lunedì 31 agosto 2009

Tra ragione e contemplazione


Pensare l'’uomo tra ragione e contemplazione
Paola Ricci Sindoni al VI Simposio Europeo dei Docenti Universitari
presso la Pontificia Università Lateranense.

* * *

“Io sono soltanto uno dei tuoi minimi

che guarda alla vita dalla sua cella, e che,

estraneo più agli uomini che alle cose, non osa

soppesare ciò che accade. Tuttavia, se mi vuoi

davanti al tuo volto, di cui si levano scuri gli occhi,

allora non considerare la mia una presunzione

se ti dico:nessuno vive la sua vita. Casi, sono

gli uomini:voci, frammenti,quotidianità, angoscia,

molte piccole fortune;

travestiti già da bambini, mascherati:

loquaci in quanto maschere

muti in quanto volti”



Reiner Maria Rilke




Nessuno vive la sua vita: l’aforisma amaro e crudo del poeta tedesco, Reiner Maria Rilke (1875-1926), sembra infliggere un colpo mortale alle ottimistiche previsioni sull’esistenza umana e sulla sua storia, maturate in Occidente alla fine del secolo XIX. Paiono già intravedersi, in questa sofferta celebrazione del disincanto, gli eventi tragici che, di lì a poco, avrebbero raso al suolo la civiltà europea con il suo altissimo costo di vite umane sacrificate all’orrore di due guerre
mondiali.

Sulle macerie della speranza si eleva il canto triste e deluso del poeta, che è uomo divorato dalla nostalgia degli spazi larghi, asfissiato più di chiunque altro per le ristrettezze che deve sopportare, avido di realtà e di intimità con tutte le forme possibili del Bene e del Vero. Ricercando in modo insaziabile la parola innocente, pura, è comunque in grado di definire con lucidità e con profetica preveggenza la tragica situazione dell’uomo contemporaneo, afflitto dall’impotenza a porsi le giuste domande e dall’estraneità a condurre relazioni appagate con gli altri suoi simili.

Guarda così “alla vita dalla sua cella” –continua impietoso Rilke- con rassegnata stanchezza, non oppresso dalla disperazione, neppure esaltato dalla rivolta, ma prigioniero di una delusione costitutiva, che lo rinchiude dentro le pareti rassicuranti dell’irrealtà. Perché di questo si tratta, se la vita –quella vera- sembra lontana, posta sempre oltre i penosi limiti delle sue possibilità.

Non c’è neanche la traccia di un pessimismo nichilista, nelle parole del poeta tedesco, ché, anzi, preferisce rivolgersi al Dio sconosciuto e innominabile: “se mi vuoi davanti al tuo volto, di cui si levano scuri gli occhi, allora non considerare la mia una presunzione se ti dico: nessuno vive la sua vita”, come recitano i versi posti qui in esergo.

L’impossibile comunicazione fra gli uomini, chiusi dentro la loro cella, non impedisce di ricercare un improbabile dialogo con l’assoluta Alterità, il cui volto, dagli occhi scuri, sembra alludere ad una inconsolabile delusione per il fallimento delle tante, troppe vicende umane. Dispersi come frammenti, annegati dentro la banale quotidianità, “casi sono gli uomini”, gettati nel mondo e incapaci di orientarsi in esso, se non dimettendo l’autenticità del proprio volto, per indossare i panni
frustranti della maschera.

Non sembra esserci ormai alcuna lotta tra queste due figure dell’umano, già impietosamente descritte da Nietzsche; rimane solo la perdita inevitabile del volto, che disegna la nostalgia di una vita mai vissuta in prima persona, e la conseguente assunzione della maschera, da cui proteggersi dal dolore degli altri e dalla fatica di riconquistare con sforzo e resistenza l’innocenza del proprio “essere al mondo”.

Non è certo complicato allargare l’orizzonte dello scenario rilkiano per vederci immersi, sfiduciati e stanchi, dentro la delusione del vivere, nell’epoca della globalizzazione. Più avanzano, di scoperta in scoperta, i frutti del sapere scientifico e tecnologico, più si distende nell’uomo la coltre oscura del lasciarsi vivere; certo convinto della perdita, ma anche rassegnato alla ineluttabilità del proprio destino, di cui si è perso il controllo.

Lo notava del resto anche Husserl, a conclusione della sua ultima opera Krisis, quando sosteneva che non c’è malattia più devastante, per quanti hanno a che fare con la pratica del pensiero, che essere posseduti dalla “stanchezza”, quasi l’essere prigionieri di una delusione costitutiva che blocca le possibilità di dare respiro alla vita intellettuale, con la riduzione del proprio lavoro a funzione burocratica di una istituzione, compito che potrebbe essere svolto da chiunque altro, che
appartiene, come tutti, a quel “mondo organizzato attorno all’idea di funzione”, per dirla con Gabriel Marcel.

Sa in tal senso di doversi aggrappare alla dura disciplina della ricerca, senza farsi incantare dal fascino discreto delle parole, molte volte sganciate da quell’esigenza infinita e implacabile che sempre ci riporta, nostro malgrado, allo splendore ma anche all’opacità della vita. Questo non vuol dire soltanto restituire il pensiero al libero rischio dell’intelligenza, ma anche alla tensione di attraversare il proprio tempo con trasparenza, che significa apertura ad accogliere e forza di
resistere. Accettazione e resistenza sembrano essere le condizioni originarie per ridare anima al pensare: la prima maggiormente rivolta all’attività vigile e critica dell’accoglimento delle interrogazioni e degli stimoli che incalzano
dall’esterno, l’altra che si configura come regola di perseveranza e di custodia verso tutto ciò che di essenziale ci è stato consegnato e che va difeso con fermezza e con grazia.

L’apertura ad accogliere può prendere anche il nome di “ragione”, quando questa indichi la passione di capire, la lucida volontà di penetrazione della complessità del mondo, la rappresentazione stupita del darsi della pura fatticità delle cose. Forza di resistere è invece un altro modo per indicare la “contemplazione”, quale attitudine nascosta volta a rifiutare l’uso idolatrico della mente e raccogliere la riflessione dentro la densità muta del mistero che non è certo quel luogo oscuro e
impenetrabile agli strumenti conoscitivi, ma quello spazio entro cui si condensa la vita segreta e la fedeltà all’Essenziale.

Va detto comunque che queste due differenti modalità del pensare si sono storicamente biforcate in due ambiti della conoscenza indipendenti ed autonomi: da un lato il sapere intuitivo e recettivo, dall’altro quello astrattivo e concettuale. Nella prospettiva della contemplazione si è infatti affacciata la convinzione che il pensiero discorsivo non può nulla, se non spingersi “al limite”, là dove tutte le espressioni linguistiche e conoscitive osano solo avvicinarsi, non tanto per
indagare o interrogare, quanto per ascoltare ed attendere la novità dell’avvento, dell’Altro che viene. Parte da qui quell’attitudine del pensare, che è l’indugiare dello spirito dentro il mistero, immergendosi in esso in modo intuitivo e estatico, così che la realtà nascosta esibisca tutta la sua intrinseca verità.

Nella prospettiva della ragione, al contrario, sembra prevalere la convinzione che il pensiero è il luogo di ottimizzazione della capacità di razionalizzare la natura e di definire la realtà –fisica e spirituale- attraverso la disciplina dell’astrazione, con cui poter confrontare, classificare l’immensa varietà di forme, di strutture e di fenomeni che ci circondano.
La conoscenza razionale, sia quella scientifica che umanistica, sembra pertanto presentarsi come un sistema di concetti astratti e simbolici, caratterizzato da una struttura lineare e consequenziale, a differenza del conoscere intuitivo che per sua natura appare asistematico, che procede in modo simbolico (riconoscendo l’impotenza del linguaggio a dar conto del vissuto), ma che utilizza i simboli e le metafore con modalità non lineari, non consequenziali; solo per consentire al
pensiero di procedere “oltre”.

In realtà la ricerca di ciò che inerisce all’umano non può che prendere vita proprio dall’intrecciarsi di queste due dimensioni del pensiero: radicato sulle ineludibili esigenze del presente, la ricerca non potrà che esporsi –pena il suo arretramento in una quiete stagnante- alle provocazioni che il futuro porta in sé e, d’altra parte, non potrà che esercitare una forma di pietà verso il suo tempo, contenendosi nel luogo della memoria, là dove si custodisce la verità mai interrotta del Tutto. Ancora altri modi per ridire la tensione propulsiva del movimento della ragione nella sua essenziale spinta in avanti, dentro il futuro, mentre il contemplare, vera opera di custodia del senso, sembra maggiormente orientata a prendere in consegna ciò che è stato, perché continui ad essere il cuore di ogni vera ricerca.

Né si pensi che questa doppia anima del pensiero attenga soltanto alle discipline dello spirito – la filosofia, la teologia o ogni altra scienza dell’uomo- quanto concerne la ricerca tout-court: ogni campo del sapere, nella diversità delle forme, dei metodi e degli scopi, contiene in sé questa duplice intenzionalità che riguarda la vita attiva del pensare, ristabilendone l’essenziale equilibrio al cui interno le risorse costruttive della ragione e l’opera di custodia della contemplazione sono
compresenti e si sostengono a vicenda.

Ricordo qui come Walter Benjamin caratterizzava il lavoro della ricerca, nel dovere cioè di “ricomporre l’infranto”, nel sostenere l’urto della bufera che spinge la storia con il suo carico di rovine verso il futuro che è anche tempo che sta alle spalle, tempo del ritorno, tensione verso l’origine, là dove può compiersi l’opera di ricomposizione dell’oscura
frammentarietà della nostra esperienza del mondo.

“L’origine è la meta”, dirà Karl Kraus; come dire che la spinta in avanti che la razionalità promuove con tutto il suo carico di attese e di provocazioni porta in sé, costitutivamente, l’esigenza di radicamento all’origine, a tutto ciò che è stato, in termini di custodia del passato, di trasmissione della memoria, operando con forza un’azione di resistenza contro il lavoro di dissoluzione del tempo.

Non si possono scindere questi due movimenti, pena la perdita dell’ossigeno e la conseguente crisi respiratoria che provoca l’interruzione del respiro, che ha bisogno sia dell’inspirazione, dell’energia raccolta da fuori e continuamente disponibile, che dell’espirazione che è il frutto riossigenato dell’attività creativa del pensiero contemplativo. In questo caso è la potenza simbolica della metafora a supplire la carenza del linguaggio esplicativo, visto che è proprio la metafora a
raccogliere in sé il cuore del senso, divenendo ponte tra il dicibile e l’indicibile.

Ad una densa metafora si vuole qui alludere, estrapolandola da quel ricco deposito di verità custodito nella Sacra Scrittura. Si parla qui, nel libro di Genesi al capitolo 28, di un giovane fuggiasco che, solo e impaurito, affronta la notte; il suo nome è Giacobbe. Da sempre protetto dalla madre Rebecca, cerca con l’inganno di guadagnarsi la primogenitura e l’affetto del padre che, cieco, lo scambia per il fratello Esaù. Da sempre preferito da Isacco, Esaù è atletico e attivo, a differenza di lui che, secondo la tradizione talmudica, passa il suo tempo sui libri vivendo in prevalenza sotto una tenda. Per sfuggire all’ira del fratello è così costretto a scappare e a mitigare la paura dell’ignoto che la notte annuncia, rifugiandosi nel sogno. Che questo non è sempre fuga dalla realtà, ma desiderio di affidamento ad un altro, per sfuggire almeno un poco al vuoto del mondo. Così si legge in Genesi 28, 10-12:

“Giacobbe partì da Bersabea e si diresse a Carran. Capitò così in un luogo dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la cima raggiungeva il cielo ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa”.

Niente in quel luogo appare ospitale, se soltanto una pietra è raccolta per approntare un giaciglio; la notte comunque non porta incubi pesanti, ma solo la leggerezza di un sogno dove appare una scala, e dove Giacobbe vede salire e scendere degli angeli. La scala –così si legge- è ben appoggiata a terra, la cima invece sembra innalzarsi in alto, raggiungere il cielo senza alcun punto fisso. Gli angeli, dal canto loro, non invitano il giovane a salire –quasi ad indicare l’esigenza di un suo
presunto cammino ascensionale verso l’alto, verso Dio-. Salgono e scendono su di essa senza un apparente motivo, senza che nell’immediato si imponga l’evidenza di una verità. Anche Dio –almeno per ora- è assente, ma al risveglio Giacobbe sa: quel luogo è presenza di Dio e porta del cielo ( Gn 28,17).

Intere generazioni di rabbini si sono consumati nel commento e nell’interpretazione di questi versetti; la loro densità simbolica si è tradotta in una molteplicità di letture che si può tentare qui in parte di decifrare. Innanzitutto guardando agli angeli, creature sospese tra cielo e terra che nel sogno “salivano e scendevano”, così si legge, mostrando subito l’implicita problematicità del loro messaggio. Si chiedeva infatti il rabbi Shelomoh ben Yshaq, conosciuto come Rashi, maestro
del rabbinismo medievale, del perché salissero prima di scendere, invertendo quell’ordine logico che li avrebbe dovuti vedere prima scendere, dal luogo della loro dimora, e poi salire.

Si può pensare, al riguardo, che per prima salivano perché è ai piedi della scala che vivono, sulla terra cioè, realizzando in pienezza alcuni possibili modi dell’esistenza umana. E’ ancora Rilke che nelle Elegie Duinesi disegna la suggestiva fisionomia dell’angelo nel suo continuo rinvio all’ ulteriorità dell’Altro mai pienamente dicibile, eppure in grado di indicare –nella compiutezza di questa rivelazione- il punto di incontro nel mondo tra un’oggettività, che niente sa della
profondità della coscienza e una soggettività che niente sa delle cose e che rischia di cadere in un intimismo estraniato dalla terra.

Se è credibile la convinzione, più volte espressa nella tradizione ebraica, che l’angelo rappresenti l’io segreto che forma e avvolge l’essere umano, si può supporre che gli angeli, visti in sogno da Giacobbe, indichino con il loro doppio movimento di salita e di discesa il dinamismo stesso della ricerca, intessuta di ragione e di contemplazione, dal momento che chi sale non è chiamato a svolgere alcun lavoro ascetico che usualmente viene assegnato al contemplare, quanto ad attivare il cammino creativo e dinamico del comprendere razionalmente, che inizia con l’apertura verso le cose , che per essere viste meglio, vanno portate in alto. La contemplazione, al contrario, è rappresentata dall’angelo che scende, rappresentando la spinta segreta del sapere, illuminato dall’alto e quindi destinato a neutralizzare ogni forma idolatrica della conoscenza.

Ed ancora: si può penetrare la paradossale geometria dei tanti angeli che il pittore Paul Klee ci affida e che tanto facevano pensare Benjamin. La formale precisione di questi disegni, indice di una sostanziale unità e semplicità della loro fisionomia può essere letta come un ulteriore spia dell’unità di azione e contemplazione, di parola e silenzio, di vita attiva e di resa all’invisibile.

Vale la pena ricordare anche i colori accesi e contrastanti della pittura di Marc Chagall che raffigura proprio l’episodio biblico della scala di Giacobbe, dove il contrasto di luce e buio che avvolge il movimento degli angeli, che riproducono fattezze umane, attiene essenzialmente alla vita dell’uomo e in particolare al lavoro dello studioso il cui compito, trasformare il percepibile nell’impercepibile e l’invisibile nel visibile, dona alle cose un senso compiuto attraverso la fatica instancabile della riflessione, della penetrazione ed infine nella parola. Non è un caso che il Giacobbe di Chagall
non è raffigurato supino, in atteggiamento di passivo abbandono nel sonno, ma è raffigurato in posizione eretta con il volto sofferente e pensoso.

Un ultimo cenno a questa metafora, in particolare alla scala, che i maestri del Talmud, appassionati di mistica geometrica delle parole, interpretavano, confrontando il termine ebraico “sullam” (la scala, appunto) con quello del monte Sinai (Sinay), che in base alla gemiatrah possiedono lo stesso valore numerico, il 130, segno di preparazione all’ingresso della presenza di Dio nella storia del suo popolo. Sia la scala che il monte preludono inoltre alla risposta pronta dell’uomo, espressa nel proponimento, dopo l’ascolto della Torah da parte di Mosè, che “ tutto quanto abbiamo sentito, lo faremo e lo ascolteremo” ( Es 24,3).

Lo “faremo”, si legge, ancor prima di “ascolteremo”, anteponendo cioè l’agire all’ascolto; come dire –per tornare al nostro tema- che l’impulso attivo della ricerca , mossa dalla ragione, si muove prima ( come gli angeli che prima salgono), ma si alimenta di vita solo se ascolta, si fa contemplativa, nel custodire la memoria degli eventi rivelatori e redentori, che per i credenti hanno questi nomi: Dio ha parlato e l’uomo ha risposto, e poi ancora: Dio ha dato il Figlio e il Logos si è fatto carne ( Gv 1,14).

2. Il pensiero che nutre la ricerca ha dunque non soltanto il significato di una ratio (che è il necessario ordine concettuale e rappresentativo della realtà e che struttura il nostro sapere), ma anche quello del Logos, del verbum (e cioè quello di una “parola” che chiama e che va accolta e custodita). Come dire che la riflessione, anche quella consumata nella solitudine, ha una dimensione dialogica, all’interno di una circolarità virtuosa che viene ad instaurarsi tra l’autonomia del
percorso razionale e l’eteronomia della voce che interpella e che reclama l’attitudine contemplativa.

Non si dimentichi che per i credenti “uno solo è il Maestro” ( Mt 23,8), non tanto, o non solo perché è l’unico a trasmettere il messaggio, il contenuto cioè di una profezia messianica, ma anche perché è il solo ad incarnare l’unità sostanziale di messaggero e di messaggio ( “ Io sono la via, la verità e la vita “ [Gv 14,6] ) offrendo lui stesso le modalità per declinare la fede accolta e pensata dentro la pratica di vita e l’impegno nel mondo. La sequela si misura così nel solcare orme già tracciate, nella consapevolezza che, in nome dell’unico Maestro, ci è concesso di essere, se mai, “guide”, coloro che orientano, consigliano, direzionano verso la verità attraverso l’arte e la disciplina dell’insegnamento. Qualsiasi sia il suo contenuto, questo dovrebbe poter inaugurare nell’allievo il passaggio personale alla fede che, dalla sua espressione oggettiva, deve impiantarsi su di una forma originaria e unica.

Orientare verso l’esperienza della fede significa in tal modo avviare alla propedeutica dell’incontro esigente, perché l’uomo è, per dirla con Rahner, “colui che sta in ascolto di una possibile rivelazione di Dio”. Egli deve dunque “necessariamente fare i conti […] con un possibile parlare di Dio che rompe il suo silenzio e schiude i suoi abissi allo spirito finito”. La fede cristiana gioca qui la sua partita decisiva: fede è confidenza, certezza che l’Altro è là, non per neutralizzare le proprie paure, ma perché dimostra di tenere all’uomo, così che questa fiducia possa essere comunicata ad altri e partecipata nella carità.

La domanda, che sempre dovrebbe attraversare la fede, assume la configurazione dell’interrogativo posto da Gesù ai suoi: “ Chi dite che io sia?” ( Lc 9,18), valorizzando la trama dialogica di ogni cercare, dal momento che Dio stesso si offre sia alla domanda che alla risposta.

Di fronte a questo dato muta la tradizionale concezione dello studioso isolato, che nel distacco dai rumori del mondo, elabora il suo personale progetto conoscitivo sull’uomo. L’esercizio duro ed esaltante della riflessione e del sapere si converte in gesto etico e sacramento religioso, dal momento che la solitudine operosa prepara la destinazione sociale dell’impegno, dando energia e fecondità alla pratica contemporanea di ricerca e di insegnamento.

L’incontro tra solitudine della ricerca ed esperienza intellettuale intersoggettiva trova nella struttura didattica del “seminario” una risposta convincente e propria della densità dialogica di ogni pensiero credente. Ognuno di noi sa che l’attività seminariale , coerentemente vissuta, comporta sempre una esperienza comunitaria, al cui interno possono affacciarsi problemi radicali sul senso stesso della ricerca, sulla qualità dei rapporti intersoggettivi, sul significato stesso dell’oggettività e del rigore proprio di ogni sapere. Quasi sempre regolato da una precisa pratica metodologica, il seminario
oscilla in libertà tra l’eros della ricerca e la criticità del confronto e, sia pure guidato dal docente, si muove talvolta in un dinamismo dialogico che svuota l’impianto gerarchico e pone tutti –professore ed allievo- dentro una comune tensione che sfocia in una comunità di linguaggio e in una comunione di interessi. Il testo che si ha di fronte è per tutti l’unico ideale maestro e, una volta iniziata la lettura e il confronto, prende corpo il risultato di una produzione collettiva o, almeno, un suo primo possibile abbozzo.

Questo non significa, è ovvio, che il seminario debba produrre un appiattimento delle rispettive identità, creando una innaturale fusione, una sorta di cameratismo intellettuale, al cui interno si perdono le giuste coordinate della relazione maestro-allievo. Se il professore vuole essere una guida, non può che coltivare quella necessaria distanza, capace di neutralizzare i rischi di una demagogica influenza e realizzare una presenza che genera e che trascende l’incontro, che apre
l’orizzonte di colui che ascolta, che offre al pensiero quegli stimoli necessari ed anche capaci di fermarsi al margine del mistero dell’essere di ciascuno, margine che va lasciato intatto sulla via del personale risveglio.

Incarnando idealmente la sintesi operosa tra presenza e assenza, tra logos e verbum, tra domanda e ascolto, il seminario libera la scena da quel prodotto di pensiero autoreferenziale che la lezione accademica necessariamente comporta, e scompaginando l’intenzionalità rigida di ogni parziale lettura, corregge e riorienta la ricerca verso impensabili piste.

Proposta didattica ideata per avvicinare alla pratica difficile della lettura guidata dei testi classici (almeno nelle facoltà di area umanistica), il seminario vive dell’assalto delle interrogazioni radicali e di quel pensiero “recettivo”, che impone l’apertura dello sguardo e l’immersione intuitiva dentro le parole che il testo annuncia. Ciò che, infatti, colpisce chi legge è il darsi complesso di un costrutto linguistico, frutto della fatica di chi lo ha pensato, e che esige una passività illuminata, una contemplazione vigile contro la spontaneità irruente della ragione moderna, quella che pretende di
gestire in modo autonomo la sufficienza delle rappresentazioni concettuali.

Si tratta insomma di una precedenza, che il testo reclama e che presuppone una meditata immersione, un silenzio produttivo per una ricerca comune del senso, che prorompe all’improvviso da una voce e poi da un’altra ancora, come un poco di ammasso di neve in cima alla montagna, che scende sempre più veloce, sino a trasformarsi in una grande valanga. Non importa se dopo
qualche ora si è ancora alle prime battute del testo; ciò che interessa –lo hanno così finemente analizzato filosofi come Heidegger e Roland Barthes- è che si giunga infine insieme a salire e scendere numerosi per quella scala, per riprendere ancora la nostra metafora biblica.

Roland Barhtes preferisce parlare del seminario come un giardino pensile, sospeso e leggero, libero dal frastuono della città, dove l’argomento spesso è un pretesto per rendere visibile il fluire del rapporto dialogico e quell’atmosfera comunitaria che deborda dallo spazio istituzionale, e matura nel contatto del testo studiato, là dove si tocca e si è toccati dalla “cosa stessa”, dall’inedita cristallizzazione del pensiero, che esige di essere riascoltato.

Così che nella solitudine del proprio lavoro, lo studioso raccoglie con stupore l’armonia sregolata delle tante voci e la mette a frutto, dando un qualche ordine che, forse, all’incontro successivo verrà rimesso di nuovo in discussione. Certo, questa non è che una forma dell’esercizio didattico universitario; contiene comunque quei tratti peculiari che possono rendere feconda la ricerca, immettendola nell’alveo inquieto di ogni vita intellettuale.

Più capace di raccogliere il senso della realtà –la ragione-, più disposta a recepire la verità nel suo darsi – la contemplazione- entrambe si coagulano nella ricerca, attente al monito della Scrittura, secondo cui “Initium sapientiae timor Domini” (Pr 1,7). C’è da chiedersi in ultimo cosa possa intendersi oggi per “ timor Domini”, se non il mantenimento della doppia fedeltà al Dio ineffabile, da un lato, e alla realtà del mondo, dall’altro. In un equilibrio che riscatti la dignità dell’infranto e la rassicurante armonia dell’Uno necessario. Che ricomponga, ogni volta, di nuovo, l’attitudine riverente al mistero, quello che conferisce grandezza alla mente e fertilità all’anima. Nella consapevolezza che il timore di Dio è anche il coraggioso affidamento a quella scala che, poggiata saldamente sulla terra, è in cima come sospesa in cielo, in quel punto invisibile che rimane segreto e che nutre la nostra attesa e la nostra speranza.

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Riferimenti bibliografici

-- R.BARHES, Al seminario, in AA.VV., In forma di parole, V (1984), pp. 266-286.

-- W.BENJAMIN, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1982

-- R.H. ISAACS, Lungo la scala di Giacobbe. Angeli, demoni e spiriti maligni nella visione ebraica, ECIG, Genova 2000

-- G. MARCEL, Giornale metafisico, Abete, Roma 1966

-- P.H. PELI, La Torah oggi, Marietti, Genova 1989

-- K. RAHNER, Uditori della Parola, Morcelliana, Roma 1977

-- RASHI DE TROYES, Commento alla Genesi, Marietti, Casale Monferrato 1985

-- P. RICCI SINDONI (a cura di), La sentinella di Seir. Intellettuali nel Novecento, Studium, Roma 2004

-- RIGOBELLO (a cura di), Interiorità e comunità. Esperienze di ricerca in filosofia, Studium, Roma 1993

-- K.M. RILKE, Elegie Duinesi, Einaudi, Torino 1978

-- L. VALLE ( a cura di), Cultura e spiritualità, Nardini, Fiesole 1999

-- E. WIESEL, Personaggi biblici attraverso il midrash, Cittadella, Assisi 1978.

-- M. ZAMBRANO, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina, Milano 1996

Poesia cinese

Poesia cinese: la parola come germoglio

articolo di padre Antonio Spadaro, S.I., apparso su “La Civiltà Cattolica”, nel quale vengono presentate le caratteristiche specifiche della lingua poetica cinese classica.


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La poesia classica cinese dipinge visioni. Il nesso profondo tra le idee e le immagini, tipico di questa esperienza poetica, ha colpito in vario modo l’immaginario occidentale. «Senza dubbio l’uso dei caratteri ideografici ci ha impedito di separare le idee, come avete fatto voi, da quella sensibilità plastica che per noi è sempre collegata con esse»: così si esprime André Malraux, uno dei miti del Novecento francese, vestendo i panni di un giovane cinese di nome Ling in un suo romanzo epistolare del 1926 dal titolo La tentation de l’Occident (1). E basterebbe ricordare quanto lo sguardo cinese abbia inciso su scrittori quali Ezra Pound e William Carlos Williams, che hanno anche curato la compilazione e la traduzione di antologie memorabili (2). Il valore dell’immagine dai contorni netti si univa, in questi poeti, all’esigenza di rifiutare il superfluo, di ricercare una misura nel verso. E queste esigenze nascevano o si consolidavano proprio grazie al contatto con la lettura degli scrittori cinesi: le forme poetiche cinesi implicano un’essenzialità radicale. È ciò che Williams definì come «il rigore della bellezza» (3).

Il rigore della bellezza

Leggiamo una poesia di Wei Ying-wu (736-800 d. C. circa) (4) dedicata a un eremita taoista:

Stamattina nella stanza d’ufficio è freddo:

a un tratto penso a te che stai tra i monti,

presso il torrente, in fondo, raccogli spinosi fastelli,

al ritorno cuoci i bianchi sassi.

Vorrei venire, recarti nella zucchetta il vino,

da lontano a consolarti nella sera del vento e della pioggia.

Quando le cadute foglie riempiono la montagna spoglia,

dove trovare le orme dei tuoi passi?

Il senso di una vita monastica è ritratto con rapide pennellate, e così anche il senso di una relazione, fatta di cura e di ricerca. Vengono dunque restituite emozioni attraverso brevi schizzi descrittivi di luoghi e gesti, realizzati con un’estrema accuratezza di espressione e di immagini. Luoghi, persone e sentimenti convergono in versi chiari, piani, privi di complicazioni di carattere concettuale o sentimentale. Simile intreccio nitido caratterizza la poesia Svegliandomi di notte sul battello di Su Tung-p’o (1037 circa-1101 d.C.) (5):

Fruscio di lieve brezza tra giunchi e erbe palustri,

apro la porta a vedere se piove, il lago colmo di luna,

battellieri e uccelli acquatici fanno gli stessi sogni,

grossi pesci spauriti fuggono come volpi.

A notte fonda uomini e cose si ignorano,

io, solo, corpo e ombra ci divertiamo insieme.

L’ondata notturna traccia sulle sponde sinuosi lombrichi,

la luna tramonta appesa ai salici, lucente ragnatela.

Rapido il tempo della vita tra le diuturne cure,

quanto fuggevoli, i momenti sereni!

Canto di galli, suono di campane, cento uccelli in volo,

rulla il tamburo a prua ed è tutto un vociare.

In Italia varie traduzioni hanno reso possibile il confluire della poesia cinese tra le letture di formazione. Ormai classiche, ad esempio, sono le traduzioni einaudiane di Martin Benedikter, dalle quali abbiamo ripreso la prima poesia citata, e di Giorgia Valensin (6). La presenza della cultura cinese si registra tra i giovani intellettuali che collaboravano alla rivista La Voce, ad esempio, e Biagio Marin. L’introduzione all’antologia di G. Valensin è di Eugenio Montale. Ma segnaliamo che anche uno tra i migliori poeti di questi nostri anni, Claudio Damiani, autore dagli accenti oraziani e profondamente attratto dalla classicità latina, ha nei poeti cinesi della fecondissima epoca T’ang (618-906 d.C.) (7), una forte base ispirativa. Testimonia Damiani: «Ho amato la poesia cinese come qualcosa che mi spingeva oltre il mio tempo, in un futuro antico che m’appariva come un sogno, che m’avvicinava i giganti della poesia cinese (Po chü-i, Li Po, Tu Fu) ai calmi,
sereni giganti dell’elegia latina (Properzio, Catullo, Tibullo). Ho visto nella poesia cinese una poesia della terra, perfettamente oggettiva, senza il bisogno di nessuna metafora. Grande poesia della terra, della sua calma, della sua gloria» (8). Per trattare della poesia cinese e anche per gustarla profondamente occorrerebbe una formazione specialistica, proprio perché essa è espressione di un universo linguistico, filosofico, religioso e culturale molto distante rispetto a quello
occidentale. Fra l’altro occorrerebbe comprenderne le forme metriche e distinguere i periodi della sua evoluzione sin dal mitico Shi Jing, cioè il Libro delle Odi, composto tra il 1753 e il 600 a.C. Nelle pagine che seguono, pertanto, non intendiamo presentare l’evoluzione della poesia cinese in quanto tale, ma semplicemente cercheremo di interpretare i motivi per cui essa ha colpito l’immaginario e la poetica di molti artisti occidentali, e che rendono la sua presenza viva nel
nostro orizzonte culturale.

«Dipingere a parole»

Uno degli elementi fondamentali e costanti della letteratura cinese è quello descrittivo, che dà vita sia a prose sia a liriche di paesaggio (9). La vista è interpellata e sollecitata continuamente. In alcuni autori l’essere umano appare un piccolo punto dell’universo che vive dentro un paesaggio ampio; in altri è invece al centro di una scena, che attende da lui un senso. Ma a prevalere, specialmente in epoca T’ang, è il primo atteggiamento, per il quale la bellezza di un elemento della natura può prescindere da uno sguardo umano. La bellezza è colta in se stessa, per il suo intrinseco valore, per il suo mistero: «La cavità del monte, con i suoi tesori nascosti; il riflesso degli astri sull’acqua; la discesa di una barca che asseconda la corrente; lo scorcio di un panorama incantevole, tra la vegetazione lussureggiante e rigogliosa; il cambio delle stagioni, incessante nella sua monotonia, eppure ogni anno sempre nuovo; il magico accordo del sole e della luna, pronti a darsi puntualmente il cambio; e molti altri. Ci si riferisce sempre a una grande rete, le cui maglie, strettamente unite, suggellano un’intesa equilibrata tra i fenomeni dell’universo» (10). Ecco, ad esempio, come viene descritta da Liu Fang-P’ing (742-779) una Notte di luna:

Nella profonda notturna veglia

il lume di luna fende uomini e case,

la Grande Orsa traversa il firmamento nel nord,

il Sagittario declina nel sud.

In questa notte io meglio intendo

l’aria tiepida di primavera:

voce di insetti di nuovo penetra

il verde velo della finestra.

Il rigore della bellezza qui consiste nell’estrema misura delle immagini che comunicano un sentimento del luogo di grande intensità, senza mai però esprimere una parola sentimentale. La luce del lume di luna fende la notte, che è subito inserita e assunta nel vasto movimento cosmico. L’io del poeta giunge all’improvviso come parte consapevole di questa immensità, ma non turba il quadro con la sua presenza, non sovrappone ad esso i suoi sentimenti. Semplicemente afferma di avvertire l’aria di primavera. E il suo intendere rifluisce e si perde nella voce degli insetti che penetra il velo della finestra dalla quale sta contemplando il paesaggio. La capacità dell’essere umano è quella di divenire partecipe del paesaggio proprio attraverso le immagini che gli ideogrammi compongono. Veramente il lettore si avverte dentro la scena.

A questo punto la domanda fondamentale è la seguente: «In che senso si possono considerare vera poesia versi scritti in termini di geroglifici? Può sembrare difficile che la poesia, la quale come la musica è arte di tempo, intessendo la propria unità da successive impressioni sonore, possa assimilare un veicolo verbale consistente per lo più in richiami visivi semipittorici» (11). Il poetare cinese è stato definito un dipingere a parole, e il quadro che viene dipinto si potrebbe definire «essenzialmente impressionista»: «agisce direttamente sul sistema nervoso, e così risveglia risonanze sorde e potenti nei centri della sensibilità estetica» (12). Molti poeti cinesi sono stati, del resto, anche pittori, e la calligrafia era una sorta di ponte tra le due arti. È interessante notare come Lu Ji, un autore classico vissuto nel III sec. d.C., nel suo L’arte della poesia (13), primo vero trattato cinese di poetica, scrive sulla scelta delle parole in una poesia: Il cielo e la terra sono catturati in forma visibile: / ogni cosa emerge / dall’interno del pennello. Le immagini dunque partecipano attivamente alla costruzione della poesia, a tal punto da rendere superflue connessioni di tipo narrativo o temporale o consecutivo. Ciò che potrebbe essere idea astratta viene reso sotto forma di immagine. Gli stessi ideogrammi sono immagini stilizzate (14).
Spesso il significato si sprigiona dall’accostamento di due o più ideogrammi che si fondono insieme in una unità, e dalle immagini che essi sviluppano, lasciando campo aperto alla fantasia. Facciamo qualche esempio esplicativo di ideogrammi composti da due elementi differenti (15): cuore e autunno esprimono la malinconia, la tristezza; uomo e albero esprimono il riposo; uomo e parola comunicano fiducia e fedeltà. Al centro dell’ideogramma «amore» troviamo il simbolo per il cuore
racchiuso da quello del respiro, nella parte superiore, e da quello del movimento aggraziato, nella parte inferiore. Cielo e terra uniti in un unico carattere significano l’universo; il tamburo e la danza significano l’incoraggiamento; la lancia e lo scudo, la contraddizione. Si notano infine sintagmi che formano espressioni simboliche: la polvere rossa indica la vanità della gloria; le acque che scorrono verso est, la fuga del tempo; l’oca selvatica che vola verso ovest esprime la separazione e il rimpianto. Spesso, proprio accostando immagini ovvie, si genera un effetto inatteso, e le immagini devono luccicare / come perle nell’acqua, scrive Lu Ji. I sentimenti e le idee «scoccano» dalle cose, grazie al loro semplice apparire nel verso senza aggiunte sentimentali.

Nella poesia cinese, dunque, è la visione che genera il sentimento, non l’espressione verbale. Come giustamente ha affermato E. Weinberger nella sua introduzione a una nota antologia di poesia cinese, questa poetica ha influenzato quella americana per quasi un secolo (16). Forse l’espressione più semplice, celebre e diretta di questa lezione orientale è il motto del poeta Williams Carlos Williams: no ideas but in things, niente idee se non nelle cose.

Una parola dinamica e guizzante

La poesia cinese dunque si fonda sulle immagini, le quali rendono superflue le connessioni logiche, per gli occidentali invece così fondamentali. Il cinese letterario è una lingua non flessiva e dunque non esistono né la coniugazione verbale né la declinazione di sostantivi e aggettivi. Così l’ideogramma è un «nodo di energia» che unisce la cosa, l’azione e la sua descrizione senza alcun tipo di «colla retorica» (17). Tutto è in relazione spontanea e simultanea: verbi, nomi, cose e
azioni.

Lo aveva capito bene Malraux, il quale fa scrivere polemicamente a Ling in una sua lettera: «Quando dico: il gatto, ciò che domina la mia mente non è l’immagine d’un gatto: sono certi movimenti agili e silenziosi tipici del gatto. Voi distinguete una specie dall’altra per la sua linea. Una simile distinzione si fonda soltanto sulla morte. (Dicono che i vostri pittori, un tempo, studiassero le proporzioni del corpo umano disegnando cadaveri). Il concetto di specie è ciò che collega le forme assunte dalla vita negli individui che le appartengono: la necessità di particolari movimenti» (18). Ad esempio, la semplice frase «l’uomo vede il cavallo» in cinese è resa da tre caratteri che hanno gambe stilizzate: l’uomo sulle sue due gambe, il suo occhio che percorre lo spazio con una figura audace di gambe che corrono sotto un occhio (cioè il verbo «vedere»), e
infine il cavallo sulle sue quattro zampe (19).
Nella visione cinese dunque la «cosa» non è separata dall’«azione»: essa include il suo movimento, è un quadro fluido, dinamico. La maggior parte delle radici ideografiche conservano in sé un’idea verbale di azione. Non rappresentano una «cosa», ma la sua qualità vitale, il loro muoversi, qualcosa di attivo e progressivo. I nomi nella loro radice sono verbi. Si potrebbe dire davvero che la «parola» in cinese è sempre «verbo»: il nome è ciò che compie qualcosa: «Le cose non sono che i
punti terminali o, meglio, i punti d’incontro delle azioni, sezioni intersecanti le azioni, istantanee» (20). L’occhio cinese vede e presenta nome e verbo come un tutt’uno: cose in moto, moto nelle cose. Se diciamo «l’albero è verde», la copula rende statica la realtà che indica. Spesso verbi intransitivi e la copula nelle lingue occidentali tendono a comunicare una sorta di «fermo immagine», di natura morta. Ciò è implicitamente inteso come falso da un cinese: la realtà non è mai statica. Egli semmai direbbe: l’albero si «inverdisce» (21).

Si potrebbe dire un’immagine cinematografica, come ben comprese Sergej Ejzenštejn, che proprio studiando il cinese giunse a pensare il montaggio come la giustapposizione di due ideogrammi (22). La poesia cinese ha il vantaggio unico di combinare il suono della parola alla sua immagine, per cui «leggendo il cinese non stiamo ad agitare bussolotti mentali, ma osserviamo cose evolvere il proprio fato» (23). È interessante notare come una splendida raccolta di prose cinesi sul paesaggio tradotte in francese abbia come titolo Les formes du vent (24): è proprio il vento con la sua potente dinamicità o con il suo lieve tocco veloce a dare dimensione e forma al paesaggio, che mai dunque è statico e identico a se stesso.

Questa caratteristica della lingua cinese fa riflettere più in generale sulla natura della parola poetica. Essa infatti appare chiamata non a compiere il ritratto statico o astratto delle cose, ma a cogliere la loro intrinseca dinamicità. La poesia cinese aiuta il suo lettore a cogliere nella realtà le relazioni e i processi anche in ciò che appare statico a una prima veloce occhiata. È come se la poesia consistesse proprio in questo: cogliere il continuo divenire di ogni realtà, le sue tensioni vive, e farle vivere al suo lettore. La parola diventa guizzante, come scrive Lu Ji: riportiamo parole vive, /
come pesci presi all’amo / che balzano dal profondo (25).

Una lingua non flessiva

Spesso, inoltre, i versi cinesi si giocano su contrapposizioni, che vengono normalmente rese nelle lingue come l’italiano da congiunzioni subordinanti avversative, temporali, consecutive (mentre, invece, intanto,…) che consentono di compiere molte operazioni con le frasi, di disporle gerarchicamente rispetto a un altro enunciato, di modellarle secondo le nostre intenzioni comunicative. Nella poesia cinese invece tutto diventa contemporaneo e immediato, tutto corrisponde a un colpo d’occhio. Sarà poi l’intuizione del lettore a scomporre e a «comprendere» le ricche connotazioni che l’accostamento delle immagini produce.

Lo scrittore Jack Kerouac nel suo romanzo autobiografico I Vagabondi del Dharma propone al personaggio Japhy di tradurre la poesia cinese volgendo il significato degli ideogrammi, ma elidendo quelle necessarie aggiunte che caratterizzano le versioni nelle lingue occidentali (26). La poesia Rivo montano, ad ovest di Ch’u-Chou del già citato Wei Ying-wu potrebbe essere tradotta così, nello stile occidentale:

Solitario, m’innamoro di erbe scure a ridosso del torrente;

e i rigogli dorati, lì nel profondo dei rami, fanno il verso.

La marea primaverile, accompagnata dalla pioggia, è arrivata al-

l’improvviso, questa sera;

mentre è priva d’equipaggio una barca di traverso, lì, all’attracco

dei traghetti.

Possiamo immedesimarci nel poeta che si trova a ridosso di un torrente, colpito dalla bellezza della vegetazione. La scena appare mossa dalla pioggia, che già cade da un certo tempo e si unisce alla marea. In questo paesaggio che pian piano si è composto appare una barca senza equipaggio e solitaria, che oscilla di traverso sull’acqua nel punto di attracco. Se però leggiamo una sorta di traslitterazione «alla Kerouac», per così dire, vediamo come gli elementi sono accostati come rilievi
di una visione che prende significato dal suo insieme. Questo infatti potrebbe essere il risultato: Solo ad amare teneramente erbe nascoste che crescono in riva all’acqua / Al di sopra esserci rigogolo nel profondo degli alberi cantare / Marea primaverile accompagnata dalla pioggia verso sera precipitarsi / Imbarcadero senza nessuno barca da sola di traverso (27).
Ma per chi ha letto la prima traduzione risulta difficile staccarsi da quella prima impressione e riformulare la scena secondo la propria immaginazione.

Un altro esempio, la poesia di Meng Hao-jan (689-740 d. C.) Alba di primavera (28). Alla lettera la «traduzione» potrebbe essere la seguente: Primavera sonno non sentire alba / Dovunque udire canto uccelli / Notte scorsa vento pioggia suono / Fiori cadere sapere quanti?
Già qui il lettore si trova spiazzato e dovrà leggere più volte questi versi per orientarsi e
comporre un proprio quadro. Ecco allora la versione di Benedikter, la quale comunque lascia grande spazio all’immaginazione:

Profondo sonno di primavera non vede l’alba.

Intorno intorno suona canto d’uccelli.

A notte scroscio di pioggia e vento:

i fiori caddero, quanti?

Il testo originale in ideogrammi, e dunque in immagini stilizzate, lascia al lettore il gusto della ricomposizione della scena, suggerisce una visione senza imporla nei suoi dettagli. Il Premio Nobel Gao Xingjian (29) ha compiuto interessanti riflessioni sulla sua lingua madre intesa come una vera e propria forma di percezione dell’esistenza. Egli considera che la coscienza umana non è lineare, ma spiccatamente vivace, discontinua, e ciò risalta davvero poco, nella rigida struttura di
tempo, soggetto e predicato delle lingue occidentali. Mentre il cinese, grazie alla sua flessibilità, avrebbe proprio gli stessi caratteri distintivi che ha il movimento della coscienza (30). E, dunque, di questi stessi movimenti ha bisogno per essere compresa. Il coinvolgimento è la condizione affinché la lettura si faccia esperienza estetica, rendendoci consapevoli dei processi dell’esperienza stessa, mettendo in gioco le facoltà immaginative e percettive del lettore.

Il processo indefinito della traduzione

Tutto ciò ha una conseguenza immediata per la traduzione: non esistono traduzioni che possano vantare una fedeltà che non sia pienamente interpretativa. Il primo verso della poesia sopra citata, ad esempio, contiene una parola che è tradotta, nella versione di Benedikter, con il verbo «vedere», ma che significa anche conoscere e destarsi. Così altri hanno tradotto: Dopo il sonno, a primavera, insensibilmente ecco l’alba (Demiéville); altri ancora: Il sonno a primavera ignora l’alba (Mancuso); altri Me ne sto a dormire, ed ignoro l’alba primaverile (Arena).
Davanti a un testo cinese si ha dunque l’impressione di essere davanti a qualcosa di non compiuto in se stesso, di magmatico, capace di attivare la percezione, ma non di definirla e delimitarla in maniera precisa. Il lettore, e a maggior ragione il traduttore, non può adeguarsi a una visione data, ma deve necessariamente ricostruirla, divenirne partecipe, entrare nella scena che essa compone come un attore o uno spettatore. Lu Ji sembra descrivere così tale dinamicità del verso:

La rete delle immagini, lanciata, si allarga

sempre di più: il pensiero perlustra

sempre più a fondo:

Lo scrittore offre la fragranza dei fiori freschi,

un’abbondanza di germogli che sboccia.

Venti vivaci sollevano le metafore;

nuvole si alzano

da una foresta di pennelli.

Il mondo intero sembra in movimento. La poesia cinese dunque va letta con l’animo disposto a comporre visioni interiori, immagini che sono lasciate all’intuizione del lettore. E questo è anche il criterio della traduzione. Infatti ha ragione l’orientalista Ernest Fenollosa: solamente quando «siamo costretti a tradurre in una lingua assai differente, riusciamo per un momento a possedere il calore interno del pensiero che fonde le parti del discorso per rimodellarle a piacimento» (31). Se
questo vale per chi è in grado di leggere il testo originale, vale anche per chi, consapevole del continuo intervento del traduttore dal cinese nel declinare sostantivi e aggettivi e nel coniugare i verbi, sa «liberare» il testo usando in maniera creativa la traduzione.

È ciò che ha fatto di recente il poeta Claudio Damiani. Lasciamogli il racconto diretto della sua esperienza di riformulazione di una traduzione classica: «Ci fu un tempo in cui avevo nella mente, e la masticavo e ruminavo senza fine, l’incredibile traduzione benedikteriana del Canto dell’eterno dolore di Po Chü-i (opera famosa in Cina com’è per noi, ad esempio, il canto di Paolo e Francesca di Dante). Ripetendola dentro di me, mi si veniva configurando però in metro di sequenza di settenari. In realtà la sua trascrizione completa in settenari […] è uno dei lavori più faticosi della mia carriera di scrittore […]. Non conoscevo, e non conosco, la lingua cinese, né l’antica scrittura letteraria, qualcosa m’ha tenuto lontano dal suo studio, qualcosa m’ha fatto aderire al testo di Benedikter in modo ossessivo, infantile, come preso da un sogno, come nell’impossibilità di staccarmene» (32). Da queste riformulazioni, in realtà, sono poi germogliate anche nuove
poesie originali. E prima di lui anche la scrittrice Elena Bono, leggendo una poesia di Li Po, ne ha composto una sua nuova (33). Il grande poeta cinese, forse il più noto, aveva scritto:

Stavo seduto a bere e non mi accorsi del buio

finché cadenti petali m’empirono le pieghe dell’abito.

Ebbro, mi alzai, camminai verso il ruscello lunare;

gli uomini erano rari e gli uccelli non c’erano più.

E la Bono nella sua Leggendo una poesia di Li-Po così prosegue:

Vedo davanti agli occhi quel tuo ruscello lunare,

sento i tuoi incerti passi nel grande buio.

Non c’è nel mio animo nulla di ciò che è mio,

non un dolore, e neppure un ricordo.

Solo i tuoi incerti passi che vanno, Li Po,

che vanno ancora, incerti, nel grande buio.

Ma è anche ciò che ha fatto Ezra Pound che, come disse T. S. Eliot, ha inventato la poesia cinese in lingua inglese. Le antiche poesie cinesi riprese da un grande poeta diventano altre poesie. E proprio grazie alle «traduzioni» di Pound ha avuto inizio la presenza delle poesie classiche cinesi nella coscienza poetica del mondo occidentale, destando anche l’interesse per la poesia cinese contemporanea (34). «I sinologi dovrebbero ricordare che scopo della traduzione poetica è la poesia, non le definizioni verbali nei dizionari» (35): è questo il principio guida. In ogni caso ecco il consiglio migliore: «leggere un singolo verso, in modo da impregnarsi dell’immagine e dei pensieri ivi racchiusi, per sforzarsi di coglierne i tratti essenziali e conservarne la forza e il calore» (36). Del resto, basta ascoltare ancora una volta il maestro Lu Ji:

Quando si intaglia un manico d’ascia con un’ascia,

certo il modello è a portata di mano.

Ma ogni scrittore scopre una nuova via d’accesso al mistero,

ed è cosa difficile da spiegare.

1 Cfr A. MALRAUX, La tentazione dell’Occidente, Milano, Excelsior 1881, 2007, 101.

2 Cfr E. Pound, Confucio. L’antologia classica cinese, Milano, Scheiwiller, 1994, che è la versione italiana dell’originale a
cura di Carlo Scarfoglio; e The New Directions Anthology of Classical Chinese Poetry, New York, New Directions, 2003.

3 Cfr Z. Qian, Orientalism and modernism: the legacy of China in Pound and Williams, Durham, Duke University Press, 1995, 43.

4 Si pone subito un problema tecnico riguardo alla trascrizione dei nomi cinesi in questo nostro saggio. Il sistema di romanizzazione della lingua cinese introdotto nel 1958 dalla Repubblica Popolare Cinese, e ora di uso comune in tutto il mondo, è il pinyin, standard adottato dall’Onu dal 1977. Tuttavia nell’ambito letterario, specialmente quello delle traduzioni ormai «classiche» nella nostra lingua, risponde al sistema Wade-Giles, pubblicato per la prima volta nel 1859 da
Thomas Francis Wade, e modificato da Herbert Allen Giles nel 1912, che nel passato è stato massicciamente utilizzato nei Paesi di lingua inglese. Dunque qui di seguito per evitare confusioni al nostro lettore adottiamo quest’ultimo criterio. Tuttavia ecco tra parentesi la trascrizione dei nomi qui citati in pinyin: Wei Ying-wu (Wei Yingwu), Su Tung-p’o (Su Dongpo), Po Chü-i (Bo Juyi oppure Bai Juyi), T’ang (Tang), Li Po (Li Bo oppure Li Bai), Tu Fu (Du Fu), Liu Fang-p’ing (Liu Fangping), Meng Hao-jan (Meng Haoran). Sia nelle note sia nel testo i nomi degli autori classici sono sempre indicati per esteso.

5 Citiamo la traduzione di A. Bujatti nella plaquette SU DONGPO, Andar per acqua. Tre liriche, Milano, Scheiwiller, 2004.

6 Rispettivamente: Le trecento poesie T’ang, Torino, Einaudi, 1961 e Liriche cinesi (1753 a.C.-1278 d.C.), ivi, 1943.

7 Agli inizi del XVIII secolo fu raccolta la produzione poetica di questi tre secoli aurei, e furono compilati 900 volumi che
raccolgono 48.900 composizioni di oltre 2.200 autori. Qualche decennio dopo fu compilata un’antologia di 300 composizioni maggiori, che è poi quella tradotta in italiano da Benedikter e qui già citata.

8 C. Damiani, Sognando Li Po, Genova, Marietti, 2008, 7.

9 Per la prosa raccomandiamo l’antologia: M. Vallette-Hémery (ed.), Le forme del vento. Paesaggi cinesi in prosa, Genova, il Melangolo, 2008.

10 Così riassume Leonardo Vittorio Arena nella sua «Introduzione» al volume da lui curato Poesia cinese dell’epoca T’ang, Milano, Rizzoli, 1998, 16.

11 E. Fenollosa, L’ideogramma cinese come mezzo di poesia. Una ars poetica, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1960, 12.

12 P. DEMIÉVILLE, «Letteratura cinese», in Le civiltà dell’Oriente, vol. II, Roma, Casini, 1957, 927.

13 Cfr LU JI, L’arte della scrittura, Parma, Guanda, 2002. Cfr l’interessante parallelo con Orazio in A. Bujatti, «Orazio, Lu Ji e la nobiltà della parola scritta», in Oss. Rom., 12-13 marzo 2007. Desideriamo ringraziare la sinologa Anna Bujatti per la generosa consulenza fornitaci nella stesura di questo articolo.

14 Risulta di grande efficacia sfogliare, ad esempio, i volumi E. Fazzioli - E. Chan Mei Ling, Caratteri cinesi. Dal disegno all’idea, 214 caratteri per comprendere la Cina, Milano, Mondadori, 2003 e Y. Huaqing, La scrittura cinese. La simbologia degli ideogrammi dall’oggetto alla sua astrazione grafica, Milano, Vallardi, 2003, dove tutti i caratteri fondamentali sono analizzati nel processo di trasformazione dalla primitiva rappresentazione dell’oggetto alla grafia attuale.

15 Ricaviamo gli esempi da F. Cheng, La poesia T’ang, Napoli, Guida, 1987, 240 s.

16 Cfr The New Directions Anthology of Classical Chinese Poetry, cit., XXVI.

17 Ivi, XXI.

18 A. MALRAUX, La tentazione…, cit., 91-93.

19 Cfr E. FENOLLOSA, L’ideograma cinese, cit., 15.

20 Ivi, 17.

21 Fenollosa ricorda che in inglese il verbo «è (is)» deriva dalla radice ariana as, cioè respirare, ed «essere (to be)» deriva da bhu, cioè crescere. Cfr ivi, 24.

22 Come nella poesia cinese due segni in fila non vengono letti come la loro addizione ma come il loro prodotto, così anche due fotogrammi successivi. Per cui far vedere un cane e una bocca significa «abbaiare», ma una bocca e un uccello «cantare» ecc. Cfr il saggio «Il principio cinematografico e l’ideogramma», in S. Ejzenštejn, La forma cinematografica, Torino, Einaudi, 1986.

23 Cfr E. FENOLLOSA, L’ideograma cinese, cit., 16.

24 Les formes du vent. Paysages chinois en prose, Paris, Albin Michel, 2007. Abbiamo già citato l’edizione italiana.

25 Il guizzo di cui parla Lu Ji ha una sonorità propria: non bisogna dimenticare che la poesia veniva non solamente letta ma anche recitata, quasi cantata. Questo sfugge totalmente al lettore che legge in traduzione, e sfugge ormai, in parte, persino al lettore cinese moderno, ma è un aspetto che non può essere ignorato, anche perché determina la scelta dei vocaboli in funzione della loro musicalità.

26 Scrive Kerouac commentando una traduzione di Japhy: «“Perché non lo traduci così com’è, cinque segni, cinque parole? Cosa sono quei primi cinque segni?”. “Segno per salire, segno per su, segno per freddo, segno per montagna, segno per sentiero”. “Be’, allora traduci ‘Salendo su sentiero Montagna Fredda’». «“Già, ma allora come fai col segno di lungo, il segno di gola, il segno di ingombro, il segno di valanga, il segno di grandi rocce?”. “Dove sono?”. “Nel terzo verso, che infatti si dovrebbe leggere come ‘Lunga gola ingombra valanga grandi rocce’”. “Be’, così va ancora meglio!”»: J. Kerouac, I Vagabondi del Dharma, in Romanzi, Milano, Mondadori, 2006, 549.

27 Riprendiamo le differenti traduzioni rispettivamente dai volumi curati da L. V. Arena e da F. Cheng, già entrambi citati.

28 La seconda traduzione è di Benedikter nel volume da lui curato, la prima è di Girolamo Mancuso nell’introduzione alla sua antologia Poesie cinesi d’amore e di nostalgia, Roma, Newton Compton, 1995.

29 Cfr A. SPADARO, «“… nel linguaggio la nostra coscienza”. La narrativa di Gao Xingjian», in Civ. Catt. 2002 II 150-157.

30 Cfr G. Xingjian - Y. Lian, Il pane dell’esilio. La letteratura cinese prima e dopo Tienammen, Milano, Medusa, 2001, 52.

31 E. FENOLLOSA, L’ideogramma cinese, cit., 26.

32 C. DAMIANI, Sognando Li Po, cit., 7 s.

33 E. BONO, I galli notturni, Milano, Garzanti, 1952, 151.

34 Qui ci limitiamo a segnalare al pubblico italiano Nuovi poeti cinesi, Torino, Einaudi, 1996 e due splendidi testi di Ai Qing: La mangiatoia, Novara, Interlinea, 1999 e Id., Morte di un nazareno, ivi, ambedue a cura di A. Bujatti.

35 E. FENOLLOSA, L’ideogramma cinese, cit., 11.

36 L. V. ARENA, «Introduzione», in Poesia cinese dell’epoca T’ang, cit., 22.

© La Civiltà Cattolica 2008 III 127-139 quaderno 3794

domenica 30 agosto 2009

XXII Domenica

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 7,1-8.14-15.21-23.

Allora si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani immonde, cioè non lavate - i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi, e tornando dal mercato non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame - quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo». Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo».

***

Il messaggio evangelico di questa Domenica è piuttosto dirompente,lo era per la mentalità giudaica dei tempi di Gesù, lo è ancora oggi in molti ambienti cristianizzati e non cristianizzati. Ai tempi di Gesù vi erano, come è noto, per gli ebrei osservanti una serie numerosissima di prescrizioni rituali di purificazione. Ma se vogliamo anche oggi vi sono certi ambienti dove vige la regola della casta che non può in alcun modo venire a contatto con gli "intoccabili", oppure non sono rari certi schizofrenici modi di vivere in cui "si filtra il moscerino e si ingoia il cammello" per usare sempre una parafrasi evangelica!
Ecco allora che si può essere super curati (anche esteticamente...)pulitissimi fuori ma avere nel proprio cuore molta sporcizia. Questo non significa che non bisogna curare il proprio aspetto esteriore, ma che spesso ci fermiamo solo a quello. Così sempre con un'altra immagine evangelica, è come se pulissimo il bicchiere solo dal di fuori e lasciassimo sporco l'interno. Cos'è allora che ci sporca dentro? E' il fumo prodotto dalle cattive passioni, dalle gelosie, ma anche dai risentimenti verso coloro che ci hanno fatto del male, sono questi come dei veleni che intossicano il nostro cuore, come l'aria troppo inquinata sporca i nostri polmoni. Ecco allora che il fumo della maldicenza, del puntare il dito, dell'avidità sregolata verso cose o persone, può intossicare il nostro ambiente interiore e i "polmoni" del nostro cuore. Dovremmo arrivare a comportarci con il nostro cuore così come facciamo con le nostre abitazioni, o con le cure che utilizziamo per il nostro corpo, palestre, begli abiti, boni cibi!

venerdì 28 agosto 2009

2009 Odissea nel Mediterraneo

Reazioni all'ultimo naufragio consumatosi nel Canale di Sicilia

La morte di oltre 70 immigrati che cercavano di raggiungere la Sicilia rappresenta una “grave offesa all’umanità e al senso cristiano della vita” ha detto all’Adnkronos mons. Bruno Schettino, Presidente della Commissione episcopale per le migrazioni e Arcivescovo di Capua.

Secondo il racconto di cinque superstiti di nazionalità eritrea, tra cui una donna, soccorsi giovedì al largo di Lampedusa, la loro imbarcazione sarebbe salpata parecchio tempo fa e dopo due giorni il timoniere avrebbe perso la rotta, lasciandoli in balia del mare per oltre venti giorni.

In questi giorni diverse imbarcazioni li avrebbero avvistati ma solo un peschereccio si sarebbe fermato per dar loro un po’ di acqua e di pane, senza però lanciare l’allarme. 73 immigrati sarebbero così morti di stenti e i loro corpi gettati in mare.

Quello che si percepisce da questa vicenda, ha affermato mons. Schettino, è “un senso di povertà dell’umanità, non c’è attenzione verso l’altro, verso gente che è in fuga dalla guerra, dalla miseria, dalla povertà in cerca di serenità e di pace”.

“È una morte assurda - ha sottolineato - donne bambini innocenti gettati in mare, è il senso dell’uomo che decade, urge l’impegno dei cristiani di attivarsi concretamente verso coloro che soffrono, il problema è umano prima che politico”.

In una intervista alla Radio Vaticana, il Vescovo di Agrigento, mons. Francesco Montenegro, ha detto che “'non dobbiamo spaventarci' davanti ai grandi numeri perché ci sono altri piccoli numeri a cui nessuno fa caso e il Mar Mediterraneo è diventato una tomba, ormai”.

Il presule ha poi aggiunto di provare “dolore nel vedere che gli uomini, per poter vivere, debbano affrontare la morte e devono morire perché hanno voglia di vivere un po’ meglio e un po’ di più”.

In merito alla politica dei respingimenti del governo sancita dal trattato tra Italia e Libia entrato in vigore il 14 maggio scorso, e dalla normativa che rende illegale l’immigrazione clandestina, il Vescovo di Agrigento ha quindi definita “assurda una legge che chiude porte e finestre e non tenga conto della situazione e della sofferenza di tanta gente”.

Per il presule il timore di soccorrere queste navi non è altro che “il frutto della cultura dell’allontanamento e della non-accoglienza”; “a furia di respirare quest’aria, si assumono questi atteggiamenti”.

“Ma è la filosofia e la politica che si stanno portando avanti – ha osservato – : creare un clima di paura, e questo assicura che loro possono morire come animali in mezzo al mare e noi abbiamo risolto i nostri problemi”.

“I diritti umani, perché ci sono? Perché festeggiamo gli anniversari dei diritti umani che dicono che un uomo ha diritto a spostarsi quando la vita non gli è possibile o quando la politica non gli permette una vita serena?”, si è quindi chiesto.

Nel fargli eco lo stesso Vescovo di Mazara del Vallo, mons. Domenico Mogavero, in un'intervista pubblicata dal quotidiano “Liberazione”, ha osservato che i marinai che incontrano le navi dei clandestini hanno paura di aiutarli perché temono di venire “incriminati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina”.

“Il Mediterraneo è un mare pattugliatissimo – ha affermato –, mi pare difficile che nessuno si accorga del barcone. Questo probabilmente è il massimo di tolleranza permesso, e cioé fingere di non vedere”.

Dalle pagine del quotidiano dei Vescovi italiani, “Avvenire”, Marina Corradi ha ribadito che “nessuna politica di controllo della immigrazio ne consente a una comunità internazionale di lasciare una barca carica di naufraghi al suo destino”.

“Esiste una legge del mare – ha aggiunto –, e ben più antica di quella pure codificata dai trattati. E questa leg ge ordina: in mare si soccorre. Poi, a ter ra, opereranno altre leggi: diritto d’asi lo, accoglienza, respingimento. Poi. Ma le vite, si salvano”.

“E invece quel barcone vuoto – non il pr mo arrivato come un relitto di morte al la soglia delle nostre acque – dice del farsi avanti, tra le coste africane e Mal­ta, di un’altra legge”, “la nuova legge del non vedere”, si legge nell'editoriale di “Avvenire”.

Durante il nazismo quando venivano deportati gli ebrei, ha sottolineato la Corradi, “erano il totalitarismo e il terrore, a far chiudere gli occhi. Oggi no. Una quieta, rassegnata in differenza, se non anche una infastidita avversione sul Mediterraneo. L’Occidente a occhi chiusi”

mercoledì 26 agosto 2009

Medjugorie e la fantascienza


Dunque, tornando ai fatti di Medjugorie, è indicativo anche il fatto che alcuni dei veggenti che continuano ad avere le apparizioni della Madonna si siano trasferiti dal loro villaggio di origine per motivi di lavoro o di famiglia e non sono andati a vivere in mezzo alla giungla o in in qualche zona desertica, ma in paesi come gli Stati Uniti, o nel nord dell'Italia, comunque in zone tecnologicamente avanzate dove non mi pare si siano verificati eventi catastrofici nonostante gli innumerevoli rosari recitati dai gruppi di preghiera! Ne' i capi di stato hanno lì subito tremendi attentati, come si vede in un (per altro cose gradevolissimo) film di fantascienza di alcuni anni fa, credo il 2003, dove tra un gruppo di umani mutanti ce n'è uno che abita in una fatiscente cattedrale, somiglia d'aspetto ad un demone, ha persino una luna coda, e recita continuamente la corona del Santo Rosario oppure dei versetti dal Libro dei Salmi, e fin qui...peccato che sia proprio questo mutante al'inizio del film ad attentare alla vita del presidente della Stati Uniti! Ma il film,che si intitola "X-Men2", finisce bene, con la pace stipulata tra il gruppo di "mutanti" e la Casa Bianca. Rimane solo il dubbio su come possa percepire questa storia chi è completamente a digiuno di argomenti agiografici e religiosi. I santi non sono dei "mutanti" che a loro volta possono generare (quando ciò gli viene concesso) degli altri mutanti, come nel film! Eppure a volte le storie dei santi narrano di poteri straordinari a loro concessi a volte anche sulle forze della natura: come si fa per non generare confusione e ambiguità? Certo è che chi opera per la sicurezza pubblica deve ben sapere la differenza tra un rituale vudu e la preghiera privata di una donnetta devota che accende qualche lumino nella sua casa davanti al Crocifisso o al Sacro Cuore di Gesù, tra i satanisti e il canto in lingue dei gruppi di preghiera del Rinnovamento, tra l'adorazione del Santissimo Sacramento e un rituale di iniziazione massonico, ecc. ecc. Così prima di mandare qualcuno al trattamento sanitario obbligatorio per delirio mistico o privarlo delle sue libertà fondamentali è meglio approfondire la faccenda facendosi aiutare da qualche esperto della materia.
Siamo bravi e solidali nei confronti della superstizione dei "bambini stregoni" dell'Africa, che vengono ostracizzati e abbandonati nei loro villaggi, ma poi rischiamo di compiere subdolamente a volte anche inconsapevolmente cose peggiori nei confronti di qualche creatura che manifesta qualche particolare caratteristica o spiccate propensioni religiose. Ma anche mi pare doveroso per le forze dell'ordine proteggere coloro che il Signore favorisce con grazie speciali, qualora le autorità religiose preposte a farlo si ritrovino nell'impossibilità di agire oppure vengano ostacolate. Infatti i santi sono patrimonio dell'intera umanità e non solo della confessione religiosa alla quale appartengono, viene da pensare all'Unesco, ci vorrebbe una sorta di Unesco per i santi! I santi sono i capolavori di Dio, come certe opere della natura o dell'ingegno umano, la divina sapienza li prepara dall'eternità curandone ogni minimo dettaglio. Ora, tornando a Medjugorie, la Madonna sta preparando delle schiere, degli eserciti di santi in tutti questi anni, insegna a pregare, a digiunare, a compiere atti di carità, insegna anche a gustare il buon sapore della pace di cui testimoniano tutti coloro che passano da Medjugorie e questa è realtà, non fantascienza.
(Continua)
MLA

lunedì 24 agosto 2009

Medjugorie


Alla fine (anche se ancora non è alla fine), dopo così tanto tempo, che cosa si può dire di tutta la vicenda di Medjugorie? Cercando di focalizzare l'attenzione sull'insieme degli eventi e come e dove si sono e si stanno manifestando, lasciando perdere le polemiche, le vere o presunte persecuzioni, qual è il primo evidente messaggio di Maria? La risposta è proprio nella singolare lunghezza di questo "ciclo" di apparizioni. Perché?
Andiamo per ordine: Maria appare a dei bambini, inizialmente fuori da spazi "sacri" delimitati, in seguito nei locali della parrocchia a cui quella zona faceva riferimento. Continua a farlo indipendentemente dai luoghi in cui questi bambini, divenuti giovani, si recano per i motivi più diversi, che vanno dalle fasi di studio "medico-sanitario" a cui sono stai sottoposti a quelle dello loro vite private e personali, il matrimonio, il lavoro, ed altro... Questi bambini diventano adulti e vivono "nonostante" le apparizioni, una vita perfettamente normale! Tanto più che hanno tutti formato una famiglia...e non vivono reclusi in qualche convento. Allora Maria si è comportata in un certo senso come un "direttore spirituale" un po' speciale, certo, ma anche come una di quelle mamme coraggiose (mi si perdoni il paragone, ma rende bene l'idea) che avendo perso il proprio figlio in modo prematuro e violento, cerca di associarsi con altre mamme per prevenire che capitino ancora simili cose. Mi rendo conto che messa così puà sembrare una vera eresia. Ma è evidente come Maria in tutti questi anni abbia insegnato innanzitutto, a cominciare dalla piccola parrocchia medjugoriana, e poi via via più lontano come si posaa vivere una intensa vita spirituale (lo dimostrano bene gli innumerevoli gruppi di preghiera lì nati)ed una vita perfettamente normle. Oppure, è il caso dei giovani veggenti, come ci si deve comportare nel caso compaiano certi carismi spirituali che a volte si manifestano già nell'infanzia. Pensiamo anche alla grande diffusione dei gruppi di preghiera del Rinnovamento nello Spirito Santo, dove certi carismi non solo sono dati per scontati, ma si cerca anche di educarli, perché, come qualunque altro talento dell'uomo, lo si accolga con amore e non con timore e lo si metta al servizio dei fratelli. Ecco allora da tanti anni Maria sta "normalizzando" situazioni strordinarie. Ma perché fa questo? Non dovrebbe essere scontato...almeno in certi ambienti? Una volta mi è capitato di ascoltare una sorella monaca claustrale di sconsigliare la priora del convento ad accogliere una giovane con carismi particolari, perché, testuali parole, avrebbe rovinato la quiete del monastero e sarebbe cominciato un anomalo afflusso di visitatori. Nè più nè meno come certi altri ambienti ahimè, delle forze dell'"ordine" dove ancora vi è una sgradevole e anacronistica confusione in campo religioso e a volte non vi è alcuna distinzione tra un fervente cattolico e un terrorista o tra e il kamicaze islamico e un "normale" musulmano praticante e dove dei fratelli ebrei si sa solo che sono "potenti". A buona ragione è stato infatti recentemente proposto in paese europeo a noi vicino, un corso di istruzione su ebraismo, cristianesimo e islamismo per le persone che devono operare per la sicurezza pubblica. Cari amici le continue e lunghissime apparizioni ai veggenti di Medjugoria dovrebbero avere già abbondantemente dimostrato che mentre il veggente di turno è in estasi e sta vedendo la Vergine Santissima, non accadono catastrofi, terremoti, maremoti, non cadono aerei dal cielo...No non sono questi gli effetti di questi fenomeni. Avviene esattamente il contrario! Qundo il divino fa irruzione nel cuore dell'uomo viene elevata tuttale creazione. Viene fecondata tutta l'attività dell'uomo, lo scienziato scopre qualcosa di nuovo, l'artista ha una nuova ispirazione...ecc. ecc. Allora, proprio come è riportato anche dal catechismo della Chiesa Cattolica, un uomo che si eleva spiritualmente, eleva al contempo tutta l'umanità e, al contrario, un uomo che di degrada, degrada al contempo tutta l'umanità, il peccato infatti non è mai un atto solo personale, ma è sempre un atto anche sociale. Ma, attenzione, non è che ci eleviamo solo vedendo Maria Santissima, ma anche facendo un semplice atto di generosità, di accoglienza, di perdono, anche facendo semplicemente al meglio e con amore il nostro umile lavoro quotidiano,e non con rabbia, scontentezza, malavoglia...
Esiste una meravigliosa santità nascosta, nota a pochi, forse a Dio solo, che è molto cara alla Madonna, perché è come la vita nascosta del suo figlio Gesù quando per trent'anni aveva aiutato il padre falegname a Nazareth. Esiste poi una forma di santità più evidente e che comporta anche dei "segni" esteriori, quale fu quella di Nostro Signore nei suoi anni di vita pubblica (non è un caso se ce li ha proposti entrambi), guai se accettiamo un modello e scacciamo l'altro! Ecco che Maria di Medjugorie con le sue apparizioni, il sole che ruota,le luci nel cielo, ecc. ecc. ci riequilibria dal rischio sempre forte di ricadere nel secolarismo, oppure in una forma di religiosità "sotto vuoto spinto", e "sotto anestesia"... (continua)
MLA

domenica 23 agosto 2009

Andate in pace

La Santa Sede approva tre alternative all'“Andate in pace”

La Santa Sede ha approvato tre proposte alternative all'“Ite, missa est” (“Andate in pace”), il saluto finale della Messa. I cambiamenti sono stati notificati ai partecipanti al Sinodo dei Vescovi dal Cardinale Francis Arinze, prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Le alternative sono state approvate da Papa Benedetto XVI in risposta a una richiesta presentata dal Sinodo del 2005 sull'Eucaristia, in cui erano state chieste formule che esprimessero il carattere missionario che deve seguire alla celebrazione eucaristica.

Secondo quanto ha reso noto il Cardinale nigeriano, il Papa ha chiesto che gli venissero presentati dei suggerimenti. La Congregazione vaticana ne ha ricevuti 72, con i quali ne ha redatti nove. Il Pontefice ne ha scelti tre.Le tre formule alternative compaiono nella terza edizione “typica” (di riferimento) emendata del Messale Romano stampata la settimana scorsa, ha spiegato il porporato.

Queste tre formule sono.
- "Ite ad Evangelium Domini nuntiandum" (“Andate ad annunciare il Vangelo del Signore).
- "Ite in pace, glorificando vita vestra Dominum" (“Andate in pace, glorificando con la vostra vita il Signore”).
- "Ite in pace" (“Andate in pace”). Nel tempo pasquale si aggiunge "alleluia, alleluia".

La formula latina "Ite missa est" non viene eliminata.Lo stesso Cardinal Arinze ha spiegato che il Compendio Eucaristico, che era stato chiesto dal Sinodo sull'Eucaristia, è quasi terminato.

E' un libro che definisce la dottrina sull'Eucaristia, la benedizione, l'ora santa eucaristica, l'adorazione, le preghiere prima e dopo la Messa...Il porporato ha detto che la Santa Sede, su indicazione del Papa e su richiesta del Sinodo precedente, sta anche studiando il momento più adeguato per collocare nella celebrazione eucaristica il gesto della pace.

Il Santo Padre ha detto che bisogna scegliere: o prima dell'“Agnus Dei” (“Agnello di Dio) o dopo la preghiera dei fedeli. Ogni Conferenza Episcopale deve rispondere prima della fine del mese di ottobre. La Congregazione concederà tre settimane a chi presenterà proposte in ritardo. Le proposte verranno poi esposte al Pontefice, che in seguito deciderà.

Il Cardinale ha concluso rivelando che la sua Congregazione sta preparando un volume con materiale per omelie tematiche per facilitare la predicazione dei sacerdoti nel mondo.

XXX Edizione Meeting per l'amicizia tra i popoli

Al via domenica 23 la XXX edizione del Meeting
Benedetto XVI: "Raccogliete le sfide e gli interrogativi che i tempi di oggi pongono alla fede"
L’uomo, il suo rapporto con il mondo e la dinamica con la quale conosce: c’è questo tema a Rimini da domenica a sabato 29 agosto, alla XXX edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli. “La conoscenza e’ sempre un avvenimento” e’ il titolo del Meeting 2009, che proporrà testimonianze ed esperienze da tutto il mondo, per documentare come la conoscenza non sia solo la registrazione intellettuale di un fenomeno, ma avvenga attraverso l’imbattersi in qualcosa o qualcuno che introduce un elemento di novità o di giudizio. Una dinamica che vale di fronte a ogni aspetto della realtà contemporanea: dalla risposta alla crisi economica globale alle sfide della politica estera o al confronto con gli interrogativi della bioetica.

L’edizione del trentennale si apre con l’augurio di Papa Benedetto XVI al Meeting di continuare “a raccogliere le sfide e gli interrogativi che i tempi di oggi pongono alla fede”. Nell’inviare al Meeting il saluto e la benedizione apostolica del Santo Padre, il Segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, riflettendo sul tema di quest’anno, ha sottolineato i limiti in particolare della conoscenza scientifica che proponga “il ‘dogma’ positivista della pura obbiettività”. “La pura obiettività – afferma il messaggio – risulta (…) pura astrazione, espressione di una gnoseologia inadeguata e irrealistica”.

“Non il distacco e l’assenza di coinvolgimento – aggiunge il messaggio della Santa Sede - sono l’ideale da rincorrere, peraltro invano, nella ricerca di una conoscenza ‘obiettiva’, bensì un coinvolgimento adeguato con l’oggetto, un coinvolgimento atto a far giungere a chi interroga la conoscenza il suo specifico messaggio”.

Un primo approfondimento sul tema del Meeting sarà l’incontro con Carmine di Martino, Docente di Gnoseologia all’Università degli Studi di Milano, e il contributo di Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, sulla figura di San Paolo.

Una conoscenza che diviene così avvenimento, incontro, e di cui il Meeting si propone di essere un luogo privilegiato nei prossimi giorni, attraverso la consueta ricchezza di proposte: 116 incontri, 8 grandi mostre, 26 spettacoli e 299 relatori e protagonisti vari. Già nella giornata inaugurale, il Meeting offrirà uno sguardo d’eccezione sul mondo, con un incontro dedicato all’Africa (alla presenza di vari leader di governi africani, insieme al Ministro degli Esteri Franco Frattini) e un altro che rifletterà sulla Cina a 20 anni dai fatti di Tienanmen, con la testimonianza di Harry Wu, storico dissidente cinese.

Nel corso dei sette giorni del Meeting, sono attesi personaggi come l’ex premier britannico Tony Blair, il governatore di Bankitalia Mario Draghi, il presidente del Senato Renato Schifani, il filosofo Rémi Brague, i premi Nobel per la fisica John Mather e Charles Townes, la giurista Mary Ann Glendon, l’ex governatore della Florida Jeb Bush, l’imprenditore dei media James Murdoch, il cantautore Enzo Jannacci e il compositore Ennio Morricone. Si discuterà della situazione economica con il ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti, Pierluigi Bersani, Enrico Letta e vari esponenti del mondo politico, imprenditoriale, finanziario e sindacale; di giustizia con il ministro Angelino Alfano e il vicepresidente del CSM Nicola Mancino; e di una vasta gamma di altri temi con protagonisti del mondo culturale, politico ed economico italiano e internazionale.

sabato 22 agosto 2009

Direcciòn Espiritual

¿Qué es la Dirección Espiritual?
por Padre John McCloskey

Abre las páginas de tu guía de teléfono. Allí encontrarás una lista de abogados, consejeros financieros, plomeros, electricistas, farmacéuticos, banqueros y aún entrenadores físicos. Todas estas personas saben más acerca de sus negocios que nosotros. Por ello, les pagamos para que nos ayuden en su particular especialidad. A algunos de ellos los llegamos a consultar regularmente e incluso algunos también son buenos amigos. Todos sus consejos son dirigidos a ayudarnos en la vida presente.

Adicionalmente, encontrarás docenas de listas de personas como sicólogos, siquiatras y sicoterapeutas y otros. A pesar que estos profesionales de la salud pueden desempeñar una útil función, a veces, actúan como reemplazantes de los directores espirituales dando erróneas o infortunadas respuestas a problemas espirituales. Sus consejos dependen de su particular experiencia la cual a menudo se basa en teorías naturalistas o ideologías las cuales pueden hacer mucho más mal que bien.

La única pregunta verdaderamente con valor es aquella del joven rico del Evangelio ¿Qué debo hacer para heredar la vida eterna? La cual conduce a otras pregunta tales como ¿Cómo puedo alcanzar la santidad en esta vida? o ¿Qué es Dios para mí? Las respuestas de Dios para estas preguntas pueden darse por distintos caminos. Simplemente siguiendo los Diez Mandamientos como están escritos en nuestros corazones en la ley natural y vienen a nosotros por medio de la Palabra de Dios, es un buen comienzo como Jesús aconsejo al joven rico. También podemos ver la Revelación Divina que no llega por la Sagrada Escritura y la tradición – los consejos de la Iglesia a través de la enseñanza autorizada y los sacramentos. Luego podemos ver el estado de nuestra vida actual y las experiencias de nuestra vida pasada para tener buenas indicaciones sobre lo que Dios quiere de nosotros en el momento presente.

Sin embargo, para encontrar las respuestas a estas cuestiones, cada Católico debería tener un director espiritual. Como el Beato Josemaría Escrivá señalo “No se te ocurriría construir una buena casa para vivir en la tierra sin consultarle a un arquitecto. ¿Cómo quieres levantar sin un Director el alcázar de tu santificación para vivir eternamente en el cielo?" Esto es verdad para todo el mundo, no sólo para el pobre, el simple o analfabeto sino aún más para el satisfecho con su éxito. Escrivá sigue diciendo "Tú crees que realmente eres alguien: tus estudios - tus trabajos de investigación, tus publicaciones -, tú posición social - tus apellidos -, tus actuaciones políticas - los cargos que ocupas, tu patrimonio, tu edad..., ¡ ya no eres un niño!...

Precisamente por todo eso necesitas más que otros un Director para tu alma." Puedes tener varios o incluso muchos durante el curso de tu vida. El te proverá de las respuestas a tus preguntas según cambien nuestras circumstancias y como crezcamos “en sabiduría y gracia.” Además, el no te cobrará.

Cada uno de nosotros es singular

Cada persona es un singular hijo de Dios con su particular código genético, temperamento y experiencias de vida. Dios tiene un plan específico para cada uno. Discernir este plan particular debería ser el continuo fin de todo cristiano serio. Como Dios normalmente prefiere trabajar a través de causas secundarias, surge directamente de los tiempos apostólicos, la práctica de buscar una dirección espiritual personal de una persona sabia y prudente quien puede guiarnos a lo largo del camino a la santidad con todas sus inesperadas vueltas y cambios.

Uno buscaría con gran dificultad a través de la historia para encontrar santos canonizados que no hayan recibido dirección espiritual con regularidad. Después de todo, aún nuestra Bienaventurada Madre, la Inmaculada Concepción, encontró su vocación por medio de las palabras del Arcángel Gabriel. Y aún preguntó como sucedería todo esto.

¿Dónde buscar?

¿Dónde puedes encontrar un director espiritual? Hay que hacer como dicen en Wall Street, con “la diligencia debida.” Esto es hacer una cuidadosa búsqueda antes de elegir un director espiritual, tal vez más que para buscar esposo o elegir el colegio correcto. Después de todo, estas buscando una persona a la que, en parte, le estás confiando la salvación y la santificación de tu alma inmortal. Recuerda que tu eres el comprador y que esto puede tomar varias pruebas hasta encontrar la persona correcta o la organización que sea más conveniente a tus necesidades.

Tu director espiritual puede ser un sacerdote o un laico. Un posible camino es ver en a tus amigos quienes claramente toman seriamente su vida interior y apostólica. Unos ayudan a los otros. Pregúntales por una referencia. Si ves en ellos un esfuerzo serio por la santidad, no hay duda que ellos se están aprovechando de un buen director espiritual.

Un segundo camino es buscar una persona, un sacerdote o un laico, en quien tu veas una profunda piedad, sabiduría, experiencia, madurez, celo por las almas y una incuestionable fidelidad a todas las enseñanzas de la Iglesia. El no necesita un formal entrenamiento en dirección espiritual. Las características que se mencionan son suficientes para dictar clases o para un título. Después de todo el primer director espiritual de Karol Wotyla fue un sastre. Luego trata de conseguir de el un tiempo libre para ti. Te garantizo que tiene una larga fila de clientes.

El tercer camino para encontrar un director espiritual cada vez más popular y accesible en esta época del laicado es aprovecharse de la formación provista para laicos por congregaciones religiosas y por las varias instituciones laicas las cuales tiene como especialidad la formación de laicos. Allí encontrarás una bien definida espiritualidad completada con actividades formativas y litúrgicas tanto personales como colectivas, doctrinales y ascéticas hechas a la medida para tu situación particular. Ellos a menudo, proveen los servicios de tanto sacerdotes como laicos empapados en una particular espiritualidad.

¿Con qué frecuencia?

¿Qué hay acerca de la dirección espiritual en sí misma? Deberás tratar de hacerla de modo regular, generalmente no menos que mensualmente y a menudo semanal o quincenalmente. A pesar que las necesidades varían, normalmente una sesión bien preparada de dirección espiritual no necesita más que una media hora. Es bueno concretar las resoluciones tomadas de las normalmente pocas palabras del consejo dado. Estas resoluciones deben ser llevadas a la oración y acción y luego hablar sobre ellas si es posible, en el próximo encuentro. Trata de no dejar nunca tu encuentro sin fijar la próxima cita.

¿Dé que hablar? Muchas o pocas cosas. Tal vez tu quieras establecer las reglas con el director mismo. Ciertamente la calidad y cantidad de tu oración y lectura espiritual y vida sacramental siempre deberían ser tratadas. Tu lucha por vivir como cristiano en el matrimonio y familia, trabajo, amistades y vida social debe normalmente ser considerada específicamente. Esto requerirá un esfuerzo dirigido a una especial área de la vida la cual necesita mejorar estos defectos o fallas que te impiden hacer progresos más rápidos hacia la santidad. Con el tiempo, tus esfuerzos para compartir tu fe de un modo natural con aquellos que te rodean pueden ser también un tópico de discusión. Estos esfuerzos pueden tener buenos resultados en gracias de Dios en reconciliaciones, conversiones y vocaciones. Y, oh sí, de ves en cuando puedes simplemente tener la necesidad de liberarte de inesperadas alegrías y tristezas que vienen en el peregrinar por la casa de Dios, tu Padre. Si estas viendo un sacerdote para dirección también puedes recibir el Sacramento de la Penitencia, agregando la gracia sacramental a las otras gracias recibidas al haberte abierto y sido dócil en la conversación con tu director espiritual.

Los católicos ahora en un número de más de un billón “cruzando el umbral de la esperanza” en el Jubileo del año 2000, pero infortunadamente cuantos como Thomas Merton, hablando de si mismo, en “La montaña de siete pisos” dice “relegados a los rangos de la tibieza, estupidez y sin energía, los Cristianos indiferentes viven una vida que es medio animal y quienes apenas hacen un esfuerzo por mantener vivo el aliento de la gracia en sus almas” Merton se responde “debí haber buscado una dirección espiritual completa y constante.” La dirección espiritual es un importante paso para ayudarnos a identificarnos con Cristo para que podamos ayudarnos a construir a través de nuestra oración y sacrificio la “civilización del amor y la verdad” que Juan Pablo II prevee para las próximas décadas.

mercoledì 19 agosto 2009

Assunzione

"Ella è madre dell'umanità intera" Omelia di san Josemaría "La Vergine Santa, causa della nostra letizia", contenuta nel libro "E' Gesù che passa", in occasione della festa dell'Assunzione di Maria in Cielo.(Nell'immagine elaborazione grafica, MLA)

Assumpta est Maria in coelum, gaudent angeli, Maria è stata assunta da Dio, in corpo e anima, nei Cieli. Ne gioiscono gli angeli e gli uomini. Perché ci pervade oggi questa letizia intima, perché sentiamo il cuoretraboccante e l'anima inondata di pace? Perché celebriamo la glorificazione di nostra Madre, ed è naturale che i suoi figli, costatando l'onore tributatole dalla Trinità Beatissima, sentano una grande
allegrezza.

Cristo, suo Santissimo Figlio, nostro fratello, ce la diede come Madre sulCalvario quando disse all'Apostolo Giovanni: Ecco tua madre. Noi tutti l'abbiamo ricevuta, assieme al discepolo amato, in quel momento di immensa afflizione. Maria Santissima ci ha accolti nel dolore mentre si compiva l'antica profezia: Una spada ti trafiggerà l'anima. Tutti siamo suoi figli; Ella è Madre dell'umanità intera. E oggi l'umanità commemora la sua ineffabile Assunzione: Maria è accolta in Cielo, figlia di Dio Padre, madre di Dio Figlio, sposa di Dio Spirito Santo. Più di Lei, soltanto Dio.

Stiamo contemplando un mistero d'amore. La ragione umana non riesce a comprendere. Solo la fede può spiegare come una creatura umana sia stata elevata a una dignità così grande da essere il centro d'amore su cui convergono le compiacenze della Trinità divina. Ma, trattandosi di nostra Madre, ci sentiamo capaci, per così dire, di capire di più di quanto non ci sia concesso in altre verità di fede.

Come ci saremmo comportati se avessimo potuto sceglierci la madre? Credo che avremmo scelto quella che abbiamo, ma l'avremmo colmata d'ogni grazia. Così fece Gesù. Essendo onnipotente, sapientissimo e l'Amore stesso, il suo potere compì per intero tutto il suo volere.

E un ragionamento che i fedeli hanno scoperto da tempo: Era conveniente — scrive san Giovanni Damasceno — che colei che nel parto aveva conservato integra la sua verginità conservasse integro da corruzione il suo corpo dopo la morte. Era conveniente che colei che aveva portato nel seno il Creatore fatto bambino abitasse nella dimora divina. Era conveniente che la Sposa di Dio entrasse nella casa celeste. Era conveniente che colei che aveva visto il proprio figlio sulla Croce, ricevendo nel corpo il dolore che le era stato risparmiato nel parto, lo contemplasse seduto alla destra del Padre. Era conveniente che la Madre di Dio possedesse ciò che le era dovuto a motivo di suo figlio e che fosse onorata da tutte le creaturequale Madre e schiava di Dio.

I teologi, perché si potesse comprendere in qualche modo il senso di tutta l'abbondanza di grazie di cui Maria è rivestita e che culmina nell'Assunzione in Cielo, si sono espressi sovente con ragionamenti simili. Essi dicono: Era conveniente, Dio poteva farlo, quindi lo fece. È la spiegazione più chiara del perché il Signore concesse a sua Madre, fin dal primo istante della sua concezione immacolata, tutti i privilegi. Fu immune dal potere di Satana ed è tutta bella — tota pulchra! —, senza macchia e purissima nell'anima e nel corpo.

Guardate, però, che se Dio ha voluto innalzare in tal modo sua Madre, non le ha risparmiato, durante la sua vita terrena, né l'esperienza del dolore, né la stanchezza del lavoro, né il chiaroscuro della fede. A quella donna che un giorno proruppe in lodi a Gesù esclamando: Beato il grembo che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte, il Signore risponde: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano. Era l'elogio di sua Madre, del suo fiat, sincero, pieno di dedizione, portato a compimento fino alle ultime conseguenze, che non si
sarebbe manifestato in gesti spettacolari, ma nel sacrificio nascosto e silenzioso di ogni giorno.

Quando meditiamo queste verità, comprendiamo un po' di più la logica di Dio; ci rendiamo conto che il valore soprannaturale della nostra vita non dipende dalla realizzazione delle grandi imprese che a volte ci figuriamo con l'immaginazione, ma dall'accettazione fedele della volontà di Dio, dalla disposizione generosa a far fronte al piccolo sacrificio quotidiano.

Per giungere a essere divini, per divinizzarci, è necessario imparare a essere molto umani, vivendo al cospetto di Dio la nostra condizione di uomini comuni e santificando questa apparente piccolezza. Così visse Maria. Colei che è piena di grazia, colei che è oggetto della compiacenza divina ed è al di sopra degli angeli e dei santi, condusse un'esistenza comune. Maria è una creatura come noi, ha un cuore come il nostro, capacedi provare la consolazione e la gioia, la sofferenza e le lacrime. Prima che l'Arcangelo le comunicasse la volontà di Dio, la Madonna ignorava di essere stata prescelta fin dall'eternità per essere la Madre del Messia. Si considerava creatura infima e perciò riconosce, con profonda umiltà, che in Lei ha fatto grandi cose l'Onnipotente.

La purezza, l'umiltà e la generosità di Maria contrastano con la nostra miseria e il nostro egoismo. Ce ne accorgiamo, ed è logico che ci sentiamo spinti a imitarla; siamo come Lei creature di Dio e, se ci sforziamo di essere fedeli, il Signore opera anche in noi grandi cose. La nostra pochezza non sarà di ostacolo: Dio sceglie infatti ciò che non ha valore perché risplenda di più la potenza del suo amore.

Maria, nostra Madre, è un modello di corrispondenza alla grazia; se noi contempliamo la sua vita, riceveremo dal Signore la luce necessaria per divinizzare la nostra esistenza quotidiana. Noi cristiani pensiamo molte volte alla Madonna nel corso dell'anno, quando celebriamo le festività mariane, e anche in diversi momenti di ogni giornata. Se approfittiamo di queste occasioni cercando di figurarci come si comporterebbe nostra Madrenei compiti che dobbiamo svolgere, un poco alla volta finiremo per imparare: e finiremo per assomigliarle, come i figli assomigliano alla
madre.

Si tratta di imitare innanzitutto il suo amore. La carità non si ferma ai buoni sentimenti: deve essere nelle parole, ma soprattutto nelle opere. La Vergine non si limitò a dire fiat, ma realizzò in ogni istante la sua decisione, stabile e irrevocabile. Così noi: quando ci muove l'amore di Dio e conosciamo la sua volontà, dobbiamo impegnarci a essere fedeli, leali, e a esserlo veramente. Perché non chiunque mi dice: « Signore, Signore! », entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.

Dobbiamo imitare, poi, la sua naturale e soprannaturale eleganza. Maria è una creatura privilegiata nella storia della salvezza: in Lei il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi. Eppure fu una testimone discreta, che seppe rimanere nascosta; non amò ricevere lodi, perché non ambiva la propria gloria. Maria partecipa ai misteri dell'infanzia di suo Figlio, misteri rivestiti di apparenze consuete; ma quando giunge il momento dei grandi miracoli e dell'osanna delle folle, Ella si nasconde. Quando Gesù, che cavalca un asinello, è acclamato a Gerusalemme come Re,Maria non c'è. Ma riappare accanto alla Croce, quando tutti fuggono. Questo contegno ha il sapore — non studiato — della grandezza, della profondità, della santità della sua anima.

Seguendo il suo esempio nell'obbedire al Signore, cerchiamo ora di capire l'insegnamento che ci viene dalla delicata combinazione di sottomissione e autorità che osserviamo in Maria. In Lei non c'è ombra del contegno delle vergini stolte, che obbediscono, ma senza criterio. La Madonna ascolta con attenzione quello che il Signore le chiede, riflette su quanto non comprende, domanda quello che non sa. Poi, si dà totalmente al compimento della volontà divina: Ecco la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto. Non è meraviglioso? Maria Santissima, maestra di tutto il nostro agire, ci insegna così che l'obbedienza a Dio non è servilismo, non
soggioga la coscienza: ci muove nel nostro intimo a scoprire la libertà dei figli di Dio.

Il Signore vi avrà concesso di scoprire tanti altri lineamenti della corrispondenza fedele della Santissima Vergine alla volontà di Dio, tutti di tale forza da indurci a considerarli come esemplari: la purezza, l'umiltà, la fortezza, la generosità, la fedeltà... Io vorrei parlare di uno che li avvolge tutti, perché è il clima del progresso spirituale: la vita di preghiera.

Per trarre profitto dalla grazia che in questo giorno la Madre nostra ci offre e per assecondare in ogni altro momento le ispirazioni dello Spirito Santo, pastore delle nostre anime, dobbiamo impegnarci seriamente in un attivo rapporto con Dio. Non possiamo rifugiarci nell'anonimato; la vita interiore è un incontro personale con Dio, altrimenti non esiste. La superficialità non è cristiana. Accettare la banalità nella nostra condotta ascetica è come sottoscrivere il certificato di morte dell'anima contemplativa. Dio ci cerca uno per uno. Noi dobbiamo rispondergli, uno
per uno: Eccomi, Signore, perché mi hai chiamato.

La preghiera, lo sappiamo bene, è un parlare con Dio. Qualcuno forse domanderà: parlare di che? Di che vogliamo parlare se non delle cose di Dio e di quelle che riempiono la nostra giornata? Parleremo della nascita di Gesù, della sua vita in questo mondo, del suo nascondimento e della sua predicazione, dei suoi miracoli, della sua Passione redentrice, della sua Croce e della sua Risurrezione. E alla presenza di Dio Uno e Trino, invocando la mediazione di Maria Santissima e l'intercessione di san Giuseppe nostro Padre e Signore — per il quale nutro tanto amore e tanta venerazione — parleremo del nostro lavoro quotidiano, della famiglia,
delle amicizie, dei grandi progetti e delle cose piccole e forse anche meschine.

Il tema della mia orazione è la mia stessa vita: tale è il mio modo di pregare. Considerando la mia situazione concreta, sorge naturale il proposito, preciso e risoluto, di cambiare, di migliorare, di essere più docile all'amore di Dio. Un proposito sincero, concreto. Né può mancare la supplica insistente e al tempo stesso fiduciosa allo Spirito Santo, perché non ci abbandoni, perché Tu sei il Dio della mia difesa.

Siamo dei comuni cristiani; lavoriamo in svariate professioni; tutta la nostra attività scorre lungo binari ordinari; tutto si svolge secondo un ritmo abituale, senza sorprese. I giorni sembrano tutti uguali tra di loro, perfino monotoni... Ebbene, questo schema di vita, in apparenza così consueto, ha un valore divino; è qualcosa che riguarda Dio stesso, perché Cristo vuole incarnarsi nelle nostre occupazioni e animare dal di dentro anche le azioni più umili.

Questo concetto è una verità soprannaturale precisa, sicura; non è unaconsiderazione per consolare, per confortare quanti tra noi non riusciranno a iscrivere il proprio nome nel libro d'oro della storia. Cristo stesso è interessato a quel lavoro che dobbiamo portare a termine — mille e una volta — nell'esercizio della nostra professione manuale o intellettuale, in ufficio, in fabbrica, in laboratorio, a scuola, nei campi: è interessato anche al sacrificio nascosto che si offre per non
riversare sugli altri l'amarezza del proprio malumore.

Tornate su questi argomenti nella vostra orazione, prendete spunto proprio da essi per dire a Gesù che lo adorate, e vi ritroverete contemplativi in mezzo al mondo, nel rumore della strada: ovunque. È questa la prima lezione nella scuola in cui si impara a trattare Gesù. In questa scuola Maria è la migliore maestra, perché conservò sempre un atteggiamento di fede, di visione soprannaturale, dinanzi a tutto ciò che accadeva nella sua vita: Custodiva tutte queste cose nel suo cuore e le meditava.

Supplichiamo in questo giorno la Madonna perché ci faccia contemplativi, perché ci insegni a comprendere gli appelli costanti che il Signore rivolge alla porta del nostro cuore. Preghiamola: Madre nostra, tu hai portato sulla terra Gesù che ci rivela l'amore di Dio nostro Padre; aiutaci a incontrarlo e a riconoscerlo in mezzo agli affanni di ogni giorno; muovi la nostra intelligenza e la nostra volontà perché sappiamo ascoltare la voce di Dio e seguire l'impulso della grazia.

Non pensate però soltanto a voi stessi: dilatate il vostro cuore fino ad abbracciare tutta l'umanità. Pensate, prima di tutto, a coloro che vi circondano — parenti, amici, colleghi — e cercate di vedere come far maturare in loro un senso più profondo di amicizia con Nostro Signore. Se sono persone rette e leali, capaci di vivere più vicine a Dio in modo abituale, affidatele in modo particolare alla Madonna. E pregate per tante anime che non conoscete, perché tutti gli uomini sono imbarcati sulla stessa barca.

Siate leali, generosi. Facciamo parte di un solo corpo, il Corpo Mistico di Cristo, la santa Chiesa, a cui sono chiamati molti che cercano con schiettezza la verità. È nostro preciso dovere, pertanto, manifestare agli altri lo splendore e la profondità dell'amore di Cristo. Il cristiano non può essere un egoista; se lo fosse, tradirebbe la sua vocazione. Non si ispira a Cristo il comportamento di coloro che si accontentano di conservare l'anima in pace — falsa pace — trascurando il bene degli altri.Dal momento che abbiamo accettato il significato autentico della vita
umana, rivelatoci dalla fede, non possiamo restarcene tranquilli e come persuasi che ci stiamo comportando bene, quando in realtà non cerchiamo in modo concreto e pratico che gli altri si avvicinino a Dio.

C'è un grosso ostacolo per l'apostolato: il falso rispetto, il timore di affrontare argomenti spirituali con l'idea che tali discorsi non saranno accettati in determinati ambienti e che si corre il pericolo di ferire talune suscettibilità. Quante volte questo modo di ragionare non è che la maschera dell'egoismo! Non si tratta di ferire nessuno, anzi, al contrario, di servire. Benché personalmente indegni, la grazia di Dio ci trasforma in strumenti a vantaggio degli altri, consentendoci di partecipare loro la buona novella: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità.

Ma è lecito entrare in tal modo nella vita degli altri? È necessario. Cristo è entrato nella nostra vita senza chiederci il permesso. Allo stesso modo aveva agito con i primi discepoli: Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: « Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini ». Ognuno conserva la libertà — falsa libertà — di rispondere al Signore di no, come fece quel giovane carico diricchezze di cui ci parla san Luca. Ma noi stessi, assieme al Signore — se
vogliamo essere obbedienti alla sua parola: Andate e insegnate — abbiamo il diritto e il dovere di parlare di Dio, di trattare questo grande tema umano, perché il desiderio di Dio è quanto di più profondo sgorga dal cuore dell'uomo.

Maria Santissima, Regina Apostolorum, Regina di tutti coloro che anelano di far conoscere l'amore del tuo Figlio: tu che tanto comprendi la nostramiseria, chiedi tu perdono per noi, per la nostra vita: per tutto quello che in noi sarebbe potuto essere fuoco ed è stato cenere; per la luce chenon ha illuminato, per il sale divenuto insipido. Madre di Dio,onnipotenza supplice, ottienici assieme al perdono la forza di vivere veramente di fede e d'amore, per essere in grado di portare agli altri la fede di Cristo.

La via migliore per non perdere mai l'audacia apostolica, lo slancio ardente ed efficace di servire tutti gli uomini, altro non è che la pienezza della vita di fede, di speranza, d'amore; in una parola, la santità. Non trovo altra ricetta che questa: santità personale.

In unione con tutta la Chiesa, celebriamo oggi il trionfo di colei che è Madre, Figlia, Sposa di Dio. Allo stesso modo che esultavamo, nel tempo di Pasqua, per la Risurrezione del Signore tre giorni dopo la sua morte, ci rallegriamo oggi perché Maria, dopo aver accompagnato Gesù da Betlemmealla Croce, sta accanto a Lui in corpo e anima, glorificata per tutta l'eternità. La misteriosa economia divina consiste in questo: la Madonna, resa pienamente partecipe dell'opera della nostra salvezza, doveva seguire da presso il cammino di suo Figlio condividendone la povertà a Betlemme, la vita nascosta di umile lavoro a Nazaret, la manifestazione della divinità a Cana di Galilea, l'obbrobrio nella Passione, il sacrificio divino nella
Croce, la beatitudine eterna nel Paradiso.

Tutto questo ci riguarda direttamente, perché questo itinerario
soprannaturale deve essere anche il nostro. Maria ci dimostra che tale via può essere percorsa, e che è la via sicura. Ella ci ha preceduti nel cammino dell'imitazione di Cristo, e la glorificazione di nostra Madre è pegno di ferma speranza della nostra salvezza; perciò la chiamiamo spes nostra, causa nostrae laetitiae, nostra speranza e motivo della nostra felicità.

Non possiamo mai perdere la fiducia di giungere alla santità, di rispondere agli inviti divini, di perseverare fino alla fine. Il Signore,che ha iniziato in noi l'opera della santificazione, la porterà a compimento. Infatti, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con Lui?.

In questa festa, tutto è un invito alla gioia. La ferma speranza della nostra santificazione personale è un dono di Dio; ma la creatura umana non può rimanere passiva. Ricordate le parole di Gesù: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Vedete? La croce ogni giorno. Nulla dies sine cruce!, non un giorno senza croce; non un giorno in cui non portiamo la croce del Signore, in cui non accettiamo il suo giogo. Proprio per questo, a suo tempo non ho mancato di ricordarvi che la gioia della Risurrezione è la conseguenza del dolore della Croce.

Tuttavia non abbiate timore, perché è lo stesso Gesù che ci dice: Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore,e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero. San Giovanni Crisostomo commenta: Venite a me, non perché voglia chiedervi conto delle vostre colpe, ma per liberarvi dai vostri peccati; venite a me, non perché io abbia bisogno della gloria che potete procurarmi, ma perché ho bisogno della vostra salvezza... Non abbiate timore se sentite parlare di giogo, perché esso è soave; non
abbiate timore se vi parlo di peso, perché esso è leggero. Il cammino della nostra santificazione personale passa quotidianamente per la Croce: non è un cammino di infelicità, perché Cristo stesso ci aiuta, e lì dove è Lui non c'è posto per la tristezza. Mi piace ripetere: In laetitia, nulla dies sine cruce! Con l'anima penetrata di gioia, non un giorno senza croce.

Riprendiamo il tema che la Chiesa ci propone: Maria è salita al Cielo in corpo e anima, gli angeli esultano. Penso anche alla gioia di san Giuseppe, suo sposo castissimo, che l'attendeva in paradiso. Ma torniamo sulla terra. La fede ci conferma che quaggiù, nella vita presente, siamo in cammino, come dei viandanti; e non mancano i sacrifici, il dolore, le privazioni. Tuttavia la gioia deve essere sempre come il contrappunto del cammino.

Servite il Signore in letizia, perché non c'è altro modo di servirlo. Dio ama chi dona con gioia, ama cioè colui che dà tutto se stesso in sacrificio lieto, perché non c'è nulla che possa giustificare l'afflizione.

Forse vi sembrerà eccessivo questo ottimismo, dal momento che non c'è uomo che non conosca i propri limiti e i propri insuccessi, e non abbia fatto esperienza della sofferenza, della stanchezza, dell'ingratitudine e forse dell'odio. Noi cristiani, in tutto uguali agli altri, come possiamo essere esenti da queste costanti della condizione umana?

Sarebbe ingenuo negare l'insistente presenza del dolore e dello sconforto, della tristezza e della solitudine nel nostro pellegrinaggio terreno. Dalla fede abbiamo appreso con certezza che tutto ciò non è frutto del caso e che il destino delle creature non consiste nel progressivo annientamento dei loro desideri di felicità. La fede ci insegna che ogni cosa ha un senso divino, perché fa parte dell'essenza stessa della vocazione che ci conduce alla casa del Padre.

Tuttavia. questa comprensione soprannaturale dell'esistenza cristiana non semplifica la complessità umana; ma dà all'uomo la sicurezza che tale complessità può essere attraversata dal nerbo dell'amor di Dio, dal forte e indistruttibile cavo che lega la vita di quaggiù con la vita definitiva nella Patria.

La festa dell'Assunzione della Madonna ci porta a considerare la realtà di questa speranza gioiosa. Siamo ancora pellegrini, ma Lei, nostra Madre, ci ha preceduti e ci indica già il termine del cammino: ci ripete che è possibile arrivare e che, se saremo fedeli, arriveremo. Perché la Santissima Vergine non solo è nostro esempio: è auxilium christianorum, aiuto dei cristiani. E dinanzi alla nostra supplica — monstra te esse Matrem — non può né vuole rifiutare ai suoi figli le sue cure sollecite e materne.

La gioia è un bene cristiano. Si eclissa soltanto con l'offesa a Dio, perché il peccato nasce dall'egoismo, e l'egoismo è la causa dellatristezza. Ma anche allora la gioia è là, nascosta sotto le ceneri dell'anima, perché il Signore e sua Madre non dimenticano mai gli uomini. Quando ci pentiamo, quando sgorga dal nostro cuore un atto di dolore, quando ci purifichiamo nel santo sacramento della penitenza, Dio ci viene incontro e ci perdona; e la tristezza se ne va: Bisognava far festa e
rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.

Queste parole sono la conclusione meravigliosa della parabola del figliuol prodigo che non ci stancheremo mai di meditare: Ecco, il Padre ti viene incontro; si piegherà sul tuo collo, ti darà un bacio che è pegno di tenerezza e d'amore; darà ordine che ti portino una veste, un anello, dei calzari. Mentre tu temi ancora un rimprovero, egli ti restituisce la tua dignità; temi il castigo, ed egli ti bacia; temi la parola adirata, ed egli prepara per te un banchetto.

L'amore di Dio è insondabile. Se tale è il suo modo di agire verso chi l'ha offeso, che mai farà per rendere onore a sua Madre, l'Immacolata, Virgo fidelis, la Vergine Santissima sempre fedele?

Se l'amore di Dio si manifesta con tanta grandezza là ove la capacità del cuore umano — così spesso traditore — è così piccola, che sarà di quell'amore nel cuore di Maria, la creatura che mai pose il più piccolo ostacolo alla Volontà di Dio?

Osservate come la liturgia della festa si fa eco dell'impossibilità di capire con ragionamenti umani la misericordia infinita del Signore. Più che spiegare, canta; colpisce l'immaginazione, affinché ognuno porti nella lode il proprio entusiasmo e supplisca all'insufficienza delle parole: Nel cielo apparve un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle. Al re piacerà la tua bellezza. La figlia del re è tutta splendore, gemme e tessuto d'oro è il suo vestito.

La liturgia si concluderà con quelle parole di Maria nelle quali la più grande umiltà si unisce alla gloria più alta: Tutte le generazioni mi chiameranno beata perché grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente.

Cor Marine dulcissimum, iter para tutum; Cuore dolcissimo di Maria, dà forza e sicurezza al nostro cammino sulla terra: sii tu stessa il nostro cammino, perché tu conosci il sentiero più diretto e sicuro che conduce, per amor tuo, all'amore di Gesù Cristo.