venerdì 26 settembre 2014

Un racconto inedito, "La candelora"

La piccola pieve di campagna era avvolta da una fitta coltre di nebbia. Non era stato agevole raggiungerla, ma erano entrambi convinti che ne sarebbe valsa la pena. Era la festa della Presentazione al Tempio del Signore, detta anche Candelora, o Festa della luce.
Si benedivano lumini e candele che poi si portavano a casa e si potevano accendere nei momenti di particolare necessità. Una sorta di riserva di luce per i periodi bui.
Amavano pregare in quell'angolo di pace di silenzio e, poiché la festa capitava di sabato, era possibile godersela un poco di più. Appena entrati la suora diede loro una candela ciascuno, dopo che ebbero gettato l’offerta nel cestino, le candele vennero accese e si andò processionalmente verso i banchi per prendere posto a sedere.
I canti del coro erano un po’ stentati, ma la bella austera semplicità dell’antica chiesetta rendeva tutto bello e raccolto grazie anche alla presenza della comunità religiosa che lì viveva.
Nella stessa giornata si festeggiava anche la vita consacrata, da qualche decennio, per volontà di Giovanni Paolo II: il significato era chiaro, chi viveva più strettamente la sequela di Cristo doveva essere come Lui, luce del mondo.
La sacra tradizione voleva in quella memoria liturgica ricordare come Maria e Giuseppe, dopo quaranta giorni dalla nascita del loro primogenito, secondo la Legge mosaica, salirono al tempio per la purificazione rituale di Maria.
Era costume che, una partoriente, avendo perso sangue, doveva purificarsi, e poi bisognava riscattare il primogenito. Per il piccolo Gesù l’offerta era minima, quella dei meno abbienti, una coppia di tortore o di giovani colombi. In quel momento avvenne un altro riconoscimento pubblico del Salvatore, dopo quello degli angeli e dei pastori, da parte di due anziane figure: il giusto Simeone, a cui era stato preannunziato che avrebbe visto il Messia prima del termine della sua vita, e la profetessa Anna che non si allontanava mai dal tempio e serviva Dio con digiuni e preghiere.
Simeone prese in braccio il bambino, lo benedisse e pronunciò il famoso “Nunc Dimittis” in cui il piccolo viene definito luce per illuminare le genti e gloria del popolo d’Israele; ma l’anziano svela anche quale sarà la sua missione,  un segno di contraddizione che svelerà i pensieri di molti cuori e causerà, a seconda dei casi, rovina o salvezza.
La stessa Madre parteciperà del destino del Figlio, una spada trafiggerà la sua anima. Certo, andando in profondità questo era più un mistero doloroso che gaudioso, ma era da tempo immemorabile per i fedeli una liturgia della luce, in cui ricordare Cristo luce del mondo che ci dona vita nuova nel battesimo e illumina la nostra strada verso il cielo.
Dopo i riti penitenziali, una donna si alzò a leggere la prima lettura, tratta dall’ultimo libro della Bibbia, quello del profeta Malachia. Si preannuncia un messaggero, per alcuni Elia, per altri il Battista, a spianare la via al Signore degli eserciti. Costui purificherà i figli di Levi da tutte le loro colpe e solo allora la loro offerta tornerà gradita come nei giorni antichi.
Lui si alzò per la seconda lettura, la lettera agli Ebrei. Appena salito all’ambone si schiarì la voce e si apprestò ad iniziare la lettura della lettera paolina, ma con grande stupore si accorse che le lettere del lezionario erano in una lingua sconosciuta, qualcosa che somigliava all’arabo! Era impossibile leggere quei caratteri, si stropicciò gli occhi e si pulì velocemente gli occhiali speranzoso che, riguardando il lezionario, potesse iniziare la lettura. L’assemblea e il celebrante lo guardavano incuriositi da questo suo indugio. Nulla da fare. Le lettere erano ancora incomprensibili.
Incominciò a sudare per quanto quel santo luogo fosse immerso in una coltre nevosa. Doveva segnalare il problema. Solo allora guardò con un certo sgomento il sacerdote che seduto davanti al tabernacolo lo guardava già di traverso. I loro sguardi si incontrarono e lui allargò le braccia dicendo ad alta voce che c’era il lezionario sbagliato.
Intanto l’assemblea mormorava, non capendo come mai quella seconda lettura non venisse ancora proclamata. Il parroco era un uomo paziente e, con un sorriso sulla bocca, si avvicinò a quel lezionario per controllare cosa fosse successo. Dopo alcuni minuti era lui a stropicciarsi gli occhi. Come era finito quel lezionario in quella lingua sconosciuta nella sua chiesa? Chiese al sacrista di portargliene un altro mentre l’assemblea era a quel punto divenuta tutta un mormorio. Il sacerdote tornò al suo scranno, il secondo lezionario venne aperto e lui si apprestò per la seconda volta e leggere la seconda scrittura, mentre in cuor suo si rasserenava. Era stato un momento terribile, nella sua mente erano risuonate le forti parole  di Apocalisse 5,2-3: “Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli ? Ma nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro e di guardarlo”.
Solo allora si accorse con una fitta alla tempia che anche questo testo, per altro arricchito con preziose miniature, era anch’esso incomprensibile ai suoi occhi. Di nuovo si volse indietro e di nuovo allargando le braccia guardò desolato il prete. Questa volta il prete si stizzì. Divenne rosso in viso e cercando di contenersi si rialzò nuovamente dallo scranno dirigendosi verso l’ambone. Poi i fedeli lo videro sbiancare e quasi barcollare nella sua casula bianca fregiata di oro. Neanche lui riusciva a leggere quel lezionario.
Il prete si riprese subito e con prontezza pensando ad uno scherzo inopportuno.  Si rivolse alla stupefatta assemblea che non capiva ancora cosa stesse accadendo chiedendo se qualcuno avesse con sé un messalino. Prontamente alcune religiose e alcune signore salirono sull’altare e posarono sull’altare i loro messalini personali. Il parroco ne aprì uno a caso e cercò il segno della memoria liturgica del giorno, mentre alcune gocce di sudore colavano dalle sue tempie. Niente da fare, il primo che aprì era pieno degli stessi geroglifici. Il secondo che sfogliò con mani sempre più nervose era ugualmente incomprensibile. Lo si vide barcollare e sbiancare di nuovo, mentre cercava qualcosa da dire alla stupefatta assemblea. Lui a quel punto scese a sedere al suo posto, la questione oramai non lo riguardava più. Vennero chiamate a leggere le proprietarie dei messalini, una alla volta e le si vide tutte impallidire cercando di decifrare un testo che fino a poco tempo fa era più che leggibile. Nessuna vi riuscì. Il sacerdote allora invitò all’altare una vedova che tutti stimavano molto santa e pia e di cui si diceva che le fosse addirittura apparsa la Madonna. Era povera e non possedeva un messalino suo, così le aprirono davanti il lezionario delle solennità, il prete intanto pregava interiormente il santo martire a cui quella pieve era dedicata affinché quell’incubo avesse fine. Niente da fare. La povera vedova scoppiò in un pianto dirompente, battendosi disperata il magrissimo petto, mentre nella mente di tutti risuonavano le ultime parole che avevano sentito pronunciare nella prima ed ultima lettura di quella strana Messa: “Costoro non mi temono, dice il Signore degli eserciti” (Ml 3,5).
Fu a quel punto che lui aprì gli occhi, madito di sudore, la gola secca come i torrenti in estate. Si alzò di scatto e si precipitò nel salotto dove, in un angolo, era sempre aperta, nel suo leggìo di ciliegio, una Bibbia.
Buttò gli occhi con disperazione sul testo che era aperto alla pagina di una delle letture del giorno, era la stessa ultima lettura dal libro di Malachia che aveva ascoltato in sogno. “Io sono il Signore, non cambio; voi, figli di Giacobbe, non siete ancora al termine” (Ml 3,6). M.L.A.

martedì 16 settembre 2014

L'essenza dell'amore

L'essenza dell'amore consiste nel fatto che chi ama è sempre vicino e lontano dalla persona amata.  È sempre vicino perché ama. La distanza fisica e spaziale, da questo punto di vista non rappresentano un ostacolo.  Chi ama si sente sempre lontano e, per questo, è sempre alla ricerca della persona amata.
(P. Slavko Barbaric', OFM " Digiunate con il cuore")

lunedì 15 settembre 2014

La pace è un frutto dello Spirito

Il desiderio più profondo del cuore dell'uomo è proprio la pace. Tutto quello che facciamo, di buono o cattivo,  mira alla ricerca della pace.  Quando l'uomo ama, cerca e vive la pace, quando odia o vuole vendetta, egli cerca la pace; quando è sobrio e lotta contro la dipendenza, cerca la pace; anche quando si ubriaca cerca la pace; quando bestemmia e dice cose cattive, cerca la pace; quando lotta per la propria vita e per la vita di coloro che ama, crea la pace e, quando alza la mano su se stesso e commette il suicidio oppure quando uccide l'altro, cerca la pace. Pertanto tutte le decisioni umane sono in realtà scelte di pace. È chiaro che, quando si agisce bene, si cerca e di realizza la pace personale e quella degli altri; mentre, quando si commette il male, si cerca soltanto la pace per se stessi senza tener conto del l'inquietudine degli altri.
Tratto da "Digiunate con il cuore" di P. Slavko Barbaric' OFM

sabato 13 settembre 2014

Felicità ed educazione III parte

Il testo che segue è la terza parte di un mio scritto preparato per l'esame di pedagogia generale, lo pubblico qui in anteprima volendo nel mio piccolo contribuire all'attuale dibattito in merito alla riforma della scuola.

3. La felicità è il fine dell’educazione

S. Agostino scriveva che “è beato l’uomo che ama la sua buona volontà, per cui disprezza ogni altro bene, che non dipende dalla sua buona volontà”.
Nella pedagogia classica si fissava la finalità dell’educazione nelle buone forme di vita e di condotta, nella famiglia, nella società, nella Chiesa, oppure le finalità erano considerate preesistenti per volontà di Dio, iscritti nella natura dell’uomo. Nel moderno modo di pensare, nella prassi pedagogica, i fini non sono più valori e idee, ma problemi da risolvere, risultati da conseguire, con l’ausilio delle altre discipline quali biologia, psicologia, arte e cultura, economia: i fini sono diventati competenze operative.
Ciò non esclude che si possa anche pensare ad una sintesi tra i due aspetti. Nelle finalità a lungo termine dell’educazione, si dovrebbe garantire una condizione di vita umanamente degna, l’essere amati, accolti, aiutati a sviluppare la propria personalità, a partecipare alla vita della società, trovandovi significato e senso, superando tutte le forme di condizionamenti.
Allo stesso modo si dovrebbe garantire la valorizzazione della propria identità, la promozione di verità, amore, giustizia, solidarietà, il miglioramento delle condizioni dei beni e dei servizi, l’evoluzione della convivenza civile in vista del bene comune, il superamento di regimi basati sul privilegio e la violenza, la formazione di quadri responsabili civili e politici, dotati di competenza e amore; senza dimenticare di conservare la cultura, fruirne, produrla, coltivare se stessi e la ricerca e lo sviluppo di scienza, arte, tecnica, risolvere i temi delle pluralità delle culture, di ogni cultura, (conservazione, integrazione, transizione critica e innovativa).
Oggi è particolarmente importante formare ad un uso valido dei mezzi della comunicazione e a divenirne operatori in modo critico. Nei fini a medio termine, si vuole l’uomo capace di uso retto della libertà, preparato ad entrare con preparazione ed onestà nei ruoli sociali, politici, economici; con un giusto patrimonio di saper fare, sapere e saper essere. Nei fini a breve termine, le aree educative da tenere a mente sono quelle della crescita organica e funzionale, fisica, corporea, mentale, spirituale, sociale, morale, religiosa, cristiana, sessuale, artistica, relazioni reali ed esistenziali, acquisto degli strumenti del vivere e del convivere, del lavorare, comunicare, virtù morali e sociali.
Ancora riguardo ai fini, un passaggio sovente omesso nel pensiero moderno, è la distinzione tra fini naturali e fini liberi, i primi determinati dalla natura stessa del soggetto, i secondi posti dal soggetto mediante una scelta della volontà; nell’uomo vi sono entrambi, tale dualità può trarre in inganno, non esistono atti guidati solo da fini naturali o atti guidati solo da fini liberi, i due ordini teleologici s’influenzano reciprocamente .
L’essere umano è, infatti, sintesi di natura e libertà. Un’intelligenza straordinaria, non è scontato che sia immune dall’errore, e per conoscere la verità è richiesta anche la rettitudine della volontà. L’autonomia personale ha dunque carattere relativo perché non siamo padroni del nostro essere, non siamo stati noi a darcelo: “l’essere umano è da se stesso, ma non per se stesso”. Tutto ciò è decisivo riguardo all’educazione, si può escludere o sottovalutare nelle varie correnti pedagogiche un fine o l’altro, avremo un orientamento materialista o spiritualista, a seconda che si privilegino i fini naturali o quelli liberi.
L’ambito della finalità naturale non deve essere escluso dall’educazione, per esempio la nutrizione è certo finalità naturale, ma gli alimenti, la quantità, la qualità sono oggetto di libera scelta, quindi l’educazione deve occuparsene. Molti guai in campo educativo derivano dal dimenticare che gli educandi hanno un corpo, oltre che una mente. Si potrebbe anche menzionare la necessità di un’educazione estetica. Questa si differenzia sia da quella morale, che da quella intellettuale, la sensazione è un atto incardinato nell’unità psicofisica dell’uomo, partecipa della dimensione teleologica, è possibile indirizzare la sensazione, orientarla, pur essendo movimenti indipendenti dalla volontà, possono e debbono essere guidati da essa. Quando l’educazione estetica viene trascurata o ignorata siamo di fronte ad un orientamento spiritualista. Una soluzione opposta, con attenzione preferenziale o esclusiva verso i fini naturali, produce una concezione materialista dell’educazione. Sia l’orientamento materialista, come quello spiritualista, dimenticano che l’essere umano “è un’unità essenziale ed operativa, sia in quello che è, sia in quello che fa”. Pur essendo un’unità, ha una pluralità di istanze operative, vi sono cioè movimenti diversi che rispondono a fini diversi, ciò presuppone un ordine interno sia nei fini naturali che in quelli liberi. Rispetto alla finalità il significato del perché si esprime con affinché, in ordine al fine non si domanda perché una cosa è così, ma a che scopo si opera così. Si arriva così al fine ultimo, sia per i fini naturali che per i fini liberi (che apparterrà comunque a quest’ultimo genere). Aristotele parlava del fine ultimo come il culmine dell’aspirazione umana, come perfetto e come autosufficiente (cioè deve fare in modo che non si continui a desiderare all’infinito).
C’è una gerarchia nella teologia umana, i fini naturali sono subordinati ai fini liberi e, tra questi, c’è quello che è anche il riferimento ultimo dell’agire umano, tutto quello che si fa è per qualcosa di unico e permanente, sempre uguale a se stesso, di cui partecipano tutti gli altri fini, questo è il fine ultimo.
Riguardo al concetto di finalità, sono necessarie ancora alcune precisazioni su termini come il fine e la fine, in greco due parole distinte: compimento, pieno sviluppo, risultato e fine, confine, limite, estremità. Alla questione su quale sia il fine della vita umana si può rispondere in due modi, la felicità e la morte, la felicità è il fine, il compimento, il senso supremo della vita umana, mentre la morte è il termine, il limite dell’operare, ma nulla si fa per morire, mentre tutto faremmo per essere felici!
Nel concetto di fine abbiamo due significati: fine-causa e fine-effetto. Il fine ultimo ha carattere di principio e causa dell’agire umano. Questa riflessione, trascurata o addirittura omessa, ha influenzato notevolmente la teleologia pedagogica, dove la nozione di finalità è ambigua, creando confusione nel lavoro educativo e si utilizzano a caso termini come obiettivi, ideali, propositi, mète, fini, perdendo di vista la necessaria relazione gerarchica tra fini particolari e il fine ultimo.
L’essere umano è libero, di una libertà assoluta soprattutto nella scelta dei fini, allora si confondono gli ordini teleologici e si sconvolgono le implicazioni e le conseguenze pratiche, l’uomo diviene un essere che può tutto e al quale tutto è permesso, gli effetti sono perplessità e insicurezza davanti all’azione e la perdita di una rotta precisa nella vita.
Si può porre il piacere come fine ultimo, ma se arriva la malattia? Oppure il lavoro e la carriera, ma se lo si perde ?
Il fine ultimo dell’educazione deve essere la sintesi di tutti i suoi fini particolari, si tratta di cercare l’unità in tanta diversità, Whitehead diceva che il problema educazione consiste nel riuscire a mostrare all’allievo la foresta per mezzo degli alberi, Maritain invitava a nutrire l’intera unità dell’uomo.
Si arriva così alla postulazione del concetto di persona come un tutto integrale, diversa cosa dal tutto di ordine, che è una somma, un’aggregazione. I fini particolari dell’apprendimento formano un tutto di ordine ed è ciò di cui s’intende quando si parla di obiettivi dell’educazione.
La teoria degli obiettivi operativi “ha reso inutile la pedagogia per la metà delle sue funzioni”, recentemente è decaduta, mentre l’attività docente continua ad essere programmata con la formulazione di un certo numero di obiettivi, considerati indicatori, indizi, mai segno della finalità educativa. L’unità della formazione umana non viene fuori dalla somma degli obiettivi particolari dell’educazione, quando gli elementi del composto vengono separati, si perde il composto come tale, perché il suo principio unificatore non è un elemento tra gli altri, ma una loro relazione.
C’è ancora una conseguenza nell’impostare la finalità educativa mediante obiettivi particolari, è la perdita della dimensione immanente di praxis che non può ridursi a semplice poìesis, cioè si riduce l’agire umano ad un’attività produttiva, gli obiettivi possono sì essere raggiunti, ma il loro senso ultimo sfugge, quanto più numerosi sono i fini particolari. “La disgregazione teleologica porta alla dispersione operativa, da questo al non senso esistenziale il passo è breve”.
Occorrerà configurare e modulare le attività in base al significato dell’azione immanente e formativa che attualizza direttamente il fine ultimo. “Per poter comprendere e realizzare il fine ultimo si richiede una conoscenza adeguata del suo contenuto, che è la felicità”.

Conclusioni

Per quanto riguarda fini e finalità educative, possiamo contare al massimo su una normatività teleologica, non tecnica, cioè possiamo indicare i traguardi da raggiungere, ma per il come, il quando, il dove, non vi è scienza, ma solo confronto ragionato, azione prudente, tatto. Il sapere educativo si sviluppa differenziandosi dall’etica filosofica, in altri termini ogni uomo, soprattutto, desidera essere felice; se l’educazione deve essere preparazione alla vita, si dovrà riflettere sulla felicità, fine della vita umana e fine ultimo dell’educazione. Sapere in che cosa consiste la felicità però non spiega cosa fare per essere felici, allora “nell’educazione si tratta proprio di questo, conoscere l’indole delle azioni umane che devono essere promosse o stimolate per favorire un’agire felice.”
S. Tommaso riteneva la felicità il più grande dei beni umani, perché tutti gli altri si ordinano ad essa come al loro fine. C’è un’evidente priorità anche sulla libertà, visto che “non spetta al libero arbitrio, ma all’istinto naturale il voler essere felice”. La felicità è qualcosa che la volontà non può non volere. Il fine ultimo è il fine supremo, che consisterà nel Bene supremo e Assoluto, cioè Dio, e l’ultimo fine non può essere altro che l’unione con Dio.
L’agire felice è la contemplazione, integrazione di conoscenza e di amore, anche Aristotele ne parlava come un atto proprio dell’agire felice.
La contemplazione è l’agire felice che realizza il fine ultimo, ma è necessario imparare a contemplare, e qui entrano in gioco volontà e immaginazione, due grandi dimenticanze in campo educativo. Contemplare è la fusione del conoscere e del volere in uno stesso atto. L’apprendere si realizza orientandosi grazie alla contemplazione, si trasforma nella gioia diretta e riflessa del lavoro e si proietta nella tensione verso il futuro sotto forma di speranza.
Quando si contempla non si ragiona, non si discorre, non si pensa, ma si vede con gli occhi della mente. Contemplare è puro atto, avviene una silenziosa percezione della realtà. Per contemplare è necessaria l’immaginazione, l’indispensabile facoltà mediatrice tra i sensi e l’intelligenza, senza di essa si fa più fatica ad affrontare presente e futuro. Tutto dipende, infatti, dal colore della lente con cui si guarda.
Oggi s’insegna poco ad immaginare, occorre un ritorno ai saperi narrativi che servono alla contemplazione, anticamente si educava con i racconti, nella modernità abbiamo il cinema. Se accettiamo la contemplazione come agire felice, fine ultimo dell’educazione, sarà necessario modificare fini e obiettivi dell’educazione.
Contemplare, ricordava Maritain, non è solo vedere ma anche “godere di vedere”. Andando per questa strada esiste un termometro dell’efficacia educativa, la gioia, che è risposta alla felicità. Se tutto ha funzionato, assisteremo alla gioia d’imparare. L’apprendimento diviene gioioso se l’educatore riesce a trasmettere l’idea che ogni uomo non fruisce solo di una vocazione individuale, è anche un essere sociale e cosmico, esiste nel mondo per realizzarsi e trasformarlo creativamente, possiede una missione terrena secondo le qualità personali ricevute dal Creatore, ma, soprattutto, che ogni vita è una missione”. M.L.A.

NOTE e BIBLIOGRAFIA

Status et conditio eius cui omnes res secundae fluunt, bona fortuna, prosperitas, beatitudo. Felicitas, deriv. felix-icis, "felice", la cui radice "fe-" significa abbondanza, ricchezza, prosperità. Def. Enciclopedia Pedagogica. M. LAENG (Ed), Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992: "felicità".

In questo contesto già la maieutica socratica è fortemente significativa! Così pure tra i moderni educatori : “Il generare e l’educare sono inseparabili, stanno insieme come fatti e significati, come dono della vita e senso della vita”, in A. BOZZOLO,R. CARELLI, Evangelizzazione e educazione, LAS ROMA 2011, p.381.

Cfr. H. VON BALTHASAR, Se non diventerete come questo bambino, Piemme, Casale, 1995. Nel verbo latino sapio, vi è il doppio significato del gustare e del conoscere.

P. WATZLAWICK Il codino del barone di Munchhausen, Ovvero psicoterapia e realtà, Feltrinelli, Mi,1991.

Cfr. La psicologia del profondo ha messo in luce come il mito dell’autonomia consegni l’adulto ad una cronica immaturità. Paradossalmente, in riferimento a certe tendenze teorizzanti modelli di società senza padri, più si è figli e più si è liberi. In A.BOZZOLO-R. CARELLI, Evangelizzazione e educazione, LAS Roma, 2011, pp.388 e 395.

J. MARITAIN, Per una filosofia dell’educazione, La Scuola, Brescia 2001, p.124.

Cfr. F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p.23.

DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia, Inf. Canto XXVI, 116-120, Paravia Torino, 1966, p.340.

La sezione è nota come: La professione di fede del Vicario Savoiardo e contiene i principi che l’educatore dovrà seguire perché il giovane pervenga alla conoscenza di Dio. “La pedagogia, saturata di metodologismo, per carenza di finalismo, è in realtà una scienza che proprio a motivo dei suoi fini deve alleggerire la pressione dei suoi metodi”, in C. XODO, L’adolescenza e la fragile costruzione dell’identità, in L’arte di educare, p.93, Ed. Messaggero, Padova 2008.

A. BOZZOLO - R. CARELLI, Evangelizzazione e educazione, LAS ROMA 2011, p. 375. Ibidem p. 373. Ibidem p.374

M. BUBER, Discorsi sull’educazione, Armando Roma, 2009, 81.61.65.74.

Cfr G. GIUSSANI, Il rischio educativo, Rizzoli Milano 2006, p.15.

R.S. PETERS, Education as initiation, The University of London, Institute of Education, London, 1962, p.47.

F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p.29.

G. PENATI, in M. LAENG (Ed), Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992: "felicità". p. 4824.

Si studiavano le tre relazioni fondamentali dell’uomo, con Dio, con il prossimo, con il creato, ma veniva proposta anche una sapienza di tipo popolare con i proverbi, per norme etiche spicciole; ricordiamo le figure all’interno del libro dei Proverbi, al cap. 7, di “signora sapienza” e “signora stoltezza” o anche la stessa teoria della retribuzione.

ARISTOTELE, Etica Nicomachea, libro VII, in Opere, Bari Laterza, 1973,vol.VII, pp. 63 e 185. Anche se la sua giustizia etica non è fondata né voluta in funzione della felicità.

G. PENATI, in M. LAENG (Ed), Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992: "felicità", p. 4825.

L. A. SENECA, Dialoghi, VII, De Vita beata 5,2.

S. GREGORIO DI NISSA, Vita di Mosè, I,5 a cura di M. Simonetti, Vicenza 1984, in M. BELDA, Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009, p.456.

S. AGOSTINO, De Trinitate, cit. in M. BELDA, Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009, p.94. “Cognitio enim Trinitatis in unitate est fructus et finis totius vitae nostrae”, in M. BELDA, Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009, p.94.

S. NATOLI, Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, Rai Educational, http://www.emsf.rai.it S. AGOSTINO, Libero Arbitrio, cap. XIII, libro I, Signorelli Roma 1965, p.112. Cfr , Fine dell’educazione, in Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992, p.429.

Alcuni modelli di maturità sono quello spirituale idealista di Gentile, materiale marxista, personale sociale di Dewey, umanistico integrale di Maritain, sociologico di Durkheim e Weber, psicoanalista di Freud, psicologico evolutivo di Piaget.

Cfr F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p.77-78.

Cfr F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p. 80

Il fine ultimo e i fini particolari si differenziano per la relazione di ordine tra loro. Molto didattica in questo contesto è la vicenda di Des Esseint, protagonista del romanzo Controcorrente, di J. K. Huysmans.

L’unità dinamica della personalità è una delle affermazioni base della psicologia umanistico-transpersonale che ha come concetto di fondo quello di un organismo umano unitario nei suoi momenti biologici, psicologici, relazionali, spirituali. L’organismo è una realtà simmetrica con delle funzioni collegate e interagenti tra loro, l’individuo adulto è considerato come un’entità organica, integrata, coerente, in tutta la sua esistenza. B. GOYA, Vita spirituale tra psicologia e grazia, EDB, Bologna, 2002, p.217.

Nata negli anni ’70-’80, metodologia didattica contenente una concezione completa dell’educazione. F. ALTAREJOS MASOTA, C. NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Editrice La Scuola, Brescia 2003, p. 90. Ibidem B. GOYA, Vita spirituale tra psicologia e grazia, EDB, Bologna, 2002, p.217.

Cfr X. ZUBIRI , Natura, storia, Dio, Augustinus, Palermo 1985, p.255.

Bibliografia

ALTAREJOS MASOTA F., C.  NAVAL DURÀN, Filosofia dell’educazione, Ed. La Scuola, Brescia 2003

BELDA, M. Guidati dallo Spirito di Dio, EDUSC, Roma 2009

BOZZOLO A. CARELLI R. , Evangelizzazione e educazione, LAS ROMA 2011

CHIOSSO G., Elementi di pedagogia, Brescia, La scuola, 2002

GOYA B., Vita spirituale tra psicologia e grazia, EDB, Bologna, 2002

LAENG M., Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La scuola, 1992

SCURATI C., Pedagogia della scuola, La scuola Brescia, 2003.

Felicità ed educazione (II parte)

2. La felicità

La felicità è condizione di equilibrio e corrispondenza fra desideri, aspirazioni della volontà e loro attuazione, generante un sentimento di appagamento nel soggetto.
Secondo la definizione di altri dizionari, la felicità è lo stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti propri desideri. Lo stesso concetto di felicità, così come quello di educazione, sembrerebbe variare attraverso le diverse Weltanschauung.
Ma, con un po’ di attenzione, si nota una costante in tutti gli sviluppi del pensiero umano, nel mondo biblico, quello romano, quello filosofico classico: legare al concetto di felicità quello di virtù, verità, bontà, bellezza, senza contare il campo semantico altamente significativo dei termini di alcune antiche lingue, ad esempio l’ebraico dove tov sta per bello/buono, così come il greco kalo,j.
Nel contesto biblico, il Cantico dei Cantici, massimo emblema dell’amore e della felicità legata al più potente dei sentimenti umani, è inserito nella sezione dei libri sapienziali, che erano raccolte di massime per l’educazione degli intellettuali dell’epoca e per le nuove leve del potere politico-giudiziario.
Nella lingua ebraica può essere significativo ricordare l’utilizzo del verbo conoscere per indicare l’azione dell’amare. Nel pensiero greco solo chi segue la virtù può essere felice. Nel Protagora, chi è ingiusto è anche infelice, si arriva a dire che è meglio subire l’ingiustizia che commetterla. Si distingueva, inoltre, tra edonismo ed eudemonismo.
La felicità per Socrate, non poteva avere carattere istintuale -sensibile, ma doveva implicare e consistere in una conoscenza, nella consapevolezza di sé e dei fini del proprio agire. Epicuro, nella celebre Lettera sulla felicità a Meneceo, sosteneva che non c'è età per conoscere la felicità, per occuparsi del benessere dell'anima, cioè per filosofare; ed è la conoscenza delle cose che dona lo stato di felicità. Platone, nel Filebo, scriveva che la vita migliore per l'uomo consiste in una miscela proporzionata di intelligenza e piacere; con l'educazione l'uomo imparerà a distinguere i veri piaceri e le cose che danno l’autentica felicità. Nonostante le apparenze, i giusti vivono meglio e sono più felici degli ingiusti; consapevole che la felicità non potrà essere perfetta sulla terra, alla vita terrena contrapponeva il mondo delle Idee, con i valori imperituri e il Bene, il valore più alto.
Nella concezione aristotelica della felicità abbiamo tre aspetti: la felicità come giusta misura; la felicità come realizzazione della propria natura; la felicità come conseguenza di un modo di essere.
Aristotele distingueva tra virtù etiche e dianoetiche: le prime riguardano la disciplina delle passioni, le seconde il sapere e la ragione. Egli non escludeva un rapporto tra felicità e piacere, a patto che le passioni fossero regolate dalla ragione. La virtù sta nel giusto mezzo, che è l’atteggiamento per conseguire la felicità. Il piacere non s’identifica con il sommo bene, quindi non può dare la felicità in senso proprio. “Diciamo poi più perfetto, ciò che è perseguito per sé stesso in confronto a ciò che è perseguito per altro […] di tale natura è la felicità, perché la scegliamo sempre per se stessa e mai in vista di altro”.
Per gli Stoici le passioni disturbavano la contemplazione della verità. La difficoltà nel distinguere felicità e piacere per l’aspetto soggettivo della questione, portava a ricondurre tutto alla legge del dovere, la vita autentica era contemplazione della verità del logos, conoscere la verità e condurre la propria vita in funzione di essa. Rimosse le passioni, il saggio, seguendo la propria ragione, si poneva in armonia con il tutto e non poteva non essere anche felice.
Nel mondo romano, il saggio Seneca scriveva che tutti vogliono vivere felici, “sed ad peruidendum quid sit quod beatam ultam efficiat caligant” e alla fine “beatus nemo dici potest extra veritatem proiectus”. Nella visione cristiana, con il celebre discorso della montagna (Mt 5,5-12) in cui Gesù proclama le beatitudini, viene proposto un ribaltamento della visione convenzionale del mondo per un nuovo ordine di valori e per la felicità. Il termine greco da noi tradotto con "beati" propriamente sta per felici. S. Gregorio di Nissa scriveva: “la felicità non consiste nel conoscere qualche verità su Dio, ma nell’avere Dio in se stessi, ‘beati i puri di cuore, perché vedranno di Dio’ (Mt 5,8)”. Nella visione cristiana la felicità s’identifica con la visione-unione con Dio, come l’immersione in un mare d’amore che non termina mai, l’apice della vita spirituale, la Gerusalemme celeste: “Ecco la tenda di Dio con gli uomini! […] asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento, né affanno” (Ap 21,3-4).
Per questo siamo stati creati, diceva Agostino, per raggiungere la piena conoscenza e il perfetto amore della S. Trinità, l’eterna contemplazione di Dio Uno e Trino in Paradiso. “La nostra gioia perfetta della quale nulla c’è di più alto, è godere di Dio Trinità che ci ha fatti a sua immagine”.
Ma, nella visione cristiana non troviamo l’idea di una felicità solo escatologica, ultraterrena, nelle testimonianze evangeliche sono numerose le immagini gioiose, quella descritta da Luca nella Magnificat o l’intero libro degli Atti, tutto pervaso dalla gioia.
Lo stesso Gesù non ci viene presentato come un maestro musone, ma gode delle amicizie degli uomini, della bellezza del creato e giubila nel suo cuore.
Tommaso d’Aquino diceva che, per l’inabitazione, “Dio, in tutta la pienezza del suo mistero, entra nell’intimo dell’uomo. Le divine Persone si donano realmente per lasciarsi possedere e per possedere, nella più meravigliosa comunione […] trasformando tutto in pienezza di vita divina”.
Tutto ciò possiamo raggiungerlo quaggiù, anche se imperfettamente, perché Dio si è donato personalmente all’essere umano per santificarlo. Ma, la conoscenza della Trinità, ammoniva, è anche il frutto della nostra vita e quindi delle nostre azioni. Più avanti nel tempo, Kant, opponendosi alle morali illuministiche del sentimento e del piacere e a quelle teologiche-intellettualistiche, dovette far coincidere virtù e felicità.
Spinoza affermava: “poiché in variatione vivimus, ci sentiamo più o meno felici a secondo che cresciamo o diminuiamo. Ne segue che il tempo, di per sé, non produce infelicità, ma può cambiare la natura dell'essere felici”.
Fin anche Nietzsche riconosceva che "l'uomo è felice, non quando è sazio, ma quando è capace di vittoria". Secondo voci filosofiche più contemporanee, “La filosofia moderna ha lavorato più sulle condizioni di felicità, ossia sulla rottura dei vincoli, che possono gravare sulla capacità soggettiva di conquistarsi la felicità […] alla fine della modernità, dopo che tanto abbiamo lavorato sulle condizioni di felicità, sulla libertà del bisogno, per trovare la felicità si torna agli antichi. Perché non è nell'esterno che c'è la felicità, ma nella capacità di fare lievitare infinitamente la propria vita come una buona pasta, come una sana pasta ”.
Va detto, per spezzare una lancia in favore della modernità, che il concetto di felicità è un valore sancito in alcune costituzioni, come in quella americana, ma anche nella Costituzione italiana si parla di “pieno sviluppo della persona umana” all'art.3. Qui la felicità ha a che fare con la privacy, più che con la virtù, essenziale per garantire la tutela della dignità della persona in ogni suo aspetto e dunque garantire la sua felicità. Realizzare i propri sogni è sviluppare in pieno se stessi, trovare l’equilibrio necessario per raggiungere la propria felicità.
Si parla dunque di diritto alla felicità, alla privacy e all'identità personale (tra i diritti inviolabili ex art. 2 Cost., sent. Corte Cost. n. 13/1994). Si ribadisce come ciascun essere umano sia unico e, come tale, irripetibile, artefice dei suoi progetti, non standardizzabile. M.L.A   (Continua )

Felicità ed educazione I parte

Il testo che segue è l'inizio di un mio elaborato scritto in occasione dell'esame di pedagogia generale. Verrà pubblicato tra breve completo con tutte le sue note e la bibliografia. Intanto, volendo contribuire all'attuale dibattito in corso sul sistema scolastico/educativo, ne propongo alcune parti.

Introduzione

Se dovessimo iniziare questa trattazione secondo il comune sentire, non sembrerebbero esserci cose più distanti che la felicità e l'educazione, qualora per il termine educazione ci fermassimo a certe immagini stereotipate, sinonimo di tristi elenchi di divieti e, ancor più, di grigi personaggi di vittoriana memoria, dall'indice perennemente puntato, se non di verghe e bacchettate su mani o altre parti sensibili, dalle orecchie d'asino fino ai famigerati ginocchioni sulle leguminacee. L'immaginario collettivo potrebbe scatenarsi con la complicità di numerose opere letterarie e cinematografiche persino di un certo spessore. Ma neanche i moderni metodi educativi riescono ad avvicinare un po’ i due concetti che permangono, almeno superficialmente, ancora a debita distanza, se non agli antipodi, l'uno dall'altro. Nella più diffusa accezione, la felicità sembra essere il contrario di ciò che comunemente s’intende per educazione, quasi uno sbracarsi scomposto, un lasciarsi andare senza freni di alcun tipo, far emergere non la parte migliore di sé, bensì la peggiore! Detto ciò si rende necessario un chiarimento sui termini della questione. Il termine felicità deriva dal latino felicitas, il greco usa il termine eudaimonia: intendiamo con questo termine una “condizione di equilibrio e corrispondenza fra desideri, aspirazioni della volontà e loro attuazione generante sentimenti di appagamento nel soggetto”. La nozione di felicità, intesa come condizione (più o meno stabile) di soddisfazione totale, occupa un posto importante nelle dottrine morali dell'antichità classica, si usa indicarle come dottrine etiche eudemonistiche. Sarà quindi inevitabile, il riferimento alla storia del pensiero umano, e di come, nel corso del tempo, si sia tentato di indicare la via per raggiungerla. Ma ha ancora senso oggi, nell’epoca del Prozac porsi questo genere di quesiti? Il termine educazione ha duplice derivazione: dal latino edere (allevare, curare, alimentare) ma anche da ex-ducere, (ducere significa condurre, e-ducere trarre fuori, elevare, condurre, trarre alla luce, generare, allevare); anche nella lingua greca con paideia (educazione) abbiamo un campo semantico simile: il verbo significa educare, allevare, tirar su, istruire, formare, correggere. Le note concettuali implicite nel termine educazione sono non tanto e non solo un mettere dentro, più un'azione contraria, un trarre fuori, una pienezza da sviluppare. Il senso di allevare comprende anche quello del nutrire , ma il fine non è semplicemente riempire, quanto innalzare e migliorare. È evidente il contenuto relazionale dell'atto, non ci si educa da soli e neanche basta l'azione unilaterale dell'educatore, occorre sollecitare una risposta attiva dell'educando. Il frequente equivoco dei nostri tempi intravisto da Paul Watzlawick agli inizi degli anni ‘90 , è di confondere i campi dell'educazione e del sapere con l'azione dell'acquisire informazioni, meccanismo più semplice ed accessibile a tutti grazie alle tecnologie informatiche, se alle informazioni tutti possono accedere, avvertiva Watzlawick, al sapere bisogna essere iniziati.

1. L’educazione

Ai tempi di Aristotele ci si domandava se la "paideia" dovesse occuparsi più dell'intelligenza o del carattere dell'anima, dello sviluppo della conoscenza o della formazione della condotta. Il quesito è ancora attuale. È possibile iniziare a riflettere già partendo dal termine latino liberi, cioè figli, la parte libera della famiglia romana, era l’adolescente che aveva raggiunto la capacità generativa, (prima era puer), derivante da libertas, autonomia, indipendenza. Educare significa integrazione, sviluppo armonico della natura umana fatta di materia e spirito, non si può badare separatamente allo sviluppo del corpo e della mente, è l’unione sostanziale che definisce l’essere umano, ciò comporta che l’educazione sia integrale, dell’essere umano intero: i sensi e le mani oltre alla ragione. Non si può parlare di educazione se non vi è un miglioramento della razionalità, l’unità sostanziale si ottiene con la guida della ragione, mentre l’attività dell’educatore sarà quella di aiuto-assistenza ai dinamismi attivi dell’educando. Per questo si considera agente naturale dell’educazione l’educando, non l’educatore. Va ricordato inoltre che, se la crescita fisica dell’uomo ha dei limiti, essendo la materia finita, l’uomo è un essere capace di crescere senza limiti, anzi, per l’uomo vivere è essenzialmente un crescere senza fine e lo stesso processo educativo può durare per tutta la vita; sono molti i settori del sapere in cui si parla di formazione permanente. Nel corso della storia umana, abbiamo avuto differenze di prospettive a riguardo; in base alla concezione che si ha dell’uomo, si avranno definizioni diverse di educazione. S. Tommaso, confermando l’opinione di altri pensatori, sosteneva che educazione è “conduzione e promozione della prole allo stato perfetto di uomo in quanto uomo che è lo stato di virtù”. Un processo guidato, suscitato, promosso, orientato e diretto. L’educazione non dà la vita, ma fa in modo che si arrivi a uno stato di vita conveniente, “sostiene l’umanizzazione dell’essere umano”, lo aiuta nel realizzare la sua esistenza. Anche Dante Alighieri circa un secolo dopo, nella sua più celebre opera, esortava a “seguir virtute e conoscenza” , il sapere non disgiunto, quindi, da una retta condotta. Persino Rousseau nella sua teorizzazione di quella che definiva l’educazione negativa, in una sezione dell’Emilio, affronta il problema dell’educazione religiosa e morale. Il modello illuminista ha interpretato l’azione educativa come un fatto di conoscenza e di scienza, cioè si cresce imparando a ragionare, per il modello attivistico si cresce facendo esperienze, nel primo caso l’educazione diviene specializzazione, nel secondo abilitazione. A lungo l’istruzione è stata interpretata come addestramento e/o adattamento alla vita sociale (Dewey), mentre le pedagogie più recenti di matrice strutturalista o cognitivista (Piaget, Gardner, Bruner, Rogers) si sono occupate del funzionamento della mente e della motivazioni del comportamento. Era convinzione di S. G. Bosco che l’educazione è cosa di cuore e che solo Dio ne ha le chiavi, questo per dire che essa ha a che fare con l’unicità dell’uomo e il suo destino eterno, quindi richiede un approccio più sapienziale che intellettuale, più artistico che tecnico. Anche per Edith Stein il lavoro educativo equivale a una creazione “mentre le altre attività si fermano alle facoltà dell’uomo, l’educazione penetra fino all’anima stessa, alla sua sostanza, per darle una forma nuova e così ricreare l’uomo nella sua totalità”. Come se l’educazione richiedesse una metodologia a-metodica. Ma soprattutto all’educatore si richiede un’autentica umiltà perché “avendo a che fare con la totalità dell’essere e con l’individualità dell’uomo, la sua scientificità non è omogenea ai paradigmi delle altre scienze.” Guardini sottolineava che l’educazione, per non perdersi, dovrebbe avere sempre cura dell’integrità spirituale dell’uomo e del suo destino di grazia. “Le pedagogie correnti hanno un elemento in comune: manca loro la percezione dello specifico pedagogico, e si ripiegano su di un unico ambito di valore”. Similmente Maritain, denunciava come piaga della pedagogia contemporanea lo smarrimento dei fini e il privilegio dei mezzi. Così Buber: “il lavoro educativo […] è un guidare alla realtà e alla realizzazione […] significa trasmettere, tramite una persona, una selezione del mondo ad un'altra persona […] indirizza verso l’unità reale che si nasconde dietro alla molteplicità di significati.” Don Giussani riteneva l’educazione accompagnamento autorevole e benevolo nel verificare la corrispondenza fra realtà e aspirazioni più profonde dell’uomo, in modo da non poter non riconoscere in essa la presenza di un senso totale. Peters definiva educazione “una forma di vita valida e desiderabile per se stessa”, alcuni vedono nel suo concetto di educazione un completamento della definizione tomista. Viene rifiutata una concezione utilitaristica di essa, che la vorrebbe come una preparazione per soddisfare richieste circostanziali. Secondo Peters, “essere educato non vuol dire aver raggiunto la propria meta, ma si viaggiare avendo un punto di vista originale”, una sorta di iniziazione o preparazione per una forma di vita valida. Si comprende come sia difficile una definizione del termine educazione, perché trattasi di relazione tra due soggetti agenti, si potrebbe parlare di aiuto al perfezionamento umano. Ecco alcune caratteristiche essenziali: è un’azione, ci riferiamo all’agire di due esseri, è un sapere pratico, non si regge per la conoscenza della verità dell’oggetto, ma per la rettitudine dell’azione, inoltre è un’azione reciproca, di reciproco aiuto. Il perfezionamento umano si ordina a e verso la ragione, cioè è la razionalità che integra le altre facoltà umane, mentre il razionalismo vede la ragione come un tiranno degli affetti, contrapponendole una reazione romantica in difesa del valore umano dei sentimenti. Si crea così un’errata impostazione dicotomica, rinunciando ad ogni processo di integrazione. Per Aristotele la questione era di ordinare debitamente l’una e le altre in modo che la ragione possa trarre profitto dalle emozioni e crescere in sapienza. Questo controllo suppone l’integrazione dell’operatività umana che, attraverso l’agire, si appropria di se stesso; l’esercizio continuo forma le facoltà umane, gli abiti realizzano il dominio dell’essere umano, condizione per cui diventa possibile la felicità. L’abito è un’acquisizione avvenuta nel passato e, insieme, una possibilità per il futuro. In conclusione “l’educazione è l’azione reciproca di aiuto volta al perfezionamento umano, intenzionalmente ordinato alla ragione, e da esso diretto in quanto promuove la formazione di abiti eticamente buoni.” (continua)

giovedì 11 settembre 2014

La scuola bella

Leggendo il documento che presenta quali saranno le prossime riforme scolastiche ho trovato molti spunti interessanti che potrebbero essere ulteriormente sviluppati. Cosa che per altro è richiesta dagli stessi autori, considerando il testo come una sorta di bozza da cui partire... a prima impressione mi pare debole e più scontato nella parte che riguarda le valutazioni. Personalmente ritengo che il nodo di tutti i problemi sia proprio lì. Infatti il fine di tutto non deve essere riuscire a passare al termine del ciclo di studi oppure prendere dei voti alti così hai più possibilità di trovare lavoro ecc ecc... ma ben altro. Inoltre trovo deleterio il sistema delle bocciature nella maggior parte dei casi. Sono ben pochi i casi in cui si ottiene un miglioramento della disponibilità allo studio... sovente si creano solo danni e frustrazioni. Ma allora quale deve essere la vera spinta motivazionale? La risposta è molto più semplice di quanto si possa pensare. Conoscere è bello, è un piacere... scoprire cose nuove ci deve dare gioia. Guardiamo i bambini quando vivono la fase dei "perché", sono avidi di conoscenza quasi come di caramelle! Cosa accade dopo da trasformare la loro sana curiosità in noia e la loro naturale predisposizione ad apprendere in un obbligo noioso e insopportabile? (Continua )
M.L.A