giovedì 28 agosto 2014

Letture estive: "La società impersonale" di E. Manna

Letture estive: tratto da Elisa Manna “La società impersonale”, in “Scuola e formazione”, n.1/2, 1914. Le politiche per accrescere il capitale d’istruzione nel nostro Paese devono aver avuto qualche falla: se si prende in esame il numero dei laureati in Italia, comparato con il dato degli altri paesi europei (EU 27) si scopre che siamo battuti in negativo solo dalla Romania, che ha il 13,6% laureati ogni 100 abitanti, mentre l’Italia ne ha “ben” 13,8. Svezia, Regno Unito, Finlandia, tanto per citarne alcuni, ne hanno circa il triplo. Si potrebbe dire che il numero dei laureati non è di per sé segno della crescita di consapevolezza di una popolazione. Nel 2011 il linguista De Mauro ha denunciato come, da autorevoli indagini internazionali emerga che oltre il 70% della popolazione italiana si trovi al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà; che il 5% non è neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33% è a rischio di analfabetismo di ritorno e che, non più del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana. “La società impersonale è innanzitutto una società afasica, che non ha cultura sufficiente, non ha sufficiente istruzione”, ha detto De Mauro. Questa alfabetizzazione disturbata e contratta, non ha ricadute solo sulla dimensione lavorativa o degli studi, ha evidenti ricadute nella capacità di esprimere sentimenti, emozioni, che siano appena più sfumati rispetto all’internettiano “mi piace”, nelle relazioni affettive, amicali, familiari. E porta ad organizzare la propria vita intorno agli istinti. Un ingorgo di emozioni che non ha parole per essere espresso, i pensieri per essere pensato. E che forse è alla base di tante vicende di prevaricazione e violenza.

Letture estive: "Scritti sull'educazione", B. Russel, II parte

Da “Scritti sull’educazione”, B. Russel, 1916-1931 (II parte) Di solito gli educatori istillano certi abiti mentali quali l’obbedienza e la disciplina, la spietatezza nella lotta per il successo mondano, il disprezzo verso i gruppi opposti, una credulità assoluta e un’accettazione passiva della sapienza del maestro. Invece dovremmo tendere a conservare l’indipendenza e l’impulso vitale, invece della spietatezza l’educazione dovrebbe cercare di sviluppare nella mente la giustizia. Al posto del disprezzo, essa dovrebbe inculcare il rispetto e lo sforzo intellettivo, e a proposito delle opinioni altrui non dovrebbe produrre necessariamente l’acquiescenza, ma solo un tipo di educazione all’opposizione, unito all’intuizione e a un chiaro riconoscimento delle vere cause dell’opposizione stessa. In luogo della credulità, bisognerebbe stimolare il dubbio costruttivo, l’amore per l’avventura mentale, il senso dei mondi da conquistare con l’iniziativa e la chiarezza del pensiero. Le cause immediate di questi ma li sono l’accontentarsi dello status quo e la dipendenza di ogni singolo allievo dalle finalità politiche proprio per l’indifferenza ai problemi intellettuali. Ma al di sotto di queste cause ne esiste una più essenziale, il fatto che si considera l’educazione un mezzo per acquisire un certo potere sullo scolaro e non per nutrirne lo sviluppo. Proprio qui si manifesta la mancanza di rispetto per i ragazzi, e solo con un maggior rispetto di essi si può ottenere una riforma di base. Si crede che siano indispensabili obbedienza e disciplina, ma questo è vero sino a un certo punto. In determinati casi possono essere necessarie entrambe, infatti i fanciulli riottosi, i pazzi, i criminali possono aver bisogno dell’autorità ed essere costretti all’obbedienza. Ma quando ciò è necessario è una sfortuna e bisogna desiderare la libera scelta di finalità con le quali non è opportuno interferire. Alcuni riformatori dell’educazione hanno mostrato che ciò è realizzabile molto più di quanto non avrebbero creduto i nostri padri. (Ha quasi del miracoloso quel che la signora Montessori è riuscita ad ottenere, riducendo al minimo l’obbedienza e la disciplina a vantaggio dell’educazione.) Quel che fa parere necessaria l’obbedienza nelle scuole sono le classi numerose e gli insegnanti oberati di lavoro, quali assurde pretese di una errata economia. Chi non ha mai insegnato non è in grado di immaginare le energie che si spendono in una educazione realmente viva, e ritiene che agli insegnanti si possa giustamente richiedere un numero di ore di lavoro pari a quello degli impiegati di banca. Il risultato di questo è una stanchezza intensa, un’acuta sensibilità nervosa e un’assoluta necessità di svolgere il lavoro quotidiano in modo meccanico. È ovvio però che l’attività dell’insegnante non può svolgersi in modo meccanicamente, salvo che non si esiga l’obbedienza. Se considerassimo seriamente l’educazione il nostro modo di impostarla sarebbe differente anche se il costo fosse cento molte maggiore. Per molti uomini e donne è una gioia insegnare bene, e questo si può fare con un vigoroso entusiasmo e una vivacità tali da riuscire a interessare la maggior parte degli scolari senza ricorrere alla disciplina. Quei pochi che non riusciremo ad interessare si potrebbero separare dagli altri e offrirgli un tipo diverso di istruzione. Un insegnante dovrebbe insegnare solo quando riesce a farlo con piacere e avendo consapevolezza dei bisogni mentali degli scolari. Fra insegnante e alunno dovrebbe stabilirsi un rapporto amichevole e non ostile, un riconoscimento da parte degli scolari che l’educazione giova a sviluppare la loro vita e che non è una mera imposizione dall’esterno, la quale impedisce di giocare e richiede molte ore di immobilismo. Tutto ciò che è necessario a questo fine è un maggior contributo in denaro, così da assicurarsi degli insegnanti con più tempo libero e con un amore naturale per l’insegnamento.

mercoledì 27 agosto 2014

Letture estive: Russel, Scritti sull’educazione

Liberamente tratto da Bertrand Russel “Scritti sull’educazione (1916-1931) Il primo saggio di carattere educativo venne pubblicato da Bertrand Russel nel 1916 sulle colonne di Atlantic Monthly. Nel 1927 apre la scuola di Beacon Hill, diretta da entrambi i coniugi Russel. Uno degli scopi dell’educazione, era l’assioma della scuola, “deve essere quello di preparare degli uomini che abbiano una libera intelligenza, unita ad un carattere felice”. Il potere dell’educazione nell’ambito della formazione del carattere è enorme ed universalmente riconosciuto. Inoltre, nota Russel, le autentiche credenze dei genitori e degli insegnanti, ma non in genere i precetti professati, vengono acquisite quasi inconsapevolmente dalla maggior parte dei fanciulli. Anche se poi se ne allontanano, qualcosa resta radicato profondamente, pronto a riemergere in un periodo magari di crisi. Secondo Russel, l’educazione è l’energia più potente che favorisce lo status quo, le istituzioni, quando hanno il potere dalla loro parte, si impadroniscono della macchina educativa e istillano nelle menti malleabili dei giovani il rispetto per la loro perfezione. I riformatori replicano tentando di cacciare i proprio avversari dalla loro posizione di vantaggio… In vero, spiega Russel, nessuna delle due parti ha rispetto per i fanciulli, considerati così poco importanti, da essere arruolati in una schiera o nell’altra. Se si avesse rispetto per loro, l’educazione non aspirerebbe a farli appartenere a questo o a quel partito, ma tenderebbe a porli in grado di pensare e a non far sì che pensino quello che vogliono i loro insegnanti. L’educazione come arma politica non potrebbe esistere se rispettassimo i diritti dei fanciulli, se ciò accadesse noi li educheremmo in modo tale da offrirgli il tipo di sapere e gli abiti mentali necessari alla formazione di opinioni indipendenti; mentre l’educazione come istituzione politica tenta di formare abiti mentali e di circoscrivere il sapere così da rendere inevitabile una determinata direzione delle opinioni. Nell’educazione l’autorità, entro ceri limiti, è inevitabile, gli educatori devono trovare il modo di esercitarla secondo lo spirito della libertà. Dove è necessaria l’autorità, è indispensabile il rispetto, e chi deve educare veramente bene e fare in modo che i giovani crescano e si sviluppino appieno, non può non essere pervaso completamente dallo spirito del rispetto. Chi sostiene i ferrei sistemi meccanici, ad es. il militarismo e tutte le altre carceri in cui riformatori e reazionari tentano di catturare lo spirito umano, non ha proprio rispetto verso gli altri. Nell’educazione, con i regolamenti codificati emanati da un ufficio governativo, con le classi numerose, il programma già stabilito e i maestri oberati di lavoro eccessivo, insieme al proposito di produrre uno sterile livello di piatta mediocrità, è quasi universale la mancanza di rispetto per il fanciullo. Rispetto che richiede immaginazione e calore vitale, e inoltre il massimo di comprensione possibile per i meno dotati o per i più deboli. Il fanciullo è debole e superficialmente sciocco, mentre l’insegnante è forte e più saggio. L’insegnante o il burocrate che non hanno rispetto per i fanciulli, li disprezzano facilmente per questa apparente inferiorità. Ritiene che sia suo dovere “plasmare” il fanciullo e nella sua fantasia si comporta come il vasaio alle prese con la creta. Così egli dà una forma innaturale che col tempo si indurisce e produce tensioni nervose e insoddisfazioni spirituali, dalle quali nascono crudeltà, invidia, convinzione che gli altri debbano sopportare le medesime frustrazioni. Chi rispetta gli altri, non penserà minimamente che il suo dovere sia “plasmare” qualcuno; egli sente che in tutti gli esseri viventi, in modo particolare nei giovani, qualcosa di sacro, di indefinibile, di illimitato, qualcosa di individuale e di stranamente prezioso, il principio della vita che cresce, un frammento incarnato dello sforzo silenzioso del mondo. Al cospetto di un fanciullo egli sente una umiltà inesprimibile, una umiltà che non è facile giustificare razionalmente e tuttavia in un certo qual modo più vicina alla saggezza di quanto non lo sia la facile sicurezza di sé di molti genitori e insegnanti. L’evidente impotenza del fanciullo e il suo ricorso al senso di dipendenza, lo rendono consapevole della responsabilità della fiducia in lui riposta. L’immaginazione gli mostra ciò che bene o male può diventare il ragazzo, come i suoi impulsi possono essere sviluppati o frustrati, come le sue speranze non possono non essere offuscate e la sua vita farsi meno viva… Tutto ciò lo rende desideroso di aiutare il fanciullo ad avere successo. Egli (l’insegnante) vorrebbe dotarlo bene e rinvigorirlo non per una finalità esterna proposta dallo Stato o da qualche autorità impersonale, ma per i fini che lo stesso spirito del fanciullo va perseguendo poco chiaramente. Chi è sensibile a questi problemi può esercitare l’autorità che spetta a un educatore, senza violare il principio della libertà.. Certamente gli Stati, un certo tipo di Chiesa, le grandi istituzioni loro sottoposte, non dirigono l’educazione secondo il principio del rispetto dei giovani, quasi sempre il fine dell’educazione non è il ragazzo o la ragazza, ma il mantenimento dello status quo. Qualora si tenesse conto dell’individuo è in vista del successo mondano, per far soldi o raggiungere una buona posizione. Quasi tutta l’educazione ha un movente politico poiché tende a consolidare qualche gruppo, nazionale o religioso o anche sociale, in concorrenza con altri gruppi. E’ questo che determina le materie insegnate, il sapere elargito e quello celato, e che decide anche quali abiti mentali devono acquisire gli allievi. Nulla si fa per promuovere la crescita interiore della mente e dello spirito; per la verità, chi ha fruito maggiormente dell’educazione molto spesso ha una vita mentale e spirituale atrofizzata, priva di impulso e dotata soltanto di certe abitudini meccaniche che sostituiscono il pensiero vivo. L’istruzione attuale, spiega Russel, è realmente nociva nel campo della storia, della religione e in altri argomenti controversi che toccano gli argomenti che tengono in vita le scuole, perché è proprio su questi argomenti che si possono instillare determinate opinioni. In ogni paese si insegna la storia trionfalisticamente, cioè i bambini imparano a credere che il loro paese abbia avuto sempre ragione e quasi sempre vinto, che esso abbia dato i natali a quasi tutti i grandi uomini e che sotto ogni aspetto sia superiore ad ogni altro paese. Queste convinzioni sono lusinghiere e vengono assorbite facilmente e il sapere successivo non riesce quasi mai a rimuoverle dall’istinto dell’uomo. Per esempio i fatti della battaglia di Waterloo, sono conosciuti per filo e per segno ma la loro versione presentata nelle scuole sarà diversa in Inghilterra, in Francia, in Germania. Il ragazzo inglese comune immagina che i Prussiani non siano stati in grado di dominare la situazione; quello tedesco che Wellington era praticamente sconfitto quando la vittoria venne recuperata dal valore di Blucher… Questo risultato bisogna evitarlo, ogni Stato vuole stimolare l’orgoglio nazionale e sa bene che ciò non è possibile in una storia obbiettiva. Se si desiderasse fondare buone relazioni tra gli Stati, una delle prime misure da prendere dovrebbe essere quella di demandare qualsiasi insegnamento storico a una commissione internazionale che dovrebbe pubblicare libri di testo imparziali e liberi dal pregiudizio patriottico. Lo stesso vale per la religione, perché le scuole sempre sono in mano a qualcuno che ha un cero orientamento religioso o non ne ha nessuno… quando la scuola svolge una milizia di tipo laico, le scuole statali sono dogmatiche al pari di quelle gestite dalle Chiese. Ho sentito raccontare che in una certa scuola è proibito pronunciare la parola “Dio”. Il risultato è lo stesso, cioè si tiene a freno la libera indagine sull’argomento più importante el mondo e il giovane va incontro al dogma o al silenzio di tomba. Dopo aver criticato alcune istituzioni educative come Eton e Oxford, perché producono il culto della buona forma, incompatibile con l’autentica apertura mentale, in quanto fondata sulla presunzione, Russel spiega come finché lo scopo dell’educazione sarà quello di produrre credenze, piuttosto che capacità di giudizio, e di esigere che i giovani abbiano precise opinioni intorno ad argomenti dubbi piuttosto che fargliene vedere il carattere incerto e incoraggiarli nell’indipendenza intellettuale, è inevitabile che venga ostacolata la libera indagine. L’educazione dovrebbe incoraggiare il desiderio della verità e non il convincimento che un qualche credo particolare sia la verità. In questo modo accade che si perverta la natura del fanciullo e si limiti la sua libera prospettiva, coltivando inibizioni che frenano il sorgere di idee nuove. In chi non ha la mente particolarmente sveglia, ciò dà luogo all’onnipotenza del pregiudizio; mentre quei pochi il cui pensiero non può essere completamente distrutto diventano cinici, intellettualmente disperati, negativamente critici, capaci di far parere assurdo tutto quel che è vita ed incapaci di fornire gli impulsi creativi che distruggono negli altri. Breve ed inutile il successo che si ottiene sopprimendo la libertà di pensiero, alla lunga il vigore mentale è essenziale al successo, come lo è per la vita buona… chi ama i paralleli tratti dalla storia antica mostrerà la vittoria di Sparta su Atene per imporre la sua morale. Ma è Atene e non Sparta che ha fatto presa sul pensiero e sulla fantasia degli uomini. Se potessimo rinascere in quell’epoca passata, ognuno di noi preferirebbe essere nato ateniese anziché spartano. Educare alla credulità porta celermente al deperimento mentale, solo tenendo vivo lo spirito delle libera ricerca si può ottenere il minimo indispensabile di progresso. (continua)

Letture estive: nuova biografia di S. Pio X


Pio X, alle origini del cattolicesimo contemporaneo, Gianpaolo Romanato, 2014, Lindau Torino.
La recente biografia di Gianpaolo Romanato sulla figura di Papa S. Pio X pubblicata dalla Lindau, ci restituisce una immagine nuova, vera e umana di un pontefice la cui canonizzazione non è riuscita ad eliminare pregiudizi e interpretazioni errate della sua poliedrica personalità e di tutto il suo pontificato. Tra coloro che hanno contribuito a gettare ombre di oscurantismo su Papa Sarto, fa notare l’autore, si potrebbe ad esempio menzionare il gruppo scismatico dei  seguaci di Mons. Lefebvre che ha voluto intitolare la Fraternità sacerdotale proprio a S. Pio X. Uno degli aspetti più interessanti di questo testo è quello di presentarci dei quadri storico-sociali molto dettagliati degli ambienti in cui si è sviluppata la personalità di Giuseppe Sarto, è veramente appropriato il sottotitolo del testo “alle origini del cattolicesimo contemporaneo”.
Il futuro Papa nasce in una famiglia semplice e cristiana a Riese, inizialmente non indigente, ma lo diverrà in seguito, deve anche lottare (contrariamente a quanto affermano altre biografie), per seguire la sua inclinazione che lo portava verso il sacerdozio, sembra infatti che il padre, impiegato per l’amministrazione asburgica, non fosse favorevole. Quando questi scompare prematuramente, rimane solo la madre a sostenere la famiglia con il suo lavoro di cucito. Il giovane, per frequentare il Ginnasio a Castelfranco, ogni giorno percorre 7 chilometri a piedi all’andata e altrettanti al ritorno.
L’ostacolo maggiore per le sue aspirazioni al sacerdozio, era quello economico, i proventi familiari erano troppo deboli per sostenere le spese di una retta. Fu per questo che il futuro pontefice finì nel Seminario di Padova, dove vi era l’uso di accogliere un certo numero di studenti che necessitavano di borsa di studio, come diremmo oggi. Tra le sue innate passioni la musica, che lo accompagnerà per tutta l’esistenza, fino al punto da pubblicare nel 1903, solo tre mesi dopo l’inizio del suo pontificato, “Tra le sollecitudini”, un motu proprio per la riforma della musica sacra.
Mentre il sistema previsto dalla pax austriaca trasformava il prete in un funzionario statale addetto al culto, Giuseppe Sarti chiede di continuare gli studi alla facoltà di teologia universitaria e non in quella diocesana, con la motivazione di voler studiare le lingue orientali. Nel 1858 viene consacrato sacerdote a Treviso.  Aveva ventitré anni, uno in meno secondo il regolamento, così fu necessaria una dispensa speciale dalla Santa Sede. Il suo primo incarico è quello di cappellano e aiuto parroco a Tombolo, povero paese in provincia di Padova e diocesi di Treviso. Ma le sue condizioni non sono da meno, calza ai piedi le galozze, le tipiche scarpe di legno dei contadini, si deve districare tra i debiti contratti per aiutare la famiglia, ma ciononostante, insegna alla scuola serale ai poveri analfabeti esortandoli a migliorare la loro condizione. Costruisce meridiane, come hobby,  le  firma, “Opera del Rev.do Don Giuseppe Sarto Cappellano di Tombolo”, (alcune si conservano ancora, per esempio ad Onara e Galliera).
Per le sue spiccate capacità oratorie il Vescovo lo vorrebbe professore di grammatica in seminario, ma lui rifiuta e preferisce rimanere tra la gente. Nove anni dopo viene mandato come parroco a Salzano, qui viene accolto dalla pellagra, tipica malattia dell’epoca che colpiva coloro che si nutrivano quasi esclusivamente di polenta e dalla diffidenza dei paesani che erano abituati a vedere un certo tipo di clero benestante, per lo meno in grado di aiutare quel terzo delle famiglie del paese  iscritte nell’elenco della pubblica assistenza. Eppure si raccontano numerosi aneddoti sulla generosità del giovane parroco che, pur di aiutare il suo gregge, si toglieva a volte letteralmente il cibo dalla bocca, donando a chi bussava alla sua porta, il pasto che stava preparando per sé. Stessa cosa faceva con gli abiti, soprattutto con le camicie che gli venivano cucite dalla madre. Quando lasciò, sempre dopo nove anni Salzano, fu composta questa filastrocca: “El xé vegnùo con la veste sbrìsa, el xé partìo senza camìsa”.
Di questi anni rimasero nella memoria del luogo il suo interesse per l’educazione giovanile che aveva toni alla Don Milani, la sua invettiva contro certi insegnanti che vedeva inadatti al loro ruolo. Nel 1875 viene nominato dal Vescovo di Treviso, canonico della cattedrale, cancelliere vescovile e direttore spirituale del seminario. Aveva quarant’anni. Scrive ad un amico di aver pianto amaramente lasciando i suoi parrocchiani, i suoi scolaretti, i suoi poveri e i suoi fiori.
Le testimonianze di questa fase della sua vita raccontano con meraviglia i suoi ritmi di lavoro. Si diceva che lavorava per tre! Il 16 novembre del 1884 viene consacrato vescovo a Roma a Sant’Apollinare, dal cardinale Parocchi, vicario di Papa Leone XIII. Non ha compiuto ancora 50 anni ed è vescovo di una difficile diocesi, Mantova. La sua prima preoccupazione è quella del risanamento del seminario. Anche qui abbondano gustosi aneddoti sulle sue originali maniere per risvegliare la coscienza di qualche sacerdote un po’ impigrito. Vi sono comunque alcune costanti nel comportamento che sempre lo contraddistinguono, il dormire poche ore per notte e il temperamento facile ad accendersi.  L’autore della biografia non ne fa mistero, rendendo in questo modo più autentica la storia di questo Papa e tutte le testimonianze raccolte sulla sua vita.
In questi anni ha modo di conoscere il giovane musicista Lorenzo Perosi, con cui inizierà a collaborare sulle questione della riforma della musica liturgica che tanto gli stava a cuore, di lui scrisse in una lettera “uomo che cammina per lo più nelle nuvole, ma musicista di straordinario talento”. Quando ebbe la nomina di Patriarca di Venezia, nel 1893, Perosi divenne Direttore della Cappella di S. Marco e poco dopo Direttore della Cappella Sistina a Roma. Si racconta a riguardo di un forte intervento del futuro pontefice in un convegno sul tema della musica liturgica in cui biasimò certi suoni e canti indegni della Chiesa e concluse dicendo che “se Cristo venisse di nuovo in persona a flagellare i profanatori del tempio, i primi colpi non cadrebbero questa volta sulle spalle del popolo”.
Giuseppe Sarto, divenuto cardinale e Patriarca di Venezia, dovette però attendere dalla nomina, avvenuta nel giugno del 1893, fino al 24 novembre dell’anno successivo per prendere possesso della sua sede con la piena titolarità delle funzioni a motivo dell’exequatur, vecchia normativa abolita solo con il Concordato del 1929.
Venne eletto Papa il 4 agosto 1903, tra le sue scelte più spiazzanti ci furono la nomina della sua segreteria, con a capo il giovane poliglotta spagnolo Raffaele Merry del Val, le modifiche del cerimoniale e di un certo formalismo barocco, soprattutto riguardo al bacio del piede, agli applausi, all’uso del codazzo di gente ogni qualvolta si muoveva, la rimozione di animali esotici che impreziosivano l’ambiente. Erano trascorsi solo trentatré anni da Porta Pia e molti furono i mugugni curiali per la sua ascesa alla tiara, Sarto veniva dal popolino, non aveva una goccia di sangue nobile nelle vene, “non gradiva i fasti di corte… confidava nell’aiuto di Dio più che nelle arti mondane, trascurava la politica, diffidava del personale della Curia, faceva filtrare ogni cosa dalla sua segreteria personale, formata da uomini di sua esclusiva fiducia”. Fece scalpore il caso dell’arcivescovo di Firenze, Alfonso Mistrangelo, che Pio X non volle mai nominare cardinale per contiguità massoniche e dubbi sul comportamento morale.
Tra le sue prime preoccupazioni la compilazione del Codex, vero monumento della scienza giuridica, che richiese circa tredici anni e che venne promulgato tre anni dopo la sua morte, nel 1917. Il pontefice successivo, Benedetto XV affermò: “ se non gli fu dato di compiere questa impresa, nondimeno Egli solo deve ritenersi l’autore del Codice, e perciò il suo nome sarà celebrato dai posteri”. Pio XII, nel discorso per la beatificazione di Papa Sarto, indicò nella codificazione del diritto canonico il capolavoro del suo Pontificato. Vittorio Emanuele Orlando ancora più esplicitamente indicò come il Codex dava a Pio X nella storia del diritto canonico, lo stesso posto che ha Giustiniano nella storia del Diritto Romano. Naturalmente oggi, fa notare Romanato, noi vediamo tutti i limiti del codice pio-benedettino ad un secolo di distanza, tuttavia ciò non può annullarne il valore storico-religioso almeno fino al Concilio Vaticano II.
Al termine di un lavoro di tre anni, viene pubblicato il celebre catechismo di S. Pio X, con le domande ridotte a meno di 500 rispetto alla precedente versione. Consensi e critiche non hanno comunque impedito che questo testo sia stato la base formativa di almeno tre generazioni di cattolici. La riforma del Breviario e del calendario liturgico furono realizzati nel 1911 con la costituzione Divino Afflatu. Venne riportata la Domenica, dies Domini, al centro del calendario. Con il decreto Tridentina Synodus, all’inizio del pontificato, promosse la comunione frequente, anche quotidiana e soprattutto quella dei bambini. Pio XII disse in occasione della beatificazione che il suo predecessore fu “colui che seppe abbattere le barriere che tenevano lontano i bambini dal loro Amico dei tabernacoli”.
Nel testamento si raccomandò ai monsignori che la sua salma non fosse “tocca e imbalsamata”. Chiedendo, contro la consuetudine, che fosse esposta per poche ore e subito tumulata nei sotterranei di S. Pietro.