posta in gioco della paternità spirituale che cerca di accompagnare e di illuminare questo processo.

In altri termini si tratta della scoperta di quella che oggi si chiama l'interiorità presente in ogni uomo, il suo essere e la sua realtà più profonda. Da soli siamo incapaci di far affiorare questo fondo, di destare questa nuva sensibilità ai valori spirituali: dobbiamo essere indirizzati su cammino, abbiamo bisogno di una parola che illumini questa nuova situazione in modo da potervi scoprire e riconoscere il lato migliore di noi stessi. La guida spirituale assomiglia sempre un po' ad una levatrice, obiettivo della vita monastica, scriveva Thomas Merton è quello di essere "fully born", pienamente nato."


Splendore nascosto


Chi sei tu, splendore nascosto,
cristallo purissimo ?
Di quanto amore ti ama
chi ti chiamò dal grembo materno?
Di quale amore ti ama
chi ti volle solo per sé?
Di amore folle e magnifico
di amore tenero e forte,
uomo di Dio, Egli ti ama.
E come ti ama?
Io piccola donna
solo da donna posso sentire
il suo amore e, come donna
me ne lascio colmare.
Splendore nascosto,
gioisco nel mio intimo
provando a immaginare
quanto ti ama,
ancora di più gioisco
pensando con quante melodie,
canti, preghiere,
celebrazioni eucarestiche,
hai contribuito a vivificare
la terra, l'umanità pesante d'argilla,
i fratelli, la Chiesa,
le tue lodi di uomo di Dio
sono il ritmo e il tempo
del cuore,
e solo con il cuore io ti voglio
ascoltare,
e solo nel cuore io ti voglio
portare. (MLA)

S. Lioba - 17 gennaio 2001

martedì 13 luglio 2010

Il buon Samaritano II

Misericordia e giustizia sono due qualità in perfetta sintonia e fondano l'amore del Dio biblico. L'amore giusto si fa misericordia e la misericordia appare come la pienezza della giustizia. La giustizia è l'inizio dell'amore. Dall'Antico Testamento l'amore di Dio assume la forma della misericordia prima di Dio verso l'uomo , poi dell'uomo verso l'uomo. Un legame profondo unisce giustizia e amore e la misericordia appare come la pienezza della giustizia della quale è radice e fondamento (S. Tommaso). La giustizia di Dio si è manifestata attraverso la sua misericordia. "Dio è giusto e per questo si è mostrato compassionevole, lento all'ira e pieno di dolcezza e misericordia".

J.J. Perez-Soba (1) ha indagato le origini dei due tipi di etica, amore e giustizia. Non troviano un'etica dell'amore fino alla venuta della tradizione giudeo -cristiana nel mondo occidentale. L'opposizione tra i due si deve ad una tradizione che comincia con Lutero.Questi distingue la tensione tra due tendenze contrapposte dell'uomo che sfociano in due etiche distinte. Entrambe le tendenze si possono coniugare con la supremazia della coscienza individuale nella misura in cui si fondano su una divisione interna della coscienza umana, una teologica diretta a Dio e l'altra secolare diretta al mondo. La separazione si divide ulteriormente nella separazione tra carità e amore (che in seguito darà origine alla separazione tra eros e agape). La seconda si riferisce alla carità.

Con Lutero questa si riduce ad una manifestazione esteriore di significato altruista: la beneficenza (che è ancora per molti il suo significato). Si trasforma così in una specie di rivale della giustizia. La giustizia sarebbe cioé quello che è dovuto, la beneficenza ciò che si da gratuitamente. Alla base dell'opposizione amore-giustizia vi è una comprensione dualista della relazione tra la grazia e la creazione, che ha la sua prima conseguenza in una cattiva articolazione tra grazia e libertà. Ma la stessa creazione non può comprendersi come un atto di giustizia ma come un atto d'amore. Allora ogni giustizia può fondarsi solo su un prima amore. L'amore originario ha portata universale ed è principio di qualsiasi ordine posteriore. All'interno degli attributi divini la misericordia si pone come fondamento della giustizia.

Tornando al nostro punto di partenza, cioé la vicenda del buon samaritano, è sempre opportuno chiarire bene prima di gettarsi in affrettate conclusioni di chi o contro chi stiamo parlando: ciò non toglierà nulla alla prorompente forza del messaggio cristiano, ma ci aiuterà ad inquadrarlo in un'ottica giusta ed equilibrata. Basta a questo scopo il testo seguente da cui si comprende il grande valore attribuito dalla tradizione ebraica al comandamento dell'amore del prossimo. In un testo di commento al cap. 27° del Deuteronomio ritroviamo il discorso delle 48 alleanze: l'Alleanza conclusa intorno alla legge rivelata invece di figurare come astrazione personale di un atto giuridico, è accolta come qualcosa che istituisce legami vivi con tutti coloro che adottano la legge. Ciascuno vi si trova responsabile di ciascuno. In ogni atto di alleanza si delineano più di seicentomila atti personali di responsabilità. Le 48 dimensioni del patto diventano 48 x 603550. Si può anche sorridere di questo, eppure rende bene l'idea: il popolo israelita risponde l'uno dell'altro davanti alla legge, è il contrario dell'indifferenza, tutti mi riguardano! La formula "ama il prossimo tuo com te stesso" presuppone ancora l'amore di sè come prottipo dell'amore, qui (2) l'etico significa: "sii responsabile dell'altro come sei responsabile di te stesso".
Non si è solo responsabili di tutti gli altri, secondo questa visuale si è responsabili anche delle responsabilità di tutti gli altri! MLA

Note

1. Sono interessanti a riguardo gli Atti del VI Colloquio di Teologia Morale dal tema "Limiti alla responsabilità? Amore e Giustizia" organizzato a Roma presso la Pontificia Università Lateranense, AIRTM (Area internazionale di ricerca di teologia morale).
2. E. Levinas, "L'aldilà del versetto, letture e discorsi talmudici", Guida Ed. 1984, Napoli.
3.Sono anche interessanti per conoscere meglio alcuni aspetti della tradizione ebraica anche alcuni scritti di Edith Stein che aveva una doppia conoscenza, quella della sua tradizione di nascita, quella ebraica e quella della sua esperienza acquisita in età adulta di cristiana.

domenica 11 luglio 2010

Il buon Samaritano I

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 10,25-37.

Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: « Va' e anche tu fa' lo stesso ».

***

Ieri sera nella Messa vespertina ho ascoltato una buona omelia e il celebrante ha spiegato in modo semplice alcuni aspetti di questa nota parabola poco risaputi. Innanzitutto perché il sacerdote e il levita non si sono fermati a soccorrere il malcapitato: nella tradizione ebraica queste categorie di persone dovevano fare molta attenzione a non contrarre impurità altrimenti non avrebbero più potuto celebrare al tempio e toccare i malati e soprattutto il sangue li avrebbe resi impuri. Naturalmente il samaritano non aveva di questi problemi, così non indugia a prestare soccorso. Dicendo questo non si svuole sminuire la bella azione del samaritano ma si pone l'accento anche su un altro aspetto del rivoluzionario messaggio di Gesù che va oltre rispetto al comandamento dell'amore del prossimo, insegnando anche a non temere le impurità che vengono dall'"esterno" ma quelle che vengono dall'"interno", dal cuore, dai cattivi pensieri, ben più contaminanti di ciò che si tocca con le mani e si trova fuori di noi. D'altra parte il discorso della tradizione ebraica sul contrarre impurità è complesso e va ben oltre questi casi: infatti per gli ebrei rendeva impuri anche toccare qualcosa di santo e di sacro.

***

Allora chi è il mio prossimo? Ciò che deve contare primariamente è il nostro orizzonte, non quello del mondo intero perché tutti gli uomini sono legati gli uni agli altri e agendo con i vicini, i "prossimi" arriviamo automaticamente anche ai lontani. Rischiamo altrimenti di cadere in preda alla disperazione quando ci accorgiamo di non poter cambiare il mondo, c'è sempre infatti sproporzione tra le nostre forze e quelle del male. Assume allora valore quella che V. Balthasar definiva la "rappresentanza vicaria", cioè l'impegno nella propria quotidianeità. Nella Divina Commedia sul portone d'ingresso dell'inferno c'è scritto "amore mi fece", nel senso che la condanna peggiore per il male è sempre l'amore.
Qualcuno parla anche di un'etica del sentire e la fenomenologia non è un sentimentalismo. La base del sentire è il rispetto per le persone e per le cose, il rispetto secondo Edith Stein (che scelse come argomento per la sua tesi di laurea l'"empatia") è l'ombra dell'amore. L'amore viene prima dell'etica. Il rispetto scriveva Kant è "il sentimento morale per eccellenza [...] a differenza dell'amore il rispetto è un sentimento che può considerarsi dovuto. A quanti e quali tipi di cose si considera dovuto: questo misura il livello di civiltà morale di un epoca".
Se allora solo nel bene comune può compiersi il bene proprio e ogni persona trova il suo posto nell'ordo amoris degli altri, bisognerà fare attenzione a non mescolare i diversi tipi di amori ma a concedere a ciascuno ciò che è proprio. L'agire umano si trova davanti a un paradosso, ognuno di noi sa di essere chiamato ad amare, a rimanere aperto all'amore con un amore di benevolenza universale. Ma siamo soggetti finiti, abbiamo una prospettiva limitata, non abbiamo la prospettiva di Dio. La soluzione potrà essere allora voler bene secondo un ordine, l'ordine dell'amore. L'amore universale come apertura all'universalità delle persone dovrà passare attraverso la singolarietà della persona concreta. Secondo Josè Noriega l'ordo amoris fonda l'ordo rationis che potrà diventare l'ordo virtutis. Solo così la persona potrà stabilire in ordo nei suoi desideri, nel suo agire, nelle sue relazioni. (continua)

UN VERO MOTIVO DI GIOIA: GESÙ È SIGNORE


Una lettura della lettera di Paolo ai Filippesi

di D. Luigi Gioia (Padre Abate dell'Abbazia S. Benedetto di Seregno)

Uno dei segni più eloquenti della distanza che ci separa dalle prime comunità cristiane è forse proprio la nostra difficoltà alla lettura delle lettere di San Paolo. Oggi le consideriamo riservate ai teologi. Se, tramite la liturgia, siamo familiari con alcuni passaggi tratti da esse, raramente ci spingiamo ad esplorarne il contesto o a leggerle per intero. L’esegesi e la teologia hanno talvolta contribuito a questa situazione. Invece di rendere la lettura di questi testi più agevole, spesso la sommergono sotto una erudizione fine a se stessa. L’origine di questa difficoltà, però, è anche spirituale.
Domandiamoci cosa risponderemmo se qualcuno ci chiedesse, come cristiani, quale è il
nostro motivo più profondo di gioia. Inutile elencare le risposte possibili. Molti di noi probabilmente risponderebbero: “Perché Dio mi ama”. Risposta giusta, che Paolo non avrebbe certo negato. Quanti, però, replicherebbero spontaneamente a questa domanda esclamando come lui: “Perchè Gesù è Signore!”. Un tale motivo di gioia riecheggia continuamente in questa vera gemma letteraria rappresentata dalla lettera ai Filippesi. “Rallegratevi sempre nel Signore. Ripeto: rallegratevi”1. Paolo sa di ripetersi quando dice ancora: “Fratelli miei, rallegratevi nel Signore” ed allora se ne scusa: “Io non mi stanco di scrivervi le stesse cose, e ciò è garanzia di sicurezza per voi”2. Ed anche quando altre cose lo rallegrano, come l’affetto testimoniato dai Filippesi, di questo gioisce nel Signore: “Ho avuto una grande gioia nel Signore, perché finalmente avete rinnovato le vostre cure per me; ci pensavate sì, ma vi mancava l' opportunità”.

* * *

Il Signore... A pensarci bene, quando menzioniamo il ‘Signore’ è sempre con una nota di deferenza. Nel corso di una conferenza a carattere culturale, un oratore non parlerà del ‘Signore’, ma di ‘Dio’. I non credenti, o gli indifferenti, quando devono farlo, parleranno anche loro di ‘Dio’. L’uso stesso della parola ‘Signore’ è dunque già un modo di confessare la propria fede. Paolo non cessa di riferirsi al ‘Signore’. Spera nel Signore anche riguardo agli eventi apparentemente più umani: nel Signore si dice fiducioso di poter fare quello che desidera 1 Fil 4.4.

1 Quando le citazioni sono tratte dalla lettera ai Filippesi, l’abbreviazione ‘Fil’ non sarà ripetuta .
2 3.1
3 4.10
4 2.19: “Spero intanto nel Signore Gesù di inviarvi ben presto Timoteo, affinché anch' io, informato sulla vostra situazione,
possa essere di buon animo”
l’Ulivo. Rivista ol ivetana di spi ri tual ità e di cul tura monast ica, 34 (2004/2) 315-333


intraprendere,5 raccomanda di accogliere qualcuno “nel Signore con ogni gioia”6 o di star saldi nel Signore,7 di andare d’accordo nel Signore8. Ne parla come del “mio Signore”9. Aspetta il Signore come salvatore nell’ultimo giorno 10. Ad un certo punto, incoraggiando alla mansuetudine, a non preoccuparsi di nulla e a pregare con fiducia, svela il segreto della pace che custodisce il cuore ed i pensieri per mezzo di una piccola frase, quasi un soffio: “Il Signore è vicino”11.

* * *

Il Signore è vicino... Da dove nasce la consolazione che accompagna questa esclamazione? Questo ‘Signore’ evidentemente non è un estraneo. Eppure, lo conosciamo davvero? Forse pensavano di conoscerlo i Filippesi, anche se Paolo sembra dubitarne. Da questa lettera si indovina una comunità divisa. Gli inviti stessi alla unità che incontreremo tra un momento lo lasciano supporre. Altre raccomandazioni fanno trapelare egoismo, fiducia in cose vane, una tendenza a mettersi al di sopra degli altri, la ricerca dei propri interessi. Con un po’di amarezza, Paolo riconosce che “tutti cercano i loro propri interessi”12 e che ci sono quelli che “hanno l’animo alle cose della terra”13.
La lettera ai Filippesi è anzi un po’insolita rispetto alla maggior parte delle altre lettere di Paolo. Normalmente, Paolo comincia con il parlare non degli uomini, ma di Cristo, del piano di salvezza di Dio per l’umanità, della Chiesa, dello Spirito Santo e solo verso la fine ne approfitta per applicare quanto ha insegnato al modo in cui un cristiano deve agire. Con i Filippesi, invece,Paolo comincia quasi subito la lettera con uno sfogo. È in prigione. Una setta in disaccordo con il suo modo di insegnare il Cristianesimo approfitta di questa situazione per contraddirlo. Le comunità cominciano a dividersi. La piaga che affliggerà tutta la storia della Chiesa ha cominciato ad infierire e se ne intuisce subito la causa: la pretesa di ‘conoscere’ meglio, di saperne di più, di poter offrire l’interpretazione più autentica del messaggio di Gesù.

5 2.24: “Ho fiducia nel Signore di venire presto io stesso”
6 2.29
7 4.1: “Pertanto, miei fratelli diletti e desiderati, mio gaudio e mia corona, perseverate così nel Signore, o diletti”
8 4.2: “Raccomando a Evodia ed esorto Sintiche a vivere in buona armonia nel Signore”
9 3.8: “[i miei vantaggi] li giudico tuttora una perdita a paragone della sublime conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il cui amore ho accettato di perderli tutti”
10 3.20: “Noi però siamo cittadini del cielo, da dove attendiamo anche, come salvatore, il Signore Gesù Cristo”

11 4.5 ss
12 2.21
13 3.19
l’Ulivo. Rivista ol ivetana di spi ri tual ità e di cul tura monast ica, 34 (2004/2) 315-333


Paolo spiega subito, allora, cosa voglia dire ‘conoscere’ per un cristiano. Non è una questione di idee, non prima di tutto, non in fin dei conti. È una questione di amore, di ‘agape’, questa bellissima parola riservata dal Nuovo Testamento all’amore con il quale Dio ci ha amati. Solo quelli che amano acquistano una vera ‘conoscenza’ del Signore. Anzi, è l’amore stesso che si trasforma in conoscenza: “Che il vostro amore si espanda sempre di più in conoscenza”14. Quello che si tratta di conoscere non sono prima di tutto idee, ma è una persona, non una persona del passato, ma una che è risorta, che vive, che è presente, che agisce: “conoscere Cristo, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, divenendo conforme a lui nella sua morte”15.
Se ripetere a se stessi “Il Signore è vicino” consola e pacifica così profondamente, è perché il Signore non è solo qualcuno che è venuto e deve ritornare, ma è qui, adesso. La passione che un tale pensiero accende nell’animo di Paolo si traduce nel lirismo di frasi che ne traducono l’impeto quasi visualmente: “Non che io sia già arrivato alla mèta o sia già in uno stato di perfezione, ma mi sforzo nel tentativo di afferrarla” – e qui si corregge: non è lui che afferra la meta; al contrario, è lui ad essere stato “afferrato da Cristo Gesù”16. Il Signore è colui che “afferra”: Paolo ne ha fatto fisicamente l’esperienza nel momento della sua conversione. Può riconoscere con tutta sincerità che per lui, oramai, “vivere è Cristo”17.

* * *

Il Signore “afferra”... Un Signore che “afferra” può far paura. Giove e l’imperatore romano potevano essere ‘signori’ allo stesso modo. Anche di questa altra ‘signoria’ Paolo faceva fisicamente l’esperienza nella sua prigione. Una tale ‘signoria’ non fa nascere la pace nel cuore, nè la mansuetudine; produce piuttosto amara rassegnazione oppure fomenta la ribellione. Non si prova nessuna consolazione al pensiero che un tale ‘signore’, per esempio uno dei sanguinari e orgogliosi imperatori, “è vicino”. Quando Paolo ripetutamente si rallegra nel Signore, si riferisce ad una ‘signoria’ che non solo è diversa, ma è l’opposto della signoria umana. Questa lettera sarebbe poco più di uno scritto di circostanza con qualche notizia di Paolo, qualche sfogo relativo alle sue preoccupazioni e gioie del momento, qualche raccomandazione ai cristiani di Filippi, se non fosse per il fatto che, tutto ad un tratto, in modo totalmente inaspettato, come un veggente che improvvisamente entra in trance, Paolo non prorompesse in

14 4.9
15 3.10
16 3.12
17 1.21
l’Ulivo. Rivista olivetana di spiritualità e di cultura monastica, 34 (2004/2) 315-333


uno dei passaggi più avvincenti di tutto il Nuovo Testamento18. Si tratta di una decina di righe nel secondo capitolo, perfettamente simmetriche, un gioiello dal punto di vista letterario, che combina il tono epico con uno sconvolgente effetto drammatico. Si tratta non tanto di una esortazione, quanto soprattutto di una ‘rivelazione’ nel senso più profondo e tipicamente cristiano di questa parola. Quello che ci è ‘rivelato’ non è solo qualcosa che prima era nascosto e che, con un po’di buona volontà, forse saremmo stati capaci di indovinare; si tratta di qualcosa di assolutamente inimmaginabile, che non sarebbe mai entrato nel nostro cuore, che, se non fosse stato appunto ‘rivelato’, avremmo considerato come assurdo, come una follia, come una bestemmia.
E la prima cosa che questo testo appunto ci rivela è il carattere paradossale della Signoria di Dio: “Cristo Gesù, pur essendo in forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente”.19 In realtà, questo passaggio può essere tradotto anche nel modo seguente: “Cristo Gesù, proprio perché era nella forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente”. Capiremo poco alla volta quanto la seconda traduzione sia preferibile alla prima. Gesù appare come uno che ‘non si aggrappa’ a tutto quello che la sua natura divina comporta in termini di privilegi, di onore, di potere, almeno da un punto di vista umano. Per noi, ‘vivere da Dio’ vuol dire avere e fare tutto quello che vogliamo. Per lui, ‘essere Dio’ si traduce nel modo esattamente opposto.

* * *

Il Signore non si “aggrappa gelosamente”... Velatamente, l’atteggiamento di Gesù in questo passaggio suggerisce un contrasto con un’altra figura che appare a più riprese nella Scrittura e che agisce nel modo esattamente opposto a quello di Gesù. Questa figura era qualcuno che aveva ricevuto dal Signore ogni dono, tanto da poter essere paragonato all’ “astro del mattino” ed essere chiamato “figlio dell’aurora”20. Il Signore stesso, per bocca del profeta Ezechiele, ce lo descrive così: “Tu, sigillo e modello ripieno di sapienza e bello alla perfezione, eri nell' Eden, il giardino di Dio; d'ogni pietra preziosa ricoperto: rubino, topazio e diaspro, crisolito, onice e berillo, zaffiro, carbonchio e smeraldo e d'oro era il lavoro dei tuoi castoni e delle tue legature, preparato nel giorno in cui fosti creato. Tu eri un cherubino dalle ali spiegate; ti feci guardiano, fosti sul santo monte di Dio; in mezzo a pietre di fuoco te ne stavi. Tu eri perfetto nella tua condotta quando fosti creato”21.

18 2.6-11
19 2.6
20 Isaia 14.12
21 Ezechiele 28.1
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Questo oracolo parla del re di Tiro, ma descrive il ripetersi di una vecchia storia, quella del primo uomo e della prima donna, che il Signore aveva colmati di bellezza, sapienza, perfezione. Alcuni vedono in questa descrizione anche la storia di angeli. Paolo, in un altra delle sue lettere, parla di questo personaggio come di qualcuno che deve venire 22.
Che si tratti di angeli, del primo uomo e della prima donna, del re di Tiro, o collettivamente del popolo di Israele tutto intero, o ancora della comunità di Filippi alla quale Paolo si rivolge, questo personaggio è prima di tutto qualcuno che ha ricevuto tutto dal Signore e che vi risponde con totale ingratitudine: rifiuta di riconoscere che la sorgente della sua bellezza, sapienza e perfezione è il Signore e se le attribuisce, ci si ‘aggrappa gelosamente’ e comincia a credersi un dio: “Pensavi in cuor tuo: ‘Salirò in cielo, al di sopra delle stelle di Dio erigerò il mio trono.
Siederò sul monte dell' assemblea, ai confini del settentrione. Salirò sulle nubi più alte, sarò simile all' Altissimo";23 “Il tuo cuore si è esaltato fino a dire: sono un dio, su un seggio divino io regno nel cuore del mare ... della tua sapienza e intelligenza ti sei fatto forte, hai ammucchiato oro e argento nelle tue riserve. Il tuo cuore s'inorgoglì per la tua bellezza”24. Il grido preferito di questo personaggio è “Io, e non v'è nessun altro!”25. Paolo lo descrive così: “si oppone e si innalza su tutto ciò che è chiamato Dio o che è oggetto di culto, fino a sedersi egli stesso nel tempio di Dio, dichiarando se stesso Dio”26. Questo personaggio, che aveva ricevuto tutto da Dio, che Dio stesso aveva messo su un piedistallo, volge le spalle a Dio, rifiuta di rendere grazie e di lodare la sorgente di tutto quello che è e di tutto quello che ha, si illude di essere se stesso dio e si innalza: “Salirò al cielo”, “Il tuo cuore si è esaltato...”, “Si esalterà e si eleverà”, “si oppone e si innalza” e così via dicendo. Eccolo il ritratto della signoria umana. Ecco come si comportano i ‘signori’, i kyrioi di questo mondo.
Questo ritratto, però, non si addice solo al misterioso personaggio nel quale si può identificare il re di Tiro, o un angelo caduto o l’anticristo che precederà la fine dei tempi o gli imperatori romani, anch’essi chiamati appunto kyrioi. Questo ritratto si applica a ciascuno di noi. Di noi parla Paolo quando fa capire quali siano i mali che agitano la comunità di Filippi. Dietro le sue

22 2 Tessalonicesi 2.3
23 Isaia 14.12
24 Ezechiele 14.2-4, 17
25 Sofonia 2.15
26 2 Tessalonicesi 2.3
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esortazioni riconosciamo lo stesso atteggiamento di questo misterioso personaggio: l’ambizione egoista, la vanagloria, l’innalzare se stessi al di sopra degli altri, il cercare i propri interessi27.
È proprio mentre invita i cristiani di Filippi –e, possiamo dire, ciascuno di noi- a non cedere a questi istinti, che Paolo ricorre al solo argomento capace di svelare la vera portata di questi atteggiamenti ed al tempo stesso la sola speranza di riuscire a non soccombere loro: la vera natura della ‘signoria’ di Cristo Gesù.

* * *

Cristo è Signore... In modo infinitamente superiore al nostro, anche Cristo riceve tutto dal Padre. La lettera ai Filippesi ci dice che Gesù “esiste nella forma di Dio”. In greco, il verbo che traduciamo con ‘esiste’, indica qualcosa che dura, che continua. Inoltre, il termine ‘Dio’, quando appare isolatamente, significa ‘il Padre’. Dunque, questafrase significa: Gesù continua ad esistere nella forma che riceve dal Padre. È esattamente ciò che recitiamo nel Credo ogni domenica quando diciamo di Cristo che è ‘Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero’. Il Padre è Dio. Il Figlio è ‘Dio da Dio’.Ciò vuol dire che è veramente Dio, ma anche che la sua divinità è misteriosamente ‘ricevuta’ dal Padre, anche se da tutta l’eternità.
È proprio questa verità che la lettera ai Filippesi ci descrive, facendocela capire meglio.
‘Ricevere’ è il contrario di ‘aggrapparsi gelosamente’, di ‘rivendicare’, di ‘usurpare’. Quello che Gesù vive nella sua esistenza terrena è il riflesso della sua identità di Figlio di Dio. Quando Paolo ci dice di Gesù che spoglia se stesso, si abbassa, prende la forma di servo, si fa obbediente fino alla morte di croce, in realtà ci sta dando una descrizione del ‘ricevere’ che caratterizza la relazione tra il Figlio ed il Padre, descrive cosa vuol dire veramente ‘essere Dio’, ‘essere Signore’.

* * *

Un Signore che riceve... Proprio questo avevamo in mente quando dicevamo sopra che la
migliore traduzione della frase iniziale di questo passaggio è “Cristo Gesù, proprio perché era nella forma di Dio, non considerò l'essere uguale a Dio qualcosa a cui aggrapparsi gelosamente”. Solo il Signore possiede una tale suprema libertà. Solo lui può scegliere con tale serena ed efficace determinazione di trionfare abbassandosi ed umiliandosi. Questa è la libertà del Signore, significata nel nostro testo da una parolina greca, heauton, che vuol dire ‘se stesso’: di se stesso, di sua spontanea volontà, senza che nessuno potesse forzarlo, Gesù “spogliò se stesso”, “umiliò se stesso”28.

27 2.3-4
28 2.7-8
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Un elemento molto importante di questo passaggio29 della lettera ai Filippesi che stiamo esaminando più da vicino è il fatto che è perfettamente simmetrico. Il soggetto della prima parte è Gesù,30 mentre il soggetto della seconda parte è il Padre31. Questa piccola osservazione stilistica rivela subito un profondo senso teologico. Essere ‘Signore’ per il Figlio, per Gesù, vuol dire ricevere tutto dal Padre, vuol dire non aggrapparsi gelosamente a questo dono, vuol dire spogliare se stesso, abbassarsi, ubbidire e attendere. Gesù attende. Come ‘Signore’ almeno nella nostra concezione di questo ruolo, avrebbe tutto il diritto di innalzarsi da sé, di rivendicare il suo diritto di essere chiamato appunto ‘Signore’. Come Signore, Cristo sarebbe dovuto essere il soggetto anche della seconda parte di questo passaggio; avrebbe avuto tutto il diritto di ‘esaltare se stesso’. Invece questo lo attende dalla iniziativa del Padre, come dono del Padre. Il modo che ha Dio di essere Signore ci scandalizza. Gesù, umiliato, deriso, giudicato iniquamente, flagellato, attende. Sulla croce ancora attende. Nel sepolcro ancora attende...
È il Padre che lo innalza, che gli dà il nome al di sopra di ogni altro nome, che lo fa sedere accanto a sé. È allora che ogni lingua proclama che Gesù Cristo è Signore. Non che egli non lo fosse anche prima di questa proclamazione. ‘Proclamare’ infatti, in questo caso, vuol dire ‘riconoscere’: in questo Gesù che abbiamo visto umiliato, spogliato, morto, riconosciamo colui che fin dall’inizio ‘esisteva nella forma ricevuta dal Padre’, che fin dall’inizio era Signore e che proprio in questa umiliazione ha rivelato il vero carattere della sua Signoria. La grande rivelazione di questo testo è proprio questa: lo spogliamento, l’abbassamento, l’umiliazione e la morte non sono il risultato di una momentanea rinuncia alla divinità, alla Signoria, ma ne sono la manifestazione più alta e più eloquente, ne sono la rivelazione.
Notiamo che questo testo non dice perché Gesù sia morto sulla croce, perché abbia dovuto abbassarsi ed umiliarsi in quel modo. Solo leggendo tra le righe e riconoscendo le allusioni al personaggio di cui parlavamo prima, capiamo che tale umiltà è la risposta del Signore all’orgoglio che ha separato l’uomo da Dio. L’orgoglio non è prima di tutto una offesa a Dio che ha bisogno di una ‘riparazione’. L’orgoglio è un atto di stupidità monumentale: invece di riconoscere che tutto quello che siamo e tutto quello che abbiamo è un dono che riceviamo ogni istante da Dio, ci persuadiamo di essere autonomi, indipendenti. Non solo rifiutiamo di rendere grazie, ma ci erigiamo contro Dio e trasformiamo noi stessi e i doni ricevuti in idoli. L’orgoglio è un rifiuto di accettare la verità, la nostra verità, quella della nostra dipendenza radicale e di ogni istante nei confronti del Signore.

29 2.6-11
30 2.6-8
31 2.8-11
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Ma l’accecamento causato dall’orgoglio impedisce di percepire una realtà ancora più
profonda. Questo ‘ricevere’, questa ‘dipendenza’ che caratterizzano la nostra relazione nei confronti del Signore sono le caratteristiche della vera ‘Signoria’, sono il modo stesso del Signore di essere appunto ‘Signore’. Anche il Figlio, in modo analogo al nostro, riceve tutto dal Padre e attende tutto dal Padre.
È sorprendente costatare i paralleli anche verbali (che naturalmente appaiono meglio nel testo greco) che esistono tra la descrizione della Signoria di Gesù le raccomandazioni fatte ai Filippesi: “Se dunque c'è un appello pressante in Cristo, un incoraggiamento ispirato dall'amore, una comunione di spirito, un cuore compassionevole, ricolmatemi di gioia andando d'accordo, praticando la stessa carità con unanimità d'intenti, nutrendo i medesimi sentimenti. Non fate niente per ambizione né per vanagloria, ma con umiltà ritenete gli altri migliori di voi; non mirando ciascuno ai propri interessi, ma anche a quelli degli altri”32.
All’ ‘umiltà’ raccomandata in questo passaggio fa eco Gesù che ‘umilia’ se stesso; la
‘vanagloria’, cioè la gloria che ci attribuiamo noi stessi, è esattamente l’opposto della ‘vera gloria’, quella cioè che Gesù riceve dal Padre che lo esalta, quella che Gesù rende al Padre, visto che è “Signore alla gloria del Padre”; l’‘ambizione egoista’ consiste proprio nell’aggrapparsi gelosamente ai doni ricevuti e nell’usarli per innalzare se stessi, esattamente il contrario dell’atteggiamento di Gesù.

* * *

Il Signore si umilia... Naturalmente, Gesù non è solo un modello da imitare. Potremmo anzi dire che non è neanche prima di tutto un modello da imitare. Se avessimo avuto bisogno solo di un modello, sarebbe bastato un uomo guidato dallo Spirito di Dio, come tanti dei profeti dell’Antico Testamento.
Quello di cui avevamo bisogno, quello di cui abbiamo bisogno, è del Signore. Il ‘Signore’ è colui che può tutto e che può anche cambiare il nostro cuore. Solo il ‘Signore’ ha il potere di “cominciare l’opera buona in noi e portarla a compimento”;33 solo lui ha il potere di suscitare in noi “il volere e l'agire in vista dei suoi amabili disegni”34. Solo perché Cristo è Signore, Paolo può esclamare: “Tutto posso in Colui che mi dà forza”35.

32 2.1-4
33 1.6
34 2.13
35 4.13
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Ma questa Signoria non si limita solo ad operare in noi e a permetterci di imitare il modello datoci da Gesù. Anche questo, Dio avrebbe potuto operarlo senza diventare uomo e morire sulla croce. Questo ruolo, l’Antico Testamento lo affida già allo Spirito di Dio che dà la forza per le missioni speciali.36
La ragione ultima e più profonda per la quale il Figlio si fa uomo in Cristo è certo il fatto di darci un modello da imitare e di farci dono dello Spirito che ci dà la forza di agire secondo la volontà del Padre, ma è molto, molto di più.
Per capire questa ragione occorre ritornare alla storia del peccato delle origini raccontata nel libro della Genesi. È una storia che conosciamo bene. È la storia del misterioso personaggio incontrato sopra, colui che si erge contro Dio. È la storia della comunità di Filippi ed è la storia di ciascuno di noi.
Dicevamo che l’orgoglioè fondato su un rifiuto di accettare la verità, quella cioè della nostra dipendenza dal Signore. Però il rifiuto di questa dipendenza, il rifiuto di ‘ricevere’ e di ‘rendere grazie’ sono essi stessi la conseguenza di un’altra menzogna ancora più radicale e terribile.
Possiamo arrivare a disprezzare colui che ci ha dato tutto solo se cominciamo a rappresentarcelo come qualcuno di geloso, di assetato di potere, qualcuno che ci ha creati per avere degli schiavi.
È questa menzogna che ha convinto la donna e poi l’uomo a trasgredire il comando del Signore: Ma il serpente disse alla donna: «Voi non morirete affatto! Anzi! Dio sa che nel giorno in cui voi ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e diventerete come Dio, conoscitori del bene e del male»37.
Il serpente presenta Dio come qualcuno che mente e che ci rifiuta qualcosa perché non vuole che diventiamo come lui, non vuole che usurpiamo la sua ‘signoria’. Insomma, il serpente descrive il Signore esattamente in modo opposto alla lettera ai Filippesi: Dio è qualcuno che si ‘aggrappa gelosamente al suo essere Dio’. Questa menzogna si è come impressa a fuoco nel cuore umano. Dio è diventato il nostro avversario principale, colui che ci impedisce di realizzarci, colui che ci sfrutta, ci opprime, ci umilia, ci abbassa. Dio è il responsabile dei nostri mali. La sola libertà che ci resta è quella di ergerci contro questo ‘dio’ geloso. In questo, il nostro orgoglio pretende addirittura di far

36 Vedi per esempio nel libro dei giudici, riguardo a Otniel: “Lo spirito del Signore fu sopra di lui, cosicché egli poté salvare Israele” (3.10); a Sansone che “investito dallo spirito del Signore, senza aver nulla in mano, squartò il leone come si squarta un capretto” (14.6) etc... o, per dare solo un esempio riguardo ai profeti, Ezechiele 2.1s: “E disse: «Figlio dell' uomo, àlzati in piedi, perché ti voglio parlare». Mentr'egli parlava venne in me uno spirito che mi fece alzare in piedi e ascoltai colui che mi parlava”.
37 Gen. 3.4s
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risiedere la nostra dignità, paragonabile a quella della ginestra di Leopardi che fino all’ultimo non si piega di fronte all’implacabile avanzare della lava o a quella dell’impavido Satana nel primo splendido canto del Paradise lost di Milton.
È per questo motivo che la descrizione della vera ‘Signoria’ di Dio che ci dà Paolo ci scandalizza talmente tanto, come il popolo Ebreo, gli apostoli e tutti i contemporanei di Gesù furono scandalizzati dalle sue origini e dal suo aspetto povero ed umile. È così che, progressivamente, scopriamo la ragione più profonda della Incarnazione e della croce. A causa di questa menzogna che aveva pervertito il nostro cuore avevamo bisogno di questa inaudita ‘rivelazione’: non solo Dio non è un Signore geloso che si aggrappa alle sue prerogative per umiliarci, ma il suo modo di essere veramente ‘Signore’ consiste esattamente nell’atteggiamento opposto, cioè quello del Figlio che riceve, si abbassa, si umilia e attende tutto dal Padre; quello del Padre che, a sua volta, riceve gloria dal Figlio.38

* * *

Il Signore si rivela e ci libera... Questa rivelazione ci libera e ci salva. Ci libera dalla schiavitù del nostro egoismo, della nostra ambizione, della forsennata ricerca dei nostri interessi, delle lotte, degli odii, delle divisioni che tale atteggiamento genera e alimenta. Questa è la libertà stessa di Dio. Questa è la libertà che ci è restituita dalla croce e dal dono dello Spirito. Lo Spirito Santo ci dona la libertà di adorare e venerare Dio39 con il solo culto a lui gradito, quello della carità fraterna, quella che consiste “nell’amore, nella comunionedi spirito, nel cuore compassionevole, nell’andare d'accordo, praticando la stessa carità con unanimità d'intenti, nutrendo i medesimi sentimenti”.40
Questa è la libertà che ci è restituita dalla risurrezione del Signore, con la quale vogliamo concludere questa nostra lettura della lettera ai Filippesi.
Abbiamo menzionato più in alto le divisioni della comunità di Filippi. Tra le sue cause, vi era l’influenza di un gruppo di predicatori che si opponeva a Paolo. Costoro erano membri del popolo eletto che si ‘aggrappavano gelosamente’ a delle prerogative che Paolo qualifica di ‘carnali’ cioè ‘umane’: l’alleanza, la legge, il tempio, la circoncisione etc... Il loro attaccamento al magnifico tempio di pietra di Gerusalemme rischiava di far passare in secondo piano il nuovo

38 Cf. 2.11, Gesù Cristo è Signore “alla gloria del Padre”. Eis + accusativo nel greco di questa frase indica movimento verso e fa capire che la finalità ultima di tutto è la glorificazione del Padre.
39 3.3: “i veri circoncisi siamo noi, che offriamo il nostro culto a Dio per mezzo dello Spirito, che ci vantiamo in Cristo Gesù,
e non mettiamo la nostra fiducia nella carne”
40 2.2 l’Ulivo. Rivista olivetana di spiritualità e di cultura monast ica, 34 (2004/2) 315-333


Tempio, Cristo stesso, le cui pietre sono tutti coloro che hanno ricevuto il battesimo e lo Spirito Santo, siano essi ebrei o greci, uomini o donne, schiavi o uomini liberi.
Allora Paolo risponde a questi avversari in un passaggio che nella struttura e nel vocabolario riecheggia la sua descrizione della vera Signoria di Cristo. Se c’è qualcuno che potrebbe vantarsi di possedere tutte le prerogative rivendicate dai suoi avversari per proclamare la loro superiorità, questo è proprio Paolo,
“Se qualcun altro pensa di aver motivo di confidarsi nella carne, io posso farlo molto di più; io,circonciso l'ottavo giorno, della razza d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio d'Ebrei;quanto alla legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della chiesa; quanto alla giustizia che è nella legge, irreprensibile”41. Dunque, come Gesù, anche Paolo parte da una situazione che gli assicura una superiorità nei confronti di tutti gli altri. Però, come Gesù non si aggrappa gelosamente a questa situazione di superiorità, così Paolo ripetutamente ed enfaticamente proclama di aver considerato tutti i suoi privilegi come una perdita, un danno, come rifiuti, skubala, cioè davvero ‘spazzatura’. Ma il parallelismo più importante ancora deve venire. Proprio come Gesù aspetta che sia il Padre a rendergli giustizia e ad esaltarlo, così anche Paolo rifiuta di considerarsi giusto davanti al Signore sulla base delle sue prerogative di razza o zelo o anche di osservanza scrupolosa della legge o, potremmo dire, sulla base della sua santità. Proprio come Gesù, Paolo dice di se stesso che vuole “essere trovato in Cristo, non con una mia giustizia che viene dalla legge, ma con quella che si ha dalla fede di Cristo, quella giustizia cioè che viene da Dio e si fonda sulla fede, e conoscere lui con la potenza della sua risurrezione e la partecipazione alle sue sofferenze”42.
Come l’esaltazione di Gesù viene dal Padre, così dal Padre viene anche la giustizia di Paolo. Paolo “partecipa alle sofferenze” di Gesù perché vuole “essere trovato” in colui che spoglia se stesso e si umilia fino alla morte di croce. Paolo vuole ancora “conoscere la potenza della risurrezione” di Gesù perché vuol “essere trovato” in colui che il Padre ha esaltato43 e proclamato Signore. Ecco come la rivelazione della vera Signoria ci libera. Non solo abbiamo bisogno di essere liberati dall’egoismo e dalla nostra tendenza ad ‘aggrapparci gelosamente’ ai doni ricevuti; non

41 3.4-6
42 2.9s
43 Nel Nuovo Testamento ‘esaltazione’ e ‘resurrezione’ sono spesso usati come sinonimi, l’Ulivo. Rivista olivetana di spiritualità e di cul tura monastica, 34 (2004/2) 315-333


solo abbiamo bisogno di essere liberati dalla rappresentazione che ci facciamo di un Dio geloso o distante; abbiamo anche e forse soprattutto bisogno di essere liberati dalla nostra ‘giustizia’, dalla tendenza che abbiamo a contare sulla nostra virtù, sulla nostra conoscenza, sulla nostra santità. Abbiamo bisogno di essere liberati dalla paura di saperci dipendenti da Dio in tutto quello che abbiamo e tutto quello che siamo. Bisogno di essere liberati dalla paura di riconoscere che tutto è dono e che, come la Signoria stessa di Dio, anche la nostra ‘santità’ consiste semplicemente nel ‘ricevere’...

* * *

Il Signore è vicino... Forse, in conclusione di questa lettura di Filippesi, anche noi cominciamo a trovare la nostra gioia nel fatto che ‘il Signore è vicino’. Colui che è vicino è Signore nel modo nuovo ed inaudito che Cristo ci rivela, di questa ‘Signoria’ che vuol dire ‘ricevere’ ed è diventata sinonimo di ‘umiltà’. Questa umiltà, certo, coincide con la potenza della risurrezione: il Padre ha dato a Gesù il “potere di sottomettere a sé tutto l' universo”44. Ma il potere con il quale Cristo ci ‘afferra’ non è la coercizione e la forza, ma l’umiltà e l’obbedienza. Allora, quando, come Paolo, siamo tentati di gemere riconoscendo che “non siamo arrivati alla meta, nè abbiamo raggiunto uno stato di perfezione”,45 cerchiamo consolazione nel pensiero che “il Signore è vicino”.
Ciò si applica certo alla venuta del Signore nell’ultimo ‘giorno’, quello in cui il Padre porterà a termine l’opera che ha iniziato in noi in Cristo,46 in cui saremo “limpidi ed irreprensibili”47.
Ma il Signore è vicino anche e soprattutto perchè è risorto, vive, è presente e agisce. Se crediamo davvero che Dio è Signore, allora non abbiamo più il diritto di preoccuparci o di abbandonarci alla ansietà. La sola vera attitudine del cristiano è la gioia di colui che crede che Dio è Signore, che Dio veramente agisce. Il cristiano è colui che prega con questa fede il “Dio della pace”48. Allora, sarà la pace stessa di Dio a custodire il suo cuore ed i suoi pensieri: “Siate sempre allegri nel Signore. Ve lo ripeto: siate allegri. La vostra amabilità sia conosciuta da tutti gli uomini. Il Signore è vicino. Non siate in ansietà per nulla, ma in ogni necessità, con la supplica e con la preghiera di ringraziamento, manifestate le vostre richieste a Dio. Allora la pace di Dio, che sorpassa ogni preoccupazione umana, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù”49.

44 3.21
45 3.12
46 1.6
47 1.10
48 4.9
49 4.4-7 l’Ulivo. Rivista ol ivetana di spi ri tual ità e di cul tura monast ica, 34 (2004/2) 315-333

DA l’Ulivo - Rivista olivetana di spiritualità e di cultura monastica, 34 (2004/2) 315-333

domenica 4 luglio 2010

Preti per amore: il sacerdozio e la bellezza di Dio

Lettera pastorale scritta da mons. Bruno Forte, Arcivescovo Metropolita di Chieti-Vasto, a conclusione dell’anno sacerdotale 2009-2010.

* * *

Perché è bello essere preti?

Perché il sacerdozio è così necessario?

Come riconoscere la chiamata a una missione così importante?

Come viverla fedelmente per tutta la vita?

Proviamo a capirlo insieme.

Essere preti non è un impiego burocratico,

ma il frutto di un dono che viene da Dio

e rende la persona capace di agire come segno efficace di Cristo,

Capo del Suo Corpo che è la Chiesa,

al servizio del Vangelo, della riconciliazione e della carità fraterna.

È la missione che potrà rendere felici non solo quanti ad essa sono chiamati,

ma anche tutti coloro al cui servizio spenderanno la loro vita

seguendo con fedeltà e amore

il Sacerdote della nuova ed eterna alleanza, Gesù.

1. In principio la scelta di Gesù. “Gesù salì sul monte e chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e per mandarli a predicare” (Marco 3,13-15). Il contesto è solenne, come a sottolineare che l’iniziativa viene dall’alto. Gesù sceglie i capi del nuovo popolo di Dio, dodici come i patriarchi e le tribù d’Israele. Ad essi affiderà il compito di celebrare il memoriale della sua Pasqua, di rendere presente, cioè, Lui crocifisso e risorto nel pane eucaristico, nella parola della fede, nella comunione della famiglia di Dio, la Chiesa: “Fate questo in memoria di me” (Luca 22,19 e 1 Corinzi 11,24). C’è un aspetto della condizione dell’apostolo che è irripetibile: il diretto contatto con Gesù nei giorni della Sua vita terrena. La sua funzione di annunciatore del Vangelo e il suo ministero di unità, tuttavia, non potranno cessare nella Chiesa, che avrà sempre bisogno di un servizio analogo a quello esercitato alle origini dagli apostoli, nella continuità storica e spirituale con esso. Questo ministero è stato chiamato “ordine sacro”, forse in riferimento all’espressione “secondo l’ordine di Melchisedech”, usata dal Salmo 110,4 e ripresa da Ebrei 5-7 in relazione al sacerdozio di Cristo. Ispirandosi a quanto fa appunto la lettera agli Ebrei parlando di Gesù, il ministro d’unità verrà detto anche “sacerdote”. Il titolo di “presbitero”, che vuol dire “anziano”, gli sarà dato in base al rispetto riconosciutogli, analogo a quello dovuto alle persone avanti in età. Da “presbitero” deriva il termine “prete”, comunemente usato.

2. La chiamata al servizio della comunità. Sin dalle origini il sacerdote fu visto nel suo rapporto alla comunità: scelto da essa, costituito per essa. “Ogni sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza; proprio a causa di questa anche per se stesso deve offrire sacrifici per i peccati, come lo fa per il popolo. Nessuno può attribuire a se stesso questo onore, se non chi è chiamato da Dio...” (Ebrei 5,1-4). Al sacerdote è chiesto di essere esperto in umanità, solidale con le gioie e le sofferenze di tutti, attento e rispettoso verso ciascuno, ed insieme testimone del dono ricevuto dall’alto, segno vivo del Cristo che offre la vita per i suoi e li riconcilia con Dio. Uomo di frontiera, impegnato nella continua intercessione che in unione a Cristo Capo svolge fra gli uomini e Dio, il presbitero è chiamato a vivere la propria esistenza come dono per gli altri, sfida d’amore che sovverte la logica mondana del guadagno e le antepone l’esigente bellezza della gratuità. La forza del prete sta nella sua debolezza: è il suo esistere per gli altri che lo rende credibile. Così lo descrive un testo medioevale: “Un prete deve essere contemporaneamente piccolo e grande, nobile di spirito, come di sangue reale, semplice e naturale, come di ceppo contadino, un eroe nella conquista di sé, un uomo che si è battuto con Dio, una sorgente di santificazione, un peccatore che Dio ha perdonato, dei suoi desideri il sovrano, un servitore per i timidi e per i deboli, che non s’abbassa davanti ai potenti, ma si curva davanti ai poveri, discepolo del suo Signore, capo del suo gregge, un mendicante dalla mani largamente aperte, un portatore di innumerevoli doni, un uomo sul campo di battaglia, una madre per confortare i malati, con la saggezza dell’età e la fiducia d’un bambino, teso verso l’alto, i piedi sulla terra, fatto per la gioia, esperto del soffrire, lontano da ogni invidia, lungimirante, che parla con franchezza, un amico della pace, un nemico dell’inerzia, fedele per sempre... Così differente da me!” (da un manoscritto trovato a Salisburgo).

3. Il prete nella società complessa: un dono che viene da lontano. In una società, che è divenuta spesso una “folla di solitudini”, dominata dall’incomunicabilità e dall’estraneità degli altri, un’esistenza donata per amore, giocata “soltanto” per la riconciliazione con Dio e fra gli uomini, in un impegno di fede esigente e totale, si offre come un segno di contraddizione, una sorgente di speranza per tutti. Come l’Apostolo, il sacerdote dovrà dire di sé: “Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Corinzi 1,24). Questo modo di essere non è frutto di capacità umane, ma viene da Dio: lo ricorda la liturgia dell’ordinazione, strutturata nei tre momenti della “vocazione”, dell’“invocazione” e della “consacrazione”. Nel momento della “vocazione”, in cui il Vescovo chiama solennemente colui che chiede di essere ordinato, risuona l’iniziativa del Signore, che sceglie e invia i suoi apostoli. Mediante l’“invocazione” - rivolta al Signore, alla Vergine Madre Maria e ai Santi - la Chiesa pellegrina nel tempo invoca l’intercessione e l’aiuto della Chiesa celeste. Infine, nell’atto della “consacrazione” il carisma del ministero ordinato viene trasmesso attraverso l’imposizione delle mani e la preghiera del vescovo. Così è stato sin dalle origini: “Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani” (2 Timoteo 1,6). La successione episcopale, che è appunto la trasmissione della grazia del sacerdozio attraverso l’ininterrotta catena dei vescovi, successori degli Apostoli, testimonia ed assicura la continuità della Chiesa nella tradizione apostolica, e quindi la sua permanenza nelle caratteristiche fondamentali della comunità affidata da Gesù ai Dodici. Il sacramento dell’ordine è un dono che viene da lontano, senza per questo perdere il suo mordente e la sua attualità. Esso comprende tre gradi: l’episcopato, che ne è la pienezza, che fa del vescovo il segno e il ministro dell’unità della Chiesa locale, al suo interno e nella comunione fra tutte le Chiese, espressa dal collegio episcopale e dal suo capo, il Vescovo di Roma; il presbiterato, che costituisce i sacerdoti “cooperatori del vescovo”, uniti collegialmente intorno a lui e chiamati ad esercitare il ministero di unità nell’ambito ad essi affidato; il diaconato, infine, che costituisce il ministro in aiuto del vescovo, al servizio dell’evangelizzazione e della carità nella comunità cristiana. La rete di rapporti che nasce da questo triplice grado dell’ordine sacro richiede fra tutti i ministri del Signore una comunione effettiva e profonda, tale cioè da favorire l’unità e la collaborazione fra le varie componenti della comunità ecclesiale, ciascuna nel grado che le è proprio e secondo il dono ricevuto da Dio. Specialmente la fraternità dei sacerdoti fra loro e la comunione piena e leale col Vescovo sono un segno eloquente dell’amore, voluto da Gesù come caratteristica dei suoi discepoli.

4. Il sacerdote e la Trinità. Il rapporto del sacramento dell’ordine a Dio Trinità è esplicitato dalla stessa preghiera di ordinazione, rivolta al Padre perché prenda possesso dell’ordinando (è questo il significato dell’imposizione delle mani da parte del vescovo ordinante), lo colmi del dono dello Spirito, lo configuri a Cristo sacerdote e ne faccia il segno della sua iniziativa d’amore nella comunità. Di qui l’esigenza che il sacerdote testimoni sempre l’assoluto primato di Dio, sia esperto nella preghiera e irradi nel suo servizio la luce e la forza che gli derivano dall’unione con la fonte di ogni dono, il Padre celeste. In rapporto al Figlio Gesù, sommo ed eterno Sacerdote, l’ordinazione configura l’ordinando a Lui, affinché possa agire quale segno efficace di Cristo Capo per la crescita della Chiesa nell’unità, mediante l’annuncio autorevole della Parola di Dio, la presidenza della liturgia e il governo pastorale. Questo rapporto del presbitero con Cristo è così forte e definitivo - grazie alla fedeltà del Signore - che viene definito “carattere”, e cioè segno indelebile: il ministro ordinato è chiamato ad essere con la sua intera esistenza presenza viva e irradiante del Salvatore. Il prete vive dell’amore di Cristo: “Il Sacerdozio - soleva dire il Santo Curato d’Ars - è l’amore del cuore di Gesù”. Nella liturgia dell’ordinazione, infine, viene invocato lo Spirito Santo, perché faccia dell’ordinando il segno e il servo della comunione, che il Consolatore incessantemente suscita e vivifica, e lo renda capace di operare il discernimento e il coordinamento dei carismi in vista dell’utilità comune. Questo rapporto con lo Spirito richiede la docilità del cuore, nell’attenzione a coglierne i segni e i doni dovunque essi si facciano presenti e nell’incessante invocazione della luce e dell’amore che solo lo Spirito può effondere nei nostri cuori. Attraverso il sacramento dell’ordine la Trinità entra dunque in modo speciale nella storia degli uomini e suscita presbiteri che in forza del dono ricevuto sono resi capaci di costruire cammini di vera libertà e legami di pace con Dio e fra gli uomini, nel tempo e per l’eternità.

5. Come divenire pastori fedeli. Un grande pastore della Chiesa antica, il Papa Gregorio Magno, scrisse un testo, la Regola Pastorale, in cui indica con molta saggezza le condizioni per divenire ed essere sacerdoti fedeli. È un’opera così utile e bella che vorrei farne tesoro con voi. All’inizio di tutto nella vita del pastore c’è la grazia, la chiamata gratuita e sorprendente di Dio: per ascoltarla e rispondere ad essa è indispensabile la generosità del cuore. Scrive San Gregorio: “Se l’impegno pastorale è la prova dell’amore, chi, pur avendo le doti, rifiuta di pascere il gregge di Dio, mostra di non amare il pastore supremo” (I, 5). È in condizione di diventare prete solo chi sia disposto a rispondere con fede e amore totale alla chiamata divina, avendo chiara consapevolezza di che cosa essa domandi a chi è chiamato: “Deve essere illibato nel pensiero, esemplare nella condotta, riservato per il silenzio, utile attraverso la parola, vicino a tutti con solidarietà, dedito più di ogni altro alla contemplazione, legato con vincoli di umiltà a quanti compiono il bene, avversario dell’iniquità dei malvagi per zelo di giustizia, intento a non indebolire la vita interiore per le cure temporali e a non sottrarsi agli impegni di questo mondo per la sollecitudine dei doveri spirituali” (II, 12). Ogni carrierismo, come ogni pavidità, devono essere banditi dal cuore del pastore: “Non abbia desiderio dei successi di questa vita né timore delle avversità, si opponga alle lusinghe del mondo tenendo conto di ciò che nell’intimo dà terrore, e ne disprezzi le paure seguendo l’attrattiva delle interiori dolcezze” (II, 14). Chiamati al sacerdozio dall’amore di Dio, si può essere preti soltanto per amore, disinteressato e fedele. Non mancheranno certo momenti di prova e di difficoltà. Ogni timore, però, va fugato, ricordando che la fedeltà alla chiamata è dono del Signore, che non nega mai il Suo aiuto a chi lo chieda con fede e umiltà.

6. Come il pastore deve relazionarsi a chi gli è affidato. Al dono divino deve corrispondere l’accoglienza responsabile da parte di coloro che sono chiamati al servizio dell’unità del popolo di Dio, quali profeti, sacerdoti e pastori. Il prete è anzitutto profeta, annunciatore autorevole della Parola di Dio: in questo ministero egli si affiderà continuamente all’assistenza dello Spirito Santo, che illumina le menti e riscalda i cuori, impegnandosi da parte sua a essere attento nell’uso delle parole, attraverso cui passa il suo annuncio e si irradia la sua carità pastorale: “Chi governa sia discreto con il suo silenzio e utile con la sua parola, per non svelare ciò che va tenuto segreto e per non tenere nascosto ciò che deve essere proclamato” (II, 15). Questa regola vale soprattutto per la predicazione: “Con grande impegno i pastori d’anime devono far in modo non solo di non proclamare mai degli errori ma anche di non esporre la verità in modo prolisso e disordinato, perché spesso l’efficacia della parola sfuma quando è indebolita presso il cuore degli ascoltatori da una verbosità inopportuna e incauta” (II,15). Nel presiedere la liturgia, culmine e fonte di tutta la vita della Chiesa, il sacerdote offrirà se stesso all’azione divina, aprendo il suo cuore alla Trinità Santa in spirito di preghiera e di adorazione, testimoniando la gioia e la forza trasformante che scaturiscono dall’accoglienza della Parola e dei doni del Signore. Nell’esercitare la sua responsabilità di pastore e guida il prete ricorderà di non essere superiore a nessuno, perché la sovranità in tutto e su tutti spetta solo a Dio: “Quanti sono insigniti di autorità devono considerare in sé non il potere del loro grado ma l’uguaglianza della condizione, e siano lieti non di dominare sugli uomini ma di far loro del bene” (II, 17). In questa luce, il pastore promuoverà la dignità e la collaborazione attiva di tutti i battezzati, sforzandosi di valorizzare le qualità e i doni di ciascuno in vista dell’utilità comune. L’urgenza della carità dovrà sempre animare le sue scelte, in modo da testimoniare con l’eloquenza della vita che “quando offriamo ai poveri ciò di cui hanno stretto bisogno, non elargiamo del nostro, ma restituiamo ciò che a loro è dovuto; più che compiere un’opera di misericordia, adempiamo un dovere di giustizia” (III, 45). La carità pastorale è il segno distintivo di un prete che agisce secondo il cuore di Dio!

7. Come vivere il rapporto con il Signore. Quali che siano i compiti cui attende, il sacerdote dovrà dare sempre il primo posto all’intimità col Signore, fonte della carità pastorale: “Il pastore non trascuri la vita interiore a motivo degli impegni terreni e non si sottragga ai compiti temporali per dedicarsi soltanto alle realtà dello spirito, così da non esaurirsi nel fervore per l’assillo delle cose terrene né da togliere al prossimo ciò che concretamente gli deve, per aver scelto di dedicarsi solo alla vita dello spirito” (II, 18). Essere amabili, senza cercare il consenso a tutti costi, è proprio del buon pastore: “Chi presiede deve far in modo di essere amato per riuscire ad avere ascolto e, tuttavia, non cercare un affetto rivolto a sé, per non trovarsi nella segreta bramosia del potere” (II, 19). E poiché il vero amore viene solo dall’alto, alla radice di questo stile di vita ci dovrà essere l’ascolto credente e perseverante della Parola di Dio: “Tutto ciò è attuato dal pastore se, animato da spirito di soprannaturale timore e amore, si impegna ogni giorno a meditare i precetti della Sacra Scrittura, affinché le parole della divina ammonizione restaurino in lui il vigore della sollecitudine e della vigile attenzione nei riguardi della patria celeste, che la consuetudine con le vicende della vita corrode senza soste” (II, 22). L’eloquenza dei gesti dovrà autenticare il servizio della Parola: “Ogni predicatore deve attendere al suo ministero più con i fatti che con le parole, e tracciare con una vita santa la via da percorrere a chi vuol seguirlo, piuttosto che mostrare solo con la parola la strada su cui compiere il cammino” (III, 64). Anche questo, però, viene da Dio, perché nessuno può vivere in obbedienza, povertà e castità senza il Suo aiuto. Perciò, presupposto necessario a ogni esistenza sacerdotale generosa e fedele è l’umiltà accogliente davanti all’Eterno: “Lo sguardo dello spirito si rivolga alle proprie debolezze e faccia nascere in sé una salutare umiltà, dando risalto non al bene compiuto ma a quello che si è trascurato di compiere, in modo che il cuore, nella contrizione al ricordo della propria debolezza, si renda più saldo nella virtù al cospetto dell’Autore dell’umiltà” (IV, 65). Dove c’è questa umiltà, ci sarà anche la gioia di una vita piena di significato e di passione, quale è l’esistenza sacerdotale vissuta con amore fedele a Dio e al prossimo.

8. Preghiamo per i sacerdoti. Con umiltà ogni sacerdote chieda a Dio di essere così. E chi non è sacerdote, lo faccia per i pastori, certo che dalla santità dei presbiteri ne verrà del bene per tutti, perché un prete fedele è una vera sorgente di pace e di gioia per sé e per gli altri, come la “fontana del villaggio” a cui tutti vanno ad attingere, secondo l’immagine cara al “Papa buono” Giovanni XXIII. Domandiamo questo dono al Signore, pregando così: Donaci, Padre, sacerdoti che siano riflesso fedele del Tuo amore infinito, capaci di riscoprire ogni giorno la gioia di essere chiamati da Te al servizio della riconciliazione fra gli uomini e della crescita del Tuo popolo nella fede, nella speranza e nella carità. Configurali al Figlio Tuo Gesù Cristo, perché siano accoglienti verso tutti, servi d’ogni uomo, annunciatori umili e fieri della Parola della vita, profeti del Regno che viene, ministri dell’unico sacrificio, disposti ad offrire in sacrificio se stessi, guide luminose del popolo dei pellegrini in cammino verso la patria promessa. Colmali del Tuo Spirito, Padre, perché trasmettano credibilmente il Tuo perdono e la gioia a quanti sono loro affidati e suscitino fra gli uomini vincoli di unità, di giustizia e di pace. La loro testimonianza accenda in tutti il desiderio di Te e nel cuore di tanti l’attrazione a seguire Gesù, Sacerdote della nuova ed eterna alleanza, sulla via umile e bella del sacerdozio scelto e vissuto per amore. Amen. Alleluia!