lunedì 15 marzo 2010

Incontro del Papa con i Luterani

L’ecumenismo non si è fermato, anche se ancora ci sono divisioni e diffidenze; anzi, proprio cattolici e protestanti portano la colpa delle loro divisioni. È dedicata all’ecumenismo, la quarta domenica di Quaresima. Papa Benedetto va alla Christuskirche, la Chiesa luterana di Roma già visitata, nel 1983, da Giovanni Paolo II; e ricorda che “l'unità non può essere fatta dagli uomini, dobbiamo affidarci al Signore, solo lui ci porterà all'unità”. Oggi dice Benedetto XVI “non possiamo bere dallo stesso unico calice, non possiamo stare insieme intorno all’altare. Questo ci deve rendere tristi perché è una situazione peccaminosa”. D’altra parte, “siamo noi che abbiamo distrutto la nostra unità, abbiamo diviso l'unico cammino in tanti cammini”. Ma se oggi un Papa è in questa chiesa “è perché ascoltiamo la stessa parola di Dio, l'unico Cristo, rendendo testimonianza dell'unico Cristo”.
È accolto dalle note del Jubilate Deo di Mozart e dagli applausi dei presenti, il Papa; momento importante di dialogo tra cattolici ed eredi di quel monaco di Eisleben, Martin Lutero, che nel 1517 diede vita alla più dolorosa scissione del cristianesimo, affiggendo al duomo di Wittenberg le sue 95 tesi. Nel 1999 sono state ufficialmente cancellate le reciproche scomuniche grazie alla Dichiarazione di Augusta, nella quale cattolici e luterani hanno trovato un consenso sulle verità fondamentali della dottrina della giustificazione, affermando che “non in base ai nostri meriti, ma soltanto per mezzo della grazia, e nella fede nell’opera salvifica di Cristo, noi siamo accettati da Dio e riceviamo lo Spirito Santo, il quale rinnova i nostri cuori, ci abilita e ci chiama a compiere buone opere”. Certo cattolici e luterani hanno ancora ostacoli sul cammino dell’unità, ma è bello “che oggi possiamo pregare insieme, insieme intonare gli stessi canti, insieme ascoltare la stessa la parola di Dio”.
Ad accogliere il Papa il pastore luterano Jens-Martin Kruse: le Chiese cristiane, pur nelle loro “divisioni e oppressioni”, devono cercare di essere vicine le une alle altre specie nei momenti di sofferenza e di dolore. Velato riferimento alle difficoltà che la chiesa sta vivendo in Germania a causa dello scandalo degli abusi sessuali compiuti su minori, abusi che vedono sotto accusa sacerdoti cattolici ma, secondo alcuni giornali tedeschi, anche ministri protestanti.
“Noi cristiani – ha detto ancora il pastore luterano – siamo esortati dall’apostolo Paolo a non procedere gli uni accanto agli altri, ma insieme. A prestare attenzione gli uni agli altri. Ad esserci, gli uni per gli altri. Ad aiutare a portare pesi, quando le forze dell’altro scemano. E nella tribolazione, a rafforzarci vicendevolmente”.
Benedetto XVI nel suo discorso, ha ricordato l'immagine evangelica del chicco di grano che muore e dà frutti. “Una persona che ama la sua vita la perderà ma quello che prende la croce e segue Gesù avrà la vita eterna”. Un discorso, ha spiegato il Papa tralasciando il testo scritto, che non ci piace: “ci domandiamo se dobbiamo odiare la nostra vita. In realtà possiamo e dobbiamo essere pieni di gratitudine per quello che Dio ci dà: se il Signore ci dice che dobbiamo odiare in qualche modo la nostra vita, vuole farci capire che la mia vita non è solo per me, se la voglio solo per me non la trovo ma la perdo. La vita non è ricevere ma darsi. Se non ci diamo all'altro non possiamo ricevere”.
Il tema del perdono attraverso il quale si ritrova la gioia della comunione, il riconciliarsi con Dio e in Dio, il Papa l’ha sviluppato soprattutto la mattina di domenica, nel discorso alla preghiera mariana dell’Angelus. Ha ricordato la parabola del figlio prodigo, il figlio minore che torna e per il quale il padre uccide il vitello grasso per il banchetto di festa, mentre il figlio maggiore contesta la scelta paterna.
Siamo un po’ tutti dei figli maggiori nei nostri comportamenti; non ci rendiamo conto che nella festa del ritorno, il padre, Dio, ridà all’uomo mediante il suo perdono, la dignità perduta, la dignità del figlio.
La volontà di essere autonomo, indipendente, la ricerca di una libertà dal padre, anima la scelta del figlio più giovane. Il suo ritorno è ritmato dalla paura di essere rifiutato, giudicato. Ma il padre annulla la lunga separazione nel perdono, nell’impazienza di chi ha atteso quel momento e ora gioisce. Il figlio maggiore, invece, è vinto dalla rabbia, è incapace di comprendere il gesto paterno, la gratuità del dono.
Dice il Papa: questa parabola “costituisce un vertice della spiritualità e della letteratura di tutti i tempi. Che cosa sarebbero la nostra cultura, l’arte, e più in generale la nostra civiltà senza questa rivelazione di un Dio padre pieno di misericordia”. Un testo, afferma ancora Benedetto XVI, che ha il potere “di parlarci di Dio, di farci conoscere il suo volto, meglio ancora, il suo cuore”. Nella parabola possiamo anche leggere momenti diversi del rapporto dell’uomo con Dio; c’è la fase dell’infanzia, “una religione mossa dal bisogno, dalla dipendenza. Via via che l’uomo cresce e si emancipa, vuole affrancarsi da questa sottomissione e diventare libero, adulto, capace di regolarsi da solo e di fare le proprie scelte in modo autonomo, pensando anche di poter fare a meno di Dio”. Fase delicata, afferma il Papa; può portare all’ateismo, “ma anche questo, non di rado, nasconde l’esigenza di scoprire il vero volto di Dio”. Se noi ci allontaniamo, ci perdiamo, Dio “continua a seguirci col suo amore, perdonando i nostri errori e parlando interiormente alla nostra coscienza per richiamarci a sé”. Dio non viene mai meno alla sua fedeltà verso l’uomo.
I due figli, ricorda ancora Benedetto XVI, si comportano in maniera opposta: “il minore se ne va e cade sempre più in basso”, mentre il maggiore che rimane a casa, “ha una relazione immatura con il padre” e quando torna il fratello non è felice. Sono due modi immaturi di rapportarsi con Dio, commenta il Papa: “la ribellione e una obbedienza infantile. Entrambe queste forme si superano attraverso l’esperienza della misericordia. Solo sperimentando il perdono, riconoscendosi amati di un amore gratuito, più grande della nostra miseria, ma anche della nostra giustizia, entriamo finalmente in un rapporto veramente filiale e libero con Dio”.
Fabio Zavattaro

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