mercoledì 15 ottobre 2014

Teresa d'Avila, Ritorno all'essenziale

Riflessioni sul documento
"Ritorno all'essenziale"

 "Vi abbiamo scritto questo brevemente, stabilendo così per voi una formula secondo cui dovete vivere. Se qualcuno dovesse fare di più, il Signore stesso al suo ritorno lo ripagherà; ma usi discernimento, che è moderatore delle virtù". ("Epilogus" tratto dalla Regola primitiva dei Fratelli e delle Sorelle della Beata Vergine Maria del Monte Carmelo data da S. Alberto, Patriarca di Gerusalemme) 

 Chi ama veramente Dio ama la semplicità e chi ama la semplicità evidentemente non può non tendere alla essenzialità. La maggior parte delle dispute attuali riguardo alle esortazioni del Concilio Vaticano II in materia di vita religiosa sovente si esauriscono solo alla forma esteriore e spesso nella lunghezza dell'abito o la lunghezza del velo per le donne, o sulle grate più o meno doppie o di legno o di ferro o chissà quant'altro. Se si tratta di uomini invece le dispute sono se e quando o dove indossare l'abito. Ma tale mutamento esteriore non sempre è stata la logica conseguenza di un mutamento interiore, infatti è sempre molto più semplice e veloce accorciare o allungare una gonna o rimuovere una grata che sostituire il cuore di pietra con il famoso cuore di carne per usare una espressione biblica arcinota. Sono certa che un discorso che viene intitolato "ritorno all'essenziale" voglia escludere che ci si perda in dettagli.Il titolo completo di questo documento è "ritorno all'essenziale con Teresa di Gesù e Giovanni della Croce per una nuova collocazione del nostro carisma e per delineare la nostra presenza nella Chiesa". Mi pare onesto prima di intraprendere qualsiasi riflessione a riguardo, indagare su quale fosse la "vecchia" collocazione del carisma carmelitano, per poter capire meglio dove e come si innesta questo documento il cui tono somiglia a quello del bambino della nota favola che ad un certo punto nel bel mezzo della parata gridò "papà, ma il re è nudo!" Il documento afferma che "le strutture della vita consacrata elaborate nelle società rurali del Medioevo o nel mondo della rivoluzione industriale degli ultimi secoli non sempre sembrano adatte a esprimere le necessità e i desideri delle donne e degli uomini del nostro tempo. Stiamo assistendo all'esaurirsi di questa figura storica della vita consacrata con la quale si è identificata la sequela Christi.(...) Il suo linguaggio esistenziale o non è comprensibile oppure dice poco al mondo di oggi. (...) Per questo la soluzione non è il rifugio nel passato, volendo a tutti costi mantenere gli schemi della vita tradizionale ". 1. Esplorando il "dna" carmelitano: recupero della dimensione profetica L'ispirazione eliano-mariana fa parte delle radici vitali della famiglia carmelitana. Elia, il profeta di Dio vero, potrà essere incontrato e compreso nella fonte genuina che è la Sacra Scrittura. Legata ad essa e alle tradizioni rabbinico-ebraiche si è formata una caratteristica haggadah eliana che attraverso i tempi si è arricchita con l'apporto dei Padri della Chiesa e del monachesimo. Questa haggadah è passata anche ai carmelitani che l'hanno ulteriormente sviluppata. Elia è l'uomo che vive alla presenza del Signore, attento alla sua Parola, è l'uomo del deserto che abbraccia la solitudine come cammino adeguato all'ascolto e all'accoglienza della Parola. È l'uomo che integra nell'unità del proprio essere le dimensioni trascendenti e terrene, unendo contemplazione e amore fraterno. È l'uomo impegnato a difesa della vita del suo popolo nella lotta contro gli idoli al fine di ricondurlo all'incontro con il vero Dio. È l'uomo difensore di quanti sono vittima dell'ingiustizia. È ancora l'uomo che coltiva l'universalità del Regno di Dio, che sa comunicare con tutti gli esseri umani, re e religiosi, ricchi e poveri, uomini e donne, senza favoritismi. La famiglia carmelitana si appropria di una delle più forti espressioni eliane: "Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti". C'è anche un luogo fisico specifico,: il monte Carmelo e la fonte di Elia dove si stabiliscono i primi eremiti, antenati dei carmelitani. Sin dagli inizi appare anche una forte connotazione mariana; i primi fratelli si chiamavano infatti i "Fratelli della Beata Vergine del Monte Carmelo". Abbiamo così delineato la radice topografico-spirituale delle origini dell'Ordine. Il profeta Elia (o "Nabi el Khader" il verdeggiante), ha una singolare caratteristica che raccontata sia da L. Massignon, sia da Edith Stein: è venerato anche nella tradizione ebraica e musulmana. La grotta di Elia accoglie schiere di pellegrini giudei, maomettani e cristiani di ogni confessione. Scriveva Edith Stein dopo essere divenuta Teresa Benedetta della Croce: "Tutto questo si considera una leggenda di poca importanza. Noi che viviamo nel Carmelo e preghiamo il nostro santo padre Elia sappiamo che non è un ombra che scaturisce dall'antichità. Il suo spirito agisce testimoniando in mezzo a noi e determinando la nostra vita". (1) Questo aspetto profetico-interreligioso delle radici carmelitane può rivelarsi estremamente importante oggi in clima di dialogo e rappresenta un elemento unico nel panorama delle grandi famiglie religiose. Che si tratti si un aspetto "genetico" è dimostrato dal fatto che, nel tempo, dopo l'esodo dei Carmelitani dalla Terrasanta in Europa, ha continuato a riemergere. Come è oramai noto Santa Teresa d'Avila era figlia di un "conversos" ebreo e S. Giovanni della Croce studi risulta avere origine moresche da parte di madre. E che dire della stessa Edith Stein? Ebrea convertita in età adulta alla fede cristiana in possesso quindi di un forte spirito "eliano" e anti-idolatrico che la portò per amore della verità ad una morte atroce nei campi di sterminio. Così si esprimeva a riguardo: "Vivere al cospetto del Dio vivente: questa è la nostra professione. Il santo profeta ce lo ha già testimoniato". (2) Anche il Beato carmelitano Tito Brandsma, giornalista, docente universitario, come sappiamo morì nei lager nazisti per lo stesso amore della verità. Teresa di Lisieux morì dicendo: "[...] solo la verità può nutrirmi [...] sì mi pare di aver cercato sempre la verità sola". Di lei è stato scritto: "E' la verità che muove la santa ed esercita su di lei un fascino irresistibile. Si interessa solo al vero della vita". (3) In un processo di "inculturazione" e di riadattamento ai tempi odierni e ai suoi più importanti problemi si può ignorare questo aspetto? C'è una chiara vocazione che assunta con consapevolezza senza facili sincretismi può dare molti frutti anche nei difficili processi di pace in medio-oriente o nelle nostre terre dove la presenza massiccia di immigrati ci porta sempre più al confronto quotidiano con altre etnie. Ritornando al tempo di Elia, il secolo nono avanti Cristo, bisogna ricordare che era tempo di forte crisi religiosa. Il problema era ciò che si chiama sincretismo religioso, cioè l'assimilazione di elementi estranei alla propria religione con la conseguente confusione sia sul piano teologico che su quello pratico-morale. La religione dei Canazei era una religione della natura, Baal era immaginato come un immenso toro che feconda la madre terra rendendola fertile. Le due religioni, quella jahvista e quella di Baal esistevano l'una accanto all'altra. Credevano infatti di avere bisogno di Baal perchè era il Dio che rendeva feconda la loro terra. Sotto l'influsso di Gezabele, Baal divenne il dio che si venerava nella corte e nelle città.. Il Signore stava diventando semplicemente uno dei tanti dei nel pantheon cananeo. Lo jahvismo stava per essere assimilato e annientato dal baalismo. Ecco il contesto in cui si muove il profeta Elia. (4) "Ancorato alla sua fede yahvistica, Elia non esitò ad applicare al Signore le caratteristiche di Baal, tuttavia non lo fece con spirito di sincretismo religioso, ma mostrando che Baal era nulla. Il Signore, lui solo era Dio. Lungi dall'essere un conservatore che voleva tornare alla vita del deserto per fuggire la tentazione del baalismo, Elia non ebbe paura di guardare al futuro. Contro i recabiti, egli accettò le sfide del presente, aperto anche al cambiamento pur di mantenere in vita i valori del passato e tramandarli al futuro. Se Israele avesse seguito la via del cambiamento tracciato da Acab, non sarebbe rimasto Israele, il popolo che il Signore si era scelto per sé e con cui aveva stretto un'alleanza. Se avesse scelto di seguire la via dei recabiti, rimanendo nostalgicamente chiuso nel suo passato, non sarebbe sopravvissuto, come non sopravvissero i recabiti. Elia aveva un'altra soluzione: adattare le vecchie tradizioni alle nuove situazioni, in modo che Israele potesse essere sì una nazione alla pari dei popoli vicini, ma mantenendo intatto il suo carattere distintivo di popolo dell'Alleanza. Qui sta la vera grandezza di Elia e la natura della sua missione. "Senza Mosè la religione yahvistica non sarebbe nata mai. Senza Elia si sarebbe estinta". (5) In questa riflessione è racchiuso un grande messaggio perfettamente applicabile ai nostri tempi. Ma, nonostante la sua grandezza, anche il profeta Elia vive la sua notte oscura. Egli che agiva sempre secondo la parola di Dio, nel cap. 19 del 1 libro dei Re, intraprende il suo viaggio verso il deserto non su comando di Dio ma di propria iniziativa tanto che Dio lo rimprovera per due volte "Che fai qui Elia?" E' l'ora buia del deserto che è pure cara alla tradizione carmelitana. (6) Continuando ancora questa nostra esplorazione "genetica" come non inserire tra gli elementi distintivi della famiglia carmelitana il fatto che l'Ordine non ha un vero "fondatore" o una "fondatrice"? Se è molto ben delineato da allora ai nostri giorni un carisma carmelitano, manchiamo totalmente di figure di riferimento tra i primi fratelli, tanto che la loro "formula di vita" l'hanno ricevuta da una figura esterna, dal patriarca S. Alberto di Gerusalemme, canonico agostiniano, che inevitabilmente risentì dell' influsso della sua regola e forse altrettanto inevitabilmente risentì della regola Basiliana osservata in quelle terra dai monaci orientali. Anche nelle comunità monastiche dell'oriente non vi sono "fondatori" di ordini, vi sono al massimo fondatori di monasteri. Ora i primi eremiti del Carmelo erano latini trapiantati in oriente e stranamente la loro regola riflette questa comunione ecumenica con le chiese d'oriente sin dai primi passi. Occorre dire quanto questo aspetto possa essere di grande attualità? Curiosando ancora nel dna carmelitano, ritroviamo a circa 200 anni dalla nascita un grande cambiamento che non fu facile ma che si rese inevitabile per le persecuzioni musulmane: la fuga in occidente. Nella relazione di P. Camilo Maccise ocd, dagli atti del Convegno sulla Regola tenuto ad Haifa (ottobre 99) ritrovo alcuni elementi che mi sembrano adatti a queste riflessioni. Nel momento in cui questi eremiti sono costretti a spostarsi dal loro ambiente, è evidente per loro l’obbligo di un certo cambiamento. Proviamo ad immaginare: da eremiti in Terrasanta alla vita delle vivaci città medioevali dove si ritrovarono ad operare come gli ordini mendicanti. Forse, se l'ordine carmelitano non avesse operato quella trasformazione richiesta da quella precisa epoca avrebbe potuto estinguersi così come è accaduto a molte altre famiglie religiose. Ma quale era la realtà sociale dell'epoca? Valga un esempio tra tutti quello di Bernardo Tolomei e dei suoi primi compagni fondatori dell'Ordine Benedettino Olivetano. Si narra che ad un certo punto scesero da Monte Oliveto e morirono curando gli appestati di Siena. Anche oggi si riscontrano alcuni gravi scompensi sociali che opportunamente il documento "Ritorno all'essenziale" prende in analisi: secolarizzazione, liberazione, globalizzazione, ecc. ecc. Inoltre, mentre per lungo tempo il volto del cristianesimo aveva un volto europeo, oggi i tre quarti dei cristiani di tutto il mondo vivono nel Terzo Mondo, con tutti le conseguenti problematiche. Se, come il documento "Vita consacrata" ha messo in rilievo, l'essere umano è unito a Dio, aperto agli altri e in comunione con le realtà terrene" la conclusione non potrà che essere l'esortazione che ritrovo nell'ultima pagina del documento e cioè "si dovranno aprire altre nuove presenze che siano più in consonanza con il nostro carisma e con le sfide di oggi, nei diversi contesti socioculturali ed ecclesiali". "Essere più in consonanza" non significa abbracciare solo tutto ciò che è nuovo e buttare via tutto ciò che sa di vecchio. Non tutto ciò che è nuovo è necessariamente buono e non tutto ciò che è vecchio è necessariamente da scartare e, viceversa, non tutto ciò che è nuovo è necessariamente diabolico mentre non è affatto detto che tutto ciò che è tradizione consolidata possa farci riposare tranquilli! Temo che gran parte della confusione che offusca la vita religiosa (non solo quella carmelitana) oggi si nutra di fraintendimenti di questo genere.

 2. La spiritualità carmelitana in chiave di "antropologia monastica" 

 La Regola carmelitana enuncia in origine questo programma specifico: "meditare giorno e notte la legge del Signore e vegliare in preghiera". Solitudine, silenzio, preghiera sono mezzi per giungere all’intimità divina e immergersi nella luce amorosa della contemplazione; la spiritualità carmelitana viene definita la spiritualità dell'unione con Dio o la spiritualità dell’intimità divina. Comunione con Dio per mezzo dell'amore e della contemplazione, non si accontenta di una unione qualsiasi ma tende alla più alta unione che è quella che si attua per mezzo dell'amore. Nonostante le apparenze contrarie, l'ascesi carmelitana è essenzialmente positiva, se altri ordini possono praticare la penitenza come mezzo espiativo e riparativo al Carmelo piccole mortificazioni e piccole penitenze sono cercate perché dispongono l'anima ad una più intima unione con Dio e ad una penetrazione più profonda della Scrittura. Oppure al contrario, si rendono necessarie per una forma di naturale riequilibrio perché vivere l'intimità divina significa anche gustare le cose interiormente o internamente, come spiegava anche S. Ignazio di Loyola, e ciò rende tutto molto più saporito. Edith Stein scrivendo della via di S. Teresa di Gesù Bambino così si esprimeva: "I muri dei nostri monasteri recingono uno spazio ristretto. Colui che vuole edificare la dimora della santità, deve scavare profondamente dentro di sé per innalzarsi: si tratta di scendere profondamente nella notte buia del proprio nulla per essere innalzato verso la luce del sole dell'amore e della misericordia divini.” I santi, anche i più rigorosi nell'ascesi non erano e non sono affatto né masochisti, né squilibrati, piuttosto dei buongustai dotati soprattutto di grande equilibrio, altrimenti sarebbero stati dei folli e non dei santi! Come oramai anche la scienza medica ha dimostrato, la frequentazione assidua della preghiera (e tanto più dell'orazione!) se praticata ad un buon livello influisce beneficamente su tutto il corpo e il suo metabolismo per cui una vita troppo rilassata si rivela deleteria non solo per l'anima ma per lo stesso organismo. Può essere utile a riguardo ricordare che i termini "salute" e "salvezza" hanno la stessa radice etimologica. S. Teresa di Avila ne ha fatto esperienza su di sé, quando il gesuita Padre Pradanos, dopo aver rassicurato la santa sulle sue grazie mistiche, le dette il seguente consiglio per la sua malferma salute: "Senza dubbio, figlia mia, il Signore ti manda tante malattie per austerità che tu non stati praticando. Non avere paura! La tua mortificazione non ti può nuocere”. E infatti, come è noto, con il nuovo modo di vivere la salute di Teresa migliorò. (7) Il nostro corpo è davvero "l'asino che ci porta a Gerusalemme"! E' lo stesso buon senso a dettarci le conclusioni. Un "asino" denutrito, battuto e maltrattato può crollare prima di arrivare alla meta, ma anche un "asino" sovraccarico di cibo e mollezze rischia di smarrirsi strada facendo! Non può più beneficiare per esempio del nutrimento della Parola che non è un'attività solamente intellettuale, ma che sempre deve essere accompagnata da un costante esercizio ascetico. Per capire la Parola non è sufficiente l'attenzione o la lucidità della mente, ma è indispensabile la purificazione dei costumi: la Parola è vita e solo chi la vive può comprenderla. (8) "La Parola deve essere seminata nel cuore (Mt 13,19; Lc 8,12). Ma il cuore deve essere purificato (Mt 5,8; Eb 10,22) e preparato (Lc 8,15) in vista della Parola. Il nostro cuore è infatti ordinariamente indurito e il nostro spirito bloccato (Mc 6,52; 8,17; Gv 12,40; Ef 4,18). E' insensato e tardo a credere (Lc 24,25) ottenebrato (Rm 1,21) facilmente appesantito dai piaceri e dalle preoccupazioni (Lc 21, 34). Pertanto non è capace di gustare il cibo spirituale della Parola di Dio". (9) L'ascesi del nulla non è basata sulla negazione delle risorse umane, ma sulla loro capacità di giungere con l'aiuto della grazia a gustare le dolcezze divine, non è neppure una rinuncia alla gioia, ma la ricerca di una gioia assolutamente pura e costante, la gioia di Dio. Credo che le danze e i canti di S. Teresa di Gesù ma anche quelle di S. Giovanni della Croce, dovevano essere davvero irresistibili, tanto che lo sono ancora oggi! Il nostro corpo dunque ha un compito centrale nel cammino del nostro ritorno al padre, con Gesù nello Spirito. Ogni preghiera, per quanto segreta e intima, si rifletterà sul corpo. La preghiera non può esistere fuori del corpo, né per i principianti, né per gli esperti. Verso la preghiera e la pienezza dell'amore, il corpo è una via di cui non si può fare a meno. Diceva il monaco Antonio che corpo e anima sono come i due versanti della montagna la cui vetta è la preghiera. Tale costante collaborazione tra cuore e corpo, che i testi monastici di ogni epoca ricordano, è la tecnica cristiana della preghiera. Questa suppone un'antropologia particolare che non intende far scomparire il corporale dinanzi allo spirituale, il materiale dinanzi all'immateriale. In questo caso la preghiera eliminerebbe il corpo e con esso l'uomo stesso. Al contrario, nel cammino della grazia e della preghiera, anche il corpo ritorna al suo stato originale. D'ora in poi non è più "corpo di peccato" (Rm 6,6) o "corpo di abbassamento" (Fil 2,8), né segno di opposizione a Dio e agli altri, né campo di una continua battaglia. Da corpo per la morte che era prima, diventa corpo per la vita. (10) Anche il documento "Ritorno all'essenziale" getta nel capitolo V una squarcio di luce su questo aspetto della vita religiosa quando ricorda che mortificazione ed esercizi ascetici per Teresa erano da intendere "in funzione di una elevata vita teologale e del ministero apostolico". A proposito del digiuno di cibo, oggetti, relazioni ecc. ecc. può essere opportuno differenziare le diverse forme ascetiche, infatti spesso si ritiene erroneamente che siano interscambiabili. Non è così. E' sbagliato pensare che il digiuno possa essere sostituito da qualsiasi altra privazione. Con il digiuno impariamo a conoscere e a moderare i nostri appetiti attraverso la moderazione dell'appetito fondamentale e vitale: la fame, e impariamo a disciplinare le nostre relazioni con gli altri, con la realtà esterna e con Dio, relazioni sempre a rischio di veracità. L'oralità è connessa alle dimensioni del "mangiare" del "parlare" del "baciare", dunque alle dimensioni biologiche, comunicative ed affettive dell'uomo. Il digiuno svolge la funzione di farci sapere qual è la nostra fame, di cosa viviamo e di ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è veramente centrale. L'etimologia di "adorare" contiene il rimando ad os-oris, cioè bocca. Ma questo aspetto va a finire anche nel discorso del processo di inculturazione. Infatti la moderna scienza medica continua a ribadire che qualche privazione di cibo ogni tanto non ha mai ucciso nessuno, molti di più ne uccide l'eccesso alimentare. Lo stesso discorso si può fare per il sonno o per il silenzio. Naturalmente non va dimenticato il contesto socio-culturale a cui la comunità appartiene. (In alcune cliniche specializzate americane curano la depressione con la diminuzione delle ore del sonno!) Fare l'esperienza di Dio, sentirsi veramente parte di un tutto presuppone anche una corretta percezione del proprio corpo. "Aprirsi all'azione della Grazia" dubito che possa accadere a dei corpi "rigidi"; essere donne ed essere spose di Cristo significa anche e forse soprattutto, essere capaci di accogliere come donne e cioè "femminilmente" lo Sposo. Ho l'ardire di aggiungere che la "fecondità" di una vocazione singola o di una comunità religiosa femminile, (o maschile) dipende anche da come si vive o da come non si vive la propria sessualità. Una Sposa innamorata persa dello Sposo è quindi frequentemente "gravida". Lo stesso discorso credo valga per gli uomini. La famosa frase di Giovanni Paolo II in apertura del suo Pontificato "Aprite le porte a Cristo" mi sembra che lui l'abbia pronunziata con tutto se stesso anche con il suo vigore di uomo. Essere spiritualmente fecondi è il grande dono che il Signore fa a coloro che veramente lo amano, donandogli una discendenza. Per riprodursi, anche "spiritualmente" occorre una necessaria dose di "calore amoroso" e non basta il "senso del dovere" o di dedizione o altro. Esiste una specie di "frigidità" spirituale forse proprio per le stesse cause per cui esiste quella che determina il calo demografico. Ricordo il sociologo-semiologo francese J. Baudrillard il quale lamentava in una conferenza che l'eros era ormai dappertutto tranne che dove avrebbe dovuto essere, cioè nel talamo di due sposi. Forse allo stesso modo nella vita spirituale si verificano troppe dispersioni e poi quando si è nell'intimità del "talamo" con il Signore ci rimane sempre troppo poco "calore" per poter "concepire" qualcosa. Mi è piaciuto molto trovare nelle lettere di Chiara d'Assisi ad Agnese di Boemia le seguenti esortazioni: "Dandovi a sposo di nobiltà superiore, il Signore Gesù Cristo ... amandolo siete casta, accarezzandolo sarete pura, lasciandovi da lui possedere, sarete vergine. La sua possanza è la più forte, la sua generosità ineguagliabile, il suo aspetto il più seducente, il suo amore il più soave, la sua grazia la più squisita. Siete già stretta nell'amplesso di Lui, che ornò il vostro petto di pietre preziose e fissò ai vostri orecchi perle inestimabili e tutta vi rivestì di gemme trasparenti e brillanti e vi incoronò con una corona d'oro incisa con il marchio della santità". (...)Unisciti alla dolcissima Madre di lui, la quale generò un figlio tale che i cieli non potevano contenere eppure lei lo raccolse nel piccolo chiostro del suo utero santo e lo portò nel suo grembo di fanciulla". (11) Trovo che sia una immagine bellissima anche dal punto di vista letterario ed esprime alla perfezione parte di quanto ho cercato finora di dire con le mie povere parole. Molto meglio lo esprime l'Abate Andrè Louf, riconosciuto maestro di vita spirituale. quando spiega che per natura la preghiera dell'uomo e quella della donna saranno un po' differenti; poiché il sesso imprime un marchio alla preghiera. Questo non deve meravigliarci se ammettiamo che la preghiera è stimolata dalla solitudine sessuale dell'uomo come della donna. Nella sua mascolinità l'uomo è piuttosto l'immagine del Padre che si dona nel Figlio, nella sua preghiera l'uomo si identifica di preferenza con il Cristo e con la Parola di cui è sacerdote e liturgo nel proprio cuore. La donna, al contrario, nella sua femminilità è l'immagine dello Spirito che è fecondo, che accoglie maternamente, che porta il frutto nel suo seno, lo mette al mondo e se ne prende cura. Essa è la purezza che rende pure tutte le cose. E' in sé stessa interiorità e amore che intuisce la verità di ogni cosa, la svela e la comunica. Anche nella preghiera, la donna, totalmente recettiva, si abbandonerà alla Parola, se ne lascerà pervadere, porterà il suo frutto nell'invisibile e trasmetterà la vita. L'uomo sente la preghiera piuttosto come un’opera, un incarico, quasi un mestiere al quale si lega e dove trova la propria identità, la donna invece, nel più intimo del proprio essere, è già essa stessa preghiera. In questa ritrova la propria profonda personalità, la sorgente zampillante del proprio essere. (E' la stessa conclusione a cui arriva Edith Stein, ma forse è ancora più bello che sia un uomo a scrivere questo!) L'uomo e la donna, attraverso il celibato e la preghiera, ritrovano così l'altra loro metà in Dio, quest'altro pannello del dittico tenerezza - forza che costituisce qui in terra una purissima immagine di Dio; finché Dio non sarà tutto in tutti, nell'uomo come nella donna; finché il loro corpo non sarà spirito, senza mai cessare di essere corpo, ma divenuto ormai tempio dello Spirito e casa di preghiera. (12) 

 3. Agire "contemplativamente": la riforma teresiana 

 "La preghiera è vita, non un'oasi nel deserto della vita" (B. Tito Brandsma). Continuando ancora questo viaggio arriviamo al tempo di Teresa di Gesù. Il recupero della regola primitiva le permise di agire "contemplativamente" esattamente dove era necessario in quel preciso momento storico. Teresa diceva che i suoi conventi quando cadevano non dovevano fare nessun rumore! Voleva in origine solo riunire alcune anime generose che vivessero una vita di preghiera e di immolazione per riparare agli sconvolgimenti e ai danni che operavano gli eretici e per soccorrere spiritualmente quanti hanno la funzione di difendere la Chiesa. I fini che si proponeva erano la conversione dei Luterani e degli infedeli e la santificazione dei sacerdoti. E' sbalorditivo come gli scritti di Teresa trasudino amore per la Chiesa di "Sua Maestà" e dire che non era certamente uno dei periodi migliori considerando i problemi che lei stessa dovette subire a causa dell'Inquisizione! Oggi Teresa viene paradossalmente molto ben considerata dagli stessi protestanti, i motivi sono facilmente intuibili. Allo stesso modo se vogliamo paradossale Teresa è stimata anche dai movimenti femministi, il perché è facile intuirlo. È inutile in questo contesto narrare qual era la condizione della donna nella sua epoca… Niente male per una religiosa che impose alle sue figlie il doppio velo! Questo mi fa venire in mente ancora una bella riflessione del Beato Tito Brandsma:"la persona che desidera conquistare il mondo per degli ideali superiori, deve avere il coraggio di sostenere la lotta col mondo. Alla fine il mondo segue la persona che ha coraggio, a dispetto del mondo, di fare ciò che il mondo non osa fare di sua spontaneità". Mi pare si renda necessario incominciare a guardare la storia e la stessa realtà in un modo maturo e degno dei tempi che viviamo senza lenti deformanti né da una parte che dall'altra. Oggi, dopo la firma della Dichiarazione Congiunta che appiana molte delle dispute storiche con i luterani, è chiaro che sarebbe andare contro i tempi voler continuare a sostenere le stesse intenzioni che animavano Teresa. Oppure voler allo stesso modo ripristinare doppie grate e doppi veli o doppi isolamenti, quando è chiaro che la condizione della donna è radicalmente mutata. Ma siamo sicuri che oggi non ci siano nuovi movimenti ereticali altrettanto temibili di quelli dell'epoca di Teresa? Possiamo dire che nessuno attacca la Chiesa, i sacerdoti e i suoi consacrati? Certamente le persecuzioni odierne sono meno evidenti e spettacolari di quelle di un tempo, sono forse più subdole ma chi si sognerebbe di dire che non esistono? Possiamo allo stesso modo affermare che anche la donna consacrata come la donna secolare non stia correndo qualche rischio di smarrimento della propria identità? La spiritualità carmelitana (e non solo perché sono scritti di carattere antropologico!) possiede un potente antidoto a tutti questi rischi, gli scritti di Edith Stein sullo specifico dell' essere femminile, ancora troppo poco divulgati. E' chiaro che la donna oggi può e deve fare di più di quanto poteva un tempo purché in questo non metta troppo sé stessa al centro e dimentichi il resto del mondo. Proprio come le madri di famiglia, quando si ritrovano anche ad essere lavoratrici e rischiano per la carriera di trascurare il loro ruolo di madri e mogli. Anche in questo caso è indispensabile un buon equilibrio, tra la realizzazione della propria vocazione e il sostegno indispensabile per tutta la Chiesa che è la vita contemplativa. Conclusioni: la via della ristrutturazione/riconciliazione Nei grandi momenti di passaggio si è costretti a tornare all'essenziale, ad una onestà analitica e critica priva di illusioni e di paraocchi ideologici. Un esempio utile è quello dello scoppio di un incendio nella propria casa. In questa circostanza non perderò tempo a portare fuori ninnoli e soprammobili ma ciò che è più prezioso e più utile nell'emergenza. Però ogni crisi se viene riconosciuta come tale e non mascherata in altre cose, può essere il vero luogo del ritorno all'essenziale, cioè un tempo veramente propizio. Ci vengono incontro anche le moderne scienze umane. La psicologia dice che il malato senza speranza è il fariseo, quello che dice di essere a posto e di non aver bisogno del medico e ci raccomanda, in caso avessimo subito un evento doloroso, di non rimuovere il fatto ma di rimanere a contatto con la sofferenza. Siamo posti di fronte alla scelta tra ciò che è vitale in noi, ma ancora oscuro, e ciò che è rassicurante, in quanto noto, ma ormai privo di energie, come una familiare maschera di cera. La conversione, vale a dire: l'abbandono di parti di noi che riconosciamo prive di vita, non significa mettere il belletto al nostro vecchio io, ma viverne il terremoto e il tracollo, altrimenti non facciamo altro che dare un'altra imbiancata ai nostri soliti sepolcri. Convertirci significa immergerci nelle nostre zone d'ombra, nei nostri automatismi psichici, nelle nostre paralisi emotive. Una nuova vita o il rinnovamento di una vita può nascere solo da uno stato di abbandono autentico e dalla consapevolezza del proprio star male. Come dice il salmista "Il Signore è vicino a chi ha il cuore ferito, egli salva gli spiriti affranti" (sal34). Il Signore salva solo chi è affranto in quanto la ferita è la crepa nella calotta della nostra psiche egoica. Solo l'uomo affranto è "franto" cioè aperto davvero all'irruzione di ciò che chiamiamo salvezza e che è la ripresa della vita su un piano più dilatato e gioioso della mente e del cuore. Ecco perché sono beati gli afflitti. Essi saranno consolati, saranno inondati da quello spirito di vita che è perfetta gioia e consolazione. Chi, al contrario, si sente sano, non rotto, integro, non può implorare la salvezza con sincerità e non riceverà lo Spirito della nuova vita. Gesù è venuto per i peccatori e non per i giusti: "Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò" (Mt 11,28). (13) Il poeta-filosofo Marco Guzzi usa un'efficace metafora: il peccato è come un errore di trasmissione che corrompe l'emissione di tutto il programma, di tutta la creazione. Ma una nuova antenna è già in funzione ed è la Croce di Cristo. La Croce, innalzata duemila anni fa sulla terra, è l'antenna antropo-cosmica della nuova trasmissione in cui siamo tutti ritrasmessi bene. Questa è la buona novella, la salvezza attesa da secoli. Se noi non ci affidiamo alla nostra nuova nascita, all'esperienza di una radicale ritrasmissione di tutto il nostro essere, non potremo che fare ulteriori disastri, come tutte le schiere degli uomini che pretesero di fondare la giustizia sulla terra senza mutare il centro del proprio essere. Se il nostro sguardo è cieco è vano qualunque sforzo della vista. Se ci troviamo nello stato psichico ottenebrato della carne, tutto ciò che facciamo sarà comunque carnale e quindi falso, anche se pregassimo continueremmo a mentire. Qual è allora il modo di uscirne? Continuando con la stessa metafora: si tratta ogni volta di spegnere il nostro trasmettitore e di connetterci con l'altra regia; per poter entrare in contatto con questa realtà dello Spirito dobbiamo ogni volta abbandonare la nostra illusione egoica, la nostra pesantezza a volte paralizzante. Dobbiamo toglierci le lenti troppo a contatto dei nostri sensi immediati, cioè vincere una reiterata resistenza: lo spirito/legge della nostra gravità. Il pensiero della carne da superare ogni volta non è dunque solo la lussuria, ma l'intero assetto psichico ego-geo-centrato che vede le cose separate ognuna nel suo destino di morte e di annientamento. In tal senso, conclude l'autore che sto citando, si può benissimo rimanere carnali anche da monaci astinenti, in quanto l'egoità, come ogni maestro spirituale ha insegnato, si nutre abilmente dell'autosufficienza propria di tanti uomini religiosi. Tornando al nostro documento “Ritorno all’essenziale”, nel capitolo IV vengono dedicate diverse pagine all'esperienza e alla dottrina di S. Giovanni della Croce. La conclusione è: "servire Dio seguendo le sue orme (di Cristo) di mortificazione per tutto ciò che impedisce la risurrezione interiore dello spirito". Già il monaco eremita Evagrio Pontico insegnava che nell'unità fra Dio e l'intelletto creato regna una pace indicibile, ma che solo degli intelletti nudi si saziano costantemente dell'insaziabilità di questa pace". Sulla stessa onda Simeone il Nuovo Teologo:"Ognuno di noi si priva di beni indicibili in proporzione alle trasgressioni e alle negligenze commesse". (13a) Oggi, se pur volessimo dare adito a chi vorrebbe cancellare Giovanni della Croce dal panorama agiografico (14), è la scienza empirica stessa che ci insegna a diffidare dei nostri sensi e ci dice che l'invisibile, la dimensione energetica della materia, per esempio, è molto più reale del visibile. Allo stesso modo lo sviluppo delle scienze umane conferma molte antiche "tradizioni", come scrive Andrè Louf, la buona psicologia, per esempio, si incastra bene con la buona direzione spirituale e mai la smentisce. Ma non sto dicendo che sono la stessa cosa né che bisogna farne un idolo! Le scienze umane sono un supporto da cui non si può più prescindere, ma un credente deve necessariamente lasciare del posto anche all'azione dello Spirito, della Grazia e dei Sacramenti che lavorano e trasformano anche aspetti negativi di una personalità. (14a) Nell'introduzione del documento di cui stiamo trattando, nel paragrafo intitolato "Tendenze positive" ritrovo un punto molto importante, la constatazione di "una maggiore sensibilità alle esperienze religiose e mistiche come mezzo per un processo di liberazione e di crescita personale". Se, potenzialmente, ogni creatura umana può fare l'esperienza della vicinanza e dell'amore di Dio, sarebbe terribile che ciò venisse precluso proprio a chi ha scelto la vita religiosa e soprattutto quella carmelitana. "Là mi diede il suo petto / la scienza m'insegnò più saporosa / a lui mi donai / nulla per me serbai / e là promisi a lui d'esser sua sposa./ (...) O anime create per queste grandezze / e ad esse chiamate, che cosa fate?/ In che cosa vi intrattenete? / Le vostre aspirazioni sono bassezze / e i vostri beni miserie./ O misera cecità degli occhi / dell'anima vostra / poiché siete ciechi / dinanzi a tanta luce e sordi / dinanzi a così grandi voci, / e non vi accorgete che mentre andate in cerca di grandezza e di gloria / rimanete miseri e vili, / ignari e indegni di tanto bene." (15) Ritrovo anche nelle pagine più contemporanee di "Cristo e la nuova era", la stessa felice constatazione. Scrive l'autore: "le due grandi censure della modernità, quella scientistica e quella ideologica-materialistica che, fino a una ventina d'anni fa facevano della mistica un residuo antropologico per donnette isteriche o, peggio, per reazionari e fascisti, sembrano cadute. Ormai risulta fuori tempo chi si attardi su posizioni rigidamente atee o legate a una razionalità dogmatica di tipo positivistico". (16) Allora un progetto di ristrutturazione porterà inevitabilmente al recupero di quel pozzo senza fondo che è la mistica carmelitana, della "vera" mistica carmelitana, che agisce attivamente nella storia e nella realtà trasformandola dall'interno (17). Cosa c'è di più adatto dell'orazione carmelitana per "ridare respiro eterno alla storia quotidiana dell'uomo"? In un discorso ai vescovi dell'India nel 1979 Giovanni Paolo II aveva detto: "Lo Spirito Santo agisce e muove l'animo dei fedeli per illuminarli con l'intuizione della sua verità, e il loro cuore per infiammarli del suo amore. Il magistero della Chiesa non è contrario a queste percezioni della fede e a questo senso dei fedeli di cui lo Spirito Santo si serve come d'uno strumento e che sostiene con la sua forza". Dall'orazione noi riceviamo sollecitazioni a portare nel mondo "il piccolo tesoro di miele che andiamo raccogliendo lungo la nostra via". Lo Spirito, se da una parte sembra risucchiarci nella sua quiete, dall'altra sembra alimentare un continuo moto di rinvio nel mondo, nella storia, nel magma dei nostri giorni mortali per sanarli, per trans-figurarli, per divenire seme della terra. Questa è appunto la dinamica spontanea dello Spirito di Dio dopo Cristo: farsi carne temporale dell'uomo.(18) La vita nello Spirito non conduce perciò ad alcun assorbimento estatico. L'uomo che attinge in Cristo allo Spirito di Dio sembra piuttosto rinviato nel proprio mondo con una carica energetica nuova, per diventare una persona autentica, un vero io, l'immagine in cui fummo creati. E per diventare un Vero Io, ciascuno è chiamato a far rilucere nel proprio spazio tempo la luce trasformativa dell'Eterno. (19) Se il documento "ritorno all'essenziale" rischia di creare sconcerto è perché non siamo abituati a questa prospettiva. Qualcuno potrebbe ancora dire, nel nuovo millennio, che ci azzecca S. Giovanni della Croce con i problemi del terzo mondo e la globalizzazione? Cosa c'entra il sociale con la mistica? Io non credo che qualcuno voglia impedire o appesantire ad altri il "volo" ma che si voglia invece autenticizzarlo e proteggerlo da anacronistiche forme di autismo spirituale che stanno distruggendo la vita religiosa. Se il Signore ci concede il "volo" è per servizio non per privilegio, è per vedere meglio, per sentire meglio, per essere autentiche sentinelle nella notte. "In questo volare trascino con me/ tutti coloro che mi hai messo vicino/ tutti coloro che mi hai dato da amare/ non soffro di vertigini, o Signore / ma più sono in alto e più vedo sento e amo / ciò che rimane giù in basso; / è una vertigine d'amore che mi sospinge in questo volo celestiale." (20) Finora la coscienza dello Spirito è stata vissuta quasi sempre come coscienza mistica separata dal mondo oppure come amore caritatevole verso i margini del mondo. Se questo documento può stupirci è perché va contro una tendenza che rischia di farci cadere in una forma di religiosità anestetizzata e trans-genica, per usare un termine in voga, svuotata della croce, ripulita dalle spine, dai chiodi, da ogni rinuncia, da ogni sofferenza, piatta e rasserenante come certi spot pubblicitari, a cui viene impedito il suo compito principale, essere lievito, sale e fermento. Mentre sappiamo (è la prima intuizione dei mistici di tutte le epoche) che tutto è interconnesso: "il buco nero di un'Africa che affonda scava abissi di angoscia anche nelle quiete stanze delle nostre meditazioni". (20a) Se vogliamo veramente cercare Dio e incontrare il Cristo vivente in noi, continuo nel seguire il pensiero di M. Guzzi, non dovremmo protenderci al di là del tempo o della nostra esistenza quotidiana in chissà quali empirei disincarnati, ma dovremmo cercarli proprio nelle profondità degli eventi che viviamo: Cristo è il Senso emergente di questo mio tempo, Cristo è il Senso salvifico di questa precisa fase della mia esperienza. (21) Accettare umilmente la propria condizione di peccato, di fragilità, di piccolezza, di vulnerabilità, nonostante tutte le nostre belle invenzioni, non solo ci innalza agli occhi del Creatore, ma ci mette al riparo da paranoici deliri di onnipotenza. Abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo, in quest'ultimo secolo (e il documento "Ritorno all'essenziale" è perfettamente in linea con questa tendenza) alla caduta delle nette separazioni tra spirito/materia tra corpo/anima, sacro/profano, privato/pubblico, oriente /occidente, uomo/donna, e così via. Nello stesso tempo assistiamo agli sforzi per una nuova riconiugazione delle stesse categorie. Ciò costituisce un passo in avanti verso quel mistero dell'integrazione e della riconciliazione di tutti gli opposti che noi chiamiamo Gesù Cristo e ci rappresentiamo nel segno della croce. "Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia". (22) Stiamo dando vita a un uomo che incomincia a vivere la propria corporeità, la propria cosmicità, la propria storia concreta e quotidiana, come misteri spirituali, senza separazioni, cioè a un uomo che si sente meno separato da Dio, che sente Dio dentro di sé. E non è questo il cuore del mistero di Cristo? Il Dio che si fa uomo per coniugare l'uomo con Dio? E in questi duemila anni di storia cristiana quante separazioni abbiamo ancora costruito e legittimato? Quante mediazioni sacerdotali gestite come strumenti di dominio sulle coscienze e spesso anche sui corpi degli uomini? (23) Questo mondo ci regge, noi esseri tri-dimensionali in "croce" e noi possiamo "reggerlo" meglio solo "in croce". E' anche una legge fisica, la croce è l'asse del mondo, la croce è l'equilibrio tra la nostra natura terrena e quella celeste, siamo mediatori tra due mondi e riappacificati interiormente possiamo (e dobbiamo!) riappacificare l'intero universo. Questa è la nostra grandezza, che persino gli angeli ci invidiarono, guai a dimenticarlo! Il documento "Ritorno all'essenziale" ci mette in guardia da due tipi di pericoli: l'irrigidimento in figurazioni morte del passato e la dissoluzione per mutamenti troppo affrettati. Il primo pericolo consiste in vecchi ruoli stantii, identificazioni personali o etniche o religiose vissute come recinti di difesa, fondamentalismi vari, arroccamenti negli schemi mentali della vecchia scienza materialistica. Il secondo pericolo consiste nelle caratteristiche distruttive di un certo tipo di modernità: immoralismi, avanguardismi e travestitismi vari per cui ogni trasgressione è vista come una liberazione e ogni perdita di identità come una transfigurazione. Ma è giusto in questo contesto passare dal piano più filosofico a quello dello specifico che stiamo trattando, cioè la vita religiosa. Se è triste vedere comunità estinguersi per asfissia dovuta al primo pericolo, cioè irrigidimento e chiusura, è altrettanto triste vedere comunità morire per il motivo opposto, cioè, nella smania del rinnovamento e dell'apertura, buttare alle ortiche tutto, smarrendo la propria identità e dissolvendosi dietro ogni mondana moda. La verifica è la stessa carenza vocazionale che affligge sia le comunità asfittiche che quelle mondane. E' chiaro che un'anima veramente toccata dall'amore di Dio pronta a fargli dono della sua esistenza non si ritrova nel primo modello come nel secondo. Da una parte trova un Dio de-vitalizzato dall'altra può trovare di tutto tranne che Dio Vivo, Vero, Eterno. Ciò che Dio compie quando vuole avvicinare a sé una creatura è un capolavoro di dolcezza, delicatezza e perfezione, è una vera e propria gestazione. Quanto danno si può arrecare alla persona intervenendo in modo inappropriato! Si dovrebbe chiedere in preghiera insieme al dono delle vocazioni anche la capacità di saper accogliere le nuove vocazioni, perché non è affatto scontato che in questa fase di passaggio lo si faccia nel modo corretto. Ma l'aurora nuova è già in atto, non è ancora alba ma è già aurora! Le tenebre si dilegueranno presto. La vigna ricomincerà a dare uva buona, i muti ricominceranno a parlare, si apriranno le orecchie dei sordi, le mani atrofizzate riacquisteranno vigore, i paralitici riprenderanno a camminare. L'umanità, intimamente riconciliata, riconcilierà a sé anche le cose. Tutto diverrà un unico canto, un'unica melodia riempirà l'universo, e nuovi mondo verranno creati da questo smisurato afflato amoroso. "Splendi, sole dell'anima mia, / splendi forte, caccia via tutte le tenebre, / splendi e spenditi interamente, fino in fondo, / attraversa e smembra le putrefazioni del peccato / i bubboni demoniaci, / splendi sempre, / non farti spegnere dai morti viventi, / dai corpi senz'anima, / dalle anime senza corpo, / da chi vive una vita senza sogni,/ da chi sogna senza avere vita, / splendi sole dell'anima mia / non farti intimidire dalla persecuzione / perché come pietra preziosa intarsiata / tu dopo splenderai più forte.” (23) Maria Letizia Azzilonna (14-10-2000) Note 1. S. Teresa Benedetta della Croce "Storia e Spirito del Carmelo - Scritti spirituali" ed. OCD; 2. S. Teresa Benedetta della Croce "Il profeta Elia" - "Scritti spirituali" ed. OCD; 3. J. Sleiman "Teresa di Lisieux o l'intelligenza del cuore" in "Teresa di L. genio e santità", ed. Teresianum; 4. Alessandro Vella O. Carm., in "Spiritualità eliana" Roma 1995; 5. H.H. Rowley, Elijah on Mount Carmel - Men of God - London 1963; 6. Alessandro Vella O. Carm., in "Spiritualità eliana" Roma 1995; 7. S. Teresa Benedetta della Croce "Amore per amore, vita di S. Teresa di Gesù", in Scritti Spirituali, ed. OCD; 8. Origene "Omelie Genesi - Esodo", Ed. Paoline; 9. André Louf "Lo Spirito prega in noi", Ed. Qiqaion, 1995; 10. André Louf "Lo Spirito prega in noi", Ed. Qiqaion, 1995; 11. "Lettere di Chiara d'Assisi ad Agnese di Boemia", Piccola B. Adelphi, 1999. 12. André Louf "Lo Spirito prega in noi", Ed. Qiqaion, 1995; 13. Marco Guzzi "Cristo e la nuova era" Paoline 2000; 13a. Gabriel Bunge su Evagrio P. "Akedia il male oscuro", 1999 Ed.Qiqajon; e Simeone Il Nuovo Teologo "La visione della luce", Ed. Messaggero Padova 1992. 14. In un articolo firmato da Marco Vannini e pubblicato da Avvenire (16-6-99) si legge che Giovanni della Croce poteva benissimo essere una specie di "maestro di yoga per via di alcune coincidenze profonde tra la mistica sanjuanista e quella dell'India" e poi si legge che "in tutta l'opera sanjuanista non si fa gran conto della Chiesa e dei sacramenti". La conclusione di questo "esperto" è che S. Giovanni della Croce era più che altro un poeta "non a caso egli si esprime volentieri assai meglio che nei tentativi sistematici, nella poesia, cantando mirabilmente nell'amore il principio e la fine di tutto". Molto più completa la visione di Jean Baruzi "Jean de la Croix" in "Histoire générale des religions" Aristide Quillet Ed. 1947. "Uno studio approfondito del Cantico Spirituale e della Fiamma viva d'amore mostrerebbe in S. Giovanni della Croce un rigore di ordine poetico e un rigore di ordine logico intimamente collegati. Ogni esposizione delle nozioni e, inversamente, ogni ricostruzione delle immagini che separassero i due ordini di pensiero tradirebbero la pienezza della sua esperienza lirica e simbolica. (...) Il punto è che Giovanni della Croce ha la duplice precisione di un poeta molto sicuro delle sue immagini e di un logico i cui fondamenti non abbandonano mai la solidità". 15. S. Giovanni della Croce, Cantico Spirit. strofa 27 e 39; 16. M. G. "Cristo e la nuova era", Paoline 2000; 17. Il teologo Bruno Forte in "Teologia in dialogo" (Raffaello Cortina Editore, Milano 1999) cita S. Teresa Di Gesù e S. Giovanni della Croce riguardo alla "forza" attiva di trasformazione della storia che loro possedevano. 18. Marco Guzzi "Cristo e la nuova era" Paoline 2000; 19. Ibidem; 20. Maria Letizia Azzilonna, Poesie; 20a M. G. "Cristo e la nuova era", ed. Paoline 2000; 21. Ibidem; 22. S. Paolo agli Efesini 2, 14-17; 23. Maria Letizia Azzilonna "Le trombe di Giosué", Poesie. (scritti sulla vita consacrata 1999-2000).