lunedì 31 agosto 2009

Tra ragione e contemplazione


Pensare l'’uomo tra ragione e contemplazione
Paola Ricci Sindoni al VI Simposio Europeo dei Docenti Universitari
presso la Pontificia Università Lateranense.

* * *

“Io sono soltanto uno dei tuoi minimi

che guarda alla vita dalla sua cella, e che,

estraneo più agli uomini che alle cose, non osa

soppesare ciò che accade. Tuttavia, se mi vuoi

davanti al tuo volto, di cui si levano scuri gli occhi,

allora non considerare la mia una presunzione

se ti dico:nessuno vive la sua vita. Casi, sono

gli uomini:voci, frammenti,quotidianità, angoscia,

molte piccole fortune;

travestiti già da bambini, mascherati:

loquaci in quanto maschere

muti in quanto volti”



Reiner Maria Rilke




Nessuno vive la sua vita: l’aforisma amaro e crudo del poeta tedesco, Reiner Maria Rilke (1875-1926), sembra infliggere un colpo mortale alle ottimistiche previsioni sull’esistenza umana e sulla sua storia, maturate in Occidente alla fine del secolo XIX. Paiono già intravedersi, in questa sofferta celebrazione del disincanto, gli eventi tragici che, di lì a poco, avrebbero raso al suolo la civiltà europea con il suo altissimo costo di vite umane sacrificate all’orrore di due guerre
mondiali.

Sulle macerie della speranza si eleva il canto triste e deluso del poeta, che è uomo divorato dalla nostalgia degli spazi larghi, asfissiato più di chiunque altro per le ristrettezze che deve sopportare, avido di realtà e di intimità con tutte le forme possibili del Bene e del Vero. Ricercando in modo insaziabile la parola innocente, pura, è comunque in grado di definire con lucidità e con profetica preveggenza la tragica situazione dell’uomo contemporaneo, afflitto dall’impotenza a porsi le giuste domande e dall’estraneità a condurre relazioni appagate con gli altri suoi simili.

Guarda così “alla vita dalla sua cella” –continua impietoso Rilke- con rassegnata stanchezza, non oppresso dalla disperazione, neppure esaltato dalla rivolta, ma prigioniero di una delusione costitutiva, che lo rinchiude dentro le pareti rassicuranti dell’irrealtà. Perché di questo si tratta, se la vita –quella vera- sembra lontana, posta sempre oltre i penosi limiti delle sue possibilità.

Non c’è neanche la traccia di un pessimismo nichilista, nelle parole del poeta tedesco, ché, anzi, preferisce rivolgersi al Dio sconosciuto e innominabile: “se mi vuoi davanti al tuo volto, di cui si levano scuri gli occhi, allora non considerare la mia una presunzione se ti dico: nessuno vive la sua vita”, come recitano i versi posti qui in esergo.

L’impossibile comunicazione fra gli uomini, chiusi dentro la loro cella, non impedisce di ricercare un improbabile dialogo con l’assoluta Alterità, il cui volto, dagli occhi scuri, sembra alludere ad una inconsolabile delusione per il fallimento delle tante, troppe vicende umane. Dispersi come frammenti, annegati dentro la banale quotidianità, “casi sono gli uomini”, gettati nel mondo e incapaci di orientarsi in esso, se non dimettendo l’autenticità del proprio volto, per indossare i panni
frustranti della maschera.

Non sembra esserci ormai alcuna lotta tra queste due figure dell’umano, già impietosamente descritte da Nietzsche; rimane solo la perdita inevitabile del volto, che disegna la nostalgia di una vita mai vissuta in prima persona, e la conseguente assunzione della maschera, da cui proteggersi dal dolore degli altri e dalla fatica di riconquistare con sforzo e resistenza l’innocenza del proprio “essere al mondo”.

Non è certo complicato allargare l’orizzonte dello scenario rilkiano per vederci immersi, sfiduciati e stanchi, dentro la delusione del vivere, nell’epoca della globalizzazione. Più avanzano, di scoperta in scoperta, i frutti del sapere scientifico e tecnologico, più si distende nell’uomo la coltre oscura del lasciarsi vivere; certo convinto della perdita, ma anche rassegnato alla ineluttabilità del proprio destino, di cui si è perso il controllo.

Lo notava del resto anche Husserl, a conclusione della sua ultima opera Krisis, quando sosteneva che non c’è malattia più devastante, per quanti hanno a che fare con la pratica del pensiero, che essere posseduti dalla “stanchezza”, quasi l’essere prigionieri di una delusione costitutiva che blocca le possibilità di dare respiro alla vita intellettuale, con la riduzione del proprio lavoro a funzione burocratica di una istituzione, compito che potrebbe essere svolto da chiunque altro, che
appartiene, come tutti, a quel “mondo organizzato attorno all’idea di funzione”, per dirla con Gabriel Marcel.

Sa in tal senso di doversi aggrappare alla dura disciplina della ricerca, senza farsi incantare dal fascino discreto delle parole, molte volte sganciate da quell’esigenza infinita e implacabile che sempre ci riporta, nostro malgrado, allo splendore ma anche all’opacità della vita. Questo non vuol dire soltanto restituire il pensiero al libero rischio dell’intelligenza, ma anche alla tensione di attraversare il proprio tempo con trasparenza, che significa apertura ad accogliere e forza di
resistere. Accettazione e resistenza sembrano essere le condizioni originarie per ridare anima al pensare: la prima maggiormente rivolta all’attività vigile e critica dell’accoglimento delle interrogazioni e degli stimoli che incalzano
dall’esterno, l’altra che si configura come regola di perseveranza e di custodia verso tutto ciò che di essenziale ci è stato consegnato e che va difeso con fermezza e con grazia.

L’apertura ad accogliere può prendere anche il nome di “ragione”, quando questa indichi la passione di capire, la lucida volontà di penetrazione della complessità del mondo, la rappresentazione stupita del darsi della pura fatticità delle cose. Forza di resistere è invece un altro modo per indicare la “contemplazione”, quale attitudine nascosta volta a rifiutare l’uso idolatrico della mente e raccogliere la riflessione dentro la densità muta del mistero che non è certo quel luogo oscuro e
impenetrabile agli strumenti conoscitivi, ma quello spazio entro cui si condensa la vita segreta e la fedeltà all’Essenziale.

Va detto comunque che queste due differenti modalità del pensare si sono storicamente biforcate in due ambiti della conoscenza indipendenti ed autonomi: da un lato il sapere intuitivo e recettivo, dall’altro quello astrattivo e concettuale. Nella prospettiva della contemplazione si è infatti affacciata la convinzione che il pensiero discorsivo non può nulla, se non spingersi “al limite”, là dove tutte le espressioni linguistiche e conoscitive osano solo avvicinarsi, non tanto per
indagare o interrogare, quanto per ascoltare ed attendere la novità dell’avvento, dell’Altro che viene. Parte da qui quell’attitudine del pensare, che è l’indugiare dello spirito dentro il mistero, immergendosi in esso in modo intuitivo e estatico, così che la realtà nascosta esibisca tutta la sua intrinseca verità.

Nella prospettiva della ragione, al contrario, sembra prevalere la convinzione che il pensiero è il luogo di ottimizzazione della capacità di razionalizzare la natura e di definire la realtà –fisica e spirituale- attraverso la disciplina dell’astrazione, con cui poter confrontare, classificare l’immensa varietà di forme, di strutture e di fenomeni che ci circondano.
La conoscenza razionale, sia quella scientifica che umanistica, sembra pertanto presentarsi come un sistema di concetti astratti e simbolici, caratterizzato da una struttura lineare e consequenziale, a differenza del conoscere intuitivo che per sua natura appare asistematico, che procede in modo simbolico (riconoscendo l’impotenza del linguaggio a dar conto del vissuto), ma che utilizza i simboli e le metafore con modalità non lineari, non consequenziali; solo per consentire al
pensiero di procedere “oltre”.

In realtà la ricerca di ciò che inerisce all’umano non può che prendere vita proprio dall’intrecciarsi di queste due dimensioni del pensiero: radicato sulle ineludibili esigenze del presente, la ricerca non potrà che esporsi –pena il suo arretramento in una quiete stagnante- alle provocazioni che il futuro porta in sé e, d’altra parte, non potrà che esercitare una forma di pietà verso il suo tempo, contenendosi nel luogo della memoria, là dove si custodisce la verità mai interrotta del Tutto. Ancora altri modi per ridire la tensione propulsiva del movimento della ragione nella sua essenziale spinta in avanti, dentro il futuro, mentre il contemplare, vera opera di custodia del senso, sembra maggiormente orientata a prendere in consegna ciò che è stato, perché continui ad essere il cuore di ogni vera ricerca.

Né si pensi che questa doppia anima del pensiero attenga soltanto alle discipline dello spirito – la filosofia, la teologia o ogni altra scienza dell’uomo- quanto concerne la ricerca tout-court: ogni campo del sapere, nella diversità delle forme, dei metodi e degli scopi, contiene in sé questa duplice intenzionalità che riguarda la vita attiva del pensare, ristabilendone l’essenziale equilibrio al cui interno le risorse costruttive della ragione e l’opera di custodia della contemplazione sono
compresenti e si sostengono a vicenda.

Ricordo qui come Walter Benjamin caratterizzava il lavoro della ricerca, nel dovere cioè di “ricomporre l’infranto”, nel sostenere l’urto della bufera che spinge la storia con il suo carico di rovine verso il futuro che è anche tempo che sta alle spalle, tempo del ritorno, tensione verso l’origine, là dove può compiersi l’opera di ricomposizione dell’oscura
frammentarietà della nostra esperienza del mondo.

“L’origine è la meta”, dirà Karl Kraus; come dire che la spinta in avanti che la razionalità promuove con tutto il suo carico di attese e di provocazioni porta in sé, costitutivamente, l’esigenza di radicamento all’origine, a tutto ciò che è stato, in termini di custodia del passato, di trasmissione della memoria, operando con forza un’azione di resistenza contro il lavoro di dissoluzione del tempo.

Non si possono scindere questi due movimenti, pena la perdita dell’ossigeno e la conseguente crisi respiratoria che provoca l’interruzione del respiro, che ha bisogno sia dell’inspirazione, dell’energia raccolta da fuori e continuamente disponibile, che dell’espirazione che è il frutto riossigenato dell’attività creativa del pensiero contemplativo. In questo caso è la potenza simbolica della metafora a supplire la carenza del linguaggio esplicativo, visto che è proprio la metafora a
raccogliere in sé il cuore del senso, divenendo ponte tra il dicibile e l’indicibile.

Ad una densa metafora si vuole qui alludere, estrapolandola da quel ricco deposito di verità custodito nella Sacra Scrittura. Si parla qui, nel libro di Genesi al capitolo 28, di un giovane fuggiasco che, solo e impaurito, affronta la notte; il suo nome è Giacobbe. Da sempre protetto dalla madre Rebecca, cerca con l’inganno di guadagnarsi la primogenitura e l’affetto del padre che, cieco, lo scambia per il fratello Esaù. Da sempre preferito da Isacco, Esaù è atletico e attivo, a differenza di lui che, secondo la tradizione talmudica, passa il suo tempo sui libri vivendo in prevalenza sotto una tenda. Per sfuggire all’ira del fratello è così costretto a scappare e a mitigare la paura dell’ignoto che la notte annuncia, rifugiandosi nel sogno. Che questo non è sempre fuga dalla realtà, ma desiderio di affidamento ad un altro, per sfuggire almeno un poco al vuoto del mondo. Così si legge in Genesi 28, 10-12:

“Giacobbe partì da Bersabea e si diresse a Carran. Capitò così in un luogo dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la cima raggiungeva il cielo ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa”.

Niente in quel luogo appare ospitale, se soltanto una pietra è raccolta per approntare un giaciglio; la notte comunque non porta incubi pesanti, ma solo la leggerezza di un sogno dove appare una scala, e dove Giacobbe vede salire e scendere degli angeli. La scala –così si legge- è ben appoggiata a terra, la cima invece sembra innalzarsi in alto, raggiungere il cielo senza alcun punto fisso. Gli angeli, dal canto loro, non invitano il giovane a salire –quasi ad indicare l’esigenza di un suo
presunto cammino ascensionale verso l’alto, verso Dio-. Salgono e scendono su di essa senza un apparente motivo, senza che nell’immediato si imponga l’evidenza di una verità. Anche Dio –almeno per ora- è assente, ma al risveglio Giacobbe sa: quel luogo è presenza di Dio e porta del cielo ( Gn 28,17).

Intere generazioni di rabbini si sono consumati nel commento e nell’interpretazione di questi versetti; la loro densità simbolica si è tradotta in una molteplicità di letture che si può tentare qui in parte di decifrare. Innanzitutto guardando agli angeli, creature sospese tra cielo e terra che nel sogno “salivano e scendevano”, così si legge, mostrando subito l’implicita problematicità del loro messaggio. Si chiedeva infatti il rabbi Shelomoh ben Yshaq, conosciuto come Rashi, maestro
del rabbinismo medievale, del perché salissero prima di scendere, invertendo quell’ordine logico che li avrebbe dovuti vedere prima scendere, dal luogo della loro dimora, e poi salire.

Si può pensare, al riguardo, che per prima salivano perché è ai piedi della scala che vivono, sulla terra cioè, realizzando in pienezza alcuni possibili modi dell’esistenza umana. E’ ancora Rilke che nelle Elegie Duinesi disegna la suggestiva fisionomia dell’angelo nel suo continuo rinvio all’ ulteriorità dell’Altro mai pienamente dicibile, eppure in grado di indicare –nella compiutezza di questa rivelazione- il punto di incontro nel mondo tra un’oggettività, che niente sa della
profondità della coscienza e una soggettività che niente sa delle cose e che rischia di cadere in un intimismo estraniato dalla terra.

Se è credibile la convinzione, più volte espressa nella tradizione ebraica, che l’angelo rappresenti l’io segreto che forma e avvolge l’essere umano, si può supporre che gli angeli, visti in sogno da Giacobbe, indichino con il loro doppio movimento di salita e di discesa il dinamismo stesso della ricerca, intessuta di ragione e di contemplazione, dal momento che chi sale non è chiamato a svolgere alcun lavoro ascetico che usualmente viene assegnato al contemplare, quanto ad attivare il cammino creativo e dinamico del comprendere razionalmente, che inizia con l’apertura verso le cose , che per essere viste meglio, vanno portate in alto. La contemplazione, al contrario, è rappresentata dall’angelo che scende, rappresentando la spinta segreta del sapere, illuminato dall’alto e quindi destinato a neutralizzare ogni forma idolatrica della conoscenza.

Ed ancora: si può penetrare la paradossale geometria dei tanti angeli che il pittore Paul Klee ci affida e che tanto facevano pensare Benjamin. La formale precisione di questi disegni, indice di una sostanziale unità e semplicità della loro fisionomia può essere letta come un ulteriore spia dell’unità di azione e contemplazione, di parola e silenzio, di vita attiva e di resa all’invisibile.

Vale la pena ricordare anche i colori accesi e contrastanti della pittura di Marc Chagall che raffigura proprio l’episodio biblico della scala di Giacobbe, dove il contrasto di luce e buio che avvolge il movimento degli angeli, che riproducono fattezze umane, attiene essenzialmente alla vita dell’uomo e in particolare al lavoro dello studioso il cui compito, trasformare il percepibile nell’impercepibile e l’invisibile nel visibile, dona alle cose un senso compiuto attraverso la fatica instancabile della riflessione, della penetrazione ed infine nella parola. Non è un caso che il Giacobbe di Chagall
non è raffigurato supino, in atteggiamento di passivo abbandono nel sonno, ma è raffigurato in posizione eretta con il volto sofferente e pensoso.

Un ultimo cenno a questa metafora, in particolare alla scala, che i maestri del Talmud, appassionati di mistica geometrica delle parole, interpretavano, confrontando il termine ebraico “sullam” (la scala, appunto) con quello del monte Sinai (Sinay), che in base alla gemiatrah possiedono lo stesso valore numerico, il 130, segno di preparazione all’ingresso della presenza di Dio nella storia del suo popolo. Sia la scala che il monte preludono inoltre alla risposta pronta dell’uomo, espressa nel proponimento, dopo l’ascolto della Torah da parte di Mosè, che “ tutto quanto abbiamo sentito, lo faremo e lo ascolteremo” ( Es 24,3).

Lo “faremo”, si legge, ancor prima di “ascolteremo”, anteponendo cioè l’agire all’ascolto; come dire –per tornare al nostro tema- che l’impulso attivo della ricerca , mossa dalla ragione, si muove prima ( come gli angeli che prima salgono), ma si alimenta di vita solo se ascolta, si fa contemplativa, nel custodire la memoria degli eventi rivelatori e redentori, che per i credenti hanno questi nomi: Dio ha parlato e l’uomo ha risposto, e poi ancora: Dio ha dato il Figlio e il Logos si è fatto carne ( Gv 1,14).

2. Il pensiero che nutre la ricerca ha dunque non soltanto il significato di una ratio (che è il necessario ordine concettuale e rappresentativo della realtà e che struttura il nostro sapere), ma anche quello del Logos, del verbum (e cioè quello di una “parola” che chiama e che va accolta e custodita). Come dire che la riflessione, anche quella consumata nella solitudine, ha una dimensione dialogica, all’interno di una circolarità virtuosa che viene ad instaurarsi tra l’autonomia del
percorso razionale e l’eteronomia della voce che interpella e che reclama l’attitudine contemplativa.

Non si dimentichi che per i credenti “uno solo è il Maestro” ( Mt 23,8), non tanto, o non solo perché è l’unico a trasmettere il messaggio, il contenuto cioè di una profezia messianica, ma anche perché è il solo ad incarnare l’unità sostanziale di messaggero e di messaggio ( “ Io sono la via, la verità e la vita “ [Gv 14,6] ) offrendo lui stesso le modalità per declinare la fede accolta e pensata dentro la pratica di vita e l’impegno nel mondo. La sequela si misura così nel solcare orme già tracciate, nella consapevolezza che, in nome dell’unico Maestro, ci è concesso di essere, se mai, “guide”, coloro che orientano, consigliano, direzionano verso la verità attraverso l’arte e la disciplina dell’insegnamento. Qualsiasi sia il suo contenuto, questo dovrebbe poter inaugurare nell’allievo il passaggio personale alla fede che, dalla sua espressione oggettiva, deve impiantarsi su di una forma originaria e unica.

Orientare verso l’esperienza della fede significa in tal modo avviare alla propedeutica dell’incontro esigente, perché l’uomo è, per dirla con Rahner, “colui che sta in ascolto di una possibile rivelazione di Dio”. Egli deve dunque “necessariamente fare i conti […] con un possibile parlare di Dio che rompe il suo silenzio e schiude i suoi abissi allo spirito finito”. La fede cristiana gioca qui la sua partita decisiva: fede è confidenza, certezza che l’Altro è là, non per neutralizzare le proprie paure, ma perché dimostra di tenere all’uomo, così che questa fiducia possa essere comunicata ad altri e partecipata nella carità.

La domanda, che sempre dovrebbe attraversare la fede, assume la configurazione dell’interrogativo posto da Gesù ai suoi: “ Chi dite che io sia?” ( Lc 9,18), valorizzando la trama dialogica di ogni cercare, dal momento che Dio stesso si offre sia alla domanda che alla risposta.

Di fronte a questo dato muta la tradizionale concezione dello studioso isolato, che nel distacco dai rumori del mondo, elabora il suo personale progetto conoscitivo sull’uomo. L’esercizio duro ed esaltante della riflessione e del sapere si converte in gesto etico e sacramento religioso, dal momento che la solitudine operosa prepara la destinazione sociale dell’impegno, dando energia e fecondità alla pratica contemporanea di ricerca e di insegnamento.

L’incontro tra solitudine della ricerca ed esperienza intellettuale intersoggettiva trova nella struttura didattica del “seminario” una risposta convincente e propria della densità dialogica di ogni pensiero credente. Ognuno di noi sa che l’attività seminariale , coerentemente vissuta, comporta sempre una esperienza comunitaria, al cui interno possono affacciarsi problemi radicali sul senso stesso della ricerca, sulla qualità dei rapporti intersoggettivi, sul significato stesso dell’oggettività e del rigore proprio di ogni sapere. Quasi sempre regolato da una precisa pratica metodologica, il seminario
oscilla in libertà tra l’eros della ricerca e la criticità del confronto e, sia pure guidato dal docente, si muove talvolta in un dinamismo dialogico che svuota l’impianto gerarchico e pone tutti –professore ed allievo- dentro una comune tensione che sfocia in una comunità di linguaggio e in una comunione di interessi. Il testo che si ha di fronte è per tutti l’unico ideale maestro e, una volta iniziata la lettura e il confronto, prende corpo il risultato di una produzione collettiva o, almeno, un suo primo possibile abbozzo.

Questo non significa, è ovvio, che il seminario debba produrre un appiattimento delle rispettive identità, creando una innaturale fusione, una sorta di cameratismo intellettuale, al cui interno si perdono le giuste coordinate della relazione maestro-allievo. Se il professore vuole essere una guida, non può che coltivare quella necessaria distanza, capace di neutralizzare i rischi di una demagogica influenza e realizzare una presenza che genera e che trascende l’incontro, che apre
l’orizzonte di colui che ascolta, che offre al pensiero quegli stimoli necessari ed anche capaci di fermarsi al margine del mistero dell’essere di ciascuno, margine che va lasciato intatto sulla via del personale risveglio.

Incarnando idealmente la sintesi operosa tra presenza e assenza, tra logos e verbum, tra domanda e ascolto, il seminario libera la scena da quel prodotto di pensiero autoreferenziale che la lezione accademica necessariamente comporta, e scompaginando l’intenzionalità rigida di ogni parziale lettura, corregge e riorienta la ricerca verso impensabili piste.

Proposta didattica ideata per avvicinare alla pratica difficile della lettura guidata dei testi classici (almeno nelle facoltà di area umanistica), il seminario vive dell’assalto delle interrogazioni radicali e di quel pensiero “recettivo”, che impone l’apertura dello sguardo e l’immersione intuitiva dentro le parole che il testo annuncia. Ciò che, infatti, colpisce chi legge è il darsi complesso di un costrutto linguistico, frutto della fatica di chi lo ha pensato, e che esige una passività illuminata, una contemplazione vigile contro la spontaneità irruente della ragione moderna, quella che pretende di
gestire in modo autonomo la sufficienza delle rappresentazioni concettuali.

Si tratta insomma di una precedenza, che il testo reclama e che presuppone una meditata immersione, un silenzio produttivo per una ricerca comune del senso, che prorompe all’improvviso da una voce e poi da un’altra ancora, come un poco di ammasso di neve in cima alla montagna, che scende sempre più veloce, sino a trasformarsi in una grande valanga. Non importa se dopo
qualche ora si è ancora alle prime battute del testo; ciò che interessa –lo hanno così finemente analizzato filosofi come Heidegger e Roland Barthes- è che si giunga infine insieme a salire e scendere numerosi per quella scala, per riprendere ancora la nostra metafora biblica.

Roland Barhtes preferisce parlare del seminario come un giardino pensile, sospeso e leggero, libero dal frastuono della città, dove l’argomento spesso è un pretesto per rendere visibile il fluire del rapporto dialogico e quell’atmosfera comunitaria che deborda dallo spazio istituzionale, e matura nel contatto del testo studiato, là dove si tocca e si è toccati dalla “cosa stessa”, dall’inedita cristallizzazione del pensiero, che esige di essere riascoltato.

Così che nella solitudine del proprio lavoro, lo studioso raccoglie con stupore l’armonia sregolata delle tante voci e la mette a frutto, dando un qualche ordine che, forse, all’incontro successivo verrà rimesso di nuovo in discussione. Certo, questa non è che una forma dell’esercizio didattico universitario; contiene comunque quei tratti peculiari che possono rendere feconda la ricerca, immettendola nell’alveo inquieto di ogni vita intellettuale.

Più capace di raccogliere il senso della realtà –la ragione-, più disposta a recepire la verità nel suo darsi – la contemplazione- entrambe si coagulano nella ricerca, attente al monito della Scrittura, secondo cui “Initium sapientiae timor Domini” (Pr 1,7). C’è da chiedersi in ultimo cosa possa intendersi oggi per “ timor Domini”, se non il mantenimento della doppia fedeltà al Dio ineffabile, da un lato, e alla realtà del mondo, dall’altro. In un equilibrio che riscatti la dignità dell’infranto e la rassicurante armonia dell’Uno necessario. Che ricomponga, ogni volta, di nuovo, l’attitudine riverente al mistero, quello che conferisce grandezza alla mente e fertilità all’anima. Nella consapevolezza che il timore di Dio è anche il coraggioso affidamento a quella scala che, poggiata saldamente sulla terra, è in cima come sospesa in cielo, in quel punto invisibile che rimane segreto e che nutre la nostra attesa e la nostra speranza.

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Riferimenti bibliografici

-- R.BARHES, Al seminario, in AA.VV., In forma di parole, V (1984), pp. 266-286.

-- W.BENJAMIN, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 1982

-- R.H. ISAACS, Lungo la scala di Giacobbe. Angeli, demoni e spiriti maligni nella visione ebraica, ECIG, Genova 2000

-- G. MARCEL, Giornale metafisico, Abete, Roma 1966

-- P.H. PELI, La Torah oggi, Marietti, Genova 1989

-- K. RAHNER, Uditori della Parola, Morcelliana, Roma 1977

-- RASHI DE TROYES, Commento alla Genesi, Marietti, Casale Monferrato 1985

-- P. RICCI SINDONI (a cura di), La sentinella di Seir. Intellettuali nel Novecento, Studium, Roma 2004

-- RIGOBELLO (a cura di), Interiorità e comunità. Esperienze di ricerca in filosofia, Studium, Roma 1993

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-- L. VALLE ( a cura di), Cultura e spiritualità, Nardini, Fiesole 1999

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-- M. ZAMBRANO, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina, Milano 1996

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