mercoledì 27 gennaio 2010

Dopo DEWEY "Le strutture concettuali nella pedagogia di Bruner e la psicologia del linguaggio

John Dewey fu anche un pragmatista(1859-1952), non solo il piú significativo pensatore americano, ma anche un esponente il rilievo di tutta la cultura del Novecento. Autore, tra l'altro, di Studi sulla teoria logica, La ricostruzione filosofica, Esperienza e natura, La ricerca della certezza, Filosofia e civiltà, Arte come esperienza, Una fede comune, Libertà e cultura, Natura e condotta dell'uomo, Dewey è approdato al pragmatismo attraverso una revisione critica dell'hegelismo: la realtà è, si, un tutto; ma tale tutto non è razionalità assoluta; in esso non coincidono essere e dover-essere, essere e valore.

Ha confutato la nozione classica di esperienza: cominciamo appena ora a intendere che è annullata la psicologia che dominava la speculazione filosofica dei secoli XVIII e XIX. "Essa affermava che la vita mentale ha origine nelle sensazioni che sono ricevute separatamente e passivamente e si riuniscono, per mezzo delle leggi della memoria e dell'associazione, in un mosaico di immagini, di percezioni e di concezioni. I sensi erano considerati come ingressi o vie della conoscenza. Salvo che nel combinare le atomistiche sensazioni, la mente era del tutto passiva e quiescente nel conoscere. Volizione, azione, emozione, desiderio, sono conseguenze delle sensazioni e delle immagini. Il fattore intellettuale o conoscitivo viene per primo e la vita emotiva e volitiva è solo una conseguente congiunzione di idee con sensazioni di piacere e di dolore".

Tale nozione risulta ormai da contestare in base ai risultati della moderna scienza biologica:infatti lo sviluppo della biologia ha avuto per effetto di capovolgere questa visione. Se c'è vita, c'è comportamento, attività.

Seguono conseguenze importanti per la filosofia: l'interazione tra organismo e ambiente che si traduce in adattamento che rende possibile l'utilizzazione dell'ambiente stesso, ciò è il fatto primario. La conoscenza è relegata in una posizione derivata, secondaria, anche se la sua importanza è comunque riconosciuta. La conoscenza non è qualcosa di staccato e sufficiente a sé stesso, ma è coinvolta nel processo da cui la vita si sviluppa.

I sensi perdono il loro significato di "ingressi della conoscenza", per assumere quello di stimoli all'azione. Per un animale, un'affezione all'occhio o all'orecchio non è inutile materia d'informazione intorno a qualcosa d'indifferente che accade nel mondo. Ma è stimolo ad agire nel modo più utile. E' un filo conduttore per il comportamento, fattore direttivo nell'adattamento della vita al proprio ambiente. "Ha la qualità di un incitamento, non di una contemplazione". Tutta la disputa empirismo/razionalismo sul valore intellettuale delle sensazioni diviene cosí obsoleta. Il problema delle sensazioni si inserisce nel capitolo stimolo-risposta, non in quello di conoscenza-come-elemento-consapevole. una sensazione segna una interruzione in un corso di azioni già iniziato. Le sensazioni di questa specie sono emotive e pratiche, piuttosto che cognitive e intellettuali, sono urti del mutamento, sono segnali per dare direzione nuova all'azione.

Io "sono", esisto, quali sono i caratteri distintivi di questa esistenza? Nell'esperienza pratica dell'uomo domina l'incertezza egli si proietta rischiando spesso l'errore. "La filosofia non deve sostituirsi alle superstizioni e alla magia - tipiche della società primitiva - nel creare l'illusione di una realtà e di una esistenza umana "garantite"; da forze, interne o esterne al reale, di natura divina. Non deve creare nell'uomo l'immotivata fiducia nella "riuscita" dei suoi progetti, nella attuazione sicura dei suoi scopi, immaginandoli in un quadro del reale ordinato secondo razionalità. Non deve obliare ciò che è precario, instabile, imperfetto, il male, l'errore, la morte, relegando tutto ciò nella categoria dell'"apparenza"."

Tutto ciò è comunque "reale". "Questo" mondo è il campo d'azione dell'uomo; il quale deve tendere a "ridurre" la precarietà, il male, l'ignoranza, e lo stesso influsso della morte nella sua vita quotidiana; e addirittura deve tendere, attraverso la ricerca metodologicamente organizzata, a "trarre partito dalla contingenza".

La lotta col reale dev'essere guidata dall'indagine scientifica e filosofica. Ma che cosa Dewey intende per "indagine"? Essa "è la trasformazione controllata o diretta di una situazione indeterminata in una situazione determinata nelle sue distinzioni e relazioni costitutive, a tal punto da convertire gli elementi della situazione originaria in una totalità unificata".

Quindi l'indagine nasce dal dubbio-incertezza legati al carattere problematico della realtà. E si sviluppa in questo modo: "assunto il reale sul piano conoscitivo come "problema",se ne individuano i termini; quindi si formula una "idea" o "possibilità di soluzione", o anche "ipotesi anticipatoria" di un possibile evento futuro; tale idea viene quindi sviluppata in termini di "ragionamento", il quale viene espresso in parole affinché si espliciti il senso stesso dell'idea; poi si sottopone l'ipotesi alla prova dell'esperimento; si potranno avere allora due possibilità: la prima è che l'esperimento non convalidi l'ipotesi, e in tal caso però l'esperimento stesso indicherà in qual modo essa debba esser corretta; oppure, ed è la seconda possibilità, che l'esperimento confermi l'ipotesi, e in tal caso questa si trasformerà in un "giudizio", che poi altro non è che una "decisione direttiva di attività future"."

Le idee sono quindi per Dewey di natura "funzionale", sono "strumenti" per produrre "operazioni" atte a dare "soluzioni" che permettano un "intervento" sul reale.

L'uomo conosce ed agisce. Ma questi due momenti non sono scissi tra loro. Anche quando conosce, agisce, e non solo nel senso che nel conoscere egli è attivo, ma anche in quello che con la conoscenza egli si propone e attua sempre una trasformazione della realtà. E cosí pure, quando agisce, conosce, perché ogni azione, che e sempre condizionata dalla conoscenza, produce essa stessa una nuova conoscenza.

L'uomo è anzitutto "impulsi" e "abitudini"; è formato da caratteri primari, o "impulsi istintivi", e da caratteri secondari, o "abitudini". Nell'ordine "gli impulsi sono primi nel tempo"; per esempio guidano la vita infantile; ma gl'impulsi non garantiscono indipendenza: il bambino dipende dagli altri. Gli umani adulti intervengono sugli impulsi disciplinandoli; trasmettono le loro abitudini così "i bambini devono agli adulti la possibilità di esprimere le loro attività native in modi che abbiano significato", un significato sociale, con la possibilità di divenire autonomi e partecipare in modo "significativo" alla vita sociale.

"Le condizioni sociali educano le attività originarie in disposizioni finite e significative". Con tale educazione però il rapporto tra istinti e abitudini si capovolge. Le abitudini cioè, che "in quanto attività primarie organizzate", cioè "in quanto svolgimento elaborato delle attività istintive", hanno la loro ragione d'essere nella socializzazione degli istinti, e pertanto "sono secondarie e acquisite, non native e originarie", poi, nella condotta dell'uomo adulto, diventano elementi "primari", relegando gl'impulsi a condizione di dipendenza e a ruolo secondario. Le abitudini prevalgono sugli impulsi e li condizionano quanto alle forme espressive. Ma non li pongono, e non li possono porre, fuori gioco. Devono sempre interagire con gl'impulsi. Se le abitudini avessero un predominio totale, l'uomo non avvertirebbe neppure l'esigenza di modificarsi e modificare la realtà esterna e le società e le epoche non muterebbero la loro "qualità". È l'istinto, dunque, che con la sua vitalità rompe gli schemi di comportamento e apre l'uomo all'esperienza del nuovo.
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La dialettica istinti-abitudini è costruttiva, l'uomo è anche "coscienza", "spirito" e "io". Prima è "spirito", cioè "un sistema di credenze, nozioni, ignoranze, di accettazioni e di rifiuti, che si è formato sotto l'influenza dell'abitudine e della tradizione". Lo spirito è "il sistema organizzato dei significati esprimibili" che permettono l'azione, non è propriamente ciò che caratterizza l'individualità umana, ma ciò che rende "il singolo" membro della sua comunità. Ma l'individuo non si conforma totalmente al suo "spirito". Egli vive esperienze, e queste trovano nella "coscienza" il centro unificante di rielaborazione critica. È nella sua coscienza che matura il bisogno del mutamento, col "dubbio-bisogno che si traduce in idea", cioè in progetto previsionale della trasformazione delle esperienze.

Questo elemento non caratterizza la specificità del singolo: è invece un "io". L'io è, in senso proprio, l'individualità che "emerge" dallo spirito del suo popolo e del suo tempo e, con l'elaborazione dell'esperienza nella coscienza, si fa "personalità" relazionandosi attivamente con la realtà.

Tale personalità però è "ambigua". Essa può risolversi in un adeguamento al mondo, o in un rifiuto del mondo cosí come esso si presenta, per trasformarlo. Solo nel secondo caso raggiunge la sua pienezza. L'uomo - in quanto personalità piena - critica, progetta, e si rende autore della soluzione di un problema o di una modificazione del reale; e se ne assume la responsabilità rispetto alla "tradizione" e agli "altri". L'io, cosí, mentre accoglie l'esperienza la muta, assumendo la tradizione la nega, partecipando alla vita sociale la condiziona e la rinnova col suo pensiero e con la sua iniziativa.

Dato tutto questo, come si risolve il problema della libertà umana?

"Bisogna sfrondarlo dei suoi connotati di astrattezza, e riferirlo alla condizione concreta dell'uomo. L'interazione effettiva tra uomo e mondo, intendendo il mondo non solo in senso naturale, esclude la soluzione del libero arbitrio assoluto. La libertà, intesa sul piano operativo, sussiste, ma è sempre condizionata. E lo è da molti fattori interni ed esterni, soggettivi ed oggettivi. Tra quelli soggettivi si possono annoverare, ad esempio, il desiderio della novità, la capacità d'ideare e di eseguire programmi d'intervento sulla realtà, ed anche la disponibilità a mutare tali programmi ove mai occorresse. Sicché solo le conseguenze dell'azione, cioè la sua riuscita o il suo fallimento, sono il segno e il criterio di valutazione dell'attuazione della libertà individuale e del suo grado".

L'uomo per Dewey, è sempre attivo nel mondo. Tutto ciò che fa è produttivo, e richiede sempre che si stabiliscano fini e si scelgano mezzi per attuarli. Ma sia per determinare i fini che per scegliere i mezzi l'uomo deve procedere a "valutazioni". È lui che stabilisce che cosa è fine e che cosa mezzo. Non ci sono fini e mezzi in quanto tali, e non c'è un rapporto assoluto tra di essi. Ogni fine può essere anche mezzo, e ogni mezzo può esser fruito come fine in sé.

Ciò comporta una conseguenza rilevante. Non è possibile stabilire in assoluto la distinzione tra le attività che realizzano mezzi e quelle che realizzano fini. Non è possibile porre una precisa linea di demarcazione.

Si prenda ad esempio l'arte. Qual è il suo scopo? quello di produrre un fine, la bellezza? o quello di produrre un mezzo, un oggetto tale da esser fruito, goduto, dal contemplatore? Detto in altro modo, l'oggetto d'arte dev'essere bello o utile? Se si riflette, la creazione artistica è sempre produzione di valori estetici attraverso l'utilizzazione finalizzata di materiali e strumenti adeguati. Dunque già nel momento creativo è difficile separare il bello dall'utile: l'utile è necessariamente connesso al bello. E poi l'oggetto estetico non esaurisce la sua funzione nella realizzazione della bellezza. Esso può e deve esser goduto, può e deve essere utile all'arricchimento della vita umana. E allora: la bellezza è - in sé - un fine, un mezzo, o l'uno e l'altro? L'attività estetica è - per sé - produttiva di fini, di mezzi o di entrambe le cose? Ciò che è fine è anche mezzo, e viceversa; e ciò ch'è bello, è anche utile, e viceversa. Di qui deriva che non è possibile separare arti belle, realizzatrici di fini, e arti utili, realizzatrici di mezzi. Anche le arti utili, in quanto e nella misura in cui contribuiscono ad arricchire il senso della vita, sono belle come quelle cosiddette "belle".

Ma non c'è proprio nessuna differenza tra le arti "estetiche" e quelle "produttive", e tra l'oggetto artistico e, ad esempio, il prodotto industriale? Sí, dice Dewey, la differenza sta nel fatto che le arti produttive costruiscono oggetti con una forma funzionale allo scopo d'uso; le arti estetiche creano un oggetto con una forma che è indipendente dall'uso particolare possibile, e che realizza in sé la pienezza dell'esperienza artistica. Tale pienezza risiede nella perfezione autonoma dell'insieme. Il fine delle arti estetiche insomma è la forma stessa come perfezione. L'oggetto estetico è quindi per sua origine e natura "espressivo" e non "strumentale"; è progettato e realizzato come "fine" e non come "mezzo".

In ogni momento della sua vita spirituale l'uomo procede a "valutazioni"; stabilisce "valori" da conseguire, e determina i mezzi. Ma dei valori si può avere conoscenza rigorosa? Si crede generalmente, dice Dewey, che solo i dati empirici siano verificabili operativamente, e che i valori si sottraggano a tale verifica. Si crede cioè che mentre è possibile una scienza dell'esperienza, non è possibile una scienza dei valori. Ciò è errato. Anzi una tale convinzione relega, ad esempio, il bello o anche il bene nell'ambito esclusivamente "soggettivo"; implica che una valutazione di bellezza o di bontà sia necessariamente arbitraria; e comporta, ad esempio, che i valori sociali, e le istituzioni che li incarnano, siano inevitabilmente l'esito di un caso irrazionale. Tutto ciò bisogna evitare. È necessario che una ricerca, scientificamente organizzata, sottragga le valutazioni etiche, estetiche, sociali, politiche, religiose, al relativismo soggettivistico, e quindi all'arbitrio e alla provvisorietà; e contemporaneamente le sottragga alla tentazione di ancorarle a valori metafisicamente oggettivi. Cioè bisogna realizzare un processo valutativo che implichi sempre una critica del presente, del già acquisito, la fissazione ipotetica di un risultato possibile, cioè del fine, e, secondo relazioni verificabili, la determinazione di attività e di mezzi che siano adeguati alla realizzazione del fine. C'è bisogno insomma di rigore scientifico. Se si adottano questi criteri nelle valutazioni, allora è possibile strutturare "scientificamente" anche la società.

Quale ruolo, ora, deve assumere la filosofia? Posto che lo scopo dell'uomo è "aumentare il controllo sul suo benessere", "assicurarsi l'avvenire" attraverso l'utilizzazione razionale del reale, cioè attraverso "l impiego del fatto presente come segno di qualcosa che ancora non è dato", la filosofia non può essere "contemplativa" dell'ordine e dei valori esistenti, né semplicemente "conoscitiva" della realtà naturale. E tanto meno deve andare alla ricerca di principi primi e assoluti. Le "idee" filosofiche devono nascere dalla "critica", e devono "progettare" l'innovazione del mondo umano in modo che la vita stessa dell'uomo risulti arricchita di valori e di significati. Certo, l'attività filosofica è "teoretica": essa "impiega gli accadimenti per la scoperta e la determinazione delle conseguenze, per la formazione di nuove connessioni dinamiche". In ciò il filosofo partecipa in modo "indiretto" alla progettazione del futuro, rispetto, ad esempio, al politico. Ma lo scopo dovrà essere quello di aprire "una prospettiva sulle possibilità future in vista di conseguire il meglio e di allontanare il peggio", non di fare "una rassegna contemplativa dell'esistenza, né un'analisi di ciò ch'è passato ed esaurito". La filosofia pertanto "deve sviluppare idee che fanno presa sulle crisi effettive della vita, idee che hanno influenza nell'affrontarle". Idee che però devono essere sempre "verificate", perché anche per la filosofia "il successo del conseguimento degli effetti misura la portata della previsione".

Se la filosofia deve abbandonare la ricerca dei principi primi e dei valori assoluti, che ne sarà allora della religione, che per sua natura è vincolata a valori fissi, eterni, immutabili? Anche la validità dell'esperienza religiosa è data da quella degli effetti che produce. Si badi: dell'esperienza religiosa, non delle religioni. Se l'esperienza religiosa autentica, aliena da credenze e pratiche superstiziose, procura un "migliore adattamento alla vita", dà "maggior senso di sicurezza e di stabilità", allora essa rientra legittimamente nell'esistenza dell'uomo. Essa è "moralità toccata dall'emozione". E Dio non sarà che l'ideale unità di quei valori e di quei beni che l'uomo pone davanti a sé come "prospettive" da concretare. [...]

www.clerus.org (sezione filosofia contemporanea, autore Giuseppe Tortora)

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