sabato 8 marzo 2008

Racconti di fine millennio: L'allevatore di sogni

L’Allevatore di sogni come ogni sera sedeva nella vecchia poltrona e guardava con affetto i ritratti dei suoi antenati attaccati sulla mensola sopra il caminetto. Le loro espressioni erano felici e soddisfatte, i loro lineamenti invecchiando avevano mantenuto quell’espressione. Guardò il proprio viso nello specchio d’argento posto ad una estremità della mensola. Lui non sarebbe invecchiato così. Ne era certo. Si sentì triste e solo. Eppure aveva come ogni giorno lavorato sodo. Aveva persino trovato una medicina per un disperato caso di anoressia onirica. Forse, dovrei distrarmi di più pensò. Non si ricordava più da quanto tempo non parlava con qualcuno. L’ultima volta risaliva a quando aveva ospitato il Domatore di incubi. Avevano chiacchierato per tre giorni di seguito senza mai fermarsi. L’Allevatore di sogni aveva sempre più bisogno di lui. Erano rimasti in pochi in grado di svolgere certe professioni. Il dramma era che il bisogno aumentava, mentre era sempre più difficile trovare qualcuno disposto a fare quel mestiere. In più spesso si rischiava di veder andare in fumo tutto il lavoro, lo Spacciatore d’insonnia era sempre in agguato. Era lui il loro grande comune nemico, e forse l’origine di tutte le sue tristezze. Continuamente il suo lavoro veniva vanificato dall’opera nefasta di costui. Quante volte aveva coltivato con amore un bel sogno, magari per un uomo che non se la passava molto bene, e questi era caduto vittima dello Spacciatore d’insonnia. E’ banale, ma se non si riesce a dormire, è certo che non si può sognare. In più se il malcapitato preso di mira dallo Spacciatore cominciava a ricorrere ai sonniferi, finiva per procurarsi un sonno artificiale che mandava completamente in fumo tutto il lavoro dell’Allevatore. Lo Spacciatore d’insonnia aumentava sempre di più il suo potere, infatti ogni individuo che diventava sua vittima, a sua volta tendeva a trascinare chi gli stava vicino nella stessa situazione.
Tutti gli insonni quando arriva il momento di andare a dormire si trasformano a loro volta in spacciatori d’insonnia. Detestano la solitudine e il silenzio che si crea intorno a loro quando la maggior parte della gente dorme, o l'amano così tanto che fanno di tutto per dividere il loro piacere con altri. Unica eccezione gli artisti, gente dagli orari liberi, avvezza alla solitudine, che spesso utilizzava la notte per lavorare. L’Allevatore di sogni avrebbe voluto cambiare mestiere. Ma non poteva. Avrebbe voluto cambiare epoca, vivere ad esempio nel secolo in cui un famoso dottore aveva cominciato a studiare e a descrivere i sogni della gente.
Guardò la foto del suo bisnonno, lui sì che era stato importante. Tanti libri erano stati scritti sul suo lavoro. Le sue migliori creature erano tuttora addirittura nelle enciclopedie.
Certo del suo antenato non si poteva dire che era stato solo fortunato a vivere in quell’epoca, certamente aveva saputo sfruttare il momento e le mode del momento. Oppure avrebbe voluto vivere in tempi ancora più remoti, quando le creature umane tenevano in grandissima considerazione i sogni, ed erano capaci di muovere guerre o intraprendere viaggi sotto l’influenza di questi, che, sia nel bene che nel male influenzavano direttamente la loro vita. Un sogno fatto da un re o da un sacerdote, ma persino da un umile pastore, poteva influenzare le sorti e il futuro di una nazione. Per non parlare poi dei sogni dei profeti che da duemila anni continuavano ad essere letti nelle Sacre Scritture.
L’Allevatore di sogni ora si sentiva veramente triste. Nonostante tutto non poteva dire di non amare il suo tempo. Se solo le sue creature fossero prese un pochino più in considerazione, e se solo lo Spacciatore d’insonnia fosse meno potente. Era un’epoca difficile, di transizione, avevano parlato a lungo di questo con il Domatore di incubi. Entrambi si mantenevano aggiornati su tutto quanto di nuovo, o di vecchio, succedeva nel mondo. Era fondamentale per il loro lavoro. Ma non bastava. L’umanità intera era confusa e stava rivedendo molte delle questioni che in passato erano date per scontate. Era più difficile allevare sogni per chi non sapeva più cosa volere, e dal punto di vista del Domatore di incubi era sempre più complesso avere a che fare con chi non sapeva più bene cosa temere. Loro due erano riusciti a lavorare con i tele-dipendenti, con i cine-fili, e ora, come se già non fosse tutto così complicato, c’era questa nuova “realtà” virtuale. Avevano avuto un gran da fare con i primi sperimentatori di questa invenzione, avevano vissuto momenti terribili temendo che quest’ultima scoperta avrebbe potuto soppiantare il loro mestiere. Ma alla fine si erano ricreduti. No, la realtà virtuale non costituiva un serio pericolo, almeno fino a quando gli uomini avrebbero avuto bisogno di dormire, ci sarebbe stato bisogno del loro operare. Tutto quello che ormai era diventato possibile durante lo stato di veglia, avevano deciso che non gli avrebbe preoccupati più di tanto. Erano arrivati alla conclusione che l’umanità era rimasta sempre la stessa, ancora la gente aveva bisogno degli stessi sogni, e ancora per alcuni uomini, dotati di particolare chiarezza, preparavano sogni premonitori. Certo, era forse più difficile per questi vivere nell’era del computer e sognare in anticipo gli eventi. Ma forse era proprio questa una delle dimostrazioni che alla fine gli uomini erano ancora gli stessi.
***
La piccola sveglia squittiva in modo decisamente sproporzionato alle sue dimensioni. Michel allungò il collo da sotto il cuscino e urlò:
- Ho sentito, smettila ho sentito. La sveglia tacque ubbidiente.
Michel sapeva che aveva ancora dieci minuti di silenzio e poi avrebbe ricominciato a torturarlo a meno che non si fosse deciso ad accendere la luce e a disinserire il meccanismo.
Aveva bisogno di quei dieci minuti come dell'ossigeno. Ancora quel terribile incubo. Non poteva alzarsi dal letto e affrontare un'altra giornata di quella pesante vita con ancora quelle orrende sensazioni nella sua spina dorsale. Si sbottonò la giacca del pigiama. Era completamente bagnata di sudore. Margie aveva ragione, forse avrebbe dovuto parlarne con qualcuno. L'idea di regalare soldi a qualche strizza-cervelli lo disgustava almeno tanto quanto quella disgustosa palude gialla che ormai quasi ogni notte lo inghiottiva. Ogni notte sperava che fosse l'ultima volta, e addirittura si era trovato a pensare durante l'incubo 'tanto è solo un sogno' e mi sveglierò come sempre nel mio letto. Ma ciò nonostante, sempre più spesso andava a letto tardissimo, quasi all'alba, come se con la luce fosse più rassicurante lasciarsi andare al sonno e sperando che la stessa pallida luce dell'alba potesse allontanare quella fetida palude del suo sogno mostruoso. Il piccolo cubo ricominciò a suonare. Michel si buttò giù dal letto e con un solo gesto spense la sveglia e accese l'interruttore che apriva automaticamente le grandi finestre. La luce dell'alba si diffuse rapidamente nella stanza rivelandogli i segni della nottataccia. La vista della bottiglia di whisky quasi vuota e del portacenere traboccante di cicche gli riempirono la bocca di nausea. Mise in moto la macchina che gli preparava il caffè e si buttò sotto la doccia.
***
Paula sentì come da lontano le note della sua canzone preferita. La sua sveglia era programmata per svegliarla con quella musica,"You are out of my arms and J am out of my mind", ma questa volta lui era tra le sue braccia, poteva sentire a volontà l'odore della sua pelle e dei suoi capelli. Il tepore dei loro corpi abbracciati era delizioso, era un vero peccato rompere quell'incantesimo alzandosi dal letto. Avrebbe voluto rimanere ancora così, per un mucchio di tempo, e continuare a fare quei piccoli sogni tranquilli e ristoratori che la sua vicinanza le dava.
Si era chiesta tante volte perché da quando dormiva con suo marito veniva visitata da quei sogni che avevano una consistenza diversa dal solito. Certo ormai era sicura che, contrariamente ad ogni buon senso, anche i sogni potessero essere più o meno consistenti. Come la realtà, come le persone, come le cose, Paula aveva l'impressione che certi sogni fossero un poco più reali di altri, sempre nei limiti, ovviamente, trattandosi di sogni. Non era questione di memoria come sosteneva la sua amica Jean, secondo la quale dipendeva tutto dal momento, o fase, come diceva lei, in cui uno si svegliava o veniva svegliato. No, non era una questione di ricordo più o meno nitido, a lei piaceva pensare che fossero delle creature, semplicemente alcune erano più riuscite di altre. Come lo stesso tipo di albero può svilupparsi in modo maggiore o minore, avere una chioma più o meno folta, o venire fuori un pò esile o rachitico come quegli alberelli che sbucano fuori dal cemento dei marciapiedi e hanno le radici costrette dal cemento che li contiene e le chiome asfissiate dai gas di scarico delle automobili. Oppure quelle magnifiche querce solitarie che che di tanto in tanto si incontrano in certe campagne, e la forza delle loro radici senza limiti si rivela nello splendore delle loro chiome che possono senza fatica slanciarsi verso il cielo. Così lei pensava, c'è sogno e sogno e quelli che faceva quando dormiva con lui erano i più riusciti che le fosse capitato di fare. A malincuore Paula cominciò ad uscire dal letto, cercando di non svegliare lui che poteva ancora dormire.
***
Adrien allungo' un braccio verso il comodino. A tastoni cerco' le freccette del suo tirassegno, che era oramai il suo passatempo preferito. Ogni mattina appena sveglio, ancor prima di accendere la luce, gli piaceva lanciare le dieci piccole frecce sul bersaglio che aveva sistemato di fronte al letto. La parete era completamente sgombra di oggetti, anche se la sua mira falliva non avrebbe potuto far danni. Solo una volta una freccetta era andata a conficcarsi chissa' come in una delle casse dello stereo.
Era piu' divertente che guardarsi le comiche che la tv trasmetteva al mattino.
Aveva bisogno di rimanere un po' a letto dopo il risveglio, sin dalla infanzia non aveva mai capito coloro che appena aprono gli occhi ingoiano litri di caffe' e si precipitano sotto la doccia. Come era d'abitudine per Luisa, la sua ex moglie. Anche prima della sua passione per il lancio delle freccette al buio, aveva indugiato sempre un po' prima di affrontare la giornata.
Era curioso come fosse venuta fuori questa sua mania, e ogni tanto gli tornava alla mente. L'aveva semplicemente sognato una notte, qualche mese dopo che sua moglie l'aveva lasciato portandosi dietro anche suo figlio con la scusa che il suo stipendio era molto piu' basso. Aveva sognato che in un clima di grande tranquillita' interiore tirava con l'arco in un indefinito spazio completamente buio. Poi qualcuno accendeva la luce e lui con grande felicita' si accorgeva che aveva fatto centro tutte le volte che aveva mirato al bersaglio.
Nella realta' aveva praticato diversi tipi di sport, ma mai aveva nella sua vita praticato il tiro con l'arco, e comunque per un po' di giorni il ricordo di quel sogno non lo abbandonava.
Telefono' ad una scuola di tiro con l'arco ma fra attrezzatura e corsi, costava una piccola fortuna e allora cerco' di non pensarci piu'. Fino a quando una mattina in un negozio di giocattoli di una via del centro non vide in vetrina un tirassegno multicolore con dieci freccette rosse e gialle. Dovette vincere piu' di una resistenza prima di riuscire ad entrarvi. Alla fine si abbandono' al desiderio di possedere quell'oggetto e lo acquisto'.
La sera stessa libero' la parete di fronte al suo letto di certi quadri che piacevano tanto alla sua ex moglie, e, dopo aver spento la luce, comincio' a lanciare le frecce.
Certo non era proprio come con l'arco del sogno, ma provo' subito una certa soddisfazione quando sentiva che, "toc", la freccia colpiva il bersaglio, e non il muro.
Da allora era diventato molto piu' bravo. E mai aveva avuto la tentazione di fare questo gioco con la luce, anzi, ormai prediligeva la mattina, quando il corpo e i suoi riflessi erano ancora un po' assopiti. Allora, senza neanche alzarsi dal letto, la prima cosa che faceva appena aperti gli occhi, era quella.
Un sabato sera aveva incontrato una donna extra-comunitaria in un locale dove si era recato con alcuni amici. Lei non sapeva dove andare a dormire e lui l’aveva invitata a casa sua offrendole la camera di suo figlio.
La mattina si era svegliato per primo e mentre lei ancora dormiva, aveva cominciato a lanciare le sue freccette.
Lei nella stanza accanto si era svegliata al rumore secco prodotto dalla punta della freccia sul tirassegno e alzatasi aveva chiesto affacciandosi sulla soglia con la voce insonnolita cosa stesse facendo. Lui non le aveva risposto immediatamente per non perdere la concentrazione e lei aveva cominciato ad agitarsi e a chiedere di aprire le imposte o accendere la luce.
Di rimando le disse con la voce seccata e un po' dura che quel gioco lui lo faceva esclusivamente al buio e lei, a quel punto terrorizzata senza comunque capire cosa stesse accadendo, aveva afferrato alla cieca, borsetta e vestiti ed era fuggita via, convinta che un uomo che le aveva offerto un letto a casa sua senza chiederle nulla in cambio di sicuro nascondeva delle turbe psicologiche gravissime.
Adrien sorrise nel letto a quel ricordo e lancio' l'ultima freccetta della mattina. L'orologio segnava le otto, apri' le finestre e conto' le frecce che avevano colpito il bersaglio.
***
Il ricevimento era nel momento di maggior fermento, Annette inguainata in un elegante abito azzurro di lame', porse la mano ingioiellata al distinto signore che la padrona di casa le stava presentando. Improvvisamente senti' come se l'abito le si stesse stringendo addosso. Trattenne il respiro. Che strano penso', l'ho provato e riprovato fino a questa mattina. Il signore continuava a stringerle la mano e ahimé anche l'abito continuava a stringere. Continuando a sorridere Annette con una certa preoccupazione penso' a cosa aveva mangiato poco prima, ma due tartine e una coppa di champagne non potevano certo averle dilatato lo stomaco.
Annette avrebbe voluto avere le mani libere per controllare la lampo del vestito, sentiva le cuciture del vestito che incominciavano a cedere e non riusciva quasi più a respirare. Il tizio continuava a tenerle la mano e a parlarle, mentre le coppe di lamè le comprimevano il seno, Annette sentiva la testa che le diventava sempre più pesante. Con la coda dell'occhio si accorse che l'abito le si stava letteralmente aprendo su di un fianco. Annette guardò disperata la porta che conduceva alla toilette, ma perchè quell'idiota non le lasciava la mano?
Urlò con quel poco fiato che le rimaneva in gola. La luce filtrava tra le tende ricamate. Dalla cucina si sentiva scorrere l'acqua del lavabo. La donna delle pulizie era già arrivata. Annette si sedette affannata nel letto, si sistemò meglio i cuscini dietro la schiena e si protese verso la bottiglia dell'acqua minerale posta sul comodino. Bevve avidamente pensando all'assurdo incubo.
L'abito del sogno era stranamente simile a quello che avrebbe dovuto indossare quella sera per un ricevimento.
Annette tirò fuori da un cassetto uno specchio e si guardò attentamente il viso.
- Dio! Pensò, sembrava quasi che non avesse dormito affatto. Se solo avesse potuto avere dal suo ex marito qualche soldo in più, avrebbe potuto fare come le sue amiche, una bella tirata alla pelle e via. Dalla cucina continuavano ad arrivare rumori di stoviglie.
Annette si alzò sbuffando e affacciandosi dalla porta della camera da letto urlò - "Mei, per favore fai piano io sono ancora a letto, quante volte te l'ho già detto!"
Si diresse verso la finestra e sistemò per bene le tende in modo che entrasse ancora meno luce. Si sistemò per bene i tappi nelle orecchie indispensabili per dormire di giorno e si coricò nuovamente. Il ricevimento era quasi lo stesso di prima, lei indossava lo stesso aderente abito di lamè che aderiva perfettamente alla sua figura ancora giovanile. Avevano tutti in mano una coppa di champagne, era il momento del brindisi. Tutto a un tratto sentì l'abito che le si allargava addosso. "Che strano", pensò, si sarà slacciata la lampo dietro la schiena. Continuando a sorridere portò la mano libera dietro la schiena e tastò la cerniera lampo che le sembrava perfettamente chiusa. Ma aveva la sensazione che l'abito le ballasse addosso. Continuava a sorridere e a tenere in mano la coppa ma avrebbe voluto appartarsi un attimo e controllare la situazione.
Abbassò gli occhi e vide con orrore che l'abito si era come sformato, aveva assunto l'aspetto di un sacco. "Mio Dio, come è potuto accadere?" Si guardò le gambe. La stessa cosa stava accadendo alle calze. Alle caviglie si erano formate delle tremende pieghe, e sentì, ormai in preda al panico che lo stesso reggicalze le stava scivolando tra le gambe. Annette si sentì avvampare dalla vergogna, la coppa di champagne le sfuggì dalle mani frantumandosi ai suoi piedi. Al rumore del vetro sul pavimento tutti gli ospiti si voltarono verso di lei. Annette sobbalzò nel letto. Il cuore le batteva a mille. Si sfilò i tappi dalle orecchie afferrò la bottiglia d'acqua e bevve al collo.
Era decisamente il caso di alzarsi, " maledetti incubi", pensò. L'orologio segnava le undici, probabilmente era ancora in tempo per prendere un appuntamento con la sarta e riprovare quell’infernale abito.
"Mei", chiamò, "smettila in quella cucina, mentre io vado in bagno tira fuori l'abito nuovo e chiama la sarta, dille di venire nel primo pomeriggio.
Mei affacciandosi nella sua camera la guardò stupita.
- Ma Signora, se l'ha provato ieri e le cadeva addosso che era una meraviglia!
Annette la guardò perplessa, certo era vero, perchè agitarsi tanto per uno stupido sogno?
- Davvero Mei, sei proprio convinta che non ci fossero difetti?
- Se lo vuole indossare signora se ne accorgerà lei stessa, ma se lo desidera, richiamerò la sarta.
- Mei, forse hai ragione, lo riproverò e se sarà il caso telefoneremo alla sarta.
***
Frederick si trovava in uno spazioso ed elegante ascensore tipici degli alberghi di prestigio. Sfiorò il cerchietto dorato che indicava il numero tre. Si sentiva soddisfatto, ottimista, e piacevolmente brillo. Tutto era andato secondo i suoi piani. Come sempre, d'altronde. Era riuscito a coniugare una trasferta per affari con una piacevole avventura galante. Entrambe le situazioni si erano svolte nel migliore dei modi possibili. L'ascensore si mosse rapido e silenzioso. Dopo pochi secondi la porta automatica si aprì con un lieve ronzio e lui si mosse svelto per uscirne. L'occhio gli cadde sul display luminoso posto di fronte l'ascensore che indicava il numero del piano e la numerazione delle camere. Compariva stranamente il numero sette. Frederick controllò la numerazione delle stanze e si accorse di aver sbagliato piano. Ritornò sui suoi passi e rientrò nell'ascensore. Sfiorò nuovamente questa volta con più attenzione il numero tre sulla tastiera della parete metallica.
Le porte si riaprirono e Frederick questa volta prima di uscire completamente controllò il numero del piano sul display luminoso che appariva di fronte a lui nel corridoio.
Incredibile, aveva sbagliato ancora una volta, il display segnava nove.
"Maledizione", pensò, "questa sera mi sono bevuto il cervello oltre allo champagne.
Rientrò dentro e con tutte le sue forze spinse il numero tre.
L'ascensore si mosse ancora, Cominciava a sentirsi un pò nervoso, nonostante fosse appena uscito dal letto di una delle sue amiche più dolci e accondiscendenti. Qualche secondo di attesa, e le porte si riaprirono. Gli occhi di Frederick ansiosi cercarono il display che segnava il piano. Questa volta compariva il numero undici.
"E no..., c'è qualcosa che non va, imprecò tra sé e sé. Non posso aver sbagliato ancora." Fu tentato di uscire fuori e cercare le scale, ma erano le quattro del mattino, non aveva voglia di perdersi dentro quel gigantesco albergo. "Tornerò giù nella hall" pensò, "di lì prenderò un'altro ascensore".
Questa volta sfiorò il tasto che corrispondeva al piano della hall. Ebbe subito la netta sensazione che quella macchina stesse ancora salendo invece che scendere. Disse tra sè "Mi sto innervosendo stupidamente, l'importante è che non si blocchi".
Le porte si aprirono con il solito ronzio e scoprì di trovarsi al piano numero quindici. Guardò in cagnesco la tastiera e con il pugno battè la liscia parete metallica dell'ascensore.
"Maledetta macchina," imprecò,"non ho nessuna voglia di passare tutta la notte in questo stupido gioco. Respirò a fondo e guardò attentamente la tastiera luccicante con le cromature dorate intorno che riportava i venticinque piani dell'albergo.
"Allora, vediamo, se ho spinto la hall e mi ha portato al quindicesimo, vediamo cosa succede se spingo il quindicesimo. Toccò questa volta quasi con gentilezza il tasto numero quindici e con tutti i suoi sensi all'erta cercò di capire se stava salendo o scendendo. Ma ahimè, ebbe la netta sensazione di stare ancora salendo. Infatti dopo una serie di interminabili secondi le porte si riaprirono scoprì con sgomento di trovarsi al venticinquesimo piano.
Frederick era fuori di sè, ormai tutta la magia della sua serata galante era svanita. Guardò a destra e a sinistra, i lunghi corridoi erano silenziosi e deserti, si sentiva solo il sibilo dell'aria condizionata. L'idea di andare a cercare le scale e di scendere più di venti piani a piedi lo riempì di rabbia. Rientrò nell'ascensore e decise di tentare ancora una volta. Era chiaro che non c'era alcuna logica in quella macchina impazzita, ma forse poteva tentare di avvicinarsi almeno un pò al suo piano. E poi più su di così non poteva andare, visto che era all'ultimo, almeno sperava.
Si tolse la cravatta e l'appallottolò nella tasca della giacca. Si sbottonò la camicia, rientrò dentro e tocco a caso il numero due. Ecco stava scendendo. Respirò di sollievo. Le porte si aprirono. Tredicesimo piano. Ecco, pensò, va già meglio. Fu tentavo di uscire e cercare le benedette scale, ma poi pensò che forse poteva fare ancora un tentativo di avvicinamento alla sua agognata camera.
Guardò con aria di sfida la tastiera luminosa. Stava per spingere il sette, poi invece all'ultimo toccò il dodicesimo. "Diamine!,"pensò,"è come giocare alla roulette". Si sentì perduto quando ebbe la netta sensazione che stava risalendo. Le porte si aprirono e scoprì di essere al 23° piano. Si sentì un imbecille, perché non si era accontentato del 13° piano? Si tolse la giacca e si accese una sigaretta, operazione che mai avrebbe compiuto in ascensore, ma in quel momento avrebbe bruciato l'albergo. Uscì fuori nel corridoio e si guardò intorno, perché non c'erano altri ascensori in quell'albergo? Spense la cicca con il piede sulla moquette blu oltremare e ritornò alla carica. Se c'era riuscito una volta poteva riprovarci. Si sarebbe accontentato anche del 15° piano. Toccò il 2° ed ecco che stava scendendo, magari al 3° si augurò con tutto il cuore. La porta si aprì,17° piano, febbrile toccò il numero 10° e sentì che stava ancora scendendo, 14° piano. Poteva farcela, forse ancora un tentativo... Toccò il 9°, ma si ritrovò al 23°. Cominciò a tempestare di calci la parete in preda ad una furiosa frustrazione.
Frederick, ti prego smettila! La voce insonnolita di sua moglie lo riportò alla coscienza. Sollevò la testa dal cuscino e disse
- Scusa cara un terribile incubo.
- Pensavo stessi sognando di giocare ad una partita di calcio per come ti agitavi.
- Magari, sorrise lui, magari.
La luce del sole cominciava a diffondersi nella stanza. Lei gli chiese se gradiva un bicchier d'acqua.
***
L’allevatore di sogni quella sera aveva invitato a cena il domatore di incubi. In quegli ultimi giorni la solitudine cominciava a pesargli troppo. Senza contare che il domatore aveva sempre dei buoni consigli da dargli, insomma poteva lavorare meglio se conosceva i timori della gente. C’era sempre qualche nuova faccenda che causava paura ed incubi agli esseri umani, ad esempio le epidemie, prima c’era stata la peste, ora l’Aids. Tra le invenzioni, prima l’elettricità, o le automobili, più recentemente l’uomo aveva imparato a giocare con la genetica e così era arrivato alla clonazione. L’allevatore di sogni sorrise amaramente tra sé e sé, Dio aveva creato accuratamente ogni cosa ed ogni essere diverso dall’altro ed ora l’uomo si gloriava per essere riuscito a creare delle copie. La perfetta varietà del creato lo aveva sempre commosso. Aveva un tempo anche scritto una preghiera di ringraziamento al Creatore proprio su questo argomento:
“Ogni cristallo di neve è diverso dall’altro. Guardo il mucchio di neve sotto i miei piedi, guardo la bianca coltre che ricopre le cime e che incurva dolcemente gli alberi della valle. Ogni cristallo di neve è diverso dall’altro. Immagino ora una bufera di neve che riempie tutto il cielo e lo spazio tra le valli. Ogni fiocco è sempre diverso dall’altro. Padre Potente e Amoroso com’è grande e perfetta e unica ogni Tua creazione, dal piccolo cristallo di neve alla cima più maestosa di questa valle. Come può l’uomo non accorgersi di Te? Eppure noi, polvere di polvere, vorremmo prescindere da Te, ciechi perché la Tua presenza è abbagliante, muti, perché Tua è la parola, sordi perché Tu sei vento leggero. Il massimo di tutta la nostra scienza è riuscita solo a riprodurre delle copie, mentre la Tua Somma perfezione ha creato ogni cosa diversa dell’altra dall’uomo, alle piante, agli animali, ai fiocchi di neve. E tutto era cosa buona.”
L’uomo continuava a temere le invasioni, in tempi più remoti aveva temuto e lottato i turchi, ora certi paesi erano terrorizzati dagli albanesi, altri dagli ispanici e così via dicendo. Accadeva sempre e ogni volta l’umanità coinvolta si agitava e nascevano le paure e gli incubi. Il domatore lo aggiornava sulle inquietudini che più colpivano in quel momento e lui poteva preparare degli antidoti onirici. Certo poteva sembrare ridicolo oramai l’uomo con le sue macchine poteva costruirseli i sogni e poteva entrarci anche dentro, ma tutto questo coinvolgeva solo la sua sensorialità mai la sua coscienza. Ciò che invece veniva fuori mentre dormiva non poteva provenire che dal centro di se stesso e allora l’allevatore di sogni si sentì consolato e più motivato, forse ora più che mai l’umanità aveva bisogno di lui.
(Maria Letizia Azzilonna 1996)

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