martedì 25 novembre 2008

Card. Angelo Bagnasco
Prolusione all’Università Europea di Roma
(19.11.2008)


Il futuro della Chiesa Cattolica in Italia

Premessa

“Il futuro è nelle mani di Dio”, usa dire il nostro popolo per affermare una persuasione profonda rispetto all’imprevedibilità degli eventi. Tale convinzione non impedisce tuttavia di scrutare l’orizzonte alla luce dell’esperienza umana e soprattutto alla luce della ‘speranza che non delude’, che per il credente resta la riserva di senso più importante. E’ grazie a questa singolare forma di ‘discernimento’ che posso dunque affrontare il tema che mi è stato assegnato, tentando di delineare il futuro della nostra Chiesa in Italia. Occorre riconoscere per altro che viviamo tempi in cui sembra rarefarsi la capacità di inoltrarsi verso il futuro. Forse perché per la prima volta il tempo che ci sta davanti è vissuto più come una ‘minaccia’ che come una ‘promessa’. Ma dietro questa ‘tristezza’ che si annida nello sguardo e che coinvolge spesso proprio le giovani generazioni, si nasconde a ben guardare un ‘deficit’ di speranza che solo la fede riesce a colmare, lasciando che ‘la porta oscura del tempo, del futuro’ (Spe Salvi, 2) si spalanchi davanti a noi.


1. La falsa profezia della secolarizzazione

Per avviare la riflessione sul futuro non sembra inutile partire proprio dalla falsa ‘profezia’ tipicamente moderna circa l’idea di progresso, inteso come un processo inarrestabile che va necessariamente dal bene al meglio, senza soluzione di continuità. Una certa filosofia della storia aveva trasformato tale profezia in una sorta di ‘nuova religione’, che mentre liberava l’uomo da varie forme di povertà e di dipendenza, avrebbe alla fine condotto alla totale sparizione della stessa esperienza religiosa. Si ricorderà a tal proposito l’ingenuo entusiasmo di Voltaire, il quale - dopo il tragico terremoto di Lisbona – affermava che se non tutto va bene, “un giorno tutto andrà bene” (Poème sur le desastre de Lisbonne ou examen de cet axiome: tout est bien, 1756). Al contrario proprio la storia che ne è seguita ha messo radicalmente in discussione questa disinvolta certezza e il crollo improvviso e totale di tutta una serie di illusioni ideologiche (marxismo e liberalismo) - anche nel loro drammatico risvolto economico - ha inferto un duro colpo alla speranza di un “avvenire comunque radioso”. E siamo così arrivati alla sorprendente affermazione di chi, solo qualche decennio fa, ipotizzava la rapida scomparsa della religione dallo scenario pubblico, ed oggi è costretto a rivedere la sua convinzione. Scrive al proposito il sociologo americano Peter L. Berger: ”Il mondo attuale è religioso in maniera massiccia; è tutto tranne il mondo secolarizzato che era stato annunciato da tanti analisti della modernità”.
All’interno di questo nuovo scenario che invita quantomeno ‘a ridiscutere la secolarizzazione’ (cfr. BERGER, P. L., Secolarizzazione la falsa profezia, in Vita e Pensiero, 5/2008, 15-23), l’Italia rappresenta senza dubbio un caso esemplare e, se si vuole, anche assolutamente originale. E’ lo stesso Papa Benedetto XVI a riconoscerlo, quando incontrando i Vescovi italiani per la prima volta dopo la sua elezione, così si esprime:”Il rapporto dell’Italia con la fede cristiana (…) è profondo e vivo. Certo, quella forma di cultura, basata su una razionalità puramente funzionale, che contraddice e tende ad escludere il cristianesimo e in genere le tradizioni religiose e morali dell’umanità, è presente e operante in Italia come un po’ ovunque in Europa. Qui però la sua egemonia non è affatto totale e tanto meno incontrastata: sono molti, infatti, anche tra quanti non condividono o comunque non praticano la nostra fede, coloro che avvertono come una tale forma di cultura costituisca una funesta mutilazione dell’uomo e della sua stessa ragione. E soprattutto, in Italia la Chiesa conserva una presenza capillare, in mezzo alla gente di ogni età e condizione, e può quindi proporre nelle più diverse situazioni il messaggio di salvezza che il Signore le ha affidato” (Discorso all’Assemblea della CEI, 30 maggio 2005).
L’interpretazione così autorevole del Papa aiuta a far emergere uno spaccato significativo del cattolicesimo italiano all’interno del più ampio contesto europeo, rimarcando alcune caratteristiche, da tenere nel debito conto e soprattutto da far lievitare ulteriormente nel futuro.
La prima è senza dubbio il fatto che l’Italia rappresenta un terreno favorevole per la testimonianza cristiana perché in essa la Chiesa è “una realtà molto viva” che può dare risposte positive e convincenti agli interrogativi della gente.
La seconda è che la secolarizzazione non è stata “incontrastata”, anzi gli ultimi anni (vedi referendum sulla Legge 40 o il Familyday) hanno fatto emergere momenti particolari in cui la Chiesa è riuscita ad aggregare intorno a cruciali questioni antropologiche dei consensi significativi, ben oltre la compagine credente.
La terza è infine quella di presentare un carattere non elitario, grazie ad “una presenza capillare” che ancora oggi è garantita dalla parrocchia e da una serie di esperienze riconducibili al territorio e ai vissuti della gente comune.
Si può dunque affermare con ragionevole convinzione che la Chiesa nel nostro Paese è viva nonostante il processo di secolarizzazione l’abbia investita, senza peraltro travolgerla; anzi, essa conserva una indubbia presenza sulla scena pubblica e allo stesso tempo è capillarmente diffusa tra la gente.
Tutto questo però come si svilupperà nel futuro? E’ sempre Benedetto XVI che intervenendo di persona al Convegno di Verona ha lucidamente tracciato il futuro della nostra Chiesa, lasciando intendere che in fondo si tratta di compiere un’unica scelta, quella «di rendere visibile il grande “sì” della fede». Ed è precisamente su questa impegnativa opzione che si distende la cosiddetta Nota dopo Verona, intitolata «Rigenerati per una speranza viva” (1 Pt 1,3): testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo», che ho avuto l’onore di presentare e che intende “far risaltare gli aspetti che paiono maggiormente fecondi e sui quali dovrà concentrarsi l’attenzione delle Chiese particolari, in vista delle scelte operative che ciascuna di esse è chiamata a compiere” (Presentazione del Presidente della CEI)

2.Il grande “sì”di Dio all’uomo

Il futuro della Chiesa in Italia è legato in primo luogo alla qualità del suo rapporto con Dio, da cui dipende la sua autenticità. Infatti «il ‘sì’ che continuamente e fedelmente Dio pronuncia sull’uomo trova compimento nel ‘sì’ con cui il credente risponde ogni giorno con la fede nella parola di verità, con la speranza della definitiva sconfitta del male e della morte, con l’amore nei confronti della vita, di ogni persona, del mondo plasmato dalle mani di Dio» (Nota dopo Verona, 10).
Ciò vuol dire ribadire ancora una volta il primato di Dio. E’ infatti la questione di Dio il punto decisivo e primordiale di ogni servizio della Chiesa al mondo. Spetta dunque alla comunità dei credenti ridare a questa domanda, spesso evasa quando non censurata nel nostro mondo occidentale, la sua centralità nell’agenda della vita quotidiana. Infatti oggi la fede si fa più difficile perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre più come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente. Sembra divenuto superfluo, anzi quasi estraneo.
Di qui l’esigenza di mettere in testa ad ogni nostra preoccupazione l’opera di Dio, e quindi la preghiera per dilatare gli spazi del silenzio e dell’adorazione. Ai nostri giorni, convulsi e spesso nevrotizzati da tempi dis-umani, la scelta di dare del tempo a Dio, di creare spazio alla sua Presenza, è una sfida che lascia interdetti, se non pensosi. Proprio la recente esperienza di centinaia di migliaia di giovani a Sydney (tra cui almeno diecimila italiani) ha colpito gli analisti più scettici per il grande silenzio che comunque aleggiava; un silenzio peraltro indispensabile affinché il raccoglimento entrasse nelle fibre e lasciasse tracce nelle coscienze. Giustamente Benedetto XVI nella Messa conclusiva della GMG australiana ha detto:”L’amore di Dio può effondere la sua forza solo quando gli permettiamo di cambiarci dal di dentro. Noi dobbiamo permettergli di penetrare nella dura crosta della nostra indifferenza (…). Solo allora possiamo permettergli di accendere la nostra immaginazione e plasmare i nostri desideri più profondi. Ecco perché la preghiera è così importante (…). Essa è pura ricettività della grazia di Dio, amore in azione, comunione con lo Spirito Santo”. Prima di ogni attività e di ogni nostro programma deve esserci l’adorazione che ci rende davvero liberi e ci offre i criteri per il nostro agire.
Il silenzio adorante è la prima qualità dell’essere Chiesa del futuro e dispone all’ascolto della Parola nella quale prende corpo e si fa presente l’incontro irripetibile con il Signore Gesù. La fede nasce dall’ascolto e noi possiamo essere “sale della terra e luce del mondo” (Mt 5,13-14) solo se ci alimentiamo ad essa perché allora il volto di Cristo esce dalla vaghezza in cui talora è confinato in certa generica religiosità e ci aiuta a compiere il grande salto verso Dio. Noi siamo infatti chiamati a riscoprire Dio e non un Dio qualsiasi, ma il Dio con un volto umano, poiché quando vediamo Gesù vediamo Dio. Rendere possibile l’incontro con Dio, senza lasciarlo all’eventualità del caso, resta il vero compito della Chiesa ed è questo anche in futuro il suo vero scopo, sapendo che solo incontrando Dio in un rapporto di reciproco amore, l’uomo compie se stesso ed è pienamente felice per il presente e per il futuro. “La luce delle genti” infatti è Gesù Cristo: solo in Lui Dio rivela il suo vero volto di Padre. E la Chiesa è come la luna che riflette la luce del sole, rendendo possibile all’uomo di scorgere lo splendore di Cristo e la via di un mondo veramente umano.

3. Una fede amica dell’intelligenza e una prassi di vita caratterizzata dall’amore

Oltre a dilatare gli spazi della nostra interiorità, compito della Chiesa del futuro è pure quello di “allargare gli spazi della nostra razionalità”, secondo il pressante invito di Benedetto XVI. In che cosa consiste tale allargamento? Nella presa di coscienza che non esiste una sola forma di razionalità che coincide con quella che va sotto il nome di epistemologia scientifica, per la quale è valido solo quello che è sperimentabile e calcolabile. Nessuno nega ovviamente la legittimità di un tale metodo di ricerca che ha i suoi indubbi vantaggi e, per quel che riguarda l’umanità, i suoi innegabili meriti. L’importante è che non si assolutizzi questo metodo e si finisca con il ritenere razionale soltanto questa forma di conoscenza. Se così fosse non solo la razionalità scientifica entrerebbe in contraddizione con il limite che essa stessa giustamente si è imposta, ma renderebbe im-proponibili le questioni che attengono al bene e al male morale e, più al fondo, il senso e il destino dell’uomo e dell’universo, cioè in ultima istanza la questione di Dio. Ci troveremmo paradossalmente di fronte ad una restrizione della razionalità, perché l’uomo sarebbe conoscibile solo attraverso questa forma di indagine sperimentale, perdendo di vista proprio il soggetto che non è riducibile alla sola ragione calcolante e strumentale (cfr. RUINI, C., Per un progetto culturale orientato in senso cristiano, Casale Monferrato, 1996, 5-34). Si intuisce a questo proposito quanto la fede debba ritrovare la sua piena cittadinanza all’interno della cultura del nostro tempo, riuscendo a riaprire la razionalità alle grandi questioni del vero e del bene, sapendo coniugare insieme la teologia, la filosofia e le scienze, nel rigoroso rispetto dei metodi di ciascuna disciplina, ma anche nella consapevolezza della loro intrinseca unità che le tiene insieme. Emerge con chiarezza a questo punto il senso e la portata di quello che in Italia ormai da più di un decennio va sotto il nome di ‘progetto culturale’. Esso ha aiutato ad individuare una “nuova svolta antropologica come il passaggio obbligato nel rapporto fede-cultura- società”, diventando un “punto di riferimento” per altre Conferenze e “un fattore dinamico di paragone e di confronto, talora dialettico, con tutti i soggetti pubblici che agiscono nella società civile italiana e non solo” (SCOLA, A, Intervento all’Università Cattolica, 5 novembre 2007). Sono convinto che questo Progetto abbia ancora molto da offrire alla Chiesa e alla stessa società italiana, soprattutto se riuscirà nell’intento di mostrare la plausibilità del Vangelo in ordine alle grandi sfide della società contemporanea. In tale prospettiva non c’è ambito dell’esistenza umana che possa ritenersi estraneo. In Cristo infatti ci è data un’immagine e un’interpretazione determinata dell’uomo, un’antropologia plastica e dinamica, capace di incarnarsi nelle più diverse situazioni e contesti storici, mantenendo però la sua specifica fisionomia, i suoi elementi essenziali e i suoi contenuti di fondo. Davvero nel mistero del Verbo incarnato si fa luce il mistero stesso dell’uomo (GS, 22). Ciò spiega pure la singolare capacità del magistero sociale della Chiesa di entrare dentro tutte le problematiche più scottanti di oggi con un giudizio originale che tiene insieme e non contrappone etica individuale (questione antropologica) ed etica sociale (questione economica ed ambientale).
Accanto a questo servizio all’intelligenza, la Chiesa italiana ha e deve continuare ad avere nel suo DNA un’attenzione speciale per i poveri e i sofferenti e comunque per tutte quelle situazioni che reclamano il servizio della carità. Del resto, storicamente si è realizzata una profonda saldatura tra l’impegno intellettuale, di cui si è detto, e la cura delle vecchie e nuove povertà. Permane una serie di obiettive situazioni a rischio che coinvolgono la famiglia, la quale stenta a trovare una propria serenità in ambito economico e per la quale si fatica a far emergere in campo politico la sua ineliminabile soggettività. Così come nel nostro Paese l’integrazione, il lavoro, la casa, la scuola, la sanità presentano diffuse criticità su cui attirare la comune attenzione per affrontare e non rinviare i problemi ad essi sottesi. Altro versante problematico nel quale la Chiesa sa di dover dire il suo “sì” agli italiani è quello della moralità sociale e della legalità pubblica che sono dimensioni proprie della cittadinanza rispetto ai vincoli collettivi. Situazioni specificatamente delicate si presentano – come è noto – in alcuni territori del Paese, quelli più interessati dalla malavita organizzata, dalla ‘ndrangheta e dalla mafia, fenomeni che da tempo tendono peraltro a ramificarsi all’estero. Non solo in tali contesti degradati, ma più in generale il vincolo sociale appare friabile ed esige che sia continuamente ricostruito a partire dalle persuasioni di fondo nelle persone.
Ma c’è un ambito che oggi si fa pressante ed è l’emergenza educativa, su cui come Chiesa dovremo continuare a concentrare i nostri sforzi. Infatti, di fronte a quella che negli anni è diventata una sorta di de-regulation educativa, sono personalmente convinto “che non ci sia altra via che quella di una rinnovata opera educativa, che sarà tale se avrà il coraggio di non obliterare il costo degli ideali e se non rinuncerà alla prossimità che sa farsi compagnia” (Prolusione alla Assemblea della CEI, maggio 2008).
Educare non è stato mai facile; oggi tuttavia lo è ancora di meno perché si è sedimentata l’idea che sia impossibile educare e dunque si rinuncia in partenza a questo compito. Ma a ben guardare dietro questa sfiducia c’è in realtà una più radicale mancanza di speranza che è quella nei riguardi della vita stessa. Si coglie questo stato d’animo rinunciatario e già dimissionario tra gli adulti, finendo per rifluire immediatamente sui più giovani. Sono i giovani infatti i primi bersagli della cultura nichilista “che instilla loro la convinzione che nulla di grande, bello, nobile ci sia da perseguire nella vita, ma che ci si debba accontentare di un “qui ed ora”, di obiettivi di basso profilo, di una navigazione di piccolo cabotaggio, perché vano è puntare la prua verso il mare aperto. L’esito finale della cultura nichilista è una sorta di anestesia degli spiriti incapaci di slanci e quindi inerti (…). In tal modo i sogni e i desideri tipici dei giovani vengono frantumati proprio mentre chiedono invece di essere protetti, coltivati nel loro lavoro educativo, e sospinti verso mete nobili e alte, che noi sappiamo essere a misura dei giovani” (ibidem). Tra queste mete c’è anzitutto “ciò che sta oggettivamente al centro di ogni percorso cristiano, ossia l’adorabile persona di Cristo Signore. Ciò tuttavia non significa che, come si diceva una volta, Cristo arriva alla fine della proposta: l’annuncio kerigmatico oggi cattura più solitamente dall’inizio, perché è realmente il fascino esercitato dalla persona di Gesù a colpire, per contrasto, magari come ragione di un evento che turba o come senso profondo di una testimonianza di vita che colpisce e sgomenta. Ma anche come reazione abissalmente altra rispetto al vuoto desolante, rispetto ai progetti di de-costruzione che passano per l’assunzione delle droghe o dell’alcol, per i riti dell’assordimento e dello stordimento. Cristo allora diventa come il risveglio inaudito ad una vita diversa, radicalmente altra, ideale subito concreto e pertinente, principio riordinatore di un’esistenza via via capace di altri sapori e di altri riti” (ibidem).

4. Una Chiesa popolare, cioè di tutti e per tutti

Compito della comunità cristiana è dunque quello di far emergere dentro le aspirazioni degli uomini e delle donne di oggi i buoni sogni e i buoni desideri, fra tutti il desiderio di Dio. Ma quale sarà concretamente la forma della Chiesa che offre a tutti gli uomini il dono di una fede che abbiamo visto essere amica dell’intelligenza e insieme di una prassi ispirata dall’amore?
Come è noto, la riflessione conciliare ha privilegiato la categoria di comunione, che esprime a sua volta la peculiare unione che fa di tutte le membra un medesimo corpo, il Corpo mistico di Cristo. Quanto il Vaticano II ha individuato attraverso questa immagine è stato peraltro approfondito dal successivo magistero pontificio: oltre che nel Sinodo straordinario del 1985 anche in alcune prese di posizione della Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr. Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, 28 maggio 1992). In tal modo si è pervenuti ad una più matura coscienza del mistero della Chiesa, senza perpetuare presunte antinomie o approcci unilaterali, come quando - non senza gratuite semplificazioni – si tende a contrapporre la comunione verticale a quella orizzontale, la comunione visibile a quella invisibile, la comunione eucaristica a quella gerarchica, la comunione che si esprime in ogni Chiesa locale e quella garantita nella Chiesa universale, grazie al ministero di Pietro (cfr. Prolusione al Consiglio permanente della CEI, settembre 2008).
Da questo punto di vista, la Chiesa in Italia appare normalmente estranea a tali contrapposizioni ideologiche, poichè il popolo cristiano sa coniugare insieme le differenti dimensioni e i relativi servizi ministeriali senza creare fratture o contrapposizioni. Nel recente passato l’aver posto l’accento in primo luogo sull’evangelizzazione (anni ’70) e quindi sulla comunione (anni ’80), come condizione per una testimonianza credibile (anni ’90) ed una comunicazione efficace del Vangelo (primo decennio degli anni duemila), ha obiettivamente facilitato la coscienza di essere tutti al servizio della stessa causa comune. Ne è seguito un graduale impegno a condividere la missione da parte di sempre più significative componenti del mondo ecclesiale. Non vi è dubbio, ad esempio, che per entrare dentro i gangli vitali dell’esistenza umana (affetti, lavoro e tempo libero, fragilità, educazione, cittadinanza) con il profumo e il sapore del Vangelo la presenza dei laici appaia indispensabile. Per questo, sempre maggiore e formata dovrà essere la loro presenza, secondo quell’indole propria che l’ultimo Concilio ha bene espresso (LG, 31). Ciò non toglie che il rapporto con i sacerdoti e i diaconi, ed anche quello con il mondo dei religiosi e delle religiose, vada sempre rivitalizzato, se non altro per permettere uno scambio fruttuoso tra le diverse componenti del corpo ecclesiale. E’ grazie a questo interscambio che la Chiesa italiana ha attuato una coerente azione evangelizzatrice nelle parrocchie, nonostante lo scenario culturale e sociale si sia profondamente trasformato. Per questa ragione è lecito attendersi anche per il futuro proprio dalle comunità parrocchiali, più che da altre strutture, iniziative ed atti concreti di testimonianza cristiana. Ovviamente, nel quadro di una pastorale integrata, questo vorrà dire pure lasciarsi arricchire dalla presenza vivificante dei movimenti e delle aggregazioni ecclesiali (cfr. BENEDETTO XVI, Omelia all’incontro con i movimenti ecclesiali e le nuove comunità, 3 giugno 2006).
La corresponsabilità sembra essere la meta da guadagnare sempre più, passando da forme episodiche di collaborazione a una stabile condivisione. La condizione per avviare questa nuova stagione ecclesiale è un clima di fraternità e di dialogo, di franchezza e di mitezza che deve potersi respirare dentro l’esperienza ecclesiale. “In particolare – come suggerisce la Nota dopo Verona – le relazioni tra le diverse vocazioni devono rigenerarsi nella capacità di stimarsi a vicenda, nell’impegno da parte dei pastori ad ascoltare i laici, valorizzandone le competenze e rispettandone le opinioni. D’altro lato, i laici devono accogliere con animo filiale l’insegnamento dei pastori come segno della sollecitudine con cui la Chiesa si fa vicina e orienta il loro cammino. Tra pastori e laici, infatti, esiste un legame profondo, per cui in un’ottica autenticamente cristiana è possibile solo crescere o cadere insieme” (n. 23). Una conseguenza di questa relazione sarà che ai nostri sacerdoti, spesso segnati da un sovraccarico di lavoro, verrà chiesto sempre di più l’essenziale (evangelizzazione e sacramenti), mentre ai laici verrà domandato sempre più di contagiare le dimensioni quotidiane del vivere. Un segno di questa attenzione convergente verso alcuni segmenti della vita sociale particolarmente sensibili sono, a livello nazionale, alcune realtà aggregative che hanno in questi anni inciso profondamente nell’opinione pubblica. Mi riferisco ad esempio al Forum delle Associazioni familiari, all’associazione “Scienza e Vita”, a “RetinOpera”, al “Forum del Terzo Settore”, al “Forum delle Associazioni socio-sanitarie”, al “Forum delle Associazioni degli studenti universitari” e al “Coordinamento delle Associazioni per la Comunicazione” (CoperCom). Questa rete di organismi di coordinamento del laicato rappresenta una forma concreta di convergenza oltre che di presenza sul terreno dei problemi che riguardano tutti .
Alla fine ciò che garantisce, in mezzo alla complessità della trama pastorale di ritrovare l’ordito, è tornare alla centralità della persona. E’ la persona nelle sue dimensioni costitutive ad essere sempre il soggetto-interlocutore diretto della nostra attenzione pastorale. Dunque, nessun astrattismo si dovrà rintracciare nelle nostre iniziative, ma una proposta concreta, che abbraccia la vita, e che porta tutta l’esistenza all’incontro risanatore e liberante di Cristo.



5. Il sagrato come figura sintetica della Chiesa del futuro

Mi piace - per avviarmi alla conclusione – evocare un’immagine sintetica: quella del “sagrato” come figura simbolica della Chiesa vicina e incarnata tra la gente in tutte le sue forme: dalle parrocchie alle aggregazioni antiche e nuove. “Il sagrato è stato nell’ultima stagione riscoperto nelle sue valenze religiose e civili, non solo a cerniera tra il sacro e il profano – come era stato nei tempi antichi – ma anche quale luogo dell’accoglienza e dell’incontro, dell’orientamento a Dio come al prossimo. In altre parole sarà utile se lo spazio antecedente la chiesa, anziché via di fuga o spiazzo che si attraversa frettolosamente, diventa luogo del dialogo, dell’amicizia, dell’ascolto” (cfr. Prolusione all’Assemblea della CEI, 26 maggio 2008).
Se si realizzerà quel che l’immagine del sagrato fa intuire, più facilmente si avvererà quanto detto da Benedetto XVI a Verona:”Se sapremo farlo, la Chiesa in Italia renderà un grande servizio non solo a questa Nazione, ma anche all’Europa e al mondo, perché è presente ovunque l’insidia del secolarismo e altrettanto universale è la necessità di una fede vissuta in rapporto alle sfide del nostro tempo” (Discorso al Convegno).

Nessun commento:

Posta un commento