venerdì 18 dicembre 2009

Dio oggi - Spaemann


Robert Spaemann (Berlino, 5 maggio 1927), professore emerito di Filosofia presso la Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera, è uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, autore tradotto in 14 lingue. Dopo gli studi di filosofia, storia e teologia, nelle università di Münster, Monaco e Friburgo (Svizzera) ha conseguito l’abilitazione in Filosofia e Pedagogia, insegnando in seguito a Stoccarda e a Heidelberg. È visiting professor in numerose università del mondo, tra le quali l’Università di Rio de Janeiro, di Salisburgo e la Sorbona di Parigi. È membro dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali. Tra le sue opere tradotte in italiano si ricordano: Concetti morali fondamentali, Piemme 1993; Felicità e benevolenza, Vita e Pensiero 1998; L’origine della sociologia dallo spirito della Restaurazione, Laterza 2002; Persone. Sulla differenza tra «qualcosa» e «qualcuno», Laterza 2007 e La diceria immortale. La questione di Dio o l’inganno della modernità, Cantagalli 2008. Tra pochi mesi uscirà per Ares: Rousseau. Cittadino senza patria.
Erede della Cattedra che fu di Hans G. Gadamer, ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo del dibattito sull’etica contemporanea, in sintonia con gli studi dell’amico Joseph Ratzinger. Il suo dialogo con la coscienza moderna, il suo tentativo di riproporre la dimensione religiosa e le evidenze dell’esperienza elementare dell’uomo quali criteri alla luce dei quali affrontare i problemi più scottanti dell’etica, della bioetica, della politica, hanno ormai fatto scuola anche in Italia e costituiscono un riferimento ineludibile nel dibattito filosofico contemporaneo. Facendo tesoro della filosofia classica ed in particolare della speculazione di Aristotele, Spaemann pone al centro della sua proposta la “vita riuscita”, ossia l’ideale di felicità che costituisce l’orizzonte ed il fine di ogni azione umana. L’indagine morale non è separabile dalla domanda su Dio.


Robert Spaemann
La ragionevolezza della fede in Dio

I.
Il mito della caverna di Platone appartiene alle metafore immortali che consentono di interpretare la situazione dell’uomo. Semplificando al massimo essa si presenta così: gli uomini si trovano all’interno di una caverna priva di aperture. Sono incatenati e guardano verso una parete. Sulla parete appare un gioco di ombre, per così dire un cinema su parete, proiettato da una fonte luminosa invisibile agli spettatori e posta alle loro spalle. Gli uomini non conoscono altra situazione che questa. Essi non possono né vedersi l’un l’altro né vedere se stessi. Quel che accade nel film è per essi l’unica realtà. In relazione a questa realtà essi si agitano, fanno congetture, delineano teorie e avanzano prognosi. Senza dubbio si aggira la diceria che vi sia, fuori dalla caverna, qualcosa come un mondo vero. Si è anche sentito dire che qui la vita sia come una prigionia, che esista la possibilità di una liberazione. Si è sentito dire che alcuni sono giunti in questo vero mondo ma che i loro occhi sono stati abbagliati dalla luce del sole al punto da non riuscire a vedere nulla. Gli abitanti della caverna dunque recalcitrano con mani e piedi se qualcuno da fuori ritorna per liberarli.
Con questo paragone, Platone ha voluto simbolizzare la relazione fra il mondo vero delle idee e la pura immagine di queste, il mondo materiale. Tuttavia noi possiamo, senza allontanarci troppo dall’intenzione di Platone, modificare un poco l’interpretazione di questo paragone. Il sole è in realtà per Platone l’ìmmagine del bene sostanziale, del bene ultimo, in virtù del quale tutto esiste e che motiva, alla fine, ogni sforzo degli esseri viventi. Già i Padri della Chiesa hanno paragonato l’idea del bene di Platone a Dio. Nella variazione che introduco noi stessi non siamo soltanto gli osservatori del film che si proietta sulla parete, ma attori che prendono parte al film. La nostra vita – “la luce degli uomini”, come si dice nel Vangelo di Giovanni - deve se stessa in ogni istante ad un proiettore creativo e alla sua pellicola. Definisco creativo il proiettore per il fatto che esso proietta cose ed esseri viventi, che sono realmente animati e in una certa cornice addirittura liberi di muoversi in un modo o nell’altro. In ogni caso, comunque essi si muovano, colui che ha prodotto il film e il proiettore è già sempre un passo avanti. Esso dispone le azioni degli attori nel quadro di una totalità, che egli determina, similmente all’apparecchiatura per navigare, che alla fine porta il conducente a destinazione, malgrado i suoi giri viziosi. La causa vera e propria di quanto accade, e cioè il proiettore, naturalmente non affiora nel film stesso. Non appare nella concatenazione delle cause interne al film ovvero nelle condizioni antecedenti. In realtà si tratta della vera causa di tutta la concatenazione e di tutti i suoi elementi. La creazione non è un evento nel quale noi c’imbatteremo un giorno studiando la storia del cosmo. “Creazione” definisce la relazione che sussiste fra l’intero processo cosmico e la sua origine extracosmica, cioè la volontà divina. Che le cose stiano in questo modo lo dice una antica diceria, la diceria intorno a Dio. È singolare però che gli uomini non sono mai stati assorbiti nella realtà “interna al film”, e cioè nella sfera intramondana, fino al punto da dimenticare questa diceria. Il loro bisogno di comprendere non fu soddisfatto da ciò che essi vedevano. Ludwig Wittgenstein, il padre della filosofia analitica moderna, considera una “illusione della modernità” quella per cui le leggi naturali ci spiegherebbero il mondo, mentre in realtà descrivono soltanto regolarità strutturali. Queste regolarità non hanno nulla che sia vincolante sul piano logico; esse non spiegano né se stesse né il mondo. Il fatto che si lascino formulare matematicamente, per lo scienziato naturale, ad esempio Einstein, ha sempre rappresentato un motivo di stupore e di rinvio ad una origine divina.
Tuttavia proprio il progresso della scienza fa parte delle ragioni che rimuovono la diceria intorno a Dio. Questo si connette da una parte alla rapida dilatazione della sfera del fattibile, che in noi produce il sentimento ebbro e fantastico dell’infinità, dall’altra alla rapidità con cui il mutamento delle nostre relazioni vitali cresce in modo esponenziale. In tal modo la nostra attenzione si fissa sul problema dell’adeguamento a questa realtà terrena in mutamento continuo tanto che noi non ci possiamo più permettere la domanda circa il fondamento e il senso del tutto, dunque di ciò che sta fuori dalla caverna. Questo non ha propriamente nulla a che fare con le asserzioni concrete della scienza. Le scienze, fino ad ora, non hanno formulato un solo serio argomento contro la diceria intorno a Dio, soltanto la cosiddetta visione scientifica del mondo, lo scientismo, dunque ciò che Wittgenstein ha definito come superstizione della modernità, ha tentato di fare questo. La scienza moderna è ricerca di condizioni, non si domanda che cosa è qualcosa e perché è, ma quali sono le condizioni del suo sorgere. L’essere, l’essere-se stesso tuttavia è l’emancipazione dalle condizioni della sua genesi. E l’incondizionato, dunque Dio, per definitionem non può comparire all’interno di una ricerca di condizioni intramondana, così come non appare il proiettore nel film. Questo non significa che il film prima o poi incominci a spiegare se stesso e a rendere superfluo il proiettore.
L’alternativa non può dunque suonare così: spiegabilità scientifica del mondo o fede in Dio, ma soltanto: rinuncia a comprendere il mondo, rassegnazione della ragione o fede in Dio.
O Dio c’è – oppure l’autocomprensione dell’uomo in quanto essere di ragione, vale a dire in quanto persona, è una illusione.


Il razionalismo dell’Illuminismo da lungo tempo si è abbandonato alla fede nella impotenza della ragione umana, alla fede nel fatto che noi non siamo ciò che pensiamo di essere: esseri liberi, autodeterminati. La fede cristiana non ha mai considerato l’uomo tanto libero come ha fatto l’idealismo, ma nemmeno lo considera così privo di libertà come fa oggi invece lo scientismo. Ragione, ratio significa tanto ragione quanto fondamento. La visione scientifica del mondo considera il mondo e dunque anche se stessa come priva di un fondamento. La fede in Dio è la fede in un fondamento del mondo, che non è senza fondamento, dunque irrazionale, ma “luce”, trasparente a se stessa e così suo proprio fondamento.


II.

Sono in tal modo giunto alla seconda parte di ciò che vorrei discutere, e cioè alla domanda: che cosa crede colui che crede in Dio? Egli crede, io dico, in una fondamentale razionalità della realtà. Egli crede che il bene sia più fondamentale del male. Egli crede che ciò che è inferiore debba essere compreso a partire da ciò che è superiore e non viceversa. Egli crede che il non senso presupponga il senso e che il senso non sia una variante dell’assenza di senso. Questo però significa che, contrariamente a quanto afferma David Hume, secondo il quale “We never advance one step beyond ourselves”, colui che crede in Dio crede che nell’incontro con gli altri noi abbiamo a che fare con la realtà. Nel concetto di “Dio” noi pensiamo l’unità di due predicati, che nel nostro mondo esperienziale solo qualche volta e mai in modo necessario risultano connessi l’uno all’altro: l’unità dei predicati “potente” e “buono”, l’identità del potere assoluto e del bene assoluto, l’unità di essere e senso. Questa unità non è per noi una verità analitica. Essa non si comprende da se stessa, anche se Rousseau lo ha creduto. Egli pensava che tutto il male derivasse da debolezza e che l’Onnipotente non potesse avere alcuna ragione per non esser buono. Qui non discuto di questo. In ogni caso noi dobbiamo dire che i predicati “potente” e “buono” non significano la stessa cosa, così come non significano la stessa cosa le parole “stella della sera” e “stella del mattino”. Solo successivamente gli uomini hanno scoperto che le due parole hanno lo stesso “riferimento”, e cioè significano la stessa stella, e cioè Venere. Chi crede in Dio, crede che la potenza assoluta e il bene assoluto abbiano lo stesso riferimento: la santità di Dio. Gli gnostici dei primi secoli cristiani negavano questa identità. Essi attribuivano i due predicati a due divinità, una potenza cattiva, il Deus universi, dio e creatore di questo mondo, e un dio, che è luce, che appare da lontano nell’oscurità di questo mondo. La fede in un unico Dio è la fede secondo la quale per questa luce, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, vale l’affermazione del Vangelo di Giovanni: “Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di Lui”.
Chi crede in Dio, crede che questi due incondizionati siano identici: l’incondizionato di ciò che è in quanto è, l’incondizionato della realtà fattuale, e l’incondizionato del bene. Incondizionato della realtà fattuale: “come tutte le cose stanno è Dio. Dio è come tutte le cose stanno” si legge in Wittgenstein. Contro ciò che è nel modo in cui è non si dà alcuna obiezione. “Il destino guida i ben disposti, mentre trascina con sé quanti gli si oppongono”, così recita una massima degli Stoici. “Inschallah” – “se Dio vuole”, dicono i musulmani quando svelano un proposito. E la stessa cosa aveva raccomandato l’Apostolo Giacomo, molto tempo prima. Il fedele accoglie tutto ciò che accade e che non è in grado di modificare, dalle mani di Dio e senza accusare Dio. Giobbe accusa Dio per le disgrazie piovute su di lui. I suoi amici lo vogliono convincere del fatto che Dio è giusto e che Giobbe deve ricercare in se stesso la causa delle proprie disgrazie. Giobbe non comprende questo e Dio rimprovera alla fine i suoi amici: la loro difesa di Dio è meno devota del lamento di Giobbe. Delle intenzioni di Dio essi comprendono assai poco, esattamente come Giobbe. Dio allora riduce al silenzio Giobbe non quando egli si difende, ma dicendogli: “Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza”…..Il censore vorrà ancora contendere con l’Onnipotente? …..Hai tu un braccio come quello di Dio e puoi tuonare con voce pari alla sua?” Questo illumina Giobbe, il quale risponde: “Ho esposto senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo….Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere”. La sottomissione incondizionata alla volontà di Dio, che si rivela in ciò che accade e in ciò che noi non possiamo modificare, è l’atteggiamento fondamentale di tutti coloro che credono in Dio.
Ma che cosa significa sottomissione a ciò che noi non possiamo in ogni caso modificare? Non è forse più dignitoso almeno rifiutarci di accettarlo? Ma a chi interessa questo, se Dio non esiste, se il destino è cieco e l’universo indifferente all’accettazione così come al rifiuto o addirittura alla protesta? Quando Giobbe protesta davanti a Dio, questo accade perchè egli pensa a Dio come ad un essere a cui appartiene il fatto di essere buono. Nella protesta si trova ancora il riconoscimento di colui al quale noi rivolgiamo la protesta. Se noi lo considerassimo indifferente al dolore del mondo, non avrebbe alcun senso protestare. Per questo i Salmi chiedono a Dio la salvezza sempre “per amore del tuo Nome”. L’idea vi che sta dietro è che Dio è per così dire responsabile di fronte a se stesso nel venire in aiuto al suo popolo. E quando Leon Bloy, il “mendicante ingrato”, scrive: “Tout ce qui arrive est adorable”, egli fa questo soltanto perché crede, contro ogni apparenza, che tutto ciò che accade ha la sua origine in una volontà infinitamente buona, vale a dire santa.
È importante sottolineare questo oggi, dove addirittura i sacerdoti, anziché invocare su di noi la benedizione del Dio onnipotente, parlano soltanto di “Dio buono”. Il discorso sulla bontà di Dio, su Dio che è amore, smarrisce il suo punto sconvolgente, se passa sotto silenzio chi è colui di cui si dice che Egli è amore, se cioè passa sotto silenzio che Egli è la Potenza che guida la nostra esistenza e il mondo. Soltanto tale Potenza, infatti, può salvarci dalla morte. L’idea di un amore assoluto, infinito, resta un’ idea puramente regolativa, se in essa non viene pensata l’unità di due assolutezze, quella infinita del fattuale, del destino, e quella infinita del bene. Quest’ultimo, il bene, non si rivela a noi, o comunque lo fa solo talvolta, in ciò che accade, ma piuttosto nella voce sommessa, anche se inesorabile, della coscienza, la voce della ragione pratica, il cui giudizio spesso sembra porci in contrasto con ciò che di fatto accade. Nessuno al mondo può costringerci a chiamare bene il male e male il bene, anche se il giudizio della coscienza non è affatto infallibile e anche se la coscienza, così come la ragione, per giudicare in modo realmente razionale, ha bisogno di formazione ed eventualmente di correzione. Chi dunque crede che il bene e l’essere, in ultima istanza e fondamentalmente, siano la stessa cosa, chi crede certamente non contro ogni ragione, ma contro l’apparenza, crede nel Dio nascosto. Il fattuale non ci è nascosto. Si trova davanti a tutti. E nemmeno il bene ci rimane nascosto. Ragione e coscienza ci consentono di conoscerlo. Ciò che ci è nascosto è l’unità di questi due assoluti, l’unità di potenza e senso, di onnipotenza e amore. È questa unità a rimanerci nascosta. Anche se resta ragionevole credere ad essa. La Croce sembra essere la sua confutazione, la Resurrezione la sua dimostrazione.
Se io dico che è ragionevole credere a questa unità, è perché noi non possiamo pensare a nessuno di questi due assoluti in modo conseguente fino alla fine senza pensare contemporaneamente ogni volta all’altro. La potenza assoluta, l’essenza di ciò che è, non sarebbe questa essenza, non sarebbe l’Assoluto, se non avesse di fronte a sé sempre un occhio silenzioso, che inesorabilmente la orienta. Se il bene non appartenesse all’essere, l’essere non sarebbe tutto, non sarebbe cioè la totalità. L’occhio che inesorabilmente dirige e che è allo stesso tempo inesorabilmente buono appartiene esso stesso all’essere, altrimenti l’essere non sarebbe tutto. Ma vale anche il contrario: se il bene fosse impotenza, allora non sarebbe il bene tout court. Poiché l’impotenza del bene non è bene. La fede nella potenza del bene è ciò che ci consente di abbandonarci attivamente alla realtà, senza dover temere che in un mondo assurdo anche ogni buona intenzione sia giudicata come una assurdità. Del resto questo è il punto centrale dello scritto di Fichte: “Über den Grund unseres Glaubens an eine göttliche Weltregierung”.
Tommaso d’Aquino ha in mente questi due assoluti, che noi pensiamo nel concetto di Dio, quando parla delle due volontà di Dio, la volontà di comando e la volontà storica, dunque di ciò che Dio vuole che noi vogliamo e di ciò che egli vuole che accada. La volontà storica ci è nascosta. Di ciò che Dio vuole che accada, noi veniamo a conoscenza soltanto quando è accaduto. Di ciò che Egli vuole che noi vogliamo, noi questo lo sappiamo in ogni momento. Si tratta della moralità, e su questo ci illuminano la ragione e la coscienza o anche i Dieci Comandamenti. Circa ciò che Dio vuole che accada, questo noi non lo sappiamo in anticipo e dunque non possiamo nemmeno cercare di volerlo e di farlo. Possiamo unicamente sottometterci a tale volere. Dobbiamo ubbidire al volere di Dio. Tommaso fa un esempio. Un uomo ha commesso un crimine. É dovere del re dare la caccia all’uomo per infliggergli la pena che merita. Dovere della moglie di questo uomo è aiutarlo quando si nasconde. Da essi Dio esige l’opposto, poiché il re deve occuparsi del bene dello Stato e la moglie invece del bene della famiglia. L’ “assoluta volontà” di Dio, la sola che si cura del bene dell’universo, si mostra alla fine nel fatto che quell’uomo alla fine venga arrestato o meno. Il re e la moglie devono accettare questo risultato umilmente come volontà di Dio. Il re non può uccidere Antigone, dal momento che essa adempie al suo dovere di sorella verso il fratello colpevole di alto tradimento e gli dà sepoltura. Antigone non può divenire una terrorista, che impedisce al re di realizzare il suo dovere. Ciò che Tommaso chiama volontà assoluta di Dio, si realizza nella storia attraverso la continua trasgressione della volontà che si esprime nei suoi comandamenti. “Oh felice colpa di Adamo”, canta la Chiesa ogni anno nella notte di Pasqua. Il Mefistofele di Goethe pensa allo stesso modo quando si definisce come “parte di quella forza, che vuole sempre il male e crea sempre il bene”. Dio viene qui rappresentato come un pittore dalla creatività infinita, sul cui dipinto che si sviluppa progressivamente un malfattore getta continuamente schizzi di colore. II pittore, però, utilizza ciascuno di questi schizzi per trasformare di continuo il dipinto, all’aggiungersi di ogni schizzo, in qualcosa di sempre più perfetto. Alla fine si dirà: il dipinto compiuto non sarebbe quello che è, senza gli sfregi del malfattore. Quello che si avrebbe sarebbe stato dunque un dipinto differente. Non dobbiamo cedere alla tentazione, scrive Tommaso, di voler cospirare con la volontà assoluta di Dio. In questo senso Gesù dice del tradimento di Giuda: “Il Figlio dell’uomo deve essere consegnato, ma guai all’uomo per il quale Egli è consegnato”. Soltanto il marxismo ha superato il dualismo tra significato storico e morale e ha derivato l’orientamento dell’agire dal senso storico che presume di aver compreso: “A noi – e cioè i rivoluzionari esecutori del senso della storia - a noi tutto è permesso”, scrive una volta Lenin, il quale, in un altro passo, chiarisce anche come nel marxismo non vi sia “nessuna grande etica”. In tal modo Lenin ha fatto emergere una implicazione decisiva dell’ateismo. Probabilmente egli aveva nell’orecchio l’espressione di Dostojewski: “Se Dio non c’è, tutto è permesso”.
Ma quale ragione abbiamo per ammettere che Egli esiste? Noi sappiamo ciò che intendiamo quando diciamo “Dio”: un Assoluto, che ha in sé stesso il suo fondamento, perché Egli è ciò che ha senso per eccellenza, ciò che basta a se stesso. La dottrina cristiana della Trinità traduce compiutamente questo concetto di Dio, quando essa lo pensa come amore onnipotente, e certo come amore in se stesso, cosicchè non occorre alcun mondo e alcun uomo per realizzare la sua essenza. Dio non è mai solo. In questo caso infatti Egli sarebbe soltanto una parte della realtà, meno dunque di Dio e mondo insieme. La creazione del mondo sarebbe la rimozione di una mancanza e non il libero atto dell’amore. Dio è in se stesso amore, il che significa: Egli è riflesso in se stesso, Egli ha in sè una immagine adeguata di se stesso, ha il Logos come qualcosa di vivente che gli sta’ di fronte, e la sua processione nel Logos, il “Figlio”, avviene in un donarsi, che di nuovo è Dio stesso, il santo Pneuma o, come diciamo noi occidentali, nello Spirito Santo. I misteri del Cristianesimo sono l’imprevisto adempimento di ciò che nel concetto di Dio viene anticipato dalla ragione.

III.

Rimane tuttavia questa domanda: abbiamo un motivo per accettare che alla diceria intorno a Dio, dunque a ciò che noi pensiamo quando diciamo “Dio”, corrisponda qualcosa nella realtà? Noi abbiamo, come dice Kant, un “ideale senza difetti” di questo Essere supremo, un “concetto che suggella e incorona l’intera esperienza umana”. Tuttavia quale ragione abbiamo per credere che a questo concetto, come dice di nuovo Kant, corrisponda una “realtà oggettiva”? Quale ragione abbiamo per credere che il nostro grazie per un mattino splendente o per un amore fortunato abbia un destinatario e che i lamenti degli infelici non rimangano senza eco in un universo indifferente? “Nessuno ha visto Dio”, scrive l’Apostolo Giovanni. La domanda è: l’autore del film al quale noi partecipiamo, ha lasciato la sua firma più o meno celatamente, così da poter essere trovata, se lo si vuole?
La facoltà che ci consente di ricercare Dio è la ragione. Non la ragione strumentale, che, come dice Nietzsche, ci rende “animali ingegnosi”, ma la capacità con la quale l’uomo oltrepassa se stesso e il proprio ambiente e può porsi in relazione con una realtà che lo trascende. La facoltà, mediante la quale possiamo sapere che in quel punticino che in cielo si tira dietro una scia di condensazione, che non ha alcun significato nel nostro contesto vitale, siedono uomini per i quali al contrario siamo noi qui sotto a non giocare nessun ruolo. Credere che Dio esista, significa che Egli non è una nostra idea, ma che noi siamo un sua idea. Significa dunque “rovesciamento” della prospettiva, conversione. Se Dio esiste, allora questa è la cosa più importante, più importante del fatto che noi siamo.
Esiste una grande storia dello sforzo degli uomini di puntellare la loro convinzione circa l’esistenza di Dio attraverso la ricerca razionale di tracce, per rafforzare e giustificare la loro certezza intuitiva mediante motivi razionali. Paolo definisce “ubbidienza ragionevole” la fede che egli predica. Il fatto che le prove dell’esistenza di Dio siano tutte quante particolarmente controverse, dunque non dice molto. Se dalle dimostrazioni nella matematica dipendesse una decisione radicale circa l’orientamento della nostra vita, allora anche queste dimostrazioni sarebbero controverse. Le loro premesse logiche verrebbero messe in discussione. Anche le tradizionali prove dell’esistenza di Dio da Agostino a Cartesio, Leibniz ed Hegel hanno premesse che essi presuppongono come riconosciute. Tutte le dimostrazioni, così scrive una volta Leibniz, sono in questo senso argumenta ad hominem. Kant e Nietzsche hanno tuttavia contestato questo presupposto. Qual è questo presupposto? Che cosa dobbiamo presupporre come riconosciuto per trovare convincenti le classiche prove dell’esistenza di Dio? Qui accenno soltanto alla prova dell’esistenza di Dio che in tutti i tempi è stata la più diffusa a livello popolare.
Essa prende le mosse dall’esistenza indubitabile di processi orientati ad un fine, dunque da quei processi che noi possiamo comprendere soltanto a partire da una conclusione, come ad esempio il volo degli uccelli verso Sud, che noi possiamo comprendere soltanto quando sappiamo che gli uccelli laggiù trovano nutrimento. Gli uccelli tuttavia non sanno questo. Dunque, così suona la conclusione, deve esserci una coscienza creatrice che sta alla base di questi processi. Mi soffermo per un momento su questo argomento, perché esso gioca un ruolo importante nel dibattito fra i teorici del cosiddeto “Intelligent-design” e i darwinisti circa l’interpretazione dell’evoluzione della vita e delle forme del vivente.
In primo luogo si deve dire che la visione evoluzionista dell’Universo favorisce la fede in Dio. Aristotele considera l’universo, insieme a tutte le forme naturali del vivente, come eterno. Certo è Dio che mantiene questo universo in movimento, ma non è che ha incominciato a farlo in un certo tempo. Tommaso d’Aquino pensava, all’opposto del suo contemporaneo Bonaventura, che mentre la creazione del mondo è certamente dimostrabile, non lo è invece il suo inizio temporale, del quale noi siamo a conoscenza soltanto grazie alla Rivelazione.
Essendo noi oggi a conoscenza di una storia della natura, la domanda circa l’origine si pone in modo più urgente di prima, perché essa ora assume la forma della domanda circa l’inizio. Dover pensare ad una origine improvvisa, senza fondamento di un mondo dal nulla contiene una pretesa nei confronti della ragione, che pone in ombra ogni altra pretesa. Ma lo stesso vale per la pretesa di pensare ad una origine involontaria della vita, dell’istinto, della interiorità e dell’autocoscienza come risultati di processi materiali, come risultati di mutazioni casuali e della selezione di ciò che è utile alla sopravvivenza. Tali processi non possono spiegare come si giunga ad una “tendenza”, che sperimentiamo in noi stessi e che dobbiamo almeno attribuire a tutti gli esseri viventi superiori. Come mai il dolore e il piacere, come mai la negatività in un mondo di pura fatticità? Parole come “folgorazione” o “emergenza” nascondono soltanto il fatto che noi non abbiamo la più pallida idea di come una cosa come l’interiorità possa scaturire da un mondo di puri oggetti. Il segno meno nella matematica è altrettanto positivo del segno più. Tuttavia il suo significato è differente; è cioè il salto in una dimensione totalmente differente. Da più per più viene sempre e soltanto più. Il meno non si può mai costruire dal più. Invece senz’altro il più dal meno, perché meno per più dà come risultato meno, esattamente come più per meno. Con la vita emerge però qualcosa come un significato nel mondo. Con essa emerge qualcosa come il vero e il falso. Corpi puramente materiali non possono avere a che fare con qualcosa come un errore. Ogni vivente invece lo può.
Questo non significa che la visione darwinistica dell’ evoluzione abbia in se stessa delle falle già al suo proprio livello, sebbene anche questo oggi appaia sempre più verosimile. Significa soltanto che all’interno di questa teoria viene escluso in linea di principio qualcosa di nuovo. Semplicemente non viene percepito. Allo stesso modo, nell’osservazione di processi vitali, il fisico non verifica nessuna violazione delle leggi fisiche, ma, in linea di principio, non può percepire ciò che è specifico del vivente, né il sorgere dell’interiorità.
Vorrei chiarire ciò che penso attraverso la seguente ulteriore analogia. É noto che Bach nelle sue composizioni ha attribuito occasionalmente all’immagine della nota un significato simbolico, ad esempio un simbolismo della croce. Bach ha cifrato anche piccoli testi verbali nelle sue composizioni. Il più noto è il tema della fuga: B-A-C-H. Meno noto è un procedimento di cifratura assai avanzato per il quale i valori delle note vengono trasformati in valori numerici e questi di nuovo in significati alfabetici. Recenti ricerche di storia della musica sono approdate a questo: vi sono pubblicazioni contemporanee che descrivono con precisione il procedimento di una tale cifratura, allora chiamato “Gemartia” e che devono molto alla Cabbala. Se noi analizziamo le sonate per violino in sol minore, in la bemolle e in do maggiore, ma soprattutto la sonata in sol minore sulla base di questo metodo e delle sue regole di trasformazione, allora improvvisamente ci si fa incontro questo testo dei Rosacroce: “Ex Deo nascimur, in Christo morimur, per Spiritum Sanctum reviviscimus” (“Da Dio nasciamo, in Cristo moriamo, attraverso lo Spirito Santo riviviamo”). La sonata è conosciuta e apprezzata da secoli. Essa può essere analizzata e interpretata in modo puramente musicale, e questa interpretazione è del tutto legittima. Tuttavia chi, guidato dalla diceria di Dio, si accosta ad essa con un’altra chiave di decodificazione, questi scopre improvvisamente il suddetto testo. Si tratta dunque chiaramente di un doppio codice che ci consente di vedere una forza creatrice quasi divina di Bach. L’idea che questo testo cifrato emerga per così dire come epifenomeno della composizione di un musicista, è così assurda che nessuno potrebbe pensare di sostenere una tale tesi.
Ma non meno assurda è l’idea che il mondo di significato e di senso, che emerge con la vita, possa essere inteso come epifenomeno di un processo governato da fattori che non abbiano nulla a che fare con questo mondo e che siano ciechi e indifferenti ad esso. Questa doppia codificazione è evidente, e chiudere gli occhi di fronte a questo dualismo presuppone una decisione dogmatica, nella quale un apprezzato teorico della coscienza di orientamento materialista come Daniel Dennet si riconosce apertamente. Dennet scrive che egli non si lascerà mai convincere da un argomento che prenda in considerazione una ipotesi non materialistica.
Le obiezioni scientifiche contro l’interpretazione standard della macro-evoluzione sono sempre più rilevanti e hanno raggiunto nel frattempo anche le pagine di santuari scientifici come “Nature” e “Science”. La loro debolezza strategica consiste unicamente nel fatto che esse non possono presentare nessuna teoria “migliore”, vale a dire più produttiva, secondo gli standard scientifici. E la storia della scienza mostra che di regola le teorie vengono cacciate soltanto da teorie migliori, non attraverso la pura individuazione dei loro punti deboli, e nemmeno da confutazioni. Il ricorso ad un “proiettore” divino fin da principio non viene accettato come spiegazione, perché implica il ricorso a qualcosa di non osservabile e non ricostruibile.

IV.

Ritorniamo agli argomenti intorno all’esistenza di Dio. Il primo grande colpo contro di essi fu portato da Kant con la sua tesi che la nostra ragione teoretica e i suoi strumenti costitutivi, le categorie, sono adatti soltanto a ordinare la nostra esperienza. E in questo quadro anche l’idea di Dio ha una funzione sistematizzante. Tuttavia per la ragione teoretica vale anche la proposizione di Hume: “We never do one step beyond ourselves”. La ragione non ci consente di dire qualcosa circa la realtà stessa e dunque neanche qualcosa intorno a Dio, nella misura in cui Egli sia qualcosa di più di una idea. Soltanto la ragion pratica, soltanto l’esperienza cosciente spinge, anzi ci obbliga ad assumere l’ipotesi dell’esistenza di un Essere, che riesca a tener insieme i due assoluti, quello dell’essere e quello del bene, e garantisca che il corso del mondo non conduca la volontà buona all’assurdo. “Ho dovuto delimitare il sapere, per creare un posto per la fede”, scrive Kant. È Nietzsche però ad aver portato il colpo decisivo, quando ha posto in questione in linea di principio un presupposto accettato in tutte le dimostrazioni tradizionali del’esistenza di Dio, il presupposto della intelleggibilità del mondo. Il filosofo francese Michel Foucault ha formulato nel modo più conciso quello che per la prima volta aveva pensato Nietzsche: “Non possiamo pensare che il mondo ci offra un volto leggibile”. Ciò che Nietzsche poneva in questione in linea di principio, era la capacità di verità della ragione e in tal modo l’idea di qualcosa come la verità in generale. Questa idea ha infatti secondo lui un presupposto teologico, il presupposto che Dio esiste. Soltanto se Dio esiste, si dà qualcosa di diverso da immagini soggettive del mondo, qualcosa come “cose in sé” delle quali aveva parlato ancora Kant. Le cose sono come Dio le vede. Se non esiste uno sguardo di Dio, non si dà nessuna verità al di là delle nostre prospettive soggettive. Nietzsche parla della fede di Platone, che è anche la fede dei cristiani, la fede che Dio sia la verità, e che la verità sia divina. Le prove dell’esistenza di Dio dunque soffrono tutte di ciò che i logici chiamano una petitio principii. Queste prove presuppongono esattamente ciò che vogliono dimostrare: Dio. È giusto questo? Si e no.
Da un punto di vista teorico non lo è. E’ vero che Tommaso d’Aquino, nelle sue “cinque vie”, non presuppone mai espressamente una qualsiasi tesi sulla struttura logica del mondo e sulla capacità di verità della ragione. La presuppone però tacitamente. Il fatto che questo presupposto alla fine abbia il suo fondamento in Dio è per lui ontologicamente chiaro, ma questo non giunge ad una riflessione gnoseologica. Laddove si tratta della validità dei principi primi del nostro pensiero funzionale alla verità, egli argomenta semplicemente come Aristotele con la reductio ad absurdum della posizione contraria. Colui che nega la capacità di verità della ragione, o che nega la validità del principio di contraddizione, questi semplicemente non può più dire nulla. Anzi addirittura la tesi per cui non esiste la verità, se non altro presuppone che questa tesi sia vera. Diversamente noi approdiamo all’assurdo. Tuttavia qui Nietzsche solleva questa obiezione: chi ci dice che non viviamo nell’assurdo? Senza dubbio tutti noi ci aggrovigliamo in contraddizioni, ma è così e basta. La disperazione della ragione verso se stessa non si può articolare a sua volta in una forma logicamente consistente. Dobbiamo imparare a vivere senza verità. Una volta compiuta la sua opera, l’Illuminismo è costretto a sopprimere se stesso, dal momento che, così scrive Nietzsche, “anche noi illuministi, noi spiriti liberi del XIX secolo viviamo ancora della fede dei cristiani, la fede che era anche di Platone, secondo la quale Dio è la verità, e la verità è divina”.
Una volta che l’Illuminismo ha soppresso se stesso, il risultato è il nichilismo. Secondo la visione di Nietzsche, però, questo libera lo spazio necessario per un nuovo mito. Ma naturalmente neanche questo in fondo si può dire, dal momento che in generale non si può dire nulla di vero. La vera questione è soltanto con quale menzogna si viva meglio. E’ nota la storiella della scritta sul muro: “Dio è morto. Firmato: Nietzsche”, sotto la quale qualcuno ha scritto: “Nietzsche è morto. Firmato: Dio”.
Ma qualcosa di Nietzsche rimane. Ciò che rimane è la lotta contro il banale nichilismo della società del divertimento, è la coscienza puntuale e disperata di che cosa significa che Dio non esiste. E ciò che teoreticamente rimane è la comprensione della relazione interna e indivisibile della fede nell’esistenza di Dio con l’idea della verità e della capacità di verità e pertanto con la personalità dell’uomo. Queste due convinzioni si condizionano a vicenda. Una volta che è apparsa l’idea di vivere nell’assurdo, allora la reductio ad absurdum puramente gnoseologica non è più una confutazione. Non possiamo più addurre prove circa l’esistenza di Dio sul fondamento sicuro della capacità di verità dell’uomo, poiché questo fondamento è sicuro soltanto a partire dal presupposto dell’esistenza di Dio. Noi possiamo avere contemporaneamente soltanto entrambe le cose. Non sappiamo chi siamo prima di sapere chi è Dio; tuttavia non possiamo sapere qualcosa di Dio, se non vogliamo percepire quella traccia di Dio che noi stessi siamo, noi in quanto persone, in quanto esseri finiti, ma liberi e capaci di verità. Il neopragmatista americano Richard Rorty ha scritto, in perfetta sintonia con Nietzsche: “Un fine superiore di ricerca nel nome della verità potrebbe aversi soltanto se vi fosse qualcosa come una giustificazione ultima ….una giustificazione di fronte a Dio”.
La traccia di Dio nel mondo, da cui oggi dobbiamo prendere le mosse, è l’uomo, siamo noi stessi. Tuttavia questa traccia ha la peculiarità di coincidere con il suo scopritore, e dunque di non esistere indipendentemente da lui. Quando noi, vittime dello scientismo, non crediamo più in noi stessi, chi e che cosa siamo, quando ci lasciamo persuadere di essere soltanto macchine per la diffusione dei nostri geni, quando consideriamo la nostra ragione soltanto come prodotto di un adattamento evolutivo, che non ha nulla a che fare con la verità, e quando l’autocontradditorietà di questa affermazione non ci sgomenta, allora non possiamo attendere che qualcosa ci possa convincere dell’esistenza di Dio. Come ho già detto, infatti, questa traccia di Dio che siamo noi stessi non esiste senza che noi lo vogliamo, anche se – grazie a Dio – Dio esiste del tutto indipendentemente dal fatto che noi lo riconosciamo, che sappiamo di Lui o Lo ringraziamo. Ciò che possiamo cancellare è solo noi stessi.


Il concetto della somiglianza dell’uomo con Dio, spesso utilizzato solo come una metafora edificante, assume oggi un preciso e inatteso significato. Somiglianza con Dio significa capacità di verità. Laddove l’amore non è altro che la verità realizzata. L’amore si può definire come il divenire reale dell’altro per me. Nessun concetto per il messaggio neotestamentario ha un significato così centrale come il concetto di verità. “Per questo sono nato e sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla verità”, risponde Cristo alla domanda di Pilato se Egli sia un re. Questa risposta sta fino ad oggi accanto alla domanda di Pilato: “Che cos’è la verità?”
La personalità dell’uomo sta e coincide con la sua capacità di verità. Questo viene oggi posto in questione da biologi, teorici dell’evoluzione e delle neuroscienze. Non posso entrare nella discussione che si è sviluppata al riguardo. Vorrei soltanto dire che ogni visione puramente spiritualistica dell’uomo viene oggi inglobata dal naturalismo. Per il naturalismo tuttavia la conoscenza non è ciò che essa stessa considera di essere. La conoscenza non ci illumina su ciò che è, ma consiste in adattamenti all’ambiente finalizzati alla sopravvivenza. Tuttavia come possiamo sapere questo, se non possiamo sapere nulla? Il fatto che l’uomo sia completamente natura, un essere naturale uscito fuori dalla vita subumana, può non essere letale per l’autocomprensione dell’uomo solo a condizione che la natura, per parte sua, sia stata creata da Dio e la creazione dell’uomo corrisponda ad una intenzione divina. Per questo non è necessario che il processo evolutivo, che io con Darwin preferisco definire come processo di discendenza, venga inteso come processo teleologico, vale a dire che in esso il generatore del nuovo non sia il caso. Ciò che è il caso visto dal punto di vista della scienza naturale, può essere intenzione divina tanto quanto ciò che è riconoscibile per noi come processo orientato verso un fine. Dio agisce tanto attraverso il caso quanto attraverso leggi naturali. Se i biologi parlano di “folgorazione” e di “emergenza” per esorcizzare con le parole l’inesplicabile, credere in Dio significa allora avere un nome per questa irruzione del nuovo, un nome che, in fondo, non riduca il nuovo soltanto all’antico, il nome “creazione”. La capacità di verità si può comprendere soltanto come creazione.
Vorrei chiarire ciò che penso, il fatto cioè che la verità presuppone Dio, con un ultimo esempio, una dimostrazione di Dio che sia, per così dire, Nietzsche-resistente, una dimostrazione di Dio a partire dalla grammatica, più esattamente dal cosiddetto Futurum exactum (il futuro anteriore). Il Futurum exactum, il secondo futuro è per noi necessariamente connesso al presente. Dire di qualcosa che è adesso, equivale a dire nel futuro che quella cosa è stata. In questo senso ogni verità è eterna. Il fatto che il 10 dicembre 2009 numerose persone siano riunite a Roma per una conferenza di Robert Spaemann su “Razionalità e fede in Dio” non è vero solo oggi, ma è vero per sempre. Se noi oggi siamo qui, noi domani saremo stati qui. Come passato, come essere stato del futuro presente, il presente rimane sempre reale, sempre passato reale. Tuttavia di che tipo è questa realtà? Si potrebbe dire: come visibilità nelle tracce che essa lascia con la sua azione causale. Tuttavia queste tracce si diradano sempre di più. E restano tracce fintantoché ciò che le ha lasciate, viene esso stesso ricordato.
Fintantochè il passato viene ricordato, non è difficile rispondere alla domanda sul genere del suo essere. Ha la sua realtà appunto nell’essere ricordato. Tuttavia il ricordo prima o poi svanisce. E prima o poi nessun uomo ci sarà più sulla terra. Alla fine perfino la terra scomparirà. Poiché al passato appartiene sempre un presente, del quale il passato è passato, dovremmo dunque dire che con il presente che ricordiamo scompare anche il passato, e il futuro anteriore perde il suo significato. Tuttavia è proprio questo che non possiamo pensare. La proposizione “nel futuro più lontano non sarà più vero che noi questa sera eravamo riuniti qui” è insensata. Non si lascia pensare. Se noi un giorno non saremo più stati, allora noi di fatto non siamo reali neanche adesso, così come il Buddismo afferma in modo consequenziale. Se la realtà presente un giorno non sarà più stata presente, allora essa non è affatto reale. Chi elimina il futuro anteriore elimina il presente.
Tuttavia, ancora una volta: di quale tipo è questa realtà del passato, l’eterno essere vera di ogni verità? L’unica risposta suona così: siamo costretti a pensare una coscienza che custodisce tutto ciò che accade, una coscienza assoluta. Nessuna parola pronunciata un giorno sarà un giorno non pronunciata, nessun dolore non sofferto, nessuna gioia non vissuta. Il passato può diradare, ma non si può fare in modo che non sia stato. Se la realtà esiste, allora il futuro anteriore è inevitabile e con esso il postulato del Dio reale.
“Io temo”, così scrive Nietzsche, “che non ci libereremo di Dio finchè continuiamo a credere alla grammatica”. Il problema è che non possiamo fare a meno di credere alla grammatica. Anche Nietzsche ha potuto scrivere quello che scrisse soltanto perché ha affidato alla grammatica ciò che ha voluto dire.

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