mercoledì 4 marzo 2009

Etica

Quale etica?

Biodiritto come diritto "sulla" vita o "per" la vita? La teorizzazione più estrema è quella di chi sostiene che il diritto non deve intervenire mai nelle questioni bioetiche. È la prospettiva di chi ritiene che in etica non siano conoscibili valori assoluti e universali, che valgono sempre e comunque per tutti (il non cognitivismo etico o "etica senza verità"): è il soggetto, in ultima analisi, che crea autonomamente i valori, decidendo che cosa sia bene e che cosa sia male, sulla base della propria coscienza insindacabile e autoreferenziale. È la prospettiva che ritiene che il pluralismo etico sia, di fatto e di principio, inconciliabile: i valori sono così diversi e contrapposti che, per quanti tentativi si possano fare, l'identificazione di valori comuni non è probabile, nemmeno possibile, anzi addirittura non auspicabile, in quanto ritenuta oppressiva rispetto all'autenticità individuale.
In questo contesto è preferibile l'assenza del diritto rispetto alla presenza del diritto nelle questioni che riguardano la vita e la morte, la salute e la malattia, il benessere e la sofferenza per garantire lo spazio alla libertà individuale e il pronunciamento di valori soggettivi, senza interferenze esterne.
È il modello "astensionista" che, nell'orizzonte antigiuridista e libertario, ritiene il diritto un'ingerenza che soffoca indebitamente l'autodeterminazione del singolo: proprio in bioetica è preferibile uno "spazio libero dal diritto" presupponendo che tutto ciò che non sia né comandato né vietato sia permesso.
È il modello che propone la sottrazione delle problematiche bioetiche al diritto, con la conseguente privatizzazione delle scelte: si ritiene opportuno non legiferare in bioetica o depenalizzare le eventuali leggi esistenti, preferendo all'intervento legislativo le regolamentazioni dei codici deontologici, le deliberazioni dei comitati etici o l'autodisciplina di singoli soggetti e di comunità scientifiche.
Su basi analoghe, ma con argomentazioni diverse, si delinea la teorizzazione del "biodiritto neutrale" nell'ambito dell'orientamento liberale-libertario. È il modello che chiede al biodiritto di amplificare la libertà soggettiva, moltiplicando le possibilità di scelta: si tratta di prendere atto delle nuove richieste emergenti nella società pluralista, istituzionalizzare tutte le alternative prevedibili, senza prendere posizione a favore o a sfavore. In questo senso il biodiritto garantirebbe uno spazio privato alle decisioni morali, nella convinzione che ogni individuo possa fare ciò che vuole - anche nel caso si giudichi il suo comportamento disprezzabile, sconveniente o immorale - nei limiti del rispetto del danno ad altri, ove per danno si intende l'interferenza con l'altrui libertà.
Solo nella misura in cui vi sia un fondato - ma anche solo presumibile - timore per eventuali rischi sulle conseguenze imprevedibili di determinate scelte, sono ammesse regole temporanee per finalità pragmatiche che limitino la libertà individuale, stabilite di volta in volta, utili a tamponare le emergenze sociali. Secondo questo modello è auspicabile un intervento legislativo che regoli in modo procedurale l'autodeterminazione individuale; una biolegislazione minimale che si limiti a registrare le spinte sociali plurali della prassi in modo dinamico e flessibile, elaborando norme svincolate e aperte, norme "a tempo".
Quale alternativa a tale legislazione soft è ammessa (anzi, da alcuni è considerata preferibile) la giurisprudenza discrezionale, adattabile al pluralismo etico e alle trasformazioni sociali, in quanto mai definitiva ma sempre applicata al singolo caso e suscettibile di ripensamento.
Vi è poi la prospettiva "utilitarista" che ritiene che la funzione del biodiritto debba essere quella di massimizzare gli interessi, derivanti dal calcolo piacere/dolore, gioia/sofferenza, felicità/infelicità, del maggior numero di individui. Secondo questo modello la norma giuridica deve beneficiare il maggior numero di individui e danneggiarne il minimo: si tratta di elaborare norme ispirate a criteri di convenienza sociale, rivedibili in funzione del mutare delle circostanze. Il diritto diviene strumento per la ripartizione di risorse secondo il criterio dell'utile collettivo, eliminando o considerando "marginali" coloro che non possiedono o non hanno la probabilità di avere una sufficiente vita con qualità.
Si tratta di prospettive che, seppur in modo diverso, pongono al centro l'autonomia individuale e la qualità della vita per giustificare o l'assenza del diritto o la presenza del diritto "mite". La tecno-scienza tra "non diritto" e "diritto debole" si espone ad alcuni rischi: senza il diritto il rischio è di cadere nel far west bioetico, dove tutto è permesso in quanto nulla vietato; con un diritto debole, il rischio è quello di non orientare ma assecondare la prassi, facendo prevaricare i fatti sui valori, non trovando soluzioni al conflitto tra autonomie private che esprimono visioni etiche opposte e inconciliabili, lasciando spazio alla prevaricazione della volontà del più forte.
Un elemento comune alle prospettive biogiuridiche delineate (libertaria, liberale, utilitarista) è la negazione che la natura umana sia espressione di un valore e il fondamento dei diritti: il fatto di possedere una natura umana non è considerato sufficiente per giustificare un dovere di rispetto e di tutela. Le teorie delineate tematizzano una distinzione tra essere umano quale oggetto della nostra percezione ed essere umano come soggetto di qualificazione etica e giuridica. L'essere umano fattualmente si manifesta in un corpo; il corpo è considerato mera materia organica. La dignità è un'altra cosa: è una categoria etica che può essere conferita o tolta, istantaneamente o gradualmente, in base a come si manifesta la corporeità umana. Embrioni, feti, ma anche bambini hanno corpi biologicamente umani ma non hanno "ancora" dignità; individui in coma, cerebrolesi, dementi, anziani, handicappati, malati in condizioni di grave sofferenza hanno corpi biologicamente umani, ma non hanno "più" dignità.
La separazione nell'uomo tra oggettività e soggettività ripropone il dualismo antropologico già presente nel pensiero occidentale: si pensi alla concezione orfico-platonica del corpo come tomba dell'anima e alla distinzione cartesiana tra res extensa e res cogitans. La soggettività diviene una qualificazione del corpo/oggetto (ridotto alla dimensione quantitativa), che può esserci o non esserci, in base alla fase di sviluppo raggiunta dall'organismo biologico umano, alle proprietà che manifesta e alle capacità che è in grado di esibire.
Chi non è ancora o non più autonomo non ha dignità; chi non ha la probabilità di avere o ha perso una minima qualità di vita non ha dignità. Ma, al tempo stesso, alcuni esseri non umani (animali o entità postumane, robot o soggetti cibernetici) possono avere una dignità, se in grado di percepire sensazioni piacevoli o spiacevoli, di avere una vita di sufficiente qualità o di essere autonomi. L'antropocentrismo è messo in discussione dagli orientamenti utilitaristici che estendono ad alcuni animali, in senso interspecifico, la soggettività personale e dalle teorizzazioni post-umane e trans-umane che arrivano a riconoscere lo statuto personale a intelligenze artificiali.
L'affermazione della "variabilità" del valore della vita umana (con particolare riferimento ai confini biologici) - implicito negli orientamenti esaminati - apre a una serie di conseguenze: sono negati i doveri diretti di tutela nei confronti della vita umana; rimangono semmai solo doveri prima facie e diritti "indiretti", provvisori, bilanciabili in base alle circostanze, a considerazioni sociali, ad accordi di opportunità o prudenza, di benevolenza o simpatia, ma anche a ragioni simboliche o estetiche. Il biodiritto si configura dunque, in questo modo, come un "diritto sulla vita": ove il diritto è lo strumento dell'esercizio soggettivo dell'autonomia o della garanzia della qualità della vita e la vita è ridotta a materiale biologico. Il diritto ha una precedenza, una priorità e una superiorità rispetto alla vita, che non costituisce un limite o un vincolo per il diritto. È l'individuo che può decidere se sperimentare o non sperimentare su embrioni, se produrli, distruggerli, commerciarli; è l'individuo che decide se e come usare le nuove tecnologie, ricercandone il successo anche al prezzo di disperdere, sovraprodurre o ridurre embrioni; è l'individuo che sceglie le caratteristiche dell'embrione che desidera, scartando individui con difetti genetici, incurabili o semplicemente sgraditi; è l'individuo che decide quando la sua vita vale la pena di essere vissuta, potendo anche imporre la propria volontà su quella del medico e chiedendogli di non iniziare o sospendere le cure, ma anche di praticargli un'iniezione letale.
Ma c'è anche un altro modo di intendere il "diritto" e la "vita" e il loro reciproco rapporto, anche in riferimento ai valori. È la prospettiva di chi ritiene che il diritto non sia riducibile a mera tecnica neutrale di organizzazione sociale: il fatto stesso di ritenere il diritto uno strumento di tutela dell'autonomia e della qualità della vita mostra l'assenza di neutralità, e l'implicito riferimento ai valori (siano essi l'autonomia o la vita di qualità). Il diritto non è, non può e non deve essere neutrale: il diritto è chiamato, strutturalmente, a veicolare un'etica minima, non un'etica esterna scelta tra le etiche nel contesto della pluralità che caratterizza il dibattito attuale (tale scelta determinerebbe inevitabilmente l'imposizione e il privilegio di un'etica e la delegittimazione delle altre etiche), ma un'etica interna, l'etica della giustizia. È questa l'etica "minima" (ma non per questo minimalista) condivisibile da parte di tutti gli uomini sul piano della mera razionalità pratica, indipendentemente dalla posizione teoretica, etica o religiosa assunta a livello "massimo".
Giustizia significa "dare a ciascuno il suo", riconoscere a ogni uomo ciò che gli spetta per natura; significa riconoscere l'uguaglianza nel senso di pari dignità, ossia il dovere di trattare ogni uomo in quanto uomo a prescindere da altre considerazioni estrinseche, quali l'appartenenza politica, religiosa, culturale, ma anche la differenza sessuale, cronologica o la diversità nelle condizioni di esistenza sociali e personali (salute/malattia, abilità/disabilità). Il principio di uguaglianza si radica nell'"essere" dell'uomo, indipendentemente dal suo "esistere" o dal suo "agire". La dignità è dunque una condizione ontologica, originaria e invariabile, senza sfumature o gradazioni: ogni uomo ha una dignità da quando inizia a esistere fino a quando cessa di esistere.
Ogni confine della dignità nell'ambito della vita umana non può che essere convenzionale, pertanto arbitrario in quanto stabilito soggettivamente dalla volontà, non riconosciuto oggettivamente nella natura: la vita, dall'inizio (la fecondazione dei gameti) alla fine (la morte cerebrale totale) ha uno sviluppo continuo con solo modificazioni quantitative, senza interruzioni o salti di qualità.
La natura umana ha dunque un rilievo etico per il diritto: il diritto non può rimanere indifferente rispetto alla dignità intrinseca dell'essere umano. Un diritto che si estranei, o pretenda di estraniarsi, radicalmente dai valori apre al pericolo di un uso "dis-umano" del diritto, di un uso del diritto "contro" l'uomo. Nel diritto è importante recuperare quella consapevolezza, che è progressivamente maturata e si è consolidata dopo le atroci esperienze storiche dei totalitarismi: la consapevolezza che il diritto non può divenire mero strumento formale asservito estrinsecamente alla volontà di chi si impone con la forza e non può limitarsi alla registrazione della prassi (quale essa sia). Significa invece identificare nella tutela della natura umana l'orizzonte di senso e la misura critica del diritto, il valore pregiuridico e metagiuridico che dovrebbe costituire l'orientamento per il legislatore e il giudice, nel momento in cui sono chiamati a intervenire nell'ambito della regolamentazione della tecnoscienza.
Il diritto è chiamato a giustificare solo richieste dell'uomo "per" il corpo: anche se all'inizio è quantitativamente impercettibile e alla fine è debole e dipendente dagli altri, è il corpo di un essere umano come qualsiasi altro.
Ritenere che la legislazione biogiuridica debba ispirarsi al criterio della dignità umana intrinseca non significa introdurre una legislazione "pesante", spesso accusata di dogmatismo o confessionalismo. Significa invece fissare un limite razionale vincolante al progresso scientifico al fine di affermare un valore non negoziabile, che va interpretato nel contesto dei singoli problemi emergenti: significa ritenere che la vita umana non sia mai un semplice mezzo (strumentalizzabile), ma sempre anche un fine (da rispettare). Non significa bloccare sempre e comunque il progresso della tecnologia: significa piuttosto bilanciare l'interesse della scienza con il riconoscimento del bene umano fondamentale. Significa ammettere la sperimentazione solo con finalità terapeutica; consentire le tecnologie riproduttive solo se rispettose dello statuto dell'embrione umano, proibendo sovrapproduzione e riduzione embrionaria, bilanciando i desideri riproduttivi e gli interessi del nascituro, garantendogli le condizioni di vita nel contesto di una famiglia bigenitoriale eterosessuale; ammettere diagnosi genetiche senza che automaticamente portino alla selezione eugenetica; sospendere cure sproporzionate, futili, gravose e onerose per il malato, garantendo le cure ordinarie, accompagnando chi sta per morire alleviando il dolore con l'uso delle cure palliative.

LAURA PALAZZANI

(©L'Osservatore Romano 4 -3-2009)

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